Archive pour la catégorie 'FAMIGLIE RELIGIOSE E GRUPPI ECCLESIALI'

LA NOSTRA DAMASCO QUOTIDIANA

http://www.stpauls.it/coopera/1101cp/1101cp04.htm

EUCARISTIA E VITA APOSTOLICA – SPIRITUALITÀ PAOLINA

 di GABRIEL A. RENDÓN MEDINA, ssp

LA NOSTRA DAMASCO QUOTIDIANA

Come Paolo anche noi abbiamo una vita di intimità con Dio e di slancio apostolico: questo inizia nell’incontro personale con Dio.

Paolo viene spesso considerato solo per il suo lavoro apostolico, ma « egli ci comunica in prima persona ciò che vive »: la sua vita apostolica è il frutto di una vita intima e mistica. Così nella nostra vita di Paolini queste due dimensioni, spirituale e apostolica, sono essenziali. Il primo nostro incontro che abbiamo con la Verità si svolge nella vita liturgica. In essa noi Paolini rinforziamo il nostro spirito nell’esperienza dell’incontro col nostro Maestro, dal quale impariamo, troviamo la via, acquistiamo lo zelo della vita apostolica (AE 71). Essa serve ad istruzione, edificazione e santificazione (FSP 1938, 620), cioè corrisponde all’integralità di Gesù Cristo: Verità (istruzione), Via (edificazione) e Vita (santificazione). La liturgia è scuola di santità perché mira allo sviluppo di coloro che partecipano per aprirsi alla vita di Cristo. É sorgente di grazia: non soltanto insegna la via della santità ma anche ne è la fonte. Prima sorgente e centro della liturgia è l’Eucaristia (AE 230-234). L’Eucaristia è un incontro con la Verità come lo sperimentò Paolo a Damasco. L’esperienza di Paolo a Damasco fu come un’esperienza di nascita. Cristo è nato nella sua mente perché gli è stata comunicata la Verità, nel suo cuore perché d’allora la sua vita sarà sempre Cristo (Cfr Fil 1, 21), e nella sua volontà perché, libero da tutto, si è fatto tutto a tutti (Cfr 1 Cor 9, 19). Per noi Paolini l’altare dove si celebra l’Eucaristia è come il presepio dove incontriamo Dio, fatto uomo e riconosciamo anche se stesso perché il Figlio nasce in lui (Cfr Pr 2, 12). Come per Paolo, Damasco è natale, per noi la Messa-natale è la nostra Damasco. La celebrazione della Messa è una Damasco quotidiana, è l’incontro faccia a faccia col nostro Maestro. È un incontro d’amore perché è il grande sacramento dell’Amore (FSP 1938, 58; APD 1964, 200).
L’INCONTRO EUCARISTICO
Trattandosi di un incontro, viviamo l’Eucaristia nell’integralità di Colui che è Via, Verità e Vita. Ci sono tre momenti in questo incontro. Il primo incontro, corrisponde alla prima parte della Messa, fino a prima dell’Offertorio: è un dialogo tra Gesù Verità e il Paolino; l’iniziativa è di Colui che si è incarnato come Parola. Egli con la sua luce vuole illuminare (Cfr. Gv 1, 4-5) la nostra mente. La Luce che a Damasco avvolse Paolo, è la stessa che ci illumina facendoci partecipi di una vita nuova: la Verità comunicata. Con la luce di Verità trasmessa nell’Eucaristia si inizia un tempo d’incontro: si entra in una relazione intima in cui ascoltiamo il nostro Maestro nella sua Parola. Il Maestro ci vuole comunicare una istruzione completa: una Verità che diventi regola nella nostra vita di Paolini (AE73-74). «S’impetra quindi l’aumento di fede, la scienza e, per l’apostolato, la grazia comunicativa » (AE 74). Pertanto, la Parola comunicata da Gesù ha come risposta un atteggiamento di vita e di disponibilità al volere del Signore, come Paolo quando a Damasco chiese al Risorto: « Chi sei, o Signore? » e gli fu risposto: « Alzati » (Cfr. Atti 9, 5-6). Il secondo momento del dialogo, va dall’Offertorio fino al Padre Nostro. In questa parte si sperimenta e si risponde all’amore di Dio. Il colloquio ha un altro modo di esprimersi: la disponibilità ad agire secondo la sua volontà. Gesù Via che si fa sacrificio vuole comunicare la volontà del Padre che domanda un’oblazione di amore. Egli divenne «modello, nell’adempimento della volontà del Padre fino alla completa immolazione di se stesso» (AE 75). In questo gesto di obbedienza il Maestro ci mostra la Via dell’apostolato: amare il prossimo fino all’immolazione di se stessi (AE 76), capacità di sapersi immolare per le anime (AE 77), capacità di farsi « tutto a tutti ». Nella terza parte di questo dialogo, dal Padre Nostro fino al termine della Messa, ci mettiamo davanti a Gesù Vita. È il momento di una stretta unione tra Creatore e creatura (AE 77). In questa unione, nell’intimità del nostro cuore facciamo un giusto ringraziamento perché Dio ha voluto iniziare questo dialogo in cui la Verità è stata conosciuta, per poi amarla e così viverla. Questa conversazione finisce con un bel ringraziamento come il malato che si vede guarito (Cfr. Lc. 17, 11-19): l’ignoranza viene illuminata dalla Verità.
MISTICA DELLA COMUNICAZIONE
Benché il ringraziamento sia anche esteriore, è quello interiore che sta alla base della vita spirituale. «Perché soltanto questa ‘gratitudine interiore profonda’ può dare la sicurezza di essere accettato ed amato da Dio incondizionatamente» (T. Witwer, Spiritualità sacramentale nella vita quotidiana, Ed. AdP, Roma 2006, 155). Questa fiducia è la strada perché l’uomo si senta libero. Essendo nella libertà, valore di natura umana ma non sempre ben vissuto, l’uomo non agisce per « dovere » bensì per amore. Ma nell’amore c’è anche una mistica della comunicazione. L’attività della vita spirituale talvolta viene da lui paragonata con alcuni mezzi di comunicazione. Per esempio, così si esprime in una meditazione nell’anno 1952: «La Liturgia nel corso dell’anno ci mette sott’occhio la vita di Gesù Cristo, domenica per domenica, settimana per settimana: è come una grande pellicola che scorre davanti a noi. E allora noi guardiamo a questa vita di Gesù Cristo: consideriamola nei suoi particolari e sentiamo tutte le parole di vita eterna che escono dalle labbra di Lui» (Pr 2, 8). Quando si guarda un film è per goderlo. Per ottenere ciò occorrono certe condizioni: anzitutto un ambiente adeguato; occorrono una illuminazione corretta, posti comodi, ecc.; per non parlare di un buon soggetto e di un buon produttore…
LITURGIA VISSUTA E BEN COMUNICATA
Qualcosa di simile capita nella vita spirituale e nella liturgia. Perché un buon soggetto di cui Dio è l’autore, venga ben comunicato è necessario che ci sia un buon produttore: il sacerdote. Egli fa la parte del protagonista principale: Gesù Maestro. È il primo a conoscere ciò che deve presentare: il Mistero incarnato, la Parola fatta carne. È il primo ad approfondire la Verità, cioè il Cristo totale. Perciò il sacerdote deve essere un maestro perché prima ha saputo essere il discepolo che assimila, che ama e che vive la vita di Gesù. Normalmente un buon film attira un buon pubblico. Sono importanti tanto un film ben fatto quanto uno spettatore ben disposto. Lo stesso capita nella Liturgia. Accanto al sacerdote occorre chi lo aiuti a preparare l’ambiente giusto per proiettare questa « grande pellicola », che è la vita di Gesù. Serve anche l’ambiente adeguato. Don Alberione, consapevole di questo, nel 1947 scriveva: «Nelle vostre chiese dovranno essere molto belle le funzioni; bene eseguiti i canti; ben recitate le preghiere. (…) Pregate col Messalino; Messe bene ascoltate; quella che ordinariamente si chiama Messa liturgica, deve fare un bel passo avanti. (…) Capire bene e fare bene il segno della croce, in modo da edificare; bene compiere tutte le cerimonie che vi spettano anche le più piccole e meno visibili» (APD 1947, 478). Per conoscere meglio Gesù Verità, oltre le funzioni Liturgiche ben fatte, è indispensabile la disponibilità alla partecipazione. Occorre l’apertura alla vita spirituale: «La partecipazione alla liturgia non deve ridursi ad un vano formalismo, né ad una semplice ricerca dei mezzi esteriori, di usanze arcaiche o di elementi estetici, ma deve essere intelligente, viva e affettuosa. In tal modo la Liturgia « svelerà verità profonde, meravigliose, armonie ignote, aprirà vasti orizzonti, solleverà gli animi in un’atmosfera di bellezza e di godimento spirituale, e ognuno potrà constatare ch’essa risponde ai bisogni più sentiti e alle aspirazioni più nobili del cuore umano »» (AE 229). In una liturgia eucaristica ben vissuta spiritualmente, sperimentata interiormente ed esteriormente, e soprattutto ben comunicata come Paolini tocchiamo il fondamento della nostra vocazione: siamo nati dall’Eucaristia e soltanto da essa possiamo nutrirci per comunicare Colui che è la Via, la Verità e la Vita.

Gabriel A. Rendón Medina

Il pazzo di Montfort: San Luigi-Maria Grignion de Montfort elesse san Paolo a suo modello di missionario

ho trovato già da qualche tempo questo articolo su San Luigi-Maria Grignion de Montfor, ho aspettato a pubblicarlo perché volervo cercare una presentazione del santo, almeno, o in parte del tema; mi sembra una santità molto bella questa che si « fonda » su San Paolo, però è un po’ difficile presentare la storia e la spiritualità di Monfort, io ho letto qualcosa da un sito monfortiano, non tutto, ho intenzione di approfondire;

metto anche per voi il link al sito per trovare la radice di questo studio, link al sito monfortiano:

http://www.montfort.org/content/index2.php?lang=IT

l’articolo dal sito:

http://www.zenit.org/article-18213?l=italian

Il pazzo di Montfort

San Luigi-Maria Grignion de Montfort elesse san Paolo a suo modello di missionario

ROMA, lunedì, 11 maggio 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito un articolo di padre Santino Brembilla, smm, Superiore generale dei Missionari Monfortani, apparso sull’undicesimo numero della rivista « Paulus » (maggio 2009), dedicato al tema “Paolo il giustificato”.

* * *

Il 6 giugno1706, san Luigi-Maria de Montfort (1673-1716) fu insignito da papa Clemente XI del titolo di Missionario Apostolico, con il compito di ritornare in Francia per rinnovare lo spirito del cristianesimo. Egli lo visse sullo stile di san Paolo, che chiamava familiarmente «l’Apostolo» e gli fu sempre modello. Nelle sue opere troviamo citati oltre duecento versetti paolini da tutte le sue Lettere, eccetto la Seconda ai Tessalonicesi. Ne cogliamo l’eco anche nelle Regole che scrisse per i Missionari della Compagnia di Maria, dove si afferma che il vero missionario deve sempre poter dire con san Paolo: «Il Signore non mi ha mandato a battezzare, ma ad evangelizzare» (1Cor 1,17); e «noi siamo senza fissa dimora» (1Cor 4,11), per poter «correre con san Paolo» senza che nulla ci trattenga (cfr. Regole 2 e 6). Anche san Luigi-Maria era «sempre sul chivalà», spinto dalla missione «come una palla nel gioco della pallacorda» (Lettera 26). E ancora egli chiede ai suoi futuri collaboratori «di compiere fedelmente queste parole traboccanti di amore del grande Apostolo: “Mi sono fatto tutto a tutti”, facendosi tutto a tutti con la carità» (cfr. Regole 49). Un atteggiamento che lo impressiona al punto di ripetere continuamente queste parole nei suoi Cantici sul Santissimo Sacramento. Ed è interessante notare che san Luigi-Maria legga molto spesso in chiave cristologica quei testi dove san Paolo parla della missione apostolica, palesando l’unione e la somiglianza tra il Cristo e il suo apostolo.

Perfetta conformazione a Cristo

Un’altra massima paolina che san Luigi-Maria offre ai suoi missionari è: «Non conformatevi al mondo presente» (Rm 12,2; Regole 38). Questo atteggiamento di distacco è un tratto severo ma necessario, poiché essere conformi al mondo impedisce la conformità a Cristo, «nostro unico modello» (Trattato 61). Tanto da arrivare a scrivere: «Bisogna essere conformi all’immagine di Gesù Cristo o essere dannati» (Lettera agli Amici della Croce 9). Per san Luigi-Maria, la missione di lavorare è «come dice l’Apostolo, quella di rendere ogni uomo perfetto in Gesù Cristo, perché in Lui solo abita tutta la pienezza della Divinità» (Trattato 61; cfr. Col 1,29; 2,9). L’uomo perfetto è colui che giunge «alla pienezza dell’età del Cristo» (Ef 4,13). Quest’ultimo versetto assumerà un’importanza capitale nella spiritualità monfortana: è infatti la prima e l’ultima citazione biblica ne L’Amore dell’Eterna Sapienza, come pure le ultime parole della famosa Consacrazione a Gesù per Maria e la conclusione della sua preghiera allo Spirito Santo (cfr. Segreto di Maria 67). Ma come giungere a questa pienezza perfetta? La risposta è contenuta nel segreto che san Luigi-Maria ricevette quale missione, ovvero rivelare Maria, poiché «dal momento che tocca a Lei generarci in Gesù Cristo e Gesù Cristo in noi, fino alla pienezza della sua età, in modo che Ella può dire di sé, con più verità di san Paolo: “Io vi genero ogni giorno , miei cari figli, finché Gesù Cristo”, mio Figlio, “non sia perfettamente formato in voi”» (Amore della Sapienza 214; Gal 4,19 e Ef 4,13; cfr. Trattato 33; Segreto di Maria 56). Una rapida lettura di questo testo potrebbe far pensare a un abuso d’interpretazione: come applicare alla Vergine Maria ciò che san Paolo dice di se stesso? In Gal 4,19, egli utilizza la metafora del parto riferendola al suo ministero apostolico. Ma san Luigi-Maria trasforma la figura letteraria nel volto personale di una donna concreta: Maria. È la rivelazione che egli ha ricevuto dalla Spirito Santo (cfr. Segreto di Maria 1 e 20; Gal 1,11s): la scoperta della missione e del ruolo di Maria nella nostra vita spirituale. Nella costruzione del Corpo di Cristo (cfr. Ef 2,21; 4,12.13), egli vede Maria all’opera là dove san Paolo vedeva l’organizzazione “ministeriale”della Chiesa. Ed è ancora san Paolo a rivelargli la chiave della maternità spirituale della Vergine. Se Cristo è il Capo di questo corpo che è la Chiesa (Ef 1,22.23; 4,15.16; 5,23; ecc.) e noi le sue membra, allora Maria è nostra Madre: «Poiché Maria ha formato il Capo dei predestinati, che è Gesù Cristo, tocca pure a Lei formare le membra di questo Capo, che sono i veri cristiani» (Segreto di Maria 12; Trattato 17, 20, ecc.). Nel testo appena citato, san Luigi-Maria usa la parola predestinato, termine di marca chiaramente paolina che egli utilizza molto spesso. Tale predestinazione è un mistero di grazia: «Tutto si riduce, dunque, Maria, a trovare un mezzo facile per ottenere la grazia necessaria per diventare santi» (Segreto 6). Certamente egli non rifiuta le opere, i «mezzi di salvezza» (Segreto 3 e 4). Ma cosa sarebbero, senza la grazia divina?

La Santa Schiavitù

Un’altra parola del vocabolario monfortano derivata da san Paolo è l’essere «schiavo». La spiritualità della Consacrazione a Gesù per Maria è infatti chiamata spesso da san Luigi-Maria la «schiavitù di Gesù vivente in Maria». È nel Mistero dell’Incarnazione che si rivela il vocabolario della “Santa Schiavitù”. E tale mistero si fa carne in Maria, la schiava del Signore (Lc 1,38.48). Ma l’influsso paolino non si riduce a una lista di referenze testuali. San Luigi-Maria rilesse la sua vita nelle Lettere dell’Apostolo. La biografia del nostro santo è piena di persecuzioni (Lettera agli Amici 58; 1Cor 4,9.13). Nelle grandi difficoltà incontrate a Parigi nel 1703, poi descritte nella Lettera 16, riconosceva la comunione con l’esperienza dell’Apostolo (2 Cor 6,4-10). A sua sorella, religiosa benedettina, egli scriveva: «Sono contento e pieno di gioia in mezzo a tutte le mie sofferenze» (Lettera 26; cfr. Col 1,24; 2Cor 8,2; 1Tm 1,6). Egli tuttavia, al seguito di san Paolo, si pose fin dai suoi primi anni di sacerdozio la scelta della Sapienza divina (cfr. 1Cor 1,17-2,16). All’ospedale generale di Poitiers, fonda un gruppo di donne, pazze agli occhi della sapienza umana, che egli chiama Figlie della Sapienza (cfr. 1 Cor 1,26-28). Le scelte anticonformiste (cfr. Rm 12,2) gli valsero il soprannome di «pazzo di Montfort», ma egli sapeva che per diventare saggi secondo Dio, bisogna farsi pazzi agli occhi del mondo (cfr. 1Cor 3,18-19). Invitato una volta a predicare nella sua parrocchia natale, quand’era ormai noto quale grande oratore, san Luigi-Maria non proferì una sola parola: si limitò a mostrare il suo Crocifisso. Un gesto silenzioso che voleva dire: «non sono venuto per annunciarvi la testimonianza di Dio con l’eleganza della parola o della sapienza umana. No, non ho voluto sapere nulla tra voi, se non Gesù Cristo, e Gesù Cristo Crocifisso» (1Cor 1,1; cfr. Amore della Sapienza 12; Lettera agli Amici 26). Il grande progetto architettonico che san Luigi-Maria de Montfort realizzò fu proprio un grandioso Calvario eretto vicino a Nantes. Un trionfo nella debolezza, però, alla maniera di san Paolo: lo stesso giorno previsto per la benedizione solenne e inaugurazione dell’opera – il 14 settembre 1710 – giunse da Versailles l’ordine di raderlo al suolo.

Perché Gesù dice ai suoi discepoli di non giudicare?

dal sito:

http://www.taize.fr/it_article4029.html

Perché Gesù dice ai suoi discepoli di non giudicare?

«Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato» (Luca 6,37). È possibile mettere in pratica questa parola del Vangelo? Non è forse necessario giudicare, se non ci si vuole arrendere di fronte a ciò che non va? Ma questo appello di Gesù si è profondamente inciso nei cuori. Gli apostoli Giacomo e Paolo, del resto così diversi, vi fanno eco quasi con le stesse parole. Giacomo scrive: «Chi sei tu che ti fai giudice del tuo prossimo?» (Giacomo 4,12). E Paolo: «Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo?» (Romani 14,4).

Né Gesù né gli apostoli hanno cercato d’abolire i tribunali. Il loro appello concerne la vita quotidiana. Se i discepoli di Gesù scelgono d’amare, continuano tuttavia a commettere errori dalle conseguenze più o meno gravi. La reazione spontanea è allora di giudicare colui che – per sua negligenza, le sue debolezze o dimenticanze – causa dei torti o fallimenti. Certo noi abbiamo eccellenti ragioni per giudicare il nostro prossimo: è per il suo bene, affinché impari e progredisca…

Gesù, che conosce il cuore umano, non è vittima delle motivazioni più nascoste. Dice: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo?» (Luca 6,41). Posso servirmi degli errori degli altri per rassicurarmi delle mie qualità. Le ragioni per giudicare il mio prossimo lusingano il mio amor proprio (vedi Luca 18,9-14). Ma se spio il più piccolo errore del mio prossimo, non è forse per dispensarmi dall’affrontare i miei problemi? I mille errori che trovo in lui non provano ancora che io valgo di più. La severità del mio giudizio forse non fa altro che nascondere la mia stessa insicurezza e la mia paura d’essere giudicato.

A due riprese Gesù parla dell’occhio «malato» o «cattivo» (Matteo 6,23 e 20,15). Nomina così lo sguardo torbido per la gelosia. L’occhio malato ammira, invidia e giudica il prossimo nel medesimo tempo. Quando ammiro il mio prossimo per le sue qualità ma, allo stesso tempo, mi rende geloso, il mio occhio diventa cattivo. Non vedo più la realtà così com’è, e può anche succedermi di giudicare un altro per un male immaginario che non ha mai fatto.

È ancora un desiderio di dominio che può incitare al giudizio. Per questo, nel passo già citato, Paolo scrive: « Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo?». Chi giudica il suo prossimo si eleva a maestro, e usurpa, di fatto, il posto di Dio. Ora noi siamo chiamati a «considerare gli altri superiori a se stesso» (Filippesi 2,3). Non si tratta di non tenersi in considerazione, ma di mettersi a servizio degli altri piuttosto di giudicarli.

Rinunciare di giudicare porta all’indifferenza e alla passività?
In una stessa frase, l’apostolo Paolo usa la parola giudicare con due significati diversi: «Cessiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; pensate (giudicate) invece a non esser causa d’inciampo o di scandalo al fratello» (Romani 14,13). Smettere di giudicarsi reciprocamente non porta alla passività, ma è una condizione per un’attività e dei comportamenti giusti.

Gesù non invita a chiudere gli occhi e a lasciar correre le cose. Poiché subito dopo aver detto di non giudicare, continua: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutt’e due in una buca?» (Luca 6,39). Gesù desidera che i ciechi siano aiutati a trovare la strada. Ma denuncia le guide incapaci. Queste guide un po’ ridicole sono, secondo il contesto, coro che giudicano e condannano. Senza rinunciare a giudicare, è impossibile veder chiaro per portare altri sulla buona strada.

Ecco un esempio tratto da Barsanufio e Giovanni, due monaci di Gaza del 6° secolo. Dopo aver biasimato un fratello per la sua negligenza, Giovanni è dispiaciuto vederlo triste. È ancora ferito quando a sua volta si sente giudicato dai suoi fratelli. Per trovare la calma, decide allora di non fare più rimproveri a nessuno e di occuparsi unicamente di ciò di cui sarebbe responsabile. Ma Barsanufio gli fa capire che la pace del Cristo non sta nel chiudersi in se stesso. Gli cita più volte una parola dell’apostolo Paolo: «Ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina» (2 Timoteo 4,2).

Lasciare gli altri tranquilli, può essere ancora una forma sottile di giudicare. Se voglio occuparmi solo di me stesso, è forse perché considero gli altri non degni della mia attenzione e dei miei sforzi? Giovanni di Gaza decide di non più riprendere nessun suo fratello, ma Barsanufio comprende che in effetti egli continua a giudicarli nel suo cuore. Gli scrive: «Non giudicare e non condannare nessuno, ma avvertili come veri fratelli» (Lettera 21), È rinunciando ai giudizi che Giovanni diventerà capace di una vera preoccupazione per gli altri.

«Non vogliate giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore» (1 Corinzi 4,5): Paolo raccomanda il più grande ritegno nel giudizio. Allo stesso tempo, chiede con insistenza di preoccuparsi degli altri: «Correggete gli indisciplinati, confortate i pusillanimi, sostenete i deboli, siate pazienti con tutti» (1 Tessalonicesi 5,14). Per esperienza sapeva che riprendere senza giudicare poteva costare: «Per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi» (Atti 20,31). Solo la carità è capace di un simile servizio.

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