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BENEDETTO XVI – TIMOTEO E TITO – 26 gennaio

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2006/documents/hf_ben-xvi_aud_20061213.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 13 dicembre 2006

TIMOTEO E TITO

Cari fratelli e sorelle,

dopo aver parlato a lungo del grande apostolo Paolo, prendiamo oggi in considerazione i suoi due collaboratori più stretti: Timoteo e Tito. Ad essi sono indirizzate tre Lettere tradizionalmente attribuite a Paolo, delle quali due destinate a Timoteo e una a Tito. Timoteo è un nome greco e significa «che onora Dio». Mentre Luca negli Atti lo menziona sei volte, Paolo nelle sue lettere fa riferimento a lui ben diciassette volte (in più lo si trova una volta nella Lettera agli Ebrei). Se ne deduce che agli occhi di Paolo egli godeva di grande considerazione, anche se Luca non ritiene di raccontarci tutto ciò che lo riguarda. L’Apostolo infatti lo incaricò di missioni importanti e vide in lui quasi un alter ego, come risulta dal grande elogio che ne traccia nella Lettera ai Filippesi: «Io non ho nessuno d’animo tanto uguale (isópsychon) come lui, che sappia occuparsi così di cuore delle cose vostre » (2,20). Timoteo era nato a Listra (circa 200 km a nord-ovest di Tarso) da madre giudea e padre pagano (cfr At 16,1). Il fatto che la madre avesse contratto un matrimonio misto e non avesse fatto circoncidere il figlio lascia pensare che Timoteo sia cresciuto in una famiglia non strettamente osservante, anche se è detto che conosceva le Scritture fin dall’infanzia (cfr 2 Tm 3,15). Ci è stato trasmesso il nome della madre, Eunice, ed anche quello della nonna, Loide (cfr 2 Tm 1,5). Quando Paolo passò per Listra all’inizio del secondo viaggio missionario, scelse Timoteo come compagno, poiché «egli era assai stimato dai fratelli di Listra e di Iconio» (At 16,2), ma lo fece circoncidere «per riguardo ai Giudei che si trovavano in quelle regioni» (At 16,3). Insieme con Paolo e Sila, Timoteo attraversò l’Asia Minore fino a Troade, da dove passò in Macedonia. Siamo inoltre informati che a Filippi, dove Paolo e Sila furono coinvolti nell’accusa di disturbatori dell’ordine pubblico e vennero imprigionati per essersi opposti allo sfruttamento di una giovane ragazza come indovina da parte di alcuni individui senza scrupoli (cfr At 16,16-40), Timoteo fu risparmiato. Quando poi Paolo fu costretto a proseguire fino ad Atene, Timoteo lo raggiunse in quella città e da lì venne inviato alla giovane Chiesa di Tessalonica per avere notizie e per confermarla nella fede (cfr 1 Ts 3,1-2). Si ricongiunse poi con l’Apostolo a Corinto, portandogli buone notizie sui Tessalonicesi e collaborando con lui nell’evangelizzazione di quella città (cfr 2 Cor 1,19). Ritroviamo Timoteo a Efeso durante il terzo viaggio missionario di Paolo. Da lì probabilmente l’Apostolo scrisse a Filemone e ai Filippesi, e in entrambe le lettere Timoteo risulta co-mittente (cfr Fm 1; Fil 1,1). Da Efeso Paolo lo inviò in Macedonia insieme a un certo Erasto (cfr At 19,22) e poi anche a Corinto con l’incarico di recarvi una lettera, nella quale raccomandava ai Corinzi di fargli buona accoglienza (cfr 1 Cor 4,17; 16,10-11). Lo ritroviamo ancora come co-mittente della Seconda Lettera ai Corinzi, e quando da Corinto Paolo scrive la Lettera ai Romani vi unisce, insieme a quelli degli altri, i saluti di Timoteo (cfr Rm 16,21). Da Corinto il discepolo ripartì per raggiungere Troade sulla sponda asiatica del Mar Egeo e là attendere l’Apostolo diretto verso Gerusalemme a conclusione del terzo viaggio missionario (cfr At 20,4). Da quel momento sulla biografia di Timoteo le fonti antiche non ci riservano che un accenno nella Lettera agli Ebrei, dove si legge: «Sappiate che il nostro fratello Timoteo è stato messo in libertà; se arriva presto, vi vedrò insieme con lui» (13,23). In conclusione, possiamo dire che la figura di Timoteo campeggia come quella di un pastore di grande rilievo. Secondo la posteriore Storia ecclesiastica di Eusebio, Timoteo fu il primo Vescovo di Efeso (cfr 3,4). Alcune sue reliquie si trovano dal 1239 in Italia nella Cattedrale di Termoli nel Molise, provenienti da Costantinopoli. Quanto poi alla figura di Tito, il cui nome è di origine latina, sappiamo che di nascita era greco, cioè pagano (cfr Gal 2,3). Paolo lo condusse con sé a Gerusalemme per il cosiddetto Concilio apostolico, nel quale fu solennemente accettata la predicazione ai pagani del Vangelo libero dai condizionamenti della legge mosaica. Nella Lettera a lui indirizzata, l’Apostolo lo elogia definendolo «mio vero figlio nella fede comune» (Tt 1,4). Dopo la partenza di Timoteo da Corinto, Paolo vi inviò Tito con il compito di ricondurre quella indocile comunità all’obbedienza. Tito riportò la pace tra la Chiesa di Corinto e l’Apostolo, che ad essa scrisse in questi termini: «Dio che consola gli afflitti ci ha consolati con la venuta di Tito, e non solo con la sua venuta, ma con la consolazione che ha ricevuto da voi. Egli infatti ci ha annunziato il vostro desiderio, il vostro dolore, il vostro affetto per me… A questa nostra consolazione si è aggiunta una gioia ben più grande per la letizia di Tito, poiché il suo spirito è stato rinfrancato da tutti voi» (2 Cor 7,6-7.13). A Corinto Tito fu poi ancora rimandato da Paolo – che lo qualifica come «mio compagno e collaboratore» (2 Cor 8,23) – per organizzarvi la conclusione delle collette a favore dei cristiani di Gerusalemme (cfr 2 Cor 8,6). Ulteriori notizie provenienti dalle Lettere Pastorali lo qualificano come Vescovo di Creta (cfr Tt 1,5), da dove su invito di Paolo raggiunse l’Apostolo a Nicopoli in Epiro (cfr Tt 3,12). In seguito andò anche in Dalmazia (cfr 2 Tm 4,10). Siamo sprovvisti di altre informazioni sugli spostamenti successivi di Tito e sulla sua morte. Concludendo, se consideriamo unitariamente le due figure di Timoteo e di Tito, ci rendiamo conto di alcuni dati molto significativi. Il più importante è che Paolo si avvalse di collaboratori nello svolgimento delle sue missioni. Egli resta certamente l’Apostolo per antonomasia, fondatore e pastore di molte Chiese. Appare tuttavia chiaro che egli non faceva tutto da solo, ma si appoggiava a persone fidate che condividevano le sue fatiche e le sue responsabilità. Un’altra osservazione riguarda la disponibilità di questi collaboratori. Le fonti concernenti Timoteo e Tito mettono bene in luce la loro prontezza nell’assumere incombenze varie, consistenti spesso nel rappresentare Paolo anche in occasioni non facili. In una parola, essi ci insegnano a servire il Vangelo con generosità, sapendo che ciò comporta anche un servizio alla Chiesa stessa. Raccogliamo infine la raccomandazione che l’apostolo Paolo fa a Tito nella lettera a lui indirizzata: «Voglio che tu insista su queste cose, perché coloro che credono in Dio si sforzino di essere i primi nelle opere buone. Ciò è bello e utile per gli uomini» (Tt 3,8). Mediante il nostro impegno concreto dobbiamo e possiamo scoprire la verità di queste parole, e proprio in questo tempo di Avvento essere anche noi ricchi di opere buone e così aprire le porte del mondo a Cristo, il nostro Salvatore.

