Archive pour juillet, 2011

Sant’Ignazio da Loyola

Sant'Ignazio da Loyola dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 30 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

domenica 31 luglio: S.Ignazio di Loyola

dal sito:

http://www.moscati.it/Italiano/Ignazio.html

S.Ignazio di Loyola

fondatore della Compagnia di Gesù

Gaetano Iannaccone s.j.

INDICE:
Sua vita nel mondo — Conversione — Monserrato e Manresa — Gli Esercizi Spirituali
Alcalà, Salamanca, Parigi — Montmartre — Venezia e Roma — Una scuola per i poveri
Missioni vicine e lontane — Generale dei Gesuiti — La morte di un Santo

La liturgia così ci presenta S.Ignazio di Loyola nel giorno della sua festa (31 luglio): « Ferito all’assedio di Pamplona (1521) maturò nella lettura della vita di Cristo la decisione di passare dal servizio militare alla sequela del Signore. Fondò a Montmartre (Parigi) nel 1534 la Compagnia di Gesù (Gesuiti) per la maggior gloria di Dio e a servizio della Chiesa, in obbedienza totale al successore di Pietro.
La sua esperienza spirituale è espressa negli Esercizi spirituali da lui composti a Manresa (1523), che divennero una classica guida per l’itinerario spirituale. Promosse la catechesi e l’apostolato missionario ed ebbe tra i suoi discepoli Francesco Saverio ».

Sua vita nel mondo
Iñigo Lopez de Loyola – tale il suo nome originario, che egli cambiò in Ignazio dopo la sua conversione – nacque, ultimo di 13 figli, nel 1491, nel castello di Loyola, nella Terra dei Baschi della Spagna settentrionale. Ricevette l’educazione cavalleresca propria del suo ceto. NeI 1517 entrò a servizio del Viceré di Navarra. Amava l’avventura e infervorava la sua mente leggendo romanzi cavallereschi.
Quando nel 1521 scoppiò la guerra tra Francesco I di Francia e il giovane Imperatore di Spagna Carlo V, i Francesi entrarono in territorio spagnolo e marciarono alla conquista della città di Pamplona. Ignazio era lì a difenderla; ma il 20 maggio una palla di cannone nemico lo raggiunse, gli sfracellò la gamba destra e gli ferì anche la sinistra. Alla caduta del loro capitano i soldati spagnoli si arresero. I francesi raccolsero Ignazio e lo mandarono al suo castello a Loyola.
Arduo fu il compito del chirurgo nel riassettargli le gambe, e alla fine – temendo di restare zoppo – Ignazio si sottomise a un secondo intervento di « stiramento » della gamba. Ma tutte le cure e i tormenti non gli valsero a impedirgli di zoppicare per il resto della sua vita.

Conversione
Durante la lunga convalescenza cercò distrazione nella lettura dei suoi romanzi preferiti di cavalleria, ma per quanto si cercasse, non se ne trovò uno in tutto il castello! Gli furono invece dati due altri libri: la « Legenda aurea » di Jacopo da Varagine, cioè una raccolta di vite di santi; e la « Vita Christi » di Ludolfo di Sassonia. Cominciò a leggerli. La lettura della Passione del Signore lo commuoveva, mentre la lettura delle imprese dei santi lo entusiasmava.
Cominciò a chiedersi: « Perché non potrei fare anch’io quello che hanno fatto per il Signore uomini santi come Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman? ».
La Grazia lo aveva finalmente raggiunto, ma le vanità terrene lo attiravano dalla loro parte. Fu un duro combattimento, il suo. Alla fine si raccomandò alla Vergine e, liberato dall’oppressione della carne, si arrese completamente a Dio.
Guarito, Ignazio lasciò Loyola e si diresse a Monserrato, nella Catalogna, al santuario della Madonna Nera. Qui volle trascorrere tutta la notte in preghiera. Al mattino depose la spada e il pugnale all’altare della Vergine, e al loro posto si fornì d’un bastone da pellegrino. Fece una lunga preparazione e una dettagliata confessione della sua vita al maestro dei novizi dei Benedettini, poi, cambiati i suoi abiti con il vestito grezzo del penitente, si diresse a Manresa, a meditare e far penitenza.
Cominciò a digiunare e autoflagellarsi. Ma presto si accorse che queste mortificazioni non gli giovavano per la serenità dello spirito. Capì così le insidie dello spirito maligno e imparò a sue spese la necessità della direzione spirituale e l’importanza della « giusta misura » in tutte le cose. Si dette pure ad opere di carità per il popolo, insegnando le vie del Signore ai bambini e ai « rozzi ». Dalle sue vicissitudini a Manresa nasceranno i suoi famosi Esercizi Spirituali, che tanto bene hanno fatto e continuano a fare nella vita spirituale di milioni di persone.

Gli Esercizi Spirituali
Il libretto ignaziano che porta questo titolo fu ufficialmente approvato dalla Santa Sede soltanto nel 1548. Il cammino spirituale degli Esercizi viene fatto in quattro tappe, che vogliono aiutare l’esercitante a « vincere se stesso e mettere ordine nella propria vita, senza lasciarsi influenzare nelle sue scelte da passioni disordinate ».
Occorre anzitutto riconoscere « le deformità » della propria vita a causa del peccato, e mediante la meditazione delle verità eterne (morte, giudizio e dannazione eterna) scuotersi di dosso il giogo del peccato e rifarsi una nuova vita morale (Prima tappa).
Poi, mediante la contemplazione di Cristo, venuto al mondo per piantarvi il Regno di Dio mediante la potenza del suo Spirito, cercare come donarsi completamente a Lui, per condividerne la missione apostolica (Seconda tappa).
Per contrastare poi le insidie di Satana, che cerca d’impedire la realizzazione dei più belli e nobili ideali, è necessario « consolidarsi » nella decisione presa, contemplando Gesù che fu obbediente fino alla morte di Croce, per la gloria del Padre e la salvezza dei fratelli (Terza tappa).
Infine, la prospettiva della partecipazione alla gloria del Cristo Risorto riempie di gioia il cuore dell’esercitante, che esce dagli Esercizi radicalmente « trasformato ». Gli Esercizi terminano con una contemplazione caratteristica ignaziana per ottenere da Dio l’amore più puro e più ardente. Le ultime aspirazioni del cuore di chi esce dagli Esercizi sono: « Prendi tutto, o Signore… Dammi soltanto il tuo amore e la tua grazia: questo mi basta ».
E bene ricordare che gli Esercizi vanno fatti e non semplicemente letti. Senza una guida ci si troverebbe presto smarriti in un groviglio di strade senza sbocco!
Nota: Su questo argomento vedi anche: « Gli Esercizi Spirituali di S.Ignazio di Loyola », dello stesso autore.

Alcalà, Salamanca, Parigi
Per prepararsi al lavoro apostolico, Ignazio riprese ad Alcalà gli studi interrotti, cominciando dal latino, senza però smettere di dare gli Esercizi. L’inquisizione ne venne a conoscenza e, sospettando Ignazio di eresia, lo mise in prigione. Liberato, passò a Salamanca. Qui si ripeté il sospetto e, di conseguenza, la condanna al carcere. Gli fu ingiunto di non predicare gli Esercizi senza aver prima studiato teologia. Fu così che s’indusse a lasciare la Spagna e trasferirsi a Parigi.
Qui, presso il Collegio di Santa Barbara, condivise la stanza con altri due studenti: Francesco Saverio (spagnolo come lui) e Pietro Favre (proveniente dalla Savoia). Con Pietro si trovò subito in perfetta armonia di spirito, mentre col Saverio non fu facile intendersi, avendo questi molte ambizioni di guadagno e carriera.
Ignazio spesso gli ricordava la vanità delle cose terrene, secondo il detto evangelico: « Che cosa giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la sua stessa anima? ». Alla fine Saverio comprese: rinunciò a una sicura prebenda ecclesiastica, si mise alla scuola di Ignazio, con lui fondò la Compagnia, e divenne poi il grande apostolo dell’India e dell’Oriente.

Montmartre
Ignazio aveva un segreto progetto, che presto comunicò ai suoi due amici: consacrarsi all’apostolato nella terra del Signore, la Palestina, e se ciò non fosse possibile, offrirsi al Santo Padre perché disponesse di loro a suo piacimento. L’idea piacque, e a loro si unirono altri quattro studenti: Diego Laynez, Simone Rodrigues, Alfonso Salmeròn e Nicola Bobadilla.
Decisero di formare un gruppo di « Compagni di Gesù ». Il 15 agosto 1534 salirono alla Cappella di Montmartre per consacrarsi a Dio. Il Favre, ch’era già sacerdote, celebrò la S.Messa, durante la quale tutti promisero con voto di realizzare in castità e povertà quanto intendevano fare. Quel giorno, possiamo dire, nacque la Compagnia di Gesù.

Venezia e Roma
Terminati gli studi e ordinati sacerdoti, si diedero appuntamento a Venezia, in attesa della partenza per l’Oriente. Purtroppo, proprio in quel 1537 si riaccese la guerra tra la « Serenissima » e il vicino Oriente, e la partenza fu rimandata « sine die ». Misero allora in atto la seconda parte del voto: andare a Roma e offrirsi come « preti rinnovati » al Papa.
Ignazio, Laynez e Favre precedettero gli altri. Alle porte di Roma accadde un fatto straordinario, a cui Ignazio annesse sempre grande valore. Entrati a pregare in una Cappella detta La Storta, Ignazio ebbe una visione, in cui contemplò Gesù che portava la Croce con Dio Padre al suo fianco. « Voglio che ci serviate », disse Gesù. il Padre aggiunse: « Vi sarò propizio a Roma »; e Ignazio fu posto a fianco di Gesù.
Usciti dalla preghiera, Ignazio disse ai compagni: « Non so che cosa ci attende a Roma, se la persecuzione o la morte ». E narrò loro la visione. A Roma il Papa li accolse bene, si fece dar prova della saldezza della loro fede e dottrina cattolica e dette loro il permesso di predicare e celebrare i sacramenti.
Ignazio ricordava spesso al Papa il voto di andare in Terra santa. Ma un giorno il Papa stesso gli disse: « Roma può essere benissimo la vostra Gerusalemme, visto il bene che fate e il grave bisogno della città ». Queste parole misero fine al sogno di Ignazio.

Una scuola per i poveri
I Compagni si dispersero per varie città e insegnavano ai « rudi », alla povera gente, le verità basilari della fede. A quei tempi molti ragazzi crescevano senza istruzione per mancanza di mezzi, per cui Ignazio fece apporre un avviso dove egli abitava: « Scuola gratuita ».
Una « novità » che gli darà non poche seccature, da parte di altri « interessati » al guadagno. Fu l’inizio d’una serie interminabile di Scuole e Collegi che copriranno l’italia e l’Europa e daranno lustro alla cosiddetta « Scuola dei Gesuiti ».

Missioni vicine e lontane
A Roma e nelle altre città i Compagni insegnavano, predicavano, si prendevano cura degli ortani, dei poveri, dei malati negli ospedali. Ignazio pensò anche a recuperare uomini e donne dalla prostituzione.
All’estero, Ignazio si preoccupava molto per l’eresia in Germania. Vi mandò il Favre, che vi spese le migliori energie, fino a morire sulla breccia dopo pochi anni. Vi mandò pure un uomo coltissimo e zelante, il Canisio, che tenne fronte al luteranesimo, riuscendo a salvare metà della Germania dall’invadente eresia.
NeI 1540 fu fatta richiesta al Papa, da parte del re del Portogallo, di mandare missionari in India. All’ambasciatore interessato, il Papa rispose: « Rivolgetevi a Ignazio ». E Ignazio sacrificò il suo figlio più caro, Francesco Saverio, segno del suo ardore di salvare tutti.

Generale dei Gesuiti
Approvata la Compagnia di Gesù da Paolo III il 27 settembre 1540, si pensò subito all’elezione del Generale. Saverio lasciò il suo voto in iscritto prima di salpare per l’india. Tutti, eccetto Ignazio, votarono per il Fondatore. Dietro le reiterate insistenze di tutti i compagni, Ignazio finalmente accettò l’incarico, che per comune decisione, doveva essere a vita!
Primo suo compito fu quello di scrivere le Costituzioni del nuovo Ordine, il cui nome era – e doveva rimanere – « Compagnia di Gesù », il cui spirito animatore doveva essere quello degli Esercizi spirituali: la maggior gloria di Dio (AMDG: « Ad maiorem Dei gloriam ») e il maggior servizio delle anime.
Quanto alla parte pratica riguardante la vita religiosa, ignazio non ebbe fretta, volendo egli stesso imparare dall’esperienza. E così la parola « fine » non arrivò mai, pensando sempre a qualche novità da aggiungere o cambiare. Le Costituzioni furono perciò pubblicate postume, e senza conclusione.
Il nuovo stile libero di vita religiosa non piacque a tutti nella chiesa. Lo stesso Cardinale Carafa, cofondatore dei Teatini (insieme a S.Gaetano Thiene) ripeteva: « Ma che religiosi siete se non avete neppure il canto e la preghiera corale’? ». E fatto papa col nome di Paolo IV, si astenne dall’intervenire finché visse Ignazio. Poi introdusse la preghiera corale anche tra i Gesuiti. La quale però fu tolta dal suo successore, e si tornò allo stile voluto da Ignazio.

La morte di un Santo
Ignazio soffriva da tempo di gravi disturbi all’apparato digerente, ma i medici non diagnosticarono mai l’origine del suo malessere. Solo dopo la sua morte gli furono scoperti tre grossi calcoli nel fegato. Eppure il santo non smise mai di lavorare, nonostante i laucinanti dolori.
Quando finalmente fu costretto a letto, ridotto in fin di vita, chiese gli ultimi sacramenti. Chiesto il parere del medico curante, il segretario P.Polanco disse a Ignazio di non esserci urgenza.
L’ultima notte, Ignazio, sentendo approssimarsi la fine, pregò il Polanco di recarsi dal S.Padre (Paolo IV) e chiedergli la benedizione « in articulo mortis « . Di nuovo il Polanco si consultò col medico, che rispose la morte non essere imminente. E tutto fu rimandato al giorno dopo.
Ma all’alba del nuovo giorno, 31 luglio 1556, Ignazio entrò in agonia. Polanco, avvisato, si affrettò al palazzo del Papa, che dette di cuore la sua benedizione per il morente. Polanco tornò di corsa a casa, ma quando vi giunse Ignazio era già spirato.
La notizia si sparse subito per tutta Roma: « E’ morto il santo! », si ripeteva ovunque. Sì, Ignazio era morto da santo, nel dolore e nella solitudine, abbandonato al volere totale del suo Dio, secondo le parole della sua preghiera di offerta: « Prendi, o Signore, e accetta tutta la mia libertà, la memoria, l’intelletto e ogni mia volontà… »
L’offerta era stata davvero totale fino a quest’ultimo, in cui non nessuno dei suoi figli era accanto al suo letto, eccetto il religioso che lo aveva vegliato per la notte.
Ignazio fu canonizzato il 12 marzo del 1622 insieme a S.Francesco Saverio, S.Filippo Neri, S.Teresa d’Avila e S.Isidoro il contadino. Di lui fu detto: « Aveva il cuore più grande del mondo ».

commento alla seconda lettura di domani : Chi ci separerà dall’amore di Cristo? (Rm 8,31b-35.37-39)

dal sito:

http://nellacelladielia.blogspot.com/2008/11/chi-ci-separer-dallamore-di-cristo.html

martedì 18 novembre 2008

Chi ci separerà dall’amore di Cristo? (Rm 8,31b-35.37-39)

“ Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù,
che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcuna altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, Nostro Signore. “

S. Paolo conclude qui, con parole commosse, la sua meditazione sul piano di salvezza e, in particolare, sul dono dello Spirito, effuso nel cuore dei cristiani. Nei vv. 31-33, l’opera di salvezza compiuta da Dio in Cristo è sintetizzata in quel “per noi”;, espressione che appare due volte riferita a Dio e una a Cristo.
Sapere che Dio e Cristo sono per noi, sono dalla nostra parte, così come lo era lo Spirito (cfr. Rm 8,26), dà coraggio al cristiano. S. Paolo ripete così il suo messaggio sull’amore di Dio che già appariva nell’indirizzo della Lettera ai Romani, quando definiva i suoi destinatari come «amati da Dio» (cfr. Rm 1,7). Sul tema dell’amore di Dio era poi tornato successivamente, con indimenticabili espressioni: «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori… Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,5.8). Ora l’amore di Dio, divenuto visibile nel dono che il Padre
fa di suo Figlio nella croce, è contemplato nelle conseguenze che riguardano la vita presente del cristiano. Anzitutto è sconfitta l’immagine di un Dio adirato, che deve essere temuto dall’uomo e placato con impossibili sacrifici. Il triplice «per noi» (vv. 31.32.34) è sottolineato da Paolo per ribadire come il credente non possa avvicinarsi con angoscia al suo Dio, ma debba essere mosso a fiducia nel suo indefettibile amore.
Eliminata così la paura più radicale, e cioè che Dio sia un giudice inesorabile per questa umanità peccatrice, vengono superati anche i timori che riguardano gli affanni presenti, come le ansietà per le tribolazioni, per le
ristrettezze economiche, per l’incertezza del futuro, per la morte (v. 35). Anche le apprensioni per forze misteriose, incontrollabili (vv. 38s.), sono fugate dalla certezza della potenza dell’amore di Dio, manifestatosi
in Cristo.
Il brano si conclude allora con il tono trionfale di un inno di lode, perché il cristiano non è soltanto “vittorioso” ma
addirittura “stravincitore”; (v. 37) nelle varie difficoltà: «Nulla potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo
Gesù, nostro Signore» (v. 39).

“Trattami pure male” diceva Lucia al marito “Dio è dalla mia parte, Dio mi ricompenserà “. E lui bestemmiava, acido e irraggiungibile.
La scena si ripeteva ogni mattino, quando lei faceva suonare la sveglia alle sei per andare a messa; e lui urlava: «Mi svegli e potrei dormire ancora mezz’ora, con la fatica che mi aspetta poi al lavoro!». E giù bestemmie a quello che lui chiamava“ il tuo Dio ”. Lucia credeva proprio di avere ragione: anzi il livore e le bestemmie del marito, diceva, non la toccavano. Forse le davano l’ebbrezza di essere “ perseguitata “. Ma un mattino, su consiglio di un prete attento, la sveglia così perentoria non suonò. «Non ha suonato», lui le disse, quasi se l’aspettasse. «E non suonerà più», disse lei allegramente: «andrò a messa pian piano se per caso mi sveglierò». Lui fece finta di niente: un mattino, due, tre, poi sbottò: «Ma Dio non è più dalla tua parte?».
Sì, Dio era dalla parte di Lucia, cioè del suo matrimonio. Quale Dio? Colui che «non ha risparmiato suo Figlio, ma lo ha dato per tutti noi» (v. 32): non il Dio che ci serve per avere ragione (perfino quando l’abbiamo!), non il Dio che si impone con sveglie più o meno perentorie o con le nostre ansie di fare (e far fare) ciò che abbiamo in testa, bensì il Dio che dona, che non risparmia (altro che solo una bella idea!) nemmeno ciò che ama di più: il Figlio.
Questo è il Dio che ci fa vincitori nel farci assomigliare a lui: disposti a donare quanto di più prezioso abbiamo o magari anche (soltanto?) un nostro puntiglio, un nostro punto di vista. E così scopriamo che «nulla ci può
separare dall’amore di Dio»: nemmeno le (momentanee) incomprensioni dell’altro/a o le provocazioni o i fallimenti di un figlio o le “ persecuzioni “ di suocero o nuore o cognati o fratelli.
Meraviglioso amore che continua ad abilitarci a donare, se lo vogliamo, piuttosto che a pretendere!
Se l’albero conosce la solidità delle proprie radici, resta sicuro anche nella tempesta; se Cristo è morto e risorto per noi e se noi restiamo in lui, come possiamo ancora temere per il nostro amore? Radica, o Signore, in noi questa certezza, rendila più forte di ogni filtro d’amore, più forte della fiducia nei nostri sentimenti di oggi, più forte di tutte le nostre armi, più forte della morte (cfr. Ct 8,6).

Lo stesso fra Leonardo riferì che un giorno il beato Francesco, presso S.Maria degli Angeli, chiamò frate Leone e gli disse: «Frate Leone, scrivi».
Questi rispose: «Eccomi, sono pronto».
«Scrivi », disse, «quale è la vera letizia ». «Viene un messo e dice che tutti i maestri di Parigi sono entrati nell’Ordine; scrivi: non è vera letizia. Così pure che sono entrati nell’ordine tutti i prelati d’Oltr’Alpe,arcivescovi e vescovi, non solo, ma perfino il Re di Francia e il Re d’Inghilterra; scrivi: non è vera letizia. E se ti giunge ancora
notizia che i miei frati sono andati tra gli infedeli e li hanno convertiti tutti alla fede oppure che io ho ricevuto da Dio tanta grazia da sanar gli infermi e da fare molti miracoli; ebbene io ti dico: in tutte queste cose non è la vera letizia».
«Ma quale è la vera letizia?».
« Ecco, io torno da Perugia e, a notte profonda, giungo qui, ed è un inverno fangoso e così rigido che, all’estremità della tonaca, si formano ghiaccioli d’acqua congelata che mi percuotono continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. E io tutto nel fango, nel freddo e nel ghiaccio, giungo alla porta e, dopo aver a lungo picchiato e chiamato, viene un frate e chiede: “ Chi è “ Io rispondo: “ Frate Francesco “.
E quegli dice: “ Vattene, non è ora decente, questa, di andare in giro, non entrerai “.
E poiché io insisto ancora, l’altro risponde:
“ Vattene, tu sei un semplice e un idiota, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo
bisogno di te “.
E io sempre resto davanti alla porta e dico: “ Per amor di Dio accoglietemi per questa
Notte “.
E quegli risponde: “ Non lo farò. Vattene al luogo dei Crociferi e chiedi là “.
Ebbene, se io avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato, io ti dico che qui è la vera letizia e qui è la vera virtù e la salvezza dell’anima “. (Fonti francescane, Editio Minor, Assisi 1986, 144s.).

Traducete nella vostra vita questa parola: nulla «potrà mai separarci dall’amore di Dio» (Rm 8,39).
La vita è un’opportunità, coglila.
La vita è bellezza, ammirala.
La vita è beatitudine, assaporala.
La vita è un sogno, fanne una realtà.
La vita è una sfida, affrontala.
La vita è un dovere, compilo.
La vita è un gioco, giocalo.
La vita è preziosa, abbine cura.
La vita è una ricchezza, conservala.
La vita è amore, godine.
La vita è un mistero, scoprilo.
La vita è una promessa, adempila.
La vita è tristezza, superala.
La vita è un inno, cantalo.
La vita è una lotta, afferrala corpo a corpo.
La vita è una tragedia, accettala.
La vita è un’avventura, rischiala.
La vita è felicità, meritala.
La vita è la vita,difendila.

(Madre Teresa di Calcutta).
Pubblicato da Giovanni della Trinità a 01:32

Publié dans:Lettera ai Romani, SANTI |on 30 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

Omelia (31-07-2011): La meravigliosa compassione di Gesù

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/23132.html

Omelia (31-07-2011)

mons. Antonio Riboldi

La meravigliosa compassione di Gesù

È nello stile del Vangelo, e di tutta la Sacra Scrittura in genere, con poche pennellate, presentare un fatto che immette in dimensioni, che poco hanno a che fare e vedere con le cronache, che siamo abituati a leggere o narrare noi uomini.
E nel Vangelo il punto focale è sempre Gesù, Figlio di Dio tra noi uomini, ieri e oggi. Attorno a Lui vi è ‘la folla’, che interpreta le genti di tutti i tempi.
« In quel tempo – narra Matteo – quando Gesù udì della morte di Giovanni Battista, partì su una barca e si ritirò in disparte in un luogo deserto ».
Deve essere stato profondo il dolore di Gesù, per la morte di chi Lo aveva annunciato.
Tra Gesù e Giovanni s’intreccia l’inizio della nostra storia: Giovanni, che annuncia, finalmente, l’avvento di Dio, tanto atteso, tra di noi, e Gesù che inizia la Sua missione di Dio tra noi uomini.
Mi vengono alla mente tanti missionari, ma oggi anche semplici cristiani, tra di noi, che, spinti dallo Spirito Santo, in mezzo alla folla cercano di fare conoscere Gesù e non sempre con successo.
Ecco il perché della profondità del dolore del Maestro, che sceglie il silenzio, salendo solo sulla barca. È una testimonianza di come il dolore ami il silenzio. Il vero dolore trova il suo rifugio nel silenzio, che è un interrogarsi su quanto è accaduto, per ‘scoprire’ i segreti del Padre.
Noi spesso diamo sfogo al dolore, manifestandolo in modo a volte chiassoso, che non aiuta a capirne ed accettarne la grande ragione.
Ricordo, da ragazzo, la morte della mia sorellina più piccola, curata da mamma. Era domenica. Mia sorella stava molto male. Non era come oggi, in cui è possibile trovare chi aiuti. Comprendevo che quelle erano le sue ultime ore di vita. Ma mamma preferì che noi tutti andessimo in parrocchia per la catechesi festiva. Quando tornai, mia sorella, che si chiamava Redenta; in ricordo dell’anno della Redenzione, era morta. Mamma volle deporla in mezzo all’unica camera da letto, tra di noi, come a dire la sua fede nella resurrezione. Ero stupito di come mamma non desse segno di disperazione. ‘Questa notte – ci disse – Redenta dorme ancora tra di noi, poi sarà in Cielo’.
Scoprii il suo dolore il giorno dopo, durante la sepoltura. Nel pomeriggio, senza farmi accorgere, seguii mamma, che si recava nel cimitero, chiuso. La ricordo abbracciata al cancello, che piangendo chiamava la sua bambina. Tornata a casa disse solo: ‘E’ vero che Redenta ci manca, ma è qui dal Cielo’.
È tanto simile al dolore di Gesù, quando seppe della morte di Giovanni Battista. Possiamo immaginarlo sulla barca, solo, come a nascondere, per vivere ancor più intensamente il dolore.
Che magnifico Gesù, Dio-Uomo: come ci assomiglia!
Commenta S. Paolo: « Fratelli, chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori in virtù di Colui che ci ha amati. Io infatti sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né altezze, né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore ». (Rom. 8,35-39)
Nel Vangelo si evidenzia poi un fatto sorprendente, che è una grande lezione per tutti.
« La folla, saputolo, lo seguì a piedi dalla città. Gesù, sceso dalla barca, vide una grande folla e sentì compassione per loro e guarì molti malati.
Sul far della sera gli si accostarono i discepoli e gli dissero: ‘Il luogo è deserto ed è ormai tardi: congeda la folla, perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare. Ma Gesù rispose: ‘Non occorre che vadano, date loro voi stessi da mangiare’. Gli risposero: ‘Non abbiamo che cinque pani e due pesci!’. Ed egli disse: ‘Portatemeli qua’. E dopo avere ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci e alzati gli occhi al cielo, pronunciò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli e li distribuirono alla folla. Tutti mangiarono e furono saziati e portarono via dodici ceste piene di pezzi avanzati. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini ». (Mt. 14, 13-21)
Il Vangelo di oggi non può che suscitare tanta commozione: Gesù, addolorato per la perdita di Giovanni, lascia in disparte il suo dolore e va incontro e si fa vicino alla folla che Lo cerca e desidera forse qualche miracolo, ma soprattutto il pane della Parola, che non sia vuota come a volte sono le nostre, ma contenga quella luce che fa bene al cuore.
Commuove quella folla che insegue Gesù, fino a raggiungerlo e commuove la compassione di Gesù, che ne intuisce anche il bisogno di un pezzo di pane e lo moltiplica.
Quella folla rappresenta, oggi, le moltitudini che non riescono ad avere voce e si affidano a Qualcuno che sia la loro Voce, che sia il compimento dei loro inespressi desideri.
Gesù era diventano allora – e spero diventi anche oggi – l’unico punto di riferimento: Uno da cui ci si aspetta tanto, forse non sapendo neppure cosa sia quel ‘tanto’.
Possiamo dire che Gesù, ieri per quella folla, e speriamo oggi per noi, era ed è la speranza per chi era malato e, forse desiderava tornare alla salute, ma soprattutto, per chi sentiva il vuoto della vita, era il Senso ritrovato. Quanta gente soffre, si dibatte nei dubbi… ma non vive la ricerca di Gesù, come la folla di allora!
Gesù era allora – e speriamo oggi – per chi vuole ritrovare se stesso, stanco delle tante contraddizioni, la sua verità, il senso pieno della vita.
Gesù, in apparenza, non aveva nulla che potesse soddisfare le attese materiali.
La sua forza era tutta lì, in quello che era: ‘poverò al punto che la sua stessa esistenza era affidata alla bontà di chi Gli era attorno, Lo amava. Eppure appariva anche chiaro che in Lui c’era ciò che supera le stesse attese degli uomini: Lui era ‘il Tutto’ necessario e Legge per ogni uomo.
È in questa ottica che comprendiamo la felicità dei santi, a cominciare dal ‘poverello’ S. Francesco, che nella sua estrema povertà contemplava le meraviglie di Dio, lodandolo: ‘Laudato sii, mio
Signore… ‘
Dalla vita di Gesù e dalla sua parola, allora, come oggi, per i veri suoi seguaci, si comprendeva che i Cieli si erano aperti e che solo a Dio tutto è possibile, ma soprattutto si avvertiva il Suo Amore totale e fedele verso ciascuno, tanto da sentirsi in Lui e con Lui al sicuro.
Si creava tra la folla e Lui un’autentica empatia.
Così il profeta Isaia esprimeva questo stato d’animo:
« O voi tutti. assetati, venite all’acqua: chi non ha denaro venga ugualmente. Comprate, mangiate senza denaro, senza spese, vino e latte. Perché spendere denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi, e mangiate cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete l’orecchio e venite a Me, ascoltate e voi vivrete. Io stabilirò per voi un’alleanza eterna ». (Is. 35, 1-3)
Ho l’impressione che oggi ‘la folla’ – soprattutto nei Paesi del benessere!! – stia cercando chi dia speranza, chi sia capace di farla uscire dal ghetto di cose che non donano serenità.
Ma Gesù è sempre lì ad attenderci, pronto a confermare anche con ‘segni’, se fosse necessario, quanto ci vuole bene e quanto Gli stiamo a cuore.
Ma lo cerchiamo?
Così pregava il grande S. Agostino:
« Signore Gesù, conoscermi, conoscerti, non desiderare altro che te; odiarmi ed amarti; agire solo per amor tuo,
abbassarmi per farti grande e non avere altri che Te nella mente. Rinunciare a me stesso per seguirti, fuggire da me stesso per essere difeso. Diffidare di me stesso, confidare solo in Te;
non attaccarmi a null’altro che a Te, essere povero per Te.
Guariscimi e ti amerò: chiamami, perché ti veda e goda di Te eternamente »

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 30 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

DOMENICA 31 LUGLIO – XVIII DEL TEMPO ORDINARIO

DOMENICA 31 LUGLIO – XVIII DEL TEMPO ORDINARIO

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/ordinA/A18page.htm

MESSA DEL GIORNO

Seconda Lettura  Rm 8, 35. 37-39
Nessuna creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?
Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati.
Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore.

http://www.bible-service.net/site/1181.html

(sono un po’ stanca, se non conoscete il francese potete tradurla anche con un traduttore on line, vi consiglio « Reverso »)

Romains 8,35.37-39
Deux strophes, dans ce chant de triomphe. La première évoque des adversaires ou des dangers très concrets. Les mots détresse et angoisse reviennent très habituellement dans les annonces des « derniers temps » ; ils expriment l’expérience vécue par l’apôtre en mission (2 Corinthiens 11). La deuxième strophe évoque des « puissances » plus mystérieuses qui dépassent l’homme, ressenties comme des menaces, des fatalités… