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GENESI 22, L’EPISTOLA AGLI EBREI, E UNA ERMENEUTICA BASATA SULLA FEDE

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GENESI 22, L’EPISTOLA AGLI EBREI, E UNA ERMENEUTICA BASATA SULLA FEDE

[conferenza tenuta al Pontificio Istituto Biblico dal R.P. James Swetnam, S.J., il 5 novembre 2003, a conclusione della sua attività di insegnamento accademico]

Uno dei testi fondamentali nell’Antico Testamento, sia in se stesso che nell’interpretazione degli autori cristiani, è il racconto del sacrificio di Isacco da parte di Abramo in Genesi 22,1-18. Footnote Il presente studio cercherà: 1) di capire il significato di Genesi 22,1-18 (Parte I); 2) di vedere come l’epistola agli Ebrei interpreti Genesi 22,1-18 (Parte II); 3) di indicare come il libro del Cardinale John Henry Newman, Grammatica dell’assenso, possa giustificare una ermeneutica centrata sulla fede, con riferimento all’esegesi sviluppata nelle prime due parti precedenti (Parte III).
Parte I. Genesi 22,1-18
Il sacrificio di Isacco da parte di Abramo è stato un vero e proprio pomo della discordia nella storia recente della ricerca biblica. Footnote Con l’Illuminismo il sacrificio di Isacco è stato spesso visto come azione immorale. Footnote Ma tale giudizio negativo era per lo più basato su interpretazioni del sacrificio di Abramo che non tengono conto del contesto. Nel modo in cui Genesi 22 viene interpretato come parte del testo canonico dell’Antico Testamento soltanto o dell’Antico e Nuovo Testamento insieme, in varie tradizioni religiose, i versi non presentano a questo proposito alcun problema insolubile. Footnote
Ci sono tre categorie generali la cui pertinenza sembra essere utile in una breve discussione sulle implicazioni di Genesi 22,1-18 nel testo canonico dell’Antico Testamento: 1) l’alleanza; 2) il sacrificio; 3) la fede. Prese insieme, queste tre categorie permettono di entrare nel testo in modo appropriato.
A. L’ alleanza
Per capire bene il sacrificio di Isacco da parte di Abramo è molto importante tener conto del ruolo dell’alleanza nel testo canonico. Genesi 22,1 afferma che Dio “mette alla prova” (ebr.:nsh, gr.: peirazein) Abramo. Cioè, Dio prepara una prova per verificare se il suo figlio è “fedele” (ebr.: n’mn, gr. pistos). Footnote Il testo di Genesi 22 è il culmine di una progressione che consiste in una chiamata, una promessa, e un’alleanza con giuramento. Footnote La chiamata si trova in Genesi 12,1-3, ed è composta di tre elementi che comportano ciascuno una benedizione: 1) una benedizione che riguarda una terra e una nazione (12,1-2a), 2) una benedizione che riguarda una dinastia (12,2b), e 3) una benedizione che riguarda il mondo intero (12,3 insieme con 12,2). Footnote Queste tre benedizioni sembrano corrispondere ai tre episodi di alleanza nei capitoli 15, 17 e 22 della Genesi. Footnote In Genesi 15 l’episodio con la divisione degli animali indica un’alleanza nella quale i discendenti di Abramo vivranno come nazione in una terra stabilita. In Genesi 17 l’enfasi viene posta sul “nome” di Abramo che sarà reso grande: si tratta cioè di una dinastia. E in Genesi 22,16-18, il punto culminante, si tratta di una benedizione per tutte le nazioni. Footnote Genesi 22,1-18 può essere quindi visto come il punto culminante della vita di Abramo, così come viene presentata nel testo canonico della Sacra Scrittura. Dopo questo episodio, Abramo compare nella narrazione soltanto in relazione alla morte di Sara (Genesi 23) e al matrimonio di Isacco (Genesi 24). La sua vita e il suo destino considerati nei suoi rapporti con Dio, sono delineati in Genesi 22. Footnote Il giuramento di Dio fatto ad Abramo in Genesi 22 può essere considerato il punto culminante e conclusivo di tutta questa serie di episodi che toccano l’alleanza. Footnote Il giuramento, incorpora, per così dire, il risultato positivo della prova di Abramo nella benedizione data a tutte le nazioni, in modo tale che la fede di Abramo ormai fa parte del destino della sua discendenza. Footnote
Il contesto di alleanza in Genesi 22 è fondamentale per capire il significato del brano. Si tratta, cioè, della prova della fede di Abramo nel Dio dell’alleanza e nella fedeltà di questo Dio nel concedere le benedizioni promesse, nonostante l’evidente contraddizione fra queste promesse e l’ordine di uccidere Isacco. Inoltre, Abramo era sicuramente consapevole che si trattava di una prova, che si trovava di fronte a un dilemma cruciale in cui era secondario il suo affetto filiale. Ad essere in gioco era il senso di un’esistenza centrata su Dio non soltanto per Abramo stesso, ma anche per Isacco e per tutti coloro che dovevano dipendere da lui nei loro rapporti con Dio. Footnote In altre parole: il comando di Dio ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco era una questione della massima importanza, sia per Abramo sia per Dio stesso. Footnote
Che il comando di Dio ad Abramo fosse una questione seria per Dio stesso così come per Abramo non è stato forse notato abbastanza. Quando infatti Dio dà il comando ad Abramo, implicitamente mette a rischio tutto il progetto della sua alleanza con lui. Dal punto di vista narrativo Dio sta aspettando il risultato della reazione libera di Abramo a tale prova: un rifiuto di Abramo di sacrificare Isacco avrebbe indicato che Abramo non aveva superato la prova della sua fede. Footnote Di consequenza, il progetto di alleanza e tutti gli aspetti connessi erano presumibilmente destinati al fallimento, e la storia della salvezza avrebbe dovuto subire una svolta radicale.
B. Il sacrificio
Una seconda grande prospettiva a partire dalla quale Genesi 22 deve essere interpretato è quella del sacrificio. C’è qui una connessione tra sacrificio e il luogo in cui si svolge l’azione di Genesi 22. C’è fondato motivo di identificare il luogo (ebr.: mryh – “Moria”) menzionato nel versetto 2 con Gerusalemme. Footnote Se quest’interpretazione è vera, allora Genesi 22 diventa il testo fondamentale dell’Antico Testamento per capire il sacrificio di animali come praticato nel tempio di Gerusalemme. Inoltre, questo spiegherebbe perché il Pentateuco parli così poco del significato di tali sacrifici. Footnote Il tipo principale di sacrificio indicato nei libri del Levitico e del Deuteronomio è l’olocausto (ebr.: ‘lh, gr.: olokaustôma, olokauston). Footnote Questo tipo di sacrificio è precisamente quello che Dio chiede ad Abramo per Isacco, e quello che Abramo effettivamente compie con l’ariete alla fine del racconto (Genesi 22,2.13). Footnote
La categoria del sacrificio nell’interpretazione di Genesi 22 non ha sempre ricevuto la rilevanza che merita. Questa mancanza d’attenzione all’aspetto di sacrificio distorce l’esegesi del capitolo che deve aver guidato generazioni di fedeli lettori israeliti. Inoltre, questa mancanza distorce la possibile pertinenza che Genesi 22 deve avere per il lettore contemporaneo del testo canonico. Mostrando esattamente come il sacrificio possa avere influenza sull’esistenza umana come personificata in Abramo, Genesi 22 è di cruciale importanza per capire la rivelazione di Dio nella Bibbia.
C. La fede
Le prospettive riguardanti alleanza e sacrificio indicano la centralità della fede nella risposta di Abramo a Dio. Alleanza e sacrificio trovano il loro centro in Dio così come egli si manifesta ad Abramo (alleanza) e come Abramo risponde al comando di Dio (sacrificio). Ciò che motiva Abramo è la fede. Footnote Aver fede significa considerare Dio come affidabile (ebr.: h’myn, gr.: pisteuein), avere fiducia in lui, credere che egli manterrà i suoi impegni e onorerà i suoi doveri. Footnote Siccome la fede di Abramo era basata sulla sua alleanza con Dio, egli era consapevole di ciò che era in gioco, e sapeva non soltanto ciò che Dio si aspettava da lui (ubbidienza) ma anche ciò che Dio si aspettava da se stesso (compimento delle promesse): la sua fede era una specie di conoscenza. Ciascuno dei due conosceva i doveri di se stesso e dell’altro. È grazie a questa conoscenza che Abramo poteva resistere alla prova che Dio aveva preparato per lui: Abramo sapeva che Dio in qualche maniera avrebbe provveduto alla soluzione di quello che, al di fuori del contesto di fede, era un problema insolubile. In altre parole, le parole di Genesi 22,8 (“Dio stesso provvederà un agnello per l’olocausto”) devono essere intese non come quelle ansiose di un padre sconvolto, indirizzate ad un figlio perplesso, ma come espressione di una certezza basata sulla fede.
Quindi nel ricercare la pertinenza di Genesi 22 per il lettore di oggi, la fede è l’elemento più importante. Essa fornisce le basi per il significato religioso del testo originale e per l’importanza di quel testo per il lettore di oggi—o per il lettore di ogni tempo. Footnote Di conseguenza, qualsiasi tentativo di interpretare Genesi 22, se vuole affrontare la pertinenza del testo per il mondo contemporaneo, deve basarsi sulla fede di Abramo.
Ci sono però due possibili modi di approccio alla fede di Abramo da parte del lettore contemporaneo. Il lettore può mettersi di fronte al testo nella prospettiva di fede di Abramo, o al di fuori di essa. Può cioè condividere in quanto possibile la fede di Abramo, vivendo con lui gli avvenimenti di Genesi 22, o può rimanere come spettatore di questi avvenimenti. La sfida ermeneutica di Genesi 22 sta proprio qui.
Non c’è niente nel testo che costringa il lettore a scegliere di partecipare alla fede di Abramo, a incorporare (per così dire) la fede di Abramo nella propria fede. L’atteggiamento assunto dipende dalla libera scelta del lettore. La libertà di Dio nel chiamare Abramo e nel metterlo alla prova, la libertà di Abramo nel rispondere a questa chiamata e a questa prova, vengono rispecchiate nella libertà del lettore di fronte al testo, nella sua forma attuale. Ovviamente questo non riguarda solo Genesi 22; è una scelta che si presenta ad ogni lettore della Bibbia di fronte a qualsiasi testo. Ma in Genesi 22 questa scelta si presenta con una immediatezza quasi unica.
Parte II. L’epistola agli Ebrei e Genesi 22
L’epistola agli Ebrei presta una particolare attenzione a Genesi 22. Questa particolare attenzione può servire da guida nel comprendere come i primi cristiani interpretavano questo testo chiave nella loro comprensione della realtà di Gesù Cristo.
A. L’epistola agli Ebrei e la fede di Abramo
L’epistola agli Ebrei mette in rilievo la fede di Abramo nella sua esegesi di Genesi 22:
17Per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, 18 del quale era stato detto: In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome. 19Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe e fu come un simbolo (Ebrei 11,17-19). Footnote
Il testo, teologicamente parlando, è suggestivo. Si mette in grande rilievo la “fede” (pistis). Nel capitolo 11 dell’epistola la fede viene attribuita a diversi eroi dell’Antico Testamento, e viene descritta in 11,2-3.6. Footnote Il verbo “offrire [in sacrificio]” ricorre due volte nel versetto 17. La prima volta viene usato nel tempo perfetto (prosenênochen, “offrì” nella traduzione della CEI, ma meglio “ha offerto”), cioè la disposizione d’Abramo a sacrificare suo figlio è il punto chiave di Genesi 22 che l’autore vuole scegliere come base per la sua interpretazione di tutto il testo. La seconda volta il verbo viene usato nel tempo imperfetto (prosepheren, “cercava di offrire”). Questo imperfetto conativo descrive come Abramo stava per essere messo alla prova (peirazomenos). I termini della prova sono espressi con chiarezza: Abramo stava offrendo il suo “unico figlio” (monogenê), proprio “che aveva ricevuto le promesse” (ho tas epaggelias anadexamenos). E si specifica quale fosse la promessa: “. . . del quale era stato detto: In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome” (pros hon elalêthê hoti en Isaac klêthêsetai soi sperma). Queste osservazioni indicano che l’autore dell’epistola ha letto il testo di Genesi 22 con cura, e che ha capito i parametri della prova con precisione. Ciò che segue è una straordinaria interpretazione del ragionamento che sta dietro la fede di Abramo in Dio: “. . . Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti” (logisamenos hoti kai ek nekrôn egeirein dunatos ho theos).
Il modo quasi ovvio in cui l’autore dell’epistola attribuisce ad Abramo la fede nella risurrezione dai morti non deve nascondere le implicazioni di ciò che viene affermato. Innanzitutto, il ragionamento di Abramo sembra essere ben fondato e verosimile, data la sua precedente fede nella nascita di Isacco dal suo corpo “morto” e dall’utero “morto” di Sara. Footnote Data la fede eroica manifestata in Genesi 22 non c’è niente di arbitrario o forzato in questa esegesi. Se la promessa di Dio di una discendenza per mezzo di Isacco (v. 18) doveva essere accettata con fede senza riserva, e se il comando di sacrificare Isacco era, per Abramo, richiesto da Dio, la fede nella risurrezione dei morti sembra essere una conclusione legittima, anzi, forse l’unica conclusione possibile. Inoltre, l’attribuzione ad Abramo della fede nella risurrezione dai morti è degna di nota. Abramo è all’inizio della fede dell’Antico Testamento, e questa fede è stata tradizionalmente compresa come agnostica riguardo alla risurrezione dai morti. Footnote Nel testo di Ebrei un autore cristiano, che ha studiato profondamente le radici veterotestamentarie della sua fede cristiana, dichiara apertamente che Abramo credeva nella risurrezione dai morti. Footnote Infine, se l’atteggiamento interiore di Abramo nel sacrificare il proprio figlio Isacco è da capire come paradigmatico per l’atteggiamento interiore per i successivi sacrifici nell’Antico Testamento, questa espressione dell’autore dell’epistola è veramente impressionante. L’autore dell’epistola sembra attribuire questo atteggiamento, almeno in modo implicito, a tutti coloro che offrivano sacrifici nell’Antico Testamento.
Ciò che sembra accadere in Ebrei 11,19 è che l’autore, guidato dalla sua fede nella risurrezione di Gesù (cfr. Ebrei 13,20), proietta questa fede nel mondo di Abramo. Ma questo modo di procedere non fa violenza al testo di Genesi nel capitolo 22. Inoltre, questa attribuzione ad Abramo della fede nella risurrezione si adatta al contesto della fede eroica del patriarca come descritta in Genesi 22. La seconda parte di Ebrei 11,19 conferma l’opinione che l’autore dell’epistola metteva in relazione la reintegrazione di Isacco con la risurrezione di Gesù, perché dice che tale reintegrazione fu un “simbolo” della risurrezione di Gesù. Footnote
B. L’epistola agli Ebrei e il giuramento fatto ad Abramo
L’epistola agli Ebrei fa allusione al sacrificio di Isacco nel versetto 6,14, citando il testo di Genesi 22,17. È utile conoscere il contesto di questa citazione.
13Quando infatti Dio fece la promessa ad Abramo, non potendo giurare per uno superiore a sé, giurò per se stesso, 14dicendo: Ti benedirò e ti moltiplicherò molto. 15Così, avendo perseverato, Abramo conseguì la promessa. 16Gli uomini infatti giurano per qualcuno maggiore di loro e per loro il giuramento è una garanzia che pone fine ad ogni controversia. 17Perciò Dio, volendo mostrare più chiaramente agli eredi della promessa l’irrevocabilità della sua decisione, intervenne con un giuramento 18perché grazie a due atti irrevocabili, nei quali è impossibile che Dio mentisca, noi che abbiamo cercato rifugio in lui avessimo un grande incoraggiamento nell’afferrarci saldamente alla speranza che ci è posta davanti (Ebrei, 6,13-18).
Questi sei versetti, Ebrei 6,13-18, vengono citati per appoggiare l’esortazione dell’autore ai suoi lettori di mostrarsi diligenti e pronti ad imitare gli eredi delle promesse e ricevere le promesse per mezzo della fede e della perseveranza. Così si spiega la presenza di “infatti” all’inizio del versetto 16.
Che l’autore di Ebrei abbia in mente Genesi 22 si nota non soltanto dalla citazione di Genesi 22,17 in Ebrei 6,14, ma anche dall’allusione al giuramento di Genesi 22,16 in Ebrei 6,13. Questo fa pensare che per l’autore di Ebrei il giuramento ha una stretta relazione con la benedizione e la moltiplicazione della discendenza di Abramo. Il significato dei “due atti irrevocabili” menzionati in Ebrei 6,18 è molto discusso. Footnote Il testo di Ebrei 6,13-14 sembra dare una prima indicazione per la soluzione del problema: i “due atti irrevocabili” sono il giuramento di Genesi 22,16 e la promessa di Genesi 22,17. Questi due atti vengono messi insieme in Ebrei così come lo sono in Genesi. Le parole della promessa sono chiare—parlano della moltiplicazione della discendenza di Abramo. Footnote Il giuramento serve a rafforzare la promessa; così che quando Abramo riceve la promessa a conclusione della sua eroica perseveranza dopo il comando di sacrificare Isacco (6,15), la promessa è rinforzata da un giuramento. Abramo viene presentato come uno che ha “ricevuto” la promessa. Ma è evidente dal modo in cui l’autore dell’epistola usa le parole epitugchanô e komizô che anche se Abramo ha “ricevuto” (epitugchanô – 6,15; cfr. 11,33) la promessa rinforzata da un giuramento dopo il sacrificio di Isacco, egli non ha “ricevuto” (komizô) ciò che viene promesso—la discendanza. L’autore di Ebrei fa uso del verbo komizô per indicare la ricezione di ciò che viene promesso—cfr. 11,13.39. Footnote L’intenzione dell’autore dell’epistola viene manifestata dalla quarta e ultima ricorrenza di komizô: in 11,19 egli dice che Abramo ricevette (komizô) Isacco dopo il sacrificio “come simbolo” (en parabolêi). In altre parole, l’oggetto della promessa ad Abramo dopo il sacrificio di Isacco—discendenza—viene ricevuto soltanto con la venuta di Cristo: Cristo stesso è questa discendenza.
Se il contenuto della promessa ad Abramo è Cristo, il giuramento fatto da Dio in Genesi è un giuramento che al livello più profondo si riduce a un’azione simbolica che prefigura la concessione definitiva della cosa promessa che è Cristo. Si spiega così perché l’autore di Ebrei enfatizzi il giuramento fatto da Dio a Gesù al momento della risurrezione (cfr. 7,20-21). Questo giuramento fu prefigurato dal giuramento di Dio dopo il sacrificio di Isacco come Cristo fu prefigurato da Isacco. Questo è il giuramento che risulta nella concessione di ciò che fu promesso—la discendenza che è Cristo. Footnote
Identificando il giuramento del Salmo 110,4 con il compimento del giuramento di Genesi 22,16 e collocando il giuramento nel contesto esplicito della moltiplicazione della discendenza ad Abramo, l’autore dell’epistola ha effettuato una trasformazione profonda nella natura di questa discendenza. Adesso, la vera e definitiva discendenza di Abramo viene non tramite il suo figlio fisico, Isacco, ma tramite il suo figlio spirituale, Gesù Cristo, del quale Isacco fu un “simbolo”, proprio in riferimento alla risurrezione di Gesù (e, nel contesto di Ebrei, in riferimento anche al giuramento del Salmo 110,4 che viene menzionato con la risurrezione). L’autore dell’epistola agli Ebrei pensa che questa discendenza possa essere descritta meglio ricorrendo alla figura veterotestamentaria di Melchisedek, nel cui contesto Gesù Cristo emerge come il definitivo sovrano sacerdote. Come sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek, Gesù Cristo rimpiazza il sommo sacerdozio levitico che aveva dato finora identità ai discendenti di Abramo (cfr. Ebrei 7,11). Questo nuovo sommo sacerdote è il Figlio di Dio stesso (Ebrei 7,3). Footnote Egli è la fonte della speranza definitivamente migliore, che è la causa dell’incoraggiamento dei destinatari. Colui per mezzo del quale Dio ha fatto il mondo (Ebrei 1,2) è colui per mezzo del quale Dio benedice in modo definitivo e moltiplica la discendenza di Abramo. Sul fondamento del sacerdozio di Cristo viene creato un nuovo popolo (cfr. Ebrei 7,12), un popolo esteso a tutto il genere umano. Per mezzo di un figlio spirituale, che trascende il tempo, la discendenza di Abramo si estende a tutti gli uomini di tutti i tempi, prima di Abramo e dopo di Abramo. Così l’autore dell’epistola interpreta Genesi 22,17, con la sua promessa che Dio benedirà e moltiplicherà la discendenza di Abramo.
C. L’epistola agli Ebrei e la pertinenza della fede
Come, davanti a Genesi 22, al lettore è richiesta una scelta ermeneutica, così gli è richiesta ugualmente una scelta ermeneutica davanti all’interpretazione di Genesi 22 nell’epistola agli Ebrei. Egli può scegliere di condividere o meno la fede che l’autore dell’epistola aveva nella pertinenza cristiana di Genesi 22. Può cioè scegliere di essere coinvolto nei ruoli di Abramo e di Cristo in Genesi 22 come visti dall’autore di Ebrei, o può rimanere un semplice spettatore. Questa è la sfida ermeneutica di Genesi 22 come presentata nella epistola agli Ebrei.
Ogni lettore dell’epistola agli Ebrei si avvicina al testo con un insieme di preconcezioni, allo stesso modo in cui ogni lettore si avvicina a Genesi con un insieme di preconcezioni. E tali preconcezioni determinano in gran parte la sua scelta ermeneutica. Un cristiano che lascia penetrare la propria fede in ogni aspetto della sua vita si identificherà automaticamente con la fede dell’autore dell’epistola. Per un tale credente il credere di Abramo in Genesi 22 si colloca nella stessa categoria della fede che l’autore di Ebrei ha in Cristo che dà al racconto di Genesi 22 una nuova dimensione. Secondo l’interpretazione dell’autore, con l’avvento di Cristo il racconto di Genesi 22 assume un significato più profondo: la fede di Abramo diventa una fede nel potere di Dio di fare risorgere dai morti, e il giuramento fatto ad Abramo trova il suo compimento nel giuramento fatto da Dio a Gesù al momento della sua risurrezione affinché il suo sacerdozio terreno diventi un sacerdozio secondo l’ordine di Melchisedek, cioè un sacerdozio che trascende i limiti umani
Un’ultima verità, anch’essa cruciale per la fede di Abramo come vista dall’autore dell’epistola agli Ebrei, deve essere notata: l’ubbidienza di Abramo viene premiata da Dio con il dono di Isacco come simbolo della risurrezione di Gesù. Così la fede di Abramo rientra nella Provvidenza Divina nel portare a compimento il ruolo di Cristo come sommo sacerdote per tutta l’umanità. Secondo Ebrei 11,17-19 Abramo ricevette Isacco come “simbolo” (parabolên), Footnote cioè ricevette Isacco come simbolo della realtà escatologica che è Gesù risorto. Footnote La ragione di Abramo viene espressa in Ebrei 11,19a: “Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti”. Poi, il testo continua, “per questo (hothen) lo riebbe e fu come un simbolo”. Footnote In altre parole, la fiducia di Abramo viene premiata con il dono non soltanto di Isacco ma di Gesù che viene prefigurato da Isacco. Siccome Ebrei 11,17-19 si trova in una sezione dove la fede viene presentata come risultato di un premio da parte di Dio che “ricompensa” (misthapodothês – cfr. Ebrei 11,6), se ne deduce che il dono supremo della risurrezione di Gesù e tutto ciò che ne consegue è in un certo senso un “premio” per la fedeltà di Abramo che ha superato la prova imposta da Dio. Footnote Così il giuramento di Dio come ultimo atto di Genesi 22 contiene qualche cosa di nuovo per l’autore di Ebrei: il ruolo della fede di Abramo entra nel dono del Gesù risorto e di conseguenza in tutto ciò che questo dono significa per il mondo, come già sottolineato sopra. Dio ha riconosciuto la fede nell’alleanza di Abramo ed ha risposto nel linguaggio della sua fedeltà all’alleanza. Footnote Ma lo fa in un modo completamente inaspettato.
Un ultimo passo è necessario per delineare una soddisfacente ermeneutica di Ebrei: occorre esplorare i presupposti che spingono il lettore cristiano a credere in una interpretazione cristiana della fede di Abramo.
Parte III. Le precomprensioni della fede cristiana e il libro Grammatica dell’assenso del Cardinale Newman
Nessuno si accosta a un testo scritto senza precomprensioni. Se questo è vero per qualsiasi testo scritto, lo è ancora di più per un testo religioso come la Bibbia. Ed è vero, in particolare, per il capitolo 22 della Genesi e per la sua interpretazione cristiana nell’epistola agli Ebrei. Sopra abbiamo notato che l’unico modo appropriato per una corretta interpretazione di Genesi 22 è quello che tiene conto del suo posto nel più ampio contesto della Scrittura. Infatti il sacrificio di Isacco da parte di Abramo per l’autore di Genesi 22 era da comprendersi in un contesto molto più ampio del testo stesso. Footnote E questo contesto più ampio comprende questioni di culto e di morale talmente importanti che Genesi 22 è stato al centro delle discussioni delle relazioni dell’uomo con Dio. Footnote Data la natura fondamentale delle questioni coinvolte in Genesi 22, è impossibile che il lettore si accosti a questo testo senza precomprensioni o preconcezioni. Tali precomprensioni possono essere quelle di un credente o di un non credente; ma, quale che sia la loro natura, esse sono presenti e tale presenza deve essere presa seriamente in considerazione, perché incide inevitabilmente nella interpretazione del testo biblico.
Sopra abbiamo notato, in funzione dell’ermeneutica contemporanea, che l’atteggiamento ermeneutico dipende da una scelta: il lettore sceglie il suo approccio al testo. Footnote Tale scelta, però, non avviene in un vuoto di valori: è inevitabile che alla base dell’atteggiamento ermeneutico del lettore ci siano le sue precomprensioni. Di conseguenza la scelta di un determinato atteggiamento ermeneutico deve essere valutato alla luce delle sue precomprensioni.
È in questo contesto che sembra appropriato il riferimento al libro di John Henry Newman, Grammatica dell’assenso, Footnote terminato dal Newman nel gennaio del 1870. Footnote L’intuizione fondamentale che permise all’autore di portare a termine il suo libro è quella che costituisce il nucleo del libro stesso: l’atto dell’assenso della persona umana non è il risultato di un atto riflesso che si chiama certezza, ma l’atto che risulta da una varietà di cause concomitanti che operano in ciò che il Newman chiama il “senso illativo”. Footnote Il senso illativo, per Newman, è l’uso personale della ragione per una questione concreta. Footnote Egli insiste sulla natura personale di tale uso della ragione, Footnote citando come autorità in questo senso Aristotele e la Scrittura. Footnote Data la natura personale di tale uso della ragione in riferimento a una realtà concreta, il ruolo della coscienza nella religione è per Newman inevitabile:
La grande maestra di religione che portiamo in noi è… la coscienza. Essa è la nostra guida personale; io me ne servo perché mi servo di me stesso; non potrei pensare con altra testa dalla mia, come posso respirare solo con i mie polmoni. Nessun altro mezzo di conoscenza è così alla mia portata. Footnote
Degno di nota è l’uso del termine “conoscenza” nell’ultima frase: in merito alla religione, la coscienza è uno strumento di conoscenza. Ne consegue che la Sacra Scrittura non è una pura raccolta di verità astratte, ma un insegnamento autorevole.
Le Scritture parlano in questo senso dalla prima all’ultima riga. La Rivelazione non è una pura raccolta di verità, o un testo filosofico o un testo dato al sentimento, allo spirito religioso, o una fiumana di massime morali… è un insegnamento autorevole che fa da testimone a se stesso e mantiene la sua unità in contrasto con la congerie d’opinioni ammassata tutto intorno; un insegnamento che parla a tutti gli uomini, sempre e ovunque nello stesso modo, ed esige d’essere ascoltato con intendimento da coloro a cui è rivolto: è una dottrina, una disciplina e una devozione largita direttamente dall’alto.Footnote
Questo punto di vista è, naturalmente, il risultato dell’uso da parte dello stesso Newman della propria coscienza come strumento di conoscenza. Egli giunge alla convinzione di questo senso globale grazie, in parte, alla guida personale della sua coscienza, e a tale convinzione egli dà un reale assenso. Footnote Newman conclude la sua opera presentando le ragioni per credere nella Chiesa cattolica come dono provvidenziale di Dio da accettare con fede. Footnote Una fede, comunque, che è associata a un insieme di probabilità che danno la certezza risultante dall’uso legittimo del senso illativo.
Conclusione
Siamo partiti con una presentazione, nella I Parte, di Genesi 22 con le sfide connesse con l’interpretazione. Date le espliciti connessioni con l’alleanza e il culto, è stata presentata un’esegesi basata sull’accettazione dell’alleanza e del culto come parte di quell’ordinamento religioso di cui l’Antico Testamento è una testimonianza scritta. È stato detto che la risposta appropriata a Genesi 22 è una risposta di fede, una fede che rispecchi quella del protagonista del racconto, Abramo. Il contenuto stesso di Genesi 22 suggerisce questa interpretazione di fede, ma si tratta di una lettura che considera la fede come causa conveniente, non come causa costringente. È stato anche detto che l’accettazione di Genesi 22 in uno spirito di fede è frutto di un’ermeneutica di libera scelta.
Nella II parte è stata suggerita un’interpretazione di Genesi 22 così come vista dall’autore dell’epistola agli Ebrei. Questa interpretazione ruota intorno alla fede di Abramo e al giuramento di Dio fatto allo stesso patriarca dopo che questi ha superato la prova. Il giuramento di Dio in Genesi 22, secondo l’autore di Ebrei, conferisce a Cristo un ruolo che trasforma la discendenza fisica di Abramo a un livello che trascende quello fisico e comprende così tutta l’umanità. Come nel testo originale di Genesi 22, anche nella sua interpretazione in Ebrei la fedeltà di Abramo diventa parte della benedizione espressa dal giuramento. L’interpretazione data dall’autore di Ebrei era vista in funzione della sua fede in Gesù Cristo. Ed è stato indicato come fosse opportuna una lettura del testo accompagnata dalla fede, ma, anche qui, la fede era considerata come il risultato di un’ermeneutica di libera scelta. La fede veterotestamentaria del credente ebreo era incorporata nella fede neotestamentaria del cristiano.
Infine, nella III parte, è stato fatto il tentativo di basare questa ermeneutica di scelta esegetica su un’ermeneutica di precomprensioni/preconcezioni esegetiche. Si è fatto riferimento al libro di John Henry Newman, Grammatica dell’assenso, per mostrare come il “senso illativo” proposto dall’autore fosse un elemento fondamentale per comprendere le precomprensioni di un credente cristiano (nel caso di Newman, del credente cattolico). Data l’importanza della coscienza nella formazione della precomprensione che sta alla base della fede cristiana, diventa qui ugualmente chiaro il ruolo della scelta morale.
Tutto sommato, è l’esegeta come persona a essere responsabile dell’atteggiamento ermeneutico per l’interpretazione di un determinato testo della Scrittura, prima di tutto in considerazione della precomprensione che guida la sua scelta verso un certo tipo di approccio, poi in considerazione della scelta stessa. È evidente che Genesi 22 presenta Abramo come uomo di fede; è evidente anche che l’epistola agli Ebrei presenta Abramo, in Genesi 22, come un uomo di fede, considerando Gesù Cristo come il compimento di quella fede. Ma se l’esegeta debba mettersi in sintonia o meno con questa fede è una questione che dipende dalla sua scelta, una scelta al tempo stesso remota e prossima.
Nell’attribuire un atteggiamento ermeneutico alla scelta personale, non bisogna dimenticare la tendenza del testo stesso: il testo stesso è un invito a condividere la fede dell’autore. È chiaro, dal modo in cui Genesi 22 è costruito e dal modo in cui l’epistola agli Ebrei considera Genesi 22 alla luce di Gesù Cristo, che gli autori di questi testi erano credenti e che li hanno scritti per altri credenti, attuali o potenziali. L’autore dell’epistola agli Ebrei parla spesso di “noi”, cioè di “noi credenti” (cf. 1,2; 2,3; 3,6; ecc.): è un credente, e credenti sono anche i suoi destinatari. Nel loro livello profondo questi testi invitano a condividere la fede dei loro protagonisti, non ad essere dei semplici spettatori di questa fede. Come osserva Kierkegaard in merito al testo biblico sull’obolo della vedova (Marco 12,41-44), accettare il racconto così com’è, cioè presupponendo la fede della vedova, trasforma l’offerta in qualcosa di “molto di più”. Questa è la sfida di Genesi 22, come appare sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento.
… colui che con “simpatia” accetta il libro e gli riserva un posto d’onore, colui che, con “simpatia”, accettandolo, fa di questo libro, attraverso se stesso e attraverso la sua accoglienza, ciò che il tesoro fece del soldo della vedova: santifica l’offerta, gli dà significato, e la trasforma in “molto di più”

LA BELLEZZA SECONDO LE SACRE SCRITTURE – RINALDO FABRIS

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=146

LA BELLEZZA SECONDO LE SACRE SCRITTURE

SINTESI DELLA RELAZIONE DI RINALDO FABRIS

Verbania Pallanza, 18 novembre 2000

È un tema inconsueto quello della bellezza nella Bibbia. In passato l’interesse prevalente era per la verità, soprattutto pratica, e pertanto per la morale.
Ogni realtà creata, secondo la bibbia, è ambivalente, ha potenzialità positive e negative. Questo vale per la bellezza, come per la conoscenza, il potere, il possesso dei beni. L’ambivalenza contiene un appello alla responsabilità, alla decisione, alla scelta delle creature umane.
La bellezza nell’ambito biblico è inserita nell’orizzonte della fede in Dio come fonte e modello di ogni splendore e bellezza.
La bellezza viene integrata, redenta, o forse riscattata dalla sua ambivalenza grazie all’impegno etico e alla dimensione spirituale. Lo spazio dato alla bellezza nel Primo Testamento non riguarda tanto le forme pittoriche o architettoniche (ad eccezione del tempio), quanto la creazione, l’essere umano e in particolare alcune figure in cui la bellezza fisica si coniuga con la bellezza morale.

1. la « bellezza » nel Primo Testamento
Data l’estensione dei testi in esame si tratta di operare una lezione dei tratti fondamentali.
a. il lessico della « bellezza » nella bibbia ebraica e greca
Japheh e Tov sono termini ebraici traducibili con splendido, decoroso, ben riuscito, piacevole, in forma. In greco i termini sono kalòs e agathòs: bello e buono, soprattutto nel senso di sano, forte, eccellente, ben composto, adatto. La distinzione tra aspetto etico ed estetico non è così netta.
b. la « bellezza » nella creazione (Gen 1,1-2,4a)
L’ E Dio che vide che era tutto molto buono/bello, con cui si conclude il racconto della creazione indica non tanto la dimensione di ordine e di armonia del creato, quanto la reazione emotiva, estetica, che fa star bene, di sorpresa, di fronte all’opera compiuta. È l’aspetto gratuito della bellezza, che non serve a niente se non alla contemplazione.
Nel bello sono implicite le dimensioni della gratuità e dello stupore.
Il primo ambito in cui confluisce l’esperienza estetica ebraica è la narrazione, la composizione, il testo. La prima pagina della bibbia, che va recitata, contiene il ritornello (sette volte): Che bello! La parola di Dio crea una cosa splendida che desta stupore e ammirazione.
L’ammirazione estetica del mondo creato, uscito bello/splendido dalle mani di Dio è espressa mirabilmente dal salmo 104, che passa in rassegna le opere di Dio che suscitano l’emozione ammirata del « che bello! ».
Sempre a questo proposito abbiamo una riflessione più pacata e interiorizzata nelle riflessioni di Gesù ben Sira’, il Siracide (42,15-43,33). L’ultima parte delle sue lezioni celebra la gloria di Dio nel mondo e nella storia, che ha la sua massima concentrazione nel tempio e nella liturgia.
Nel libro della Sapienza (13,1-9) viene criticato il culto delle divinità astrali, il bisogno di rivestire di sacralità il mondo che suscita ammirazione. La radice profonda dell’idolatria sta nell’ambivalenza del mondo creato che affascina ed attira con il rischio di confonderlo con la potenza numinosa che sta oltre la bellezza visibile.
Pensiamo oggi di essere immuni da questa tendenza idolatrica di rivestire la realtà di caratteri divini. Ma che dire del nostro atteggiamento, spesso di adorazione, di fronte alle realtà tecnologiche?
c. la « bellezza » dell’essere umano creato da Dio (Ez 28,1-15)
Al centro dell’opera creatrice di Dio compare l’essere umano, fatto a immagine e somiglianza di Dio, riflesso del suo splendore/grandezza tra il mondo dei viventi.
Il salmo 8, nei versetti dal sei al nove, la bellezza e lo splendore di Dio si concentrano e si riflettono sul volto dell’uomo.
Nell’elegia di Tiro, che si trova in Ezechiele, l’essere umano è presentato come un principe che vive in un parco regale, ricco di acque, di piante, di animali e di ogni pietra preziosa. Ma l’iniquità, l’abuso di potere, deturpa la bellezza. L’uomo, riflesso della bellezza di Dio, ha tentato di prenderne il posto. È quanto si dirà più prosaicamente in Genesi 2,8-14. Il massimo di armonia, di pienezza, di ricchezza, di preziosità, può diventare una sfida per l’uomo che non sa più riconoscere la dimensione di dono della realtà, la sua gratuità. Se l’etica non è l’abuso, ma vivere il dono e la gratuità, allora c’è molta affinità con l’estetica.
d. i campioni della « bellezza »
Le mogli dei patriarchi sono presentate come donne di grande fascino, di bell’aspetto, che fanno innamorare i loro futuri mariti al primo sguardo. Lo stesso vale per le donne di re David.
David è presentato come bello, capace di suonare, e di strappare il capretto dalle fauci del leone. Il figlio Assalonne è presentato come molto bello, e la sua bellezza diventerà anche la sua trappola. La bellezza ha risvolti ambivalenti.
Come sostiene il libro dei Proverbi nel descrivere la donna saggia che sa bene amministrare la propria casa, afferma che oltre la bellezza quel che conta è il timore di Dio.
e. le realtà che riflettono la bellezza di Dio.
Nei salmi 19 e 119 si celebrano le bellezze e il fascino della parola di Dio, della legge.
La città di Gerusalemme è presentata come immagine della città ideale, accogliente e sicura (salmo 48 e 122; Isaia 60 e 62).
Il tempio, costruito da Salomone, è oggetto di grande stupore e meraviglia, ed è l’ambito in cui il popolo si ritrova per celebrare le grandi opere di Dio. Gesù ben Sira’ tesserà un elogio ammirato della liturgia del tempio (Sir 50,1-21).
Il piccolo popolo di Israele ha rinunciato a fare immagini per poter avere l’unica immagine del Dio invisibile, riflessa nell’immagine dell’uomo, attraverso la valorizzazione della parola come massima concentrazione della bellezza.

2. la « bellezza » nel Nuovo Testamento
Qui la dimensione estetica ha una dimensione più sobria rispetto al panorama offerto dal Primo Testamento e più centrata sulla spiritualità e sull’etica. Non ci sono né edifici, né santuari, né liturgie. L’aspetto visivo è molto contenuto, nei piccoli libretti scritti in greco per un pubblico popolare.
a. « Evangelo »
La proclamazione della fede in Cristo Gesù viene chiamata « euaggèlion », cioè bella, buona e gioiosa notizia. Quindi una notizia anche affascinante.
Nel prologo del quarto vangelo si ha la dimensione irradiante del buon annuncio. La parola che era con Dio, che è stata all’origine di tutto, che dà coesione al tutto, è vita che diventa luce che illumina gli uomini.
Questa parola non è qualcosa di teorico, ma è la persona concreta di Gesù Cristo, per mezzo del quale viene a noi la pienezza del dono. È luce e gloria che noi « contemplammo ». Lo splendore di Dio ha il volto concreto del figlio. (Gv 1,1-5.14)
Ma come si fa a dire bella, gioiosa la notizia del Cristo condannato alla morte oscena della croce?
b. evangelo come « bell’annuncio »
Il regno di Dio viene annunciato come reintegrazione dell’armonia e come splendore della creazione. Gesù dai racconti evangelici viene presentato nella sua azione di reintegrazione di una umanità disgregata, di persone divise, di persone allontanate dalla convivenza perché ritenute pericolose (guarigioni, liberazioni da potenze negative come nel caso dell’indemoniato di Gerasa…). L’azione bella, estetizzante di Gesù appare nel restituire all’essere umano la sua libertà e integrità.
Anche i gesti di accoglienza e di perdono si collocano su questa linea, come restituzione della persona alla sua libertà e integrità (« ti sono perdonati i tuoi peccati »).
Le « belle parole » di Gesù, le parabole non sono racconti tesi a insegnare una morale, ma offrono scorci di altri orizzonti, di altre armonie, attraverso il piacere del racconto. Gesù non fa prediche, ma ha il gusto del racconto gratuito che prende lo spunto dal gesto del contadino, dal sale, dal lievito… È un amante del raccontare bello, che traspone nella narrazione la bellezza dell’agire di Dio, che reintegra l’essere umano diviso e disperso.
Del volto di Gesù e del suo splendore si parla solo in occasione della trasfigurazione, della preghiera sul monte, prima dell’epilogo cruento della sua vita.
Gesù riflette l’aspetto luminoso, bello, affascinante di Dio (« il suo volto divenne luminoso »). Questo bello però non è da catturare, da possedere, da controllare, come vorrebbe fare Pietro. L’invito è all’ascolto (« questi è il mio figlio. Ascoltatelo! »), e l’ascolto suppone abbandono e fiducia.
c. la bellezza che salva il mondo (2Tm 1,9-10).
È la bellezza paradossale, la bellezza della morte oscena.
La morte oscena di Gesù viene presentata come rivelazione della bellezza di Dio, nel contesto dell’amore portato sino all’estremo. Il crocifisso diventa fonte di vita nel momento del massimo degrado e deturpazione dell’essere umano.
Paolo parla dell’annuncio di un messia crocifisso come sapienza e potenza di Dio, mentre i giudei cercano i miracoli, il Dio forte e i greci la sapienza, l’armonia che dà ordine. (1Cor 1,17-25).
È la bellezza rovesciata: la sapienza è nella stoltezza e la potenza nella debolezza della croce, la bellezza nella bruttezza. È quanto ha intuito anche Dostojevskij: l’amore può trasformare l’insipienza e l’impotenza di un crocifisso nella bellezza. È la bellezza che salva il mondo.
Il superamento del negativo attraverso l’obbedienza, come amore fedele a tutti, è indicato nel famoso brano della lettera ai Filippesi (2,6-11). La manifestazione della bellezza intrinseca del mondo e della storia avviene grazie all’immersione di Gesù nel mondo e nella storia per dare un senso al negativo.
Sempre in questa lettera Paolo invita i cristiani di Filippi a scegliere quei valori che sono belli e coi quali si concretizza la rivelazione dell’amore di Dio (Fil 4,8-9).
Nell’elogio dell’amore (1Cor 13,1-13) la bellezza etica, che è l’amore portato alla massima intensità, coincide con la realtà stessa di Dio. Nella descrizione delle quindici qualità dell’amore c’è il ritratto di Gesù Crocifisso. Dio che non ha nome e immagine ha i tratti visibili di Gesù, del Gesù che si è appassionato dei poveri e dei malati e che alla fine, per restare fedele agli amici e a Dio come figlio, affronta la morte di croce.
Il progetto del mondo bello creato da Dio, con il giardino dove ci sono le piante della vita, della piena comunione, lo ritroviamo alla fine, nell’ultimo libro, nel sogno realizzato di una città bella, in cieli e terra nuova. In mezzo c’è il crocifisso, cioè il male riscattato, il negativo trasformato non grazie a gesti miracolistici, ma attraverso la fedeltà dell’amore.

DOBBIAMO PENSARE ALLA PASSIONE DI GESÙ (ANCHE PAOLO)

http://passiochristi.altervista.org/pass_42_pensare_passione.htm

DOBBIAMO PENSARE ALLA PASSIONE DI GESÙ (ANCHE PAOLO)

• È un dovere
• Come pensare alla passione del Signore
• Conclusione

Introduzione
Narra la sacra scrittura che Dio comandò al suo popolo — il popolo eletto — due cose :
• la pratica del culto religioso, mediante sacrifizi da offrire e riti religiosi da praticare;
• l’istituzione del sacerdozio, affinchè i suoi ministri tenessero sull’altare acceso il fuoco in continuità, alimentandolo con la legna : « Ignis iste est perpetuus, qui nunquam defìciet in altari » (1).
Che cosa significava quel fuoco sull’altare, che sempre doveva ardere?
(1) Levitico, VI, 12-15.

San Bonaventura commenta: « Chi fa professione di cristiano deve ogni giorno nutrire il fuoco dell’amor di Dio nel suo cuore mediante la continua con­ templazione delle acerbissime pene del Figlio di Dio, il quale volle morire per noi sopra il legno della croce » ( 2 ).
Dunque è volontà di Dio che la passione di Gesù sia l’oggetto perpetuo dei nostri pensieri, il tema delle nostre continue meditazioni, la fonte di delizia per le anime nostre, l’impiego ordinario di tutte le nostre potenze.
Dedico questa lettura al tema: dobbiamo pensare sempre alla passione santissima di Gesù Cristo.

I. È un dovere
1. Un dovere di gratitudine
Aristotele dice: «Qui beneficia invenit, compedes aureos invenit », chi sa trovare i benefìci, si fabbrica ceppi d’oro, cioè i benefìci riconosciuti sono come una rete d’oro per innamorare chi li riceve.
(2) De perfect. vìtae, e. VI.

Ora in quale opera divina più splende la bontà di Dio?
Nel mistero della Redenzione, cioè nella passione e morte di Gesù Cristo. Pensare alla Passione vuoi dire rendersi innamorati di Dio, suoi beniamini, suoi figli prediletti, perché sensibili alla gratitudine verso di Lui.
I Corinti erano divenuti cristiani per mezzo della predicazione di vari oratori apostolici. Essi quindi erano rimasti affezionati a quel predicatore che li aveva convertiti, acclamando pubblicamente il proprio benefattore : « Io sono di Paolo! Io sono di Apollo! ».
San Paolo, venutolo a sapere, scrisse ad essi: «Fratelli di Corinto, ditemi: chi è stato crocifisso per voi? Paolo o Cristo? Questi avete a contemplare, per essere tutti di Cristo e non di altri » ( 4 ).
San Giovanni Crisostomo commenta : « Grande sapienza dell’apostolo Paolo! Egli poteva dire: sono io che vi ho tratto dal niente? che vi ho dato l’essere? che vi faccio muovere nell’universo? Invece addita solamente che Cristo era stato crocifisso per loro, e che in virtù della sua passione erano stati battezzati. Perche? Perche nella creazione Dio non fece alcuna fatica; mentre nella redenzione sopportò atrocissimi dolori » ( 5 ).
(4) I Corinti, I, 12-17.
(5) Sermone I, In 1 Cor.

Un giorno un santo religioso pregava il Signore così: «Signore mio Dio, degnati di manifestarmi qual esercizio spirituale ti è pia grato, affinchè io possa esercitarmi in esso ». Subito gli apparve Gesù Cristo con una grossa croce sulle spalle e gli disse: « Non mi potrai fare ossequio più grato ed accetto, cheaiutandomi a portare questa mia dolorosissima croce ». Il santo religioso riprese: « Caro Gesù, come potrò io portare con te questa croce? ». Il Signore gli rispose: « Hai da portare la mia croce nel cuore, nella bocca, nelle orecchie e sul dorso. Nel cuore, contemplando la mia passione e morte; nella bocca, parlando e ringraziandomi di ciò che ho patito per te; nelle orecchie, desiderando di sentir parlare della mia passione; sul dorso, attraverso una assidua mortificazione della carne » ( 5 ).
Teodoreto, vescovo dì Ciro (sec. IV), commentan­ do le parole della Bibbia: « Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio » ( 6 ) si domanda: « Chi è che parla così, e a chi parla? È Gesù crocifìsso che parla a ciascun’anima in particolare, e le dice che è suo desiderio che la sua passione e morte sia portata nel cuore per mezzo della contemplazione; nel braccio per mezzo delle buone opere. Le impone l’effìgie di lui crocifisso nella mente e negli atti, affinchè essa (l’anima) non veda, non pensi, non ami che Cristo pendente dalla croce » ( 7 ).
Sant’Ambrogio predicava : « Cristiani, ricordatevi che quando ricevemmo il sacramento della cresima, ci fu impresso il sigillo della croce in fronte, affinchè confessassimo, con intrepidezza, Gesù crocifìsso in faccia a tutti i suoi nemici. Questo stesso sigillo:
• dobbiamo portarlo impresso nel cuore, pensando a Cristo, contemplandolo affettuosamente ed amandolo con sommo ardore;
• dobbiamo tenerlo nelle braccia, per operare sempre a gloria sua, e affinchè le nostre azioni rispecchino — per quanto è possibile — tutto il Cristo crocifìsso, mediante la pratica delle virtù della pazienza, dell’umiltà, dell’obbedienza, della costanza, della fortezza e della carità » ( 8 ).

(5) Spec. magri, exemp. dist., IX.
(6) Cantici, VIII, 6.
(7) Teod.
(8) Libro, De Isaia, e. VIII.

Padre Venturini da Bergamo, conoscendo quanto fosse grata a Dio la memoria della passione di Gesù Cristo, segnava tutte le lettere che scriveva con le parole: « Crux Christì signwn meum ». Inoltre si fece fare un sigillo con tutti gli strumenti della passione di Gesù: con questo segno imprimeva le sue lettere.
Il beato Enrico Susone esclamava sovente: « Gesù ci ha dato la vita con la sua morte. Oh se io potessi morire per lui, quanto volentieri lo farei! ».
San Pietro Crisologo pregava : « Signore, se ti piace, dammi un segno, il quale sia un ricordo perenne di quanto io amo te e tu ami me ». Ciò detto, prese un ferro e con asso si impresse nella carne il nome di Gesù. Poi corse dinanzi ad un crocifisso, ed esclamò: «Gesù, unico amor mio, rimira i miei desideri. Non posso scriverti più addentro. Tu che puoi tutto, imprimi il tuo nome nel mio cuore con tutte le sofferenze della tua passione, affinchè mai possa dimenticarti » (9).
Sant’Anselmo, commentando le parole di Gesù Cristo : « Fate questo, ogni qualvolta berrete il mio sangue, in mia memoria », esclamava: « Miei fedeli, Gesù, con le parole: in mia commemorazione, voleva dire: vi ho lasciato il mio corpo sotto le specie del pane, e il mio sangue sotto le specie del vino, affinchè vi sia continua memoria della mia passione, e affinchè voi la contempliate di continuo » ( 10 ).
San Francesco d’Assisi aveva talmente impressa nella mente, nel cuore e nel corpo la passione del Signore, che in tutte le cose ne vedeva l’immagine. Se vedeva agnelli legati esclamava : « O Gesù mio, così legato foste condotto alla morte! ». Se vedeva un verme nella strada, badava di non calpestarlo, ricor­ dandosi che Gesù fu trattato come un verme.
(9) Praed., p. II, I. e. 9.
(10) Sermone, CXLVII.

A sant’Angela da Foligno Gesù rivelò che tutti co­ loro che meditano i dolori della sua passione e morte, li considera figli prediletti.
Dunque, da veri e buoni cristiani, portiamo sempre impressa nella nostra mente e nel cuore la memoria della passione santissima di Gesù Cristo.

2. La passione di Gesù dev’essere il nostro libro prediletto
San Giovanni evangelista, nell’Apocalisse, scrive : « Vidi alla destra di colui che sedeva un libro scritto di dentro e di fuori, sigillato con sette sigilli » ( 11 ).
Qual è questo libro visto da san Giovanni evangelista?
San Girolamo risponde : « Il libro è Cristo, scritto di fuori con penne di ferro e col proprio sangue quando è confìtto in croce; scritto dentro quando si mostra Dio perdonando al buon ladrone. Scritto di fuori quando muore sulla croce; scritto di dentro quando il sole si nasconde, il giorno si oscura, la terra trema, le pietre si spezzano, il velo del tempio si scinde in due. Scritto di fuori quando Gesù è seppellito; scritto di dentro quando risuscita il terzo giorno glorioso e trionfante » ( 12 ).
(11) Apocalisse, V, 1.
(12) Epistola, De Verbo.

San Giovanni Giustiniano: « II libro visto da san Giovanni è Gesù crocifìsso, esposto da Dio alla pub­ blica utilità, affinchè ognuno lo studi e vi si ammaestri nella scienza divina. Questo libro è scritto di dentro dalla stessa sapienza di Cristo; è scritto di fuori dalla crudeltà dei gentili e dei giudei con tante lettere quanti furono i tormenti che soffrì, le ferite che ricevette, le spine che lo punsero, i flagelli che lo lacerarono, i chiodi che lo trafissero, gli in­sulti che lo oltraggiarono, le lacrime che versò, il sangue che sparse… Quali concetti sublimi contiene questo libro! Lo legge il semplice e si compunge e consola; lo legge il dotto e maggiormente s’illumina e si infervora. Questo libro contiene tutta la legge compendiata nel solo amore; qui tutte le profezie adempiute, il magistero di tutte le virtù, l’eminenza della perfezione, la norma del ben vivere; tutta la redenzione umana è racchiusa in questo libro » (13).
Il venerabile Luigi Blosio: « Chi brama di piacere a Dio, studi questo libro e conseguirà il felice intento. Leggendo questo libro (il Crocifisso): l’uomo si riempie di saggezza, consegue il perdono dei suoi peccati, mortifica i suoi affetti disordinati, viene illuminato nella mente, acquista la pace del cuore, la tranquillità della coscienza, la fiducia in Dio, una ardente carità verso il prossimo. Oh quanti libri si trovano nel mondo! Ma se tutti si perdessero, il libro della passione e morte di Gesù basterebbe per assicurare ogni verità, imparare ogni virtù, diventare dotti della vera scienza, la scienza di Dio » (14).
San Gregorio Magno, commentando le parole di Giobbe: « Io ho gran bisogno d’un libro, che sarebbe l’unico rimedio d’ogni mio male » ( 15 ), domanda: «Qual è il libro invocato da Giobbe quale suo adiutore? È Gesù crocifisso… In questo libro sono i meriti delle nostre cause, il fondamento delle nostre confidenze, la nostra difesa contro tutte le forze diaboliche. In questo libro sono cancellati tutti i nostri peccati col sangue del divino Mediatore, le nostre negligenze con la diligenza di Gesù verso il suo divin Padre.
(13) De trium Chr. agon., e. XX.
(14) In spec. spir., e. X.
(15) Giobbe, XXXI, 35.

Questo libro è la nostra corona. Non moviamo passo senza questo libro; i nostri occhi siano in esso per contemplarlo giorno e notte; offriamolo al divin Padre, affinchè egli riguardi in esso e distolga i suoi occhi dalle nostre colpe » ( 16 ).
San Tommaso da Villanova predicava: « Se mi rimorde la coscienza, se mi spaventano le mie colpe, se mi intimorisce l’ira divina, se urlano contro di me gli spiriti maligni, subito mi metto a studiare questo libro (il Crocifisso), l’offro a Dio in sacrificio, e sento consolarmi… Spariscono gli errori, si quietano le tempeste, torna il sereno e godo la luce del cielo. Lo scrittore di questo libro è Dio, la penna è lo Spirito Santo, la carta è il seno di Maria Vergine, l’inchiostro è il sangue di Gesù. O mio amore crocifisso, scrittura divina! O libro ammirabile pieno di concetti divini! O volume celeste, nel quale ogni piaga che rimiro è una miniatura che mi attrae a se! Deh, o cristiani, applicatevi alla lettura di questo libro, dove sono tutti i tesori della scienza e della sapienza di Dio. In esso troverete la medicina di tutte le vostre infermità, la sicurezza della vita eterna » (17).
A San Francesco d’Assisi, infermo, un suo confratello suggerì che si facesse leggere qualche libro spirituale, affinchè il suo spirito si rallegrasse. San Francesco gli rispose: «Fratello, io trovo ogni giorno tanta consolazione e tanto amore nel meditare la passione di Gesù Cristo, che se campassi fino alla fine del mondo, non mi abbisognerebbe altro libro ».
Un giorno san Tommaso d’Aquino andò a visitare san Bonaventura. Vedendo tanti suoi libri, gli chiese dove attingesse tante cose meravigliose. San Bonaventura, additandogli un crocifisso: « Ecco il mio libro, da cui traggo tutto quello che leggo, scrivo o faccio ».
(16) L. XXXII, mor., e. XIII.
(17) Sermone I, De nat. Virg.

San Filippo Benizì, vicino a morire, disse all’infermiere: « Datemi il mio libro ». Questi gliene porse vari. Ma il santo, rifiutandoli, ripeteva : « Datemi il mio libro. Quello solo voglio, e non altri ». Allora l’infermiere, vedendo san Filippo che fissava il crocifisso, lo prese e glielo diede. Il santo, tutto contento, esclamò: «Questo, questo è il mio libro!». E accostandolo alla bocca e baciandolo ripetutamente, morì.
Il profeta Baruc scrisse un libro di preghiere per gli ebrei nell’esilio; e offrendolo ai suoi correligionari, disse: « Leggete questo libro che vi abbiamo mandato » (18).
Cari lettori, anch’io, presentandovi Gesù cro­ cifisso, rivolgo a voi la stessa esortazione di Baruc agli ebrei : « Leggete sempre questo libro ».
Questo libro leggiamolo tutti :
a) noi peccatori, spaventati dai nostri peccati: esso ci convertirà e ci riconcilierà con Dio;
b) voi anime giuste, e diventerete migliori, esercitando la gratitudine verso quel Dio che vi ha giustificate con la sua passione e morte;
c) voi anime virtuose, e persevererete nel cammino della virtù, vedendo che Gesù Cristo perseverò in croce fino alla morte;
d) leggetelo voi anime penitenti, e vi infervorerete negli esercizi di mortificazione, mirando Gesù in mezzo a tanti tormenti;
e) leggetelo voi infermi, e dinanzi alla pazienza eroica di Gesù in mezzo a tante sofferenze, troverete la forza di sopportare con rassegnazione le vostre malattie;
f) leggetelo voi anime desolate, e vi consolerete vedendo Gesù abbandonato anche dal suo divin Padre nell’orto del Getsemani e sull’alto della croce;
g) leggetelo voi anime religiose, e sarete obbedienti ai vostri superiori, imparando da Gesù obbediente fino alla morte di Croce;
h) leggetelo voi anime sposate, e imparerete ad amarvi scambievolmente l’un l’altro, vedendo Gesù amare la sua sposa, la Chiesa, fino a morire per essa;
i) leggiamolo tutti attentamente, e decidiamoci — dinanzi a Gesù morto in croce — a farci santi nell’anima e nel corpo, praticando fedelmente i doveri del nostro stato.
(18) Baruc, I, 14.

II. Come pensare alla passione del Signore
Come dobbiamo pensare alla passione di Gesù Cristo, affinchè questa meditazione sia fruttuosa?
Se vogliamo che la meditazione della passione di Gesù sia veramente fruttuosa, dobbiamo praticare cinque cose: pregare prima di meditare, meditare con fede viva, meditare la passione come si compisse al presente, me­ ditare con frequenza, meditare la passione come se essa fosse stata sofferta per ciascun di noi.
1. Premettere la preghiera
San Tommaso d’Aquino dice: «È un degenere dell’umana natura, chi non desidera sapere la verità » (« ).
Dunque, se non vogliamo essere degli snaturati, ossia dei mostri, dobbiamo avere ferma volontà di conoscere la verità riguardante la passione e morte di Gesù Cristo, nostro Dio, nostro Creatore, nostro grande benefattore.
La sacra scrittura in genere, e il Vangelo in ispecie, sono libri chiusi e segnati con sette sigilli; niuno li può aprire se non l’Agnello im­ macolato, che è la sapienza di Dio.
Di qui la necessità di pregare Dio, affinchè ci assista, ci dia lume per capire il grande mistero della redenzione umana.
Gesù dice nel Vangelo: « Petite, et dabitur vobis; quaerite, et ìnvenietis; pulsate, et aperietur vobis ( 20 )-
Come chiedere, cercare, bussare?
Ce lo dice san Tommaso: « Chiedete pregando, cercate studiando, picchiate operando ».
San Giovanni Crisostomo dichiara: «Chiedete con assidue preghiere cercate studiando con travaglio, picchiate con digiuni ed elemosine ».
(19) In prìnc. metaph. in const.
(20) Mt., VII, 7.
Per fare un buon raccolto non basta il terreno. Si richiede il calore del sole, la fecondità delle piogge, il concime dei grassi, la fatica dell’uomo, la bontà della semenza…
Quando leggiamo la sacra scrittura, si ri­ chiedono due cose :
• che Dio ci mandi il sole della sua luce e la pioggia della sua grazia;
• che noi cooperiamo con lo studio assiduo e l’orazione fervorosa.
Dio non vuole fare tutto lui; né vuole che stiamo noi soli. Noi umiliamoci, cooperiamo e facciamo la parte nostra; Dio farà la parte sua, dandoci la conoscenza di Sé.
Dobbiamo ripetere tante volte la preghiera di Davide: « Signore, dammi intelletto e scruterò la tua legge e l’osserverò con tutto il mio cuore » ( 21 ).
Ugo Eteriano, cardinale e insigne teologo, pregava : « Signore, la tua parola, intesa con frutto, è quella che da la vita ».
Avete sentito : « intesa bene ». Ora chi può darci la vera interpretazione della parola di Dio? Dio stesso. E Dio ce la da, ma vuole essere pregato da noi.
Sant’Ambrogìo scrive : « Ve un intelletto che non porta alla vita, ma alla morte. Qual è questo intelletto? Quello del mondo ».
(21) Salmo, CXVIII, 34.

San Paolo apostolo, dice: « Se qualcuno fra voi crede di essere savio della sapienza di questo mondo, diventi stolto per farsi savio. Poiché la sapienza di questo secolo è stoltezza presso Dio » ( 22 ).Dunque diventiamo pazzi per Cristo, meditando la sua croce, i suoi dolori, la sua passione. Per impetrare tanto dono, diciamo al Signore : « Dammi intelletto, affinchè possa scrutare la tua parola, che è quella che da la vita, ed io l’osserverò con tutto il mio cuore ».

2. Meditare la passione di Gesù con fede viva
II profeta Davide pregava così Dio : « Signore, to­ gli il velo ai miei occhi e considererò le meraviglie della tua legge » ( 23 ).
Quali sono le meraviglie della legge divina?
Eccole: Dio, uno nell’essenza e trino nelle persone. La seconda persona della santissima Trinità che si fa uomo nel seno di Maria vergine; che patisce e muore per la salvezza del genere umano. Pensiamo: Dio che patisce su di un patibolo ; Dio che subisce una morte crudele per dare la vita della grazia e della gloria alle sue creature, all’uomo ! È veramente il caso di esclamare : « O arcani altissimi ! O meraviglie inaudite! O stupore infinito! ». Dinanzi a simili verità, se non si ha una fede viva, non è possibile andare avanti, non è possibile credere. C’è da restare confusi e quasi oppressi nel rimirare un’altezza sì grande.
(22) I Corìnti, III, 18.
(23) Salmo, CXVIII, 18.

Sant’Ambrogio, meditando il crocifìsso, esclamava: « Un Dio sopra una croce! Un popolo così beneficato che lo crocifìgge! Una sapienza divina che ordina una malizia sì atroce per la salute dell’umanità ! ».
San Tommaso da Villanova, predicando su Gesù crocifisso, restò muto e col volto infiammato per lungo tempo, come fuori di sé.
San Tommaso d’Aquino, pregando dinanzi al crocifisso, cadde in tanto eccesso di stupore, che si sentì tirare come un ferro dalla calamità, e si levò in aria.
San Domenico, contemplando la passione di Gesù: le piaghe sparse in tutto il corpo, la testa trafitta dalle spine, il capo grondante di sangue, si sentì svenire e cadde a terra.
Narra la sacra scrittura che dopo l’uccisione di Oloferne. tutti i soldati di lui, senza proferire parola, col capo basso, abbandonarono ogni cosa e si ritirarono ( 24 ).
Cari lettori, guardiamo con gli occhi della fede il nostro Dio crocifisso, morto, intriso del suo sangue, e diciamogli: « Grande Iddio! Infinito amore! Tanto, dunque, ci hai amato? Lo stupore ci ammutolisce! Tutti ammirati e confusi, prostrati ai tuoi piedi, ti adoriamo e ti diciamo : sia gloria a te, o Gesù, crocifisso, al Padre tuo celeste, allo Spirito Santo per tutti i secoli! ».
(24) Giuditta, XV, 1-2.

3. Dobbiamo meditare la passione come se fosse presente
San Bernardo afferma che è cosa utilissima rappresentarci i misteri del nostro Salvatore come misteri presenti.
La Chiesa ce ne da l’esempio. Alla vigilia del Natale annunzia il mistero dell’Incarnazione con queste parole : « Gesù Cristo, figlio di Dio, nasce nella grotta di Betlemme ».
Perché « nasce », mentre è nato venti secoli addietro?
Perché dobbiamo mirarlo come una nascita nuova, recente; come se il Redentore divino s’incarnasse e nascesse nuovamente per noi. Così si deve dire della passione di Gesù Cristo.
Sant’Ambrogio scrive : « Intendete, o cristiani, che ogni volta che ricevete i sacramenti, specialmente la Eucaristia, ricevete lo stesso Gesù, che di nuovo pa­tisce e muore per voi… Pertanto dovete tenere e considerare presente la passione e morte del Signore ».
Pitagora voleva che le immagini degli dèi nei templi fossero situate non troppo in alto, affinchè il popolo, fissandovi lo sguardo, maggiormente fosse commosso e concepisse affetti di riverenza e di timore ( 25 ).
Lo stesso dobbiamo fare meditando la passione di Gesù : considerare presenti i patimenti che egli soffrì per noi. Allora essi commuovono il cuore, lo inteneriscono, lo accendono d’amore, e lo fanno prorompere in mille affetti di devozione.
(25) Libro III, De olio.

Tertulliano scrive: « Quando terrete presente Gesù pendente dalla croce, che è la vostra vita, proverete in voi salutari affetti di penitenza, di dolore, di amore e di trasformazione nello stesso Signore ».
San Paolo apostolo, dice: «Fratelli, vi voglio contemplatori della passione di Gesù Cristo, ma non in aria, non in superfìcie, ma in atto pratico con una certa scienza sperimentale e con un conoscimento affettivo ( 26 ).
Il card. Ugo Eteriano commenta: « Cristiani, badate a non essere membra morte, ma vive, sensibili; in modo che sentiate al vivo dentro di voi, il dolore del vostro capo che è Gesù, come se lo sentiste dentro di voi stessi ».
Di santa Paola si legge che si prostrava sul pavimento davanti alla croce di Gesù, con tanta abbondanza di lacrime, di tenerezza e di affetti, come se avesse veduto il Signore pendente dalla croce grondante sangue dalle piaghe ( 27 ).
Il beato Consalvo d’Amaranta, visitando la Terra santa, ad ogni passo non faceva che piangere, come se corporalmente avesse incotranto il Redentore divino che patisse; come se avesse veduto Gesù legato, trascinato nei tribunali, flagellato, incoronato di spine, confìtto in croce ( 28 ).-
(26) Filippesi, II, 5-11.
(27) San Girolamo, Epistola XXVII.
(28) Cond. di santa Dom.

Sant’Agostino, stando davanti al Crocifisso, aveva fatto dei suoi occhi quasi due fonti di lacrime; mandava sospiri icome se il cuore gli scoppiasse; gli sembrava di trovarsi sul Calvario con la santissima Vergine, con san Giovanni e santa Maddalena. « Oh che vedo », esclamava, « Gesù, voi in croce? voi su di un patibolo?…» ( 29 ).
Chiudo con le parole del venerabile Luigi Blosio : « Fratelli, cacciate da voi la sonnolenza, la tiepidezza e la negligenza; abituatevi a meditare la passione del Signore con proposito, con grande fede, con fervore d’animo; immaginatevi la passione di Gesù, come presente, e passo passo accompagnate il Redentore di­vino fin sul Calvario; chiedetegli perdono di averlo offeso; ringraziatelo per quanto ha patito per voi, e godrete i frutti della sua croce » ( 30 ).

4. Dobbiamo meditare frequentemente la passione di Gesù
L’oggetto lontano, difficilmente, commove. Le cose che amiamo, quando sono lontane, non limentano in noi l’amore.
Senza l’esercizio costante della virtù, l’uomo non diventa virtuoso; l’abito buono si forma mediante la ripetizione continua di atti buoni. Nasciamo per essere virtuosi ; lo diventiamo mediante un lungo esercizio del bene.
(29) Libr. di medii, e. VII.
(30) Blosio, Can. vita spir., e. XIX.

Aristotele dice : « Meditatio confirmat memoriam », la meditazione rinsalda la memoria; solo la contemplazione continua della passione di Gesù confermerà in noi la sua memoria.
San Paolo apostolo scriveva: « Recogitate (cioè: pensate assiduamente) a Gesù Cristo, il quale sopportò il supplizio della croce contro la propria persona da parte dei peccatori, affinchè voi non vi perdiate d’animo nell’esercizio del bene » ( 31 ).
Queste parole di san Paolo vogliono dire: Voglio che siate forti, intrepidi in ogni più grave pericolo, anche dinanzi alla morte. Per essere tali, è necessaria la meditazione continua della passione di Gesù Cristo.
San Bernardo confessa : « Io mi sono sempre esercitato nella meditazione della passione di Gesù. Co­minciai dalla contemplazione di Gesù crocifisso » ( 32 ).
San Bonaventura consigliava: «Se state fermi, se camminate, se siete solitari, se conversate, se trattate affari, se vi ponete a fare orazione, in tutti i luoghi, in qualsiasi occasione abbiate sempre dinanzi agli occhi Gesù in croce per i peccati vostri e del mondo » (33).
San Pier Dannano rinunciò al vescovado di Ostia, si ritirò in solitudine « per stare in una continua con­templazione di Gesù crocifisso. Gli pareva di trovarsi sul Calvario, di vedere Gesù trafitto nelle mani e nei piedi; abbracciava spiritualmente la croce, apriva la sua bocca per ricevervi il sangue che stillava dalle mani e dai piedi di Gesù » ( 34 ).
(31) Ebrei, XII, 1-3.
(32) Sermone XLV, In Cant.
(33) Stimutus div. am., e. VII.
(34) Libro I, p. 9.

Il venerabile Luigi Blosio ammoniva : « Chi vuole attendere alla vita spirituale deve sempre meditare quello che Gesù Cristo fece e patì per noi ». Scriveva ad una pia persona : « Faccia il suo nido in croce e nelle piaghe del Salvatore. Quando prende cibo, bagni ogni boccone nel sangue di Gesù; quando vuoi bere, s’immagini di porre la bocca alle sacratissime piaghe del Signore » (35).
Giovanni Taulero, domenicano, nell’andare a letto, s’immaginava di salire la croce di Cristo; che il suo letto fosse il sacro cuore di Gesù; che il suo guanciale fosse la corona di spine; che le sue coperte fossero le braccia aperte del Signore. Così s’ingegnava di fare in tutte le azioni della giornata. Passava ventiquattro ore sempre con Gesù crocifisso.
Tommaso da Kempis, autore dell’Imitazione di Cristo, diceva: « Se si ricava frutto contemplando la vita dei santi, che cosa avverrà contemplando la passione e morte di Gesù Cristo? » ( 36 ).
Chiudo con le parole di sant’Agostino: « Signore non volesti mai scendere dalla croce, perche la tua ricordanza non uscisse mai dal mio cuore. Mi hai scritto nelle tue mani per ricordarti sempre di me e perché io ricordassi sempre quanto tu hai patito per me. Mi hai riscattato col tuo sangue perche io ricordassi sempre il tuo sacrifizio. Mi liberasti dalla morte eterna perche io vivessi sempre per te. Mi richiamasti dall’esilio perche io abitassi sempre vicino a te e con te. Dall’alto della croce i tuoi occhi sono sempre fissi su di me! ed io non terrò i miei occhi sempre rivolti a te? Ah non sia mai vero! » ( 37 ).

5. Dobbiamo considerare la passione di Gesù sofferta per ciascuno di noi in particolare
Un bene più è esteso nei suoi effetti, più è nobile, eccellente, perché più si avvicina al bene sommo, Dio, il quale è la causa di tutti i beni creati.
(35) Blosio, Inst. spec, e. V.
(36) De passione Chr.
(37) Bap., XIII, solil.

Gesù Cristo è morto per tutto il genere umano:
« Dio ha talmente amato il mondo, da dare il suo Figlio unigenito, affinchè chiunque crede in luì non perisca, ma abbia la vita eterna » ( 38 ). « Cristo è morto per tutti» ( 39 ).
San Tommaso dice : « Gesù Cristo morì fuori Gerusalemme, affinchè tutti sapessero che Egli moriva per tutti. La virtù della passione di Gesù è diffusa per tutti » ( 40 ).
Dunque la passione di Gesù è stata soste­ nuta a beneficio di tutto il mondo.
Tuttavia noi, meditando Gesù crocifisso, dobbiamo considerare la sua passione sofferta per ciascuno di noi in particolare.
San Paolo scriveva: « Vivo io, ma non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me; e quello che vivo nella carne, vivo nella fede che ho nel Figlio di Dio, il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me » ( 41 ).
Dunque san Paolo apostolo considerava la passione patita solo per lui in particolare.
Perché questo?
Ce lo dice lo stesso san Paolo: « Gesù Cristo venne nel mondo a salvare i peccatori, di cui io sono il primo » ( 42 ).
(38) Gv., III, 16.
(39) II Corinti, V, 15.
(40) III p., q. IX, a. 10.
(41) Galati, II, 20.
(42) I Timoteo, I, 15.

San Paolo non nega che Cristo è morto per tutti ; ma egli considera la passione di Gesù come se essa fosse stata sostenuta solo per lui, il primo tra tutti i peccatori.
San Giovanni Crisostomo commenta le parole di san Paolo : « San Paolo, da vero servo di Cristo, stima il beneficio della redenzione e della morte di Gesù, come suo proprio, dato a se e come se l’obbligo fosse tutto suo. Non restringe l’immenso beneficio della croce a sé solo; ma giudicando di essere, per i suoi peccati, egli solo la causa della morte del Signore; perciò obbligato a pentirsi delle sue colpe ed amare il Redentore, il quale, con le sue sofferenze, le aveva cancellate » ( 43 ).
Lo stesso san Giovanni Crisostomo afferma : « Benché il sole splenda per tutti, ognuno ne sente i be­ nefici come se esso splendesse per ciascuno. Così dite della pioggia… O mio Gesù, sole di giustizia, pioggia di sangue versata per me! Sì, per tutti sono questi beni. Ma a me giova considerarli come se fos­ sero solo per me, perché non ne sento minore utilità che se fossero impiegati solamente per me ».
San Tommaso d’Aquino scrive : « O sacro convito (l’Eucarestia ), nel quale si riceve Cristo e si fa memoria della sua passione… Sic totum omnibus, quod totum singulis. Questo sacramento è stato istituito a beneficio di tutti, come se l’avesse istituito a beneficio solo di ciascuno ». Il medesimo si deve dire della sacratissima passione del Signore: è stata sofferta a benefìcio di tutti, come se Cristo avesse patito solo per ciascun di noi.
Sant’Ignazio martire scriveva ai romani : « Meus amor crucifixus est », il mio amore in croce è talmente per me, come se io fossi solo e non si trovasse alcun altro.
(43) Libro II, De compon. orci.
Il card. Ugo Eteriano esclamava: « Io non voglio altro che Dio; egli è tutto il mio bene, e fuori di luì non trovo cosa che mi sia gradita. Ma, oh come bene mi corrisponde ! ».
Tommaso da Kempis pregava: « Mio Dio! io ti contemplo tutto ferito, pieno di piaghe, sospeso alla croce; e stimo che tutto soffri per me solo, per la qual cosa tanto maggiormente si accende il mio cuore per te e mi sento obbligato » ( 44 ).

III. Conclusione
Ecco il modo di meditare con frutto la passione santissima di Gesù Cristo. Il peccato, Gesù l’ha scontato perfettamente per ciascuno di noi come se fosse stato uno solo. La passione di Cristo è stata sofferta tutta per ciascun di noi, a nostro personale beneficio, come è stata patita a beneficio di tutti gli uomini.
Beati noi se tutte le nostre opere, pensieri e parole saranno riferiti a Gesù crocifisso ; se, meditando la passione del Redentore divino, diremo : « Per me quella croce, per me quelle spine, per me quei chiodi, per me quelle carni lacerate : per me e per i miei peccati Gesù ha patito ed è morto. Viva Gesù Cristo crocifisso per me ! ».
(44) De passione Domìni.

Preghiera – Gesù, ci hai vinti, e noi ci arrendiamo. Quello che in noi non potè fare il timore, l’ha fatto l’amore. Hai superato la durezza del nostro cuore Grazie! grazie! grazie infinite! Ti sei dato tutto a noi, e noi ci diamo tutti a te. Facci tuoi, tutti tuoi solo tuoi in vita e per tutta l’eternità. Amen.

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