 

8 LUGLIO: SANTI AQUILA E PRISCILLA SPOSI E MARTIRI, DISCEPOLI DI SAN PAOLO

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SANTI AQUILA E PRISCILLA SPOSI E MARTIRI, DISCEPOLI DI SAN PAOLO

8 luglio

I secolo

Aquila e Priscilla erano due coniugi giudeo – cristiani, molto cari all’apostolo Paolo per la loro fervente e molteplice collaborazione alla causa del Vangelo. Aquila, giudeo originario del Ponto, trasferitosi in tempo imprecisato a Roma, sposò Priscilla (o Prisca).L’apostolo intuì subito le buone qualità dei due coniugi, quando chiese di essere ospitato nella loro casa a Corinto. I due lo seguirono anche in Siria, fino ad Efeso. Qui istruirono nella catechesi cristiana Apollo, l’eloquente giudeo – alessandrino, versatissimo nelle Scritture, ma ignaro di qualche punto essenziale della nuova dottrina cristiana, come il battesimo di Gesù. Aquila e Priscilla fecero in modo di battezzarlo prima che partisse per Corinto. Niente si può asserire con certezza sul tempo, luogo e genere di morte di Aquila e Priscilla, dato che le uniche fonti su di essi sono citazioni bibliche. Alcuni identificano Priscilla con la vergine e martire romana Prisca e Aquila con qualcuno della gens Acilia, collegata con le Catacombe, perciò i due sarebbero martiri per decapitazione. (Avvenire) Martirologio Romano: Commemorazione dei santi Aquila e Prisca o Priscilla, coniugi, che, collaboratori di san Paolo, accoglievano in casa loro la Chiesa e per salvare l’Apostolo rischiarono la loro stessa vita. Aquila e Priscilla erano due coniugi giudeo-cristiani, molto cari all’apostolo s. Paolo per la loro fervente e molteplice collaborazione alla causa del Vangelo. Aquila, giudeo originario del Pònto, trasferitosi in tempo imprecisato a Roma, sposò Priscilla o Prisca, come è due volte chiamata. Troviamo i due santi per la prima volta a Corinto, quando Paolo vi arrivò nel suo secondo viaggio apostolico l’anno 51: essi erano venuti da poco nella capitale dell’Acaia provenienti da Roma, loro abituale dimora, in seguito al decreto dell’imperatore Claudio, che ordinava l’espulsione da Roma di tutti i giudei, fossero essi cristiani, o meno. Aquila e Priscilla erano probabilmente cristiani prima del loro incontro con Paolo a Corinto, come sembra suggerire la familiarità che subito nacque tra di loro, benché il Sinassario Costantinopolitano li dica battezzati da Paolo. L’apostolo intuì subito le buone qualità dei due coniugi e l’utilità che ne poteva trarre per la sua difficile missione a Corinto e chiese o accettò di essere loro ospite. Esercitando essi il medesimo mestiere di Paolo (fabbricanti di tende), diedero all’apostolo agio di poter lavorare e provvedersi il necessario alla vita senza essere di peso a nessuno. Quando poco dopo si dice che Paolo, lasciata la sinagoga, « entrò nella casa d’un tale Tizio Giusto, proselita », non è necessario pensare che abbia lasciato la casa di Aquila e Priscilla; I’apostolo, abbandonata la sinagoga per il rifiuto dei giudei a convertirsi, avrebbe scelto come luogo di predicazione e di culto la casa vicina ad essa, quella del proselita Tizio Giusto, mantenendo però come dimora abituale durante l’anno e mezzo che rimase a Corinto la casa di Aquila e Priscilla. È opportuno notare a questo riguardo che non si dice fungesse da « chiesa domestica » l’abitazione dei due a Corinto, come era invece il caso di quelle che essi avevano a Roma e a Efeso. Quando s. Paolo, terminata la sua missione a Corinto, volle fare ritorno in Siria, ebbe compagni di viaggio A. e P. fino ad Efeso, dove essi rimasero. L’oggetto del loro viaggio potrà essere stato commerciale, ma l’averlo fatto coincidere con quello di Paolo indica, oltre alla loro stima ed amore per lui, che essi non erano estranei alle sue preoccupazioni apostoliche. Ad Efeso infatti li vediamo premurosi, dopo la partenza dell’apostolo, nell’istruire « nella via del Signore », cioè nella catechesi cristiana, nientemeno che il celebre Apollo, l’eloquente giudeo-alessandrino, versatissimo nelle Scritture, ma ignaro di qualche punto essenziale della nuova dottrina c ristiana, come il battesimo di Gesù. Aquila e Priscilla, mossi da apostolico zelo, si presero cura di completare la sua istruzione e probabilmente di battezzarlo prima che egli partisse per Corinto. Ad Efeso offrirono la loro casa a servizio della comunità per le adunanze cultuali (ecclesia domestica) e, secondo la lezione di alcuni codd. greci, seguiti dalla Volgata latina, s. Paolo sarebbe stato loro ospite anche ad Efeso, come già lo era stato a Corinto. Scrivendo infatti da Efeso (verso il 55) la prima lettera ai Corinti, dice: « Molti saluti nel Signore vi mandano Aquila e Priscilla, con quelli che nella loro casa si adunano, dei quali sono ospite ». Ma l’elogio più caldo di Aquila e Priscilla Io fa l’apostolo scrivendo da Corinto ai Romani nell’a. 58 (intanto i due coniugi per ragione del loro commercio si erano trasferiti a Roma). Nella lunga serie di venticinque persone salutate nel c. 16 della lettera ai Romani Aquila e Priscilla sono i primi: « Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù: per salvare a me la vita, essi hanno rischiato la testa; a loro non solo io rendo grazie, ma anche tutte le Chiese dei gentili. Salutate anche la comunità che si aduna in casa loro ». In queste parole si sente l’animo grato dell’apostolo per i suoi insigni benefattori, che con grave loro pericolo gli hanno salvato la vita, in un’occasione non meglio precisata: forse ad Efeso, durante il tumulto degli argentieri capeggiati da Demetrio. Grande lode è poi per i due santi sposi che tutte le Chiese dei gentili siano loro debitrici d i gratitudine; di tre delle principali – Corinto, Efeso, Roma – si è fatto cenno nei testi sopracitati. L’ultima menzione di Aquila e Priscilla l’abbiamo nell’ultima lettera di s. Paolo che, prigioniero di Cristo per la seconda volta a Roma, scrive al suo discepolo Timoteo, vescovo di Efeso, incaricandolo di salutare Priscilla e Aquila, che di nuovo si erano recati ad Efeso. Niente si può asserire con certezza sul tempo, luogo e genere di morte di Aquila e Priscilla, dato che le uniche fonti su di essi sono le poche notizie bibliche citate. Alcuni, volendo identificare Priscilla, moglie di Aquila, con la vergine e martire romana s. Prisca. venerata nella chiesa omonima sull’Aventino, e con Priscilla, la titolare delle Catacombe della Via Salaria, e credendo altresì ravvisare nel nome di Aquila qualcuno della gens Acilia collegata con le dette Catacombe, li fanno martiri, anzi, prendendo occasione dal « cervices suas supposuerunt » di Rom. 16,4. determinano il genere di martirio: la decapitazione.

Autore: Teofilo Garcia de Orbiso

Papa Benedetto, su Aquila e Priscilla anche una catechesi del Papa (7 febbraio 2007), dopo il saluto alle diocesi lombarde

su Aquila e Priscilla anche una catechesi del Papa (2007), dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20070207_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aquila e Priscilla

Aula Paolo VI
Mercoledì, 7 febbraio 2007 

Saluto ai pellegrini presenti nella Basilica Vaticana convenuti dalle Diocesi della Lombardia, in occasione della Visita “ad Limina Apostolorum” dei Vescovi Lombardi:

Cari fratelli e sorelle delle Diocesi Lombarde!

Saluto anzitutto voi, cari Fratelli nell’Episcopato, convenuti a Roma per la Visita ad Limina Apostolorum. Con voi saluto i fedeli che vi accompagnano in questo significativo momento di intensa comunione con il Successore di Pietro. La Chiesa che vive in Lombardia, e qui rappresentata in tutte le sue componenti, ha un ruolo importante da continuare a svolgere nella società lombarda: annunciare e testimoniare il Vangelo in ogni suo ambito, specialmente dove emergono i tratti negativi di una cultura consumistica ed edonistica, del secolarismo e dell’individualismo, dove si registrano antiche e nuove forme di povertà con segnali preoccupanti del disagio giovanile e fenomeni di violenza e di criminalità. Se le Istituzioni e le varie agenzie educative sembrano talora attraversare momenti di difficoltà, non mancano, però, grandi risorse ideali e morali nel vostro popolo, ricco di nobili tradizioni familiari e religiose. Ho visto nel colloquio con voi, cari Fratelli nell’Episcopato, come la Chiesa in Lombardia è realmente una Chiesa viva, ricca del dinamismo della fede e anche di spirito missionario, capace e decisa a trasmettere la fiaccola della fede alle future generazioni e al mondo del nostro tempo. Vi sono grato per questo dinamismo della fede, che vive proprio nelle Diocesi della Lombardia.
Vasto è il vostro campo d’azione. Si tratta, da una parte, di difendere e promuovere la cultura della vita umana e della legalità, dall’altra è necessaria una sempre più coerente conversione a Cristo personale e comunitaria. Per crescere infatti nella fedeltà all’uomo, creato a immagine e somiglianza del Creatore, occorre con coerenza penetrare più intimamente nel mistero di Cristo e diffonderne il messaggio di salvezza. Dobbiamo fare di tutto per conoscere sempre meglio la figura di Gesù, per avere di Lui una conoscenza non soltanto «di seconda mano», ma una conoscenza attraverso l’incontro nella preghiera, nella liturgia, nell’amore per il prossimo. E’ un impegno certamente difficile, ma sono di conforto le parole del Signore: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). È con noi il Signore, anche oggi, domani, fino alla fine del mondo! Si intensifichi, pertanto, la vostra testimonianza evangelica perchè in ogni ambiente i cristiani, guidati dallo Spirito Santo che dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr.1 Cor 3, 16-17), siano segni vivi della speranza soprannaturale. Il nostro tempo, con tante angosce e problemi, ha bisogno di speranza. E la nostra speranza viene proprio dalla promessa del Signore e dalla sua presenza. Vi incoraggio, cari Vescovi, a guidare l’alacre popolo lombardo su tale cammino, contando in ogni situazione sull’indefettibile assistenza divina. Andiamo avanti con l’aiuto del Signore in questa direzione!

* * *

Aquila e Priscilla

Cari fratelli e sorelle,

facendo un nuovo passo in questa sorta di galleria di ritratti dei primi testimoni della fede cristiana, che abbiamo iniziato alcune settimane fa, prendiamo oggi in considerazione una coppia di sposi. Si tratta dei coniugi Priscilla e Aquila, che si collocano nell’orbita dei numerosi collaboratori gravitanti intorno all’apostolo Paolo, ai quali avevo già brevemente accennato mercoledì scorso. In base alle notizie in nostro possesso, questa coppia di coniugi svolse un ruolo molto attivo al tempo delle origini post-pasquali della Chiesa.
I nomi di Aquila e Priscilla sono latini, ma l’uomo e la donna che li portano erano di origine ebraica. Almeno Aquila, però, proveniva geograficamente dalla diaspora dell’Anatolia settentrionale, che si affaccia sul Mar Nero – nell’attuale Turchia -, mentre Priscilla, il cui nome si trova a volte abbreviato in Prisca, era probabilmente un’ebrea proveniente da Roma (cfr At 18,2). È comunque da Roma che essi erano giunti a Corinto, dove Paolo li incontrò all’inizio degli anni ’50; là egli si associò ad essi poiché, come ci racconta Luca, esercitavano lo stesso mestiere di fabbricatori di tende o tendoni per uso domestico, e fu accolto addirittura nella loro casa (cfr At 18,3). Il motivo della loro venuta a Corinto era stata la decisione dell’imperatore Claudio di cacciare da Roma i Giudei residenti nell’Urbe. Lo storico romano Svetonio ci dice su questo avvenimento che aveva espulso gli Ebrei perché “provocavano tumulti a motivo di un certo Cresto” (cfr “Vite dei dodici Cesari, Claudio”, 25). Si vede che non conosceva bene il nome — invece di Cristo scrive “Cresto” — e aveva un’idea solo molto confusa di quanto era avvenuto. In ogni caso, c’erano delle discordie all’interno della comunità ebraica intorno alla questione se Gesù fosse il Cristo. E questi problemi erano per l’imperatore il motivo per espellere semplicemente tutti gli Ebrei da Roma. Se ne deduce che i due coniugi avevano abbracciato la fede cristiana già a Roma negli anni ’40, e ora avevano trovato in Paolo qualcuno che non solo condivideva con loro questa fede — che Gesù è il Cristo — ma che era anche apostolo, chiamato personalmente dal Signore Risorto. Quindi, il primo incontro è a Corinto, dove lo accolgono nella casa e lavorano insieme nella fabbricazione di tende.
In un secondo tempo, essi si trasferirono in Asia Minore, a Efeso. Là ebbero una parte determinante nel completare la formazione cristiana del giudeo alessandrino Apollo, di cui abbiamo parlato mercoledì scorso. Poiché egli conosceva solo sommariamente la fede cristiana, «Priscilla e Aquila lo ascoltarono, poi lo presero con sé e gli esposero con maggiore accuratezza la via di Dio» (At 18,26). Quando da Efeso l’apostolo Paolo scrive la sua Prima Lettera ai Corinzi, insieme ai propri saluti manda esplicitamente anche quelli di «Aquila e Prisca, con la comunità che si raduna nella loro casa» (16,19). Veniamo così a sapere del ruolo importantissimo che questa coppia svolse nell’ambito della Chiesa primitiva: quello cioè di accogliere nella propria casa il gruppo dei cristiani locali, quando essi si radunavano per ascoltare la Parola di Dio e per celebrare l’Eucaristia. È proprio quel tipo di adunanza che è detto in greco “ekklesìa” – la parola latina è “ecclesia”, quella italiana “chiesa” – che vuol dire convocazione, assemblea, adunanza. Nella casa di Aquila e Priscilla, quindi, si riunisce la Chiesa, la convocazione di Cristo, che celebra qui i sacri Misteri. E così possiamo vedere la nascita proprio della realtà della Chiesa nelle case dei credenti. I cristiani, infatti, fin verso il secolo III non avevano propri luoghi di culto: tali furono, in un primo tempo, le sinagoghe ebraiche, fin quando l’originaria simbiosi tra Antico e Nuovo Testamento si è sciolta e la Chiesa delle Genti fu costretta a darsi una propria identità, sempre profondamente radicata nell’Antico Testamento. Poi, dopo questa “rottura”, si riuniscono nelle case i cristiani, che diventano così “Chiesa”. E infine, nel III secolo, nascono veri e propri edifici di culto cristiano. Ma qui, nella prima metà del I secolo e nel II secolo, le case dei cristiani diventano vera e propria “chiesa”. Come ho detto, si leggono insieme le Sacre Scritture e si celebra l’Eucaristia. Così avveniva, per esempio, a Corinto, dove Paolo menziona un certo «Gaio, che ospita me e tutta la comunità» (Rm 16,23), o a Laodicea, dove la comunità si radunava nella casa di una certa Ninfa (cfr Col 4,15), o a Colossi, dove il raduno avveniva nella casa di un certo Archippo (cfr Fm 2).
Tornati successivamente a Roma, Aquila e Priscilla continuarono a svolgere questa preziosissima funzione anche nella capitale dell’Impero. Infatti Paolo, scrivendo ai Romani, manda questo preciso saluto: «Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù; per salvarmi la vita essi hanno rischiato la loro testa, e ad essi non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese dei Gentili; salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa» (Rm 16,3-5). Quale straordinario elogio dei due coniugi in queste parole! E a tesserlo è nientemeno che l’apostolo Paolo. Egli riconosce esplicitamente in loro due veri e importanti collaboratori del suo apostolato. Il riferimento al fatto di avere rischiato la vita per lui va collegato probabilmente ad interventi in suo favore durante qualche sua prigionia, forse nella stessa Efeso (cfr At 19,23; 1 Cor 15,32; 2 Cor 1,8-9). E che alla propria gratitudine Paolo associ addirittura quella di tutte le Chiese delle Genti, pur considerando l’espressione forse alquanto iperbolica, lascia intuire quanto vasto sia stato il loro raggio d’azione e, comunque, il loro influsso a vantaggio del Vangelo.
La tradizione agiografica posteriore ha conferito un rilievo tutto particolare a Priscilla, anche se resta il problema di una sua identificazione con un’altra Priscilla martire. In ogni caso, qui a Roma abbiamo sia una chiesa dedicata a Santa Prisca sull’Aventino sia le Catacombe di Priscilla sulla Via Salaria. In questo modo si perpetua la memoria di una donna, che è stata sicuramente una persona attiva e di molto valore nella storia del cristianesimo romano. Una cosa è certa: insieme alla gratitudine di quelle prime Chiese, di cui parla san Paolo, ci deve essere anche la nostra, poiché grazie alla fede e all’impegno apostolico di fedeli laici, di famiglie, di sposi come Priscilla e Aquila il cristianesimo è giunto alla nostra generazione. Poteva crescere non solo grazie agli Apostoli che lo annunciavano. Per radicarsi nella terra del popolo, per svilupparsi vivamente, era necessario l’impegno di queste famiglie, di questi sposi, di queste comunità cristiane, di fedeli laici che hanno offerto l’“humus” alla crescita della fede. E sempre, solo così cresce la Chiesa. In particolare, questa coppia dimostra quanto sia importante l’azione degli sposi cristiani. Quando essi sono sorretti dalla fede e da una forte spiritualità, diventa naturale un loro impegno coraggioso per la Chiesa e nella Chiesa. La quotidiana comunanza della loro vita si prolunga e in qualche modo si sublima nell’assunzione di una comune responsabilità a favore del Corpo mistico di Cristo, foss’anche di una piccola parte di esso. Così era nella prima generazione e così sarà spesso.
Un’ulteriore lezione non trascurabile possiamo trarre dal loro esempio: ogni casa può trasformarsi in una piccola chiesa. Non soltanto nel senso che in essa deve regnare il tipico amore cristiano fatto di altruismo e di reciproca cura, ma ancor più nel senso che tutta la vita familiare, in base alla fede, è chiamata a ruotare intorno all’unica signoria di Gesù Cristo. Non a caso nella Lettera agli Efesini Paolo paragona il rapporto matrimoniale alla comunione sponsale che intercorre tra Cristo e la Chiesa (cfr Ef 5,25-33). Anzi, potremmo ritenere che l’Apostolo indirettamente moduli la vita della Chiesa intera su quella della famiglia. E la Chiesa, in realtà, è la famiglia di Dio. Onoriamo perciò Aquila e Priscilla come modelli di una vita coniugale responsabilmente impegnata a servizio di tutta la comunità cristiana. E troviamo in loro il modello della Chiesa, famiglia di Dio per tutti i tempi.

Sant’Anania, oggi mi sono imbattuta, leggendo da qualche libro a caso…

Sant'Anania, oggi mi sono imbattuta, leggendo da qualche libro a caso... dans COMPAGNI DI SAN PAOLO E NOMINATI (anche collaboratori) Syria_15

(a caso boh!), nella conversione di San Paolo, la figura di Anania, tracciata dall’autore degli Atti, mi è sembrata molto bella, così ho fatto qualche ricerca che ho postato prima di questa immagine, il racconto della conversione è trattato in due passi, se volete leggerli: Atti, 9,10-19; 12,12-16 (22, 6-16)

http://www.custodia.fr/Damasco-Casa-di-sant-Anania.html

Tito, il più stretto collaboratore di Paolo, e il gioiello dell’epistolario paolino.

dal sito:

http://www.stpauls.it/coopera/0906cp/0906cp04.htm

L’apostolo, il padre, l’amico

Tito, il più stretto collaboratore di Paolo, e il gioiello dell’epistolario paolino.

La lettera di Tito. Come Timoteo, anche Tito fa parte della cerchia dei collaboratori di Paolo. Di lui abbiamo poche notizie. Dalla lettera ai Galati (2,1-3) apprendiamo che Tito era di famiglia pagana e che al Concilio di Gerusalemme proprio il suo caso di pagano convertito al cristianesimo e non sottoposto al rito della circoncisione, segnò l’inizio dell’apertura del Vangelo ai pagani (vedi Atti 15).

Dalla seconda lettera ai Corinzi (7,7-15) scaturisce un particolare profilo di Tito: è descritto come il conciliatore e il negoziatore paziente e deciso, quasi completasse con queste attitudini e con queste virtù ciò che mancava all’irruenza e all’impulsività del carattere di Paolo. In questo senso, egli è stato perciò il più stretto collaboratore di Paolo, il più necessario.

Nella lettera che porta il suo nome, Tito è presentato come la guida stabilita da Paolo per la comunità cristiana di Creta (vedi Tito 1,5), dove la sua tomba è ancora oggi venerata (a Gortyna l’antica capitale). Ma il corpo fu distrutto dai saraceni nell’823, si salvò solo la testa che nel 1669 fu portata a Venezia. Nel 1966 fu restituita alla Chiesa ortodossa ed ora si trova nella cattedrale di Eraklion.

Il contenuto della lettera. Secondo lo stile delle lettere pastorali, anche la lettera a Tito – che si compone di tre brevi capitoli – traccia le linee dell’organizzazione nella sua fisionomia interiore e spirituale, della comunità cristiana e contiene il ritratto del pastore ideale che la guida.

Paolo con i discepoli Timoteo e Tito (mosaico, duomo di Monreale).

Nel capitolo 1, il responsabile della comunità chiamato ora « presbitero » (anziano), ora « vescovo« , è descritto mediante le virtù che lo devono contraddistinguere e i vizi che deve fuggire, per « essere in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare coloro che contraddicono » (1,9). Vi è poi l’invito a difendere l’integrità della fede contro i falsi maestri, specialmente nell’ambito cretese (presentato qui in un particolare aspetto negativo, alla luce delle parole di un poeta originario di Cnosso, vedi 1,12: « I Cretesi sono sempre bugiardi, male bestie, ventri pigri »).

I capitoli 2-3 contengono le esortazioni che Tito è chiamato a rivolgere alle diverse categorie di persone che compongono la comunità. Ciò non significa che ci sia una morale per un gruppo o per un’età e un’altra per una diversa condizione di vita, quanto piuttosto che c’è un solo vangelo, che ciascuno è chiamato a vivere nella situazione particolare in cui Dio lo ha posto ad operare.

Queste indicazioni pastorali sono illuminate da alcuni testi ricchi di poesia, di fede e di teologia (vedi 2,11-14; 3.4-7). Da questi testi appare che la vita quotidiana del cristiano si snoda tutta sotto la presenza e la protezione di Dio, che ha manifestato il suo amore nell’incarnazione, morte e risurrezione del Signore Gesù.La Lettera a Filemone. Questo breve scritto (sono appena 25 versetti!) è considerato come « il gioiello » dell’epistolario paolino e, per la squisitezza del tratto con cui Paolo stende il contenuto, e considerato « un vero capolavoro di tatto e di cuore ».

Qui l’apostolo cede il passo al padre e all’amico. Infatti, questo biglietto di Paolo accompagna il ritorno dello schiavo Onesimo al suo padrone (che è il ricco Filemone), dal quale era fuggito. Nel pensiero dell’apostolo si doveva trattare di un ritorno fraterno e amichevole, senza ritorsioni o punizioni da parte di Filemone (il padrone aveva il diritto di punire lo schiavo fuggitivo, vedi vv. 17-18).

Il tutto si dipana nella luminosità della fede cristiana, che ora accomuna il ricco Filemone (cristiano e collaboratore di Paolo, vedi v. 1) con lo schiavo Onesimo convertito da Paolo (presso il quale egli si era rifugiato).

Questo biglietto, vivace e breve, intenso e vibrante di affetto, ha contribuito a sfaldare, senza alcuna rivoluzione esterna, la schiavitù. Paolo ha operato dall’interno per mettere in crisi questa istituzione, così contraria alla dignità dell’uomo.

E anche Filemone ha intuito il processo irreversibile con cui il Vangelo operava per l’eliminazione della schiavitù: la sua casa, i suoi familiari, i suoi schiavi ormai erano una sola comunità, una piccola fraternità o una piccola chiesa, come lasciano intendere le prime parole di questo scritto « al nostro caro collaboratore Filemone… e alla comunità che si raduna nella tua casa » (v. 1).

San Dionigi l’Areopagita Discepolo di S. Paolo (Atti 17, 34; Atene)

San Dionigi l'Areopagita Discepolo di S. Paolo (Atti 17, 34; Atene) dans COMPAGNI DI SAN PAOLO E NOMINATI (anche collaboratori) 

http://www.santiebeati.it/ 

tra i nomi dei pesonaggi che si accostano a San Paolo Donigi Aereopagita (Atti 17,34), dal sito:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/73675

San Dionigi l’Areopagita Discepolo di S. Paolo

3 ottobre
 
m. 95 c.

Dionigi viene citato da Luca come uno dei pochissimi ateniesi che seguirono Paolo dopo il discorso all’Areopago. Un altro Dionigi, vescovo di Corinto del II secolo, scrive che l’Areopagita fu il primo pastore di Atene. Fu, poi, confuso con l’omonimo protovescovo martire di Parigi, la cui festa cade il 9 ottobre. Sotto il nome di Pseudo-Dionigi va l’autore (forse un monaco siriaco del V-VI secolo) di celebri scritti largamente diffusi nel Medioevo: tra essi il «De coelesti Ierarchia» e il «De divinis nominibus». In essi si afferma che Dionigi avrebbe visto l’eclissi della Crocifissione e assistito alla Dormizione di Maria. Perciò furono attribuiti all’antico ateniese. (Avvenire)

Martirologio Romano: Commemorazione di san Dionigi l’Areopagita, che si convertì a Cristo annunciato da san Paolo Apostolo davanti all’Areopágo e fu costituito primo vescovo di Atene.

E’ una figura assai misteriosa: un teologo del sesto secolo, il cui nome è sconosciuto, che ha scritto sotto lo pseudonimo di Dionigi Areopagita. Con questo pseudonimo egli alludeva al passo della Scrittura che abbiamo adesso ascoltato, cioè alla vicenda raccontata da San Luca nel XVII capitolo degli Atti degli Apostoli, dove viene riferito che Paolo predicò in Atene sull’Areopago, per una élite del grande mondo intellettuale greco, ma alla fine la maggior parte degli ascoltatori si dimostrò disinteressata, e si allontanò deridendolo; tuttavia alcuni, pochi ci dice San Luca, si avvicinarono a Paolo aprendosi alla fede. L’evangelista ci dona due nomi: Dionigi, membro dell’Areopago, e una certa donna, Damaris.

Se l’autore di questi libri ha scelto cinque secoli dopo lo pseudonimo di Dionigi Areopagita vuol dire che sua intenzione era di mettere la saggezza greca al servizio del Vangelo, aiutare l’incontro tra la cultura e l’intelligenza greca e l’annuncio di Cristo; voleva fare quanto intendeva questo Dionigi, che cioè il pensiero greco si incontrasse con l’annuncio di San Paolo; essendo greco, farsi discepolo di San Paolo e così discepolo di Cristo.

Perché egli nascose il suo nome e scelse questo pseudonimo? Una parte di risposta è già stata data: voleva proprio esprimere questa intenzione fondamentale del suo pensiero. Ma ci sono due ipotesi circa questo anonimato coperto da uno pseudonimo. Una prima ipotesi dice: era una voluta falsificazione, con la quale, ridatando le sue opere al primo secolo, al tempo di San Paolo, egli voleva dare alla sua produzione letteraria un’autorità quasi apostolica. Ma migliore di questa ipotesi — che mi sembra poco credibile — è l’altra: che cioè egli volesse proprio fare un atto di umiltà. Non dare gloria al proprio nome, non creare un monumento per se stesso con le sue opere, ma realmente servire il Vangelo, creare una teologia ecclesiale, non individuale, basata su se stesso. In realtà riuscì a costruire una teologia che, certo, possiamo datare al sesto secolo, ma non attribuire a una delle figure di quel tempo: è una teologia un po’ disindividualizzata, cioè una teologia che esprime un pensiero comune in un linguaggio comune. Era un tempo di acerrime polemiche dopo il Concilio di Calcedonia; lui invece, nella sua settima Epistola, dice: «Non vorrei fare delle polemiche; parlo semplicemente della verità, cerco la verità». E la luce della verità da se stessa fa cadere gli errori e fa splendere quanto è buono. Con questo principio egli purificò il pensiero greco e lo mise in sintonia con il Vangelo. Questo principio, che egli rivela nella sua settima Epistola, è anche espressione di un vero spirito di dialogo: cercare non le cose che separano, cercare la verità nella Verità stessa; essa poi riluce e fa cadere gli errori.

Quindi, pur essendo la teologia di questo autore, per così dire “soprapersonale”, realmente ecclesiale, noi possiamo collocarla nel VI secolo. Perché? Lo spirito greco, che egli mise al servizio del Vangelo, lo incontrò nei libri di un certo Proclo, morto nel 485 ad Atene: questo autore apparteneva al tardo platonismo, una corrente di pensiero che aveva trasformato la filosofia di Platone in una sorte religione filosofica, il cui scopo alla fine era di creare una grande apologia del politeisimo greco e ritornare, dopo il successo del cristianesimo, all’antica religione greca. Voleva dimostrare che, in realtà, le divinità erano le forze operanti nel cosmo. La conseguenza era che doveva ritenersi più vero il politeismo che il monoteismo, con un unico Dio creatore. Era un grande sistema cosmico di divinità, di forze misteriose, quello che mostrava Proclo, per il quale in questo cosmo deificato l’uomo poteva trovare l’accesso alla divinità. Egli però distingueva le strade per i semplici, i quali non erano in grado di elevarsi ai vertici della verità — per loro certi riti anche superstiziosi potevano essere sufficienti — e le strade per i saggi, che invece dovevano purificarsi per arrivare alla pura luce.

Questo pensiero, come si vede, è profondamente anticristiano. È una reazione tarda contro la vittoria del cristianesimo. Un uso anticristiano di Platone, mentre era già in corso un uso cristiano del grande filosofo. È interessante che questo Pseudo-Dionigi abbia osato servirsi proprio di questo pensiero per mostrare la verità di Cristo; trasformare questo universo politeistico in un cosmo creato da Dio – nell’armonia del cosmo di Dio dove tutte le forze sono lode di Dio – e mostrare questa grande armonia, questa sinfonia del cosmo che va dai serafini agli angeli e agli arcangeli, all’uomo e a tutte le creature che insieme riflettono la bellezza di Dio e rendono lode a Dio. Trasformava così l’immagine politeista in un elogio del Creatore e della sua creatura. Possiamo in questo modo scoprire le caratteristiche essenziali del suo pensiero: esso è innanzitutto una lode cosmica. Tutta la creazione parla di Dio ed è un elogio di Dio. Essendo la creatura una lode di Dio, la teologia dello Pseudo-Dionigi diventa una teologia liturgica: Dio si trova soprattutto lodandolo, non solo riflettendo; e la liturgia non è qualcosa di costruito da noi, qualcosa di inventato per fare un’esperienza religiosa durante un certo periodo di tempo; essa è il cantare con il coro delle creature e l’entrare nella realtà cosmica stessa. E proprio così la liturgia, apparentemente solo ecclesiastica, diventa larga e grande, diventa nostra unione con il linguaggio di tutte le creature. Egli dice: non si può parlare di Dio in modo astratto; parlare di Dio è sempre un hymnèin – un cantare per Dio con il grande canto delle creature, che si riflette e concretizza nella lode liturgica. Tuttavia, pur essendo la sua teologia cosmica, ecclesiale e liturgica, essa è anche profondamente personale. Egli creò la prima grande teologia mistica. Anzi la parola “mistica” acquisisce con lui un nuovo significato. Fino a quel tempo per i cristiani tale parola era equivalente alla parola “sacramentale”, cioè quanto appartiene al mystèrion, al sacramento. Con lui la parola “mistica” diventa più personale, più intima: esprime il cammino dell’anima verso Dio. E come trovare Dio? Qui osserviamo di nuovo un elemento importante nel suo dialogo tra filosofia greca e cristianesimo, tra pensiero pagano e fede biblica. Apparentemente quanto dice Platone e quanto dice la grande filosofia su Dio è molto più alto, è molto più “vero”; la Bibbia appare abbastanza “barbara”, semplice, precritica si direbbe oggi; ma lui osserva che proprio questo è necessario, perché così possiamo capire che i più alti concetti su Dio non arrivano mai fino alla sua vera grandezza; sono sempre impropri. Le immagini bibliche ci fanno, in realtà, capire che Dio è sopra tutti i concetti; nella loro semplicità noi troviamo, più che nei grandi concetti, il volto di Dio e ci rendiamo conto della nostra incapacità di esprimere realmente che cosa Egli è. Si parla così – è lo stesso Pseudo-Dionigi a farlo – di una “teologia negativa”. Possiamo più facilmente dire che cosa Dio non è, che non esprimere che cosa Egli è veramente. Solo tramite queste immagini possiamo indovinare il suo vero volto che, d’altra parte, è molto concreto: è Gesù Cristo. E benché Dionigi ci mostri, seguendo Proclo, l’armonia dei cori celesti, in cui sembra che tutti dipendano da tutti, il nostro cammino verso Dio, però, rimarrebbe molto lontano da Lui, egli sottolinea che, alla fine, la strada verso Dio è Dio stesso, il Quale si è fatto vicino a noi in Gesù Cristo.

E così una teologia grande e misteriosa diventa anche molto concreta sia nell’interpretazione della liturgia sia nel discorso su Gesù Cristo: con tutto ciò, questo Dionigi Areopagita ebbe un grande influsso su tutta la teologia medievale, su tutta la teologia mistica sia dell’Oriente sia dell’Occidente, fu quasi riscoperto nel tredicesimo secolo soprattutto da San Bonaventura, il grande teologo francescano che in questa teologia mistica trovò lo strumento concettuale per interpretare l’eredità così semplice e così profonda di San Francesco: Bonaventura con Dionigi ci dice alla fine, che l’amore vede più che la ragione. Dov’è la luce dell’amore non hanno più accesso le tenebre della ragione; l’amore vede, l’amore è occhio e l’esperienza ci dà più che la riflessione. Che cosa sia questa esperienza, Bonaventura lo vide in San Francesco: è l’esperienza di un cammino molto umile, molto realistico, giorno per giorno, è questo andare con Cristo, accettando la sua croce. In questa povertà e in questa umiltà – nell’umiltà che si vive anche nella ecclesialità – c’è un’esperienza di Dio che è più alta di quella che si raggiunge mediante la riflessione: in essa tocchiamo realmente il cuore di Dio.

Oggi esiste una nuova attualità di Dionigi Areopagita: egli appare come un grande mediatore nel dialogo moderno tra il cristianesimo e le teologie mistiche dell’Asia, la cui nota caratteristica sta nella convinzione che non si può dire chi sia Dio; di Lui si può parlare solo in forme negative; di Dio si può parlare solo col “non”, e solo entrando in questa esperienza del “non” Lo si raggiunge. E qui si vede una vicinanza tra il pensiero dell’Areopagita e quello delle religioni asiatiche: egli può essere oggi un mediatore come lo fu tra lo spirito greco e il Vangelo.

Si vede così che il dialogo non accetta la superficialità. Proprio quando uno entra nella profondità dell’incontro con Cristo si apre anche lo spazio vasto per il dialogo. Quando uno incontra la luce della verità, si accorge che è una luce per tutti; scompaiono le polemiche e diventa possibile capirsi l’un l’altro o almeno parlare l’uno con l’altro, avvicinarsi. Il cammino del dialogo è proprio l’essere vicini in Cristo a Dio nella profondità dell’incontro con Lui, nell’esperienza della verità che ci apre alla luce e ci aiuta ad andare incontro agli altri: la luce della verità, la luce dell’amore. E in fin dei conti ci dice: prendete la strada dell’esperienza, dell’esperienza umile della fede, ogni giorno. Il cuore diventa allora grande e può vedere e illuminare anche la ragione perché veda la bellezza di Dio. Preghiamo il Signore perché ci aiuti anche oggi a mettere al servizio del Vangelo la saggezza dei nostri tempi, scoprendo di nuovo la bellezza della fede, l’incontro con Dio in Cristo

Autore: Papa Benedetto XVI (Udienza Generale 14.05.2008)

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Tra i pochissimi che, udito il forbito discorso tenuto da Paolo all’Aeropago di Atene, aderirono a lui, Luca nomina « Dionigi l’Aeropagita », membro cioè di quel tribunale, e pertanto appartenente all’aristocrazia ateniese, « e una donna di nome Damaris », forse Damalis; secondo una tradizione riferita da s. Giovanni Crisostomo essa sarebbe la sposa di Dionigi, ma si tratta soltanto di una supposizione senza prova alcuna.
In una lettera di Dionigi, vescovo di Corinto, contemporaneo di papa Sotero, scritta agli ateniesi prima del 175, è detto, come ci ha conservato Eusebio, che Dionigi L’Areopagita morì primo vescovo di Atene; solo una leggenda tardiva lo ha identificato con il primo vescovo di Parigi, martirizzato verso il 270. Tale identificazione troviamo nel Martirologio e nel Breviario Romano, al 9 ottobre Tuttavia nel Vetus Romanum Martyrologium, i due Dionigi sono chiaramente distinti l’uno dall’altro; al 3 ottobre, infatti, si legge: « Athenis, Dionysii Areopagitae, sub Adriano diversis tormentis passi, ut Aristides testis est in opere quod de Christiana religione composuit; e al 9 ottobre:  » Parisiis Dionysii episcopi cum sociis suis a Fescennino cum gladio animadversi  » (PL, CXXIII, col. 171).
La Cronaca che porta il nome di Lucius Dexter identifica s. Dionigi di Parigi con Dionigi l’Areopagita, ma comunemente si nega l’autenticità di questo scritto. Il primo che identificò i due Dionigi fu Hilduinus, abate di S. Dionigi (m. 840), nella Vita s. Dionysii,. Sotto il nome di Dionigi l’Areopagita, vengono citati gli scritti, che probabilmente un monaco siriaco, promosso all’episcopato, compose tra il 480 e il 530 e che conobbero il più grande successo ed esercitarono un grande influsso durante tutto il Medio Evo: De coelesti hierarchia; De mystica theologia; De ecclesiastica hierarchia; De divinis nominibus, e dieci epistulae . Secondo la VII ep., Dionigi e il sofista Apollophanes avrebbero visto l’eclissi del sole nel giorno della crocifissione e secondo De divinis nominibus (III, 2) D. avrebbe assistito alla Dormitio della S.ma Vergine.
Da queste notizie leggendarie si è creduto che l’autore di questi scritti fosse Dionigi l’Areopagita, il discepolo di Paolo: il primo ad affermarlo fu il patriarca monofisita Severo di Antiochia (512-18), in una disputa con gli ortodossi a Costantinopoli, sotto Giustiniano I (533). Ma il portavoce dei cattolici, Hypatios, vescovo di Efeso, osservò che se tali scritti fossero stati di Dionigi, non sarebbero stati ignorati né da s. Cirillo, né da s. Atanasio: argomentazione, questa, che vale ancor oggi. 

San Barnaba, Omelia a cura dei Carmelitani

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/12876.html

Omelia (11-06-2009) 
a cura dei Carmelitani
Commento Matteo 10,7-13

1) Preghiera

O Padre, che hai scelto san Barnaba,
pieno di fede e di Spirito Santo,
per convertire i popoli pagani,
fa’ che sia sempre annunziato fedelmente,
con la parola e con le opere,
il Vangelo di Cristo,
che egli testimoniò con coraggio apostolico.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…

2) Lettura del Vangelo

Dal Vangelo secondo Matteo 10,7-13
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: « Strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento. In qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se vi sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza. Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne sarà degna, la vostra pace scenda sopra di essa; ma se non ne sarà degna, la vostra pace ritorni a voi ».

3) Riflessione

• Oggi è la festa di san Barnaba. Il vangelo parla degli insegnamenti di Gesù ai discepoli su come annunciare la Buona Novella del Regno alle « pecore perdute di Israele » (Mt 10,6). Loro devono: a) guarire i malati, risuscitare i morti, purificare i lebbrosi, scacciare i demoni (v.8); b) annunciare gratuitamente ciò che gratuitamente ricevono (v.8); c) non procurarsi oro, né sandali, né bastone, né bisaccia, né due tuniche (v.9); d) cercarsi una casa dove poter esser accolti fino al termine di una missione (v.11); e) essere portatori di pace (v.13).
• Al tempo di Gesù c’erano vari movimenti che, come lui, erano alla ricerca di una nuova maniera di vivere e convivere, per esempio, Giovanni Battista, i farisei, esseni ed altri. Molti di loro formavano comunità di discepoli (Gv 1,35; Lc 11,1; At 19,3) ed avevano i loro missionari (Mt 23,15). Però c’era una grande differenza! I farisei, per esempio, quando andavano in missione, erano prevenuti. Pensavano che non potevano fidarsi degli alimenti della gente, perché non sempre erano ritualmente « puri ». Per questo, portavano bisaccia e denaro per poter occuparsi loro stessi di ciò che mangiavano. Cosi, le osservanze della Legge della purezza, invece di aiutare a superare le divisioni, indebolivano ancora di più il vissuto dei valori comunitari. La proposta di Gesù è diversa. Il suo metodo traspare nei consigli che lui dà agli apostoli quando li manda in missione. Per mezzo delle istruzioni, cerca di rinnovare e riorganizzare le comunità di Galilea in modo che fossero di nuovo un’espressione dell’Alleanza, una mostra del Regno di Dio.
• Matteo 10,7: L’annuncio della vicinanza del Regno. Gesù invita i discepoli ad annunciare la Buona Novella. Loro devono dire: « Il Regno dei cieli è vicino! » Cosa vuol dire che il Regno è vicino? Non significa una vicinanza nel tempo, nel senso che basta aspettare un poco di tempo e dopo il Regno verrà. « Il Regno è vicino » significa che già è alla portata della gente, già « è in mezzo a voi » (Lc 17,21). E’ bene acquisire uno sguardo nuovo, per poter percepire la sua presenza o prossimità. La venuta del Regno non è frutto della nostra osservanza, come volevano i farisei, ma si rende presente, gratuitamente, nelle azioni che Gesù raccomanda agli apostoli: guarire i malati, risuscitare i morti, purificare i lebbrosi, scacciare i demoni.
• Matteo 10,8: Guarire, risuscitare, purificare, scacciare. Malati, morti, lebbrosi, posseduti erano gli esclusi dalla convivenza, ed erano esclusi in nome di Dio. Non potevano partecipare alla vita comunitaria. Gesù ordina di accogliere queste persone, di includerle. Il Regno di Dio si rende presente in questi gesti di accoglienza e di inclusione. In questi gesti di gratuità umana si nota l’amore gratuito di Dio che ricostruisce la convivenza umana e ricuce i rapporti interpersonali.
• Matteo 10,9-10: Non portare nulla. Al contrario degli altri missionari, gli apostoli non possono portare nulla: « Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento ». L’unica cosa che potete e dovete portare è la Pace (Mt 10,13). Ciò significa che devono fidarsi dell’ospitalità e della condivisione della gente. Perché il discepolo che non porta nulla con sé e porta la pace, indica che ha fiducia nella gente. Crede che sarà ricevuto, e la gente si sente valorizzata, apprezzata e confermata. L’operaio ha diritto al suo alimento. Facendo questo, il discepolo critica le leggi di esclusione e riscatta gli antichi valori della condivisione e della convivenza comunitaria.
• Matteo 10,11-13: Vivere insieme ed integrarsi in comunità. Giungendo a un luogo, i discepoli devono scegliere una casa di pace e lì devono rimanere fino alla fine. Non devono passare da una casa all’altra, bensì vivere lì stabilmente. Devono divenire membri della comunità e lavorare per la pace, cioè per ricostruire i rapporti umani che favoriscono la Pace. Per mezzo di questa pratica, loro riscattano un’antica tradizione della gente, criticano la cultura di accumulazione, tipica della politica dell’impero romano ed annunciano un nuovo modello di convivenza.
• Riassunto: le azioni raccomandate da Gesù per l’annuncio del Regno sono queste: accogliere gli esclusi, fidarsi dell’ospitalità, spingere alla condivisione, vivere stabilmente e in modo pacifico. Se questo avviene, allora possiamo e dobbiamo gridare ai quattro venti: Il Regno è tra di noi! Annunciare il Regno non consiste in primo luogo nell’insegnare verità e dottrine, catechismo o diritto canonico, ma portare le persone ad una nuova maniera di vivere e convivere, una nuova maniera di pensare e di agire partendo dalla Buona Novella, portata da Gesù: Dio è Padre e Madre, e quindi tutti siamo fratelli e sorelle.

4) Per un confronto personale

• Perché tutti questi atteggiamenti raccomandati da Gesù sono segni del Regno di Dio in mezzo a noi?
• Come fare oggi ciò che Gesù ci chiede: « Non portare bisaccia », « Non passare di casa in casa »?

5) Preghiera finale
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto prodigi.
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo. (Sal 97) 

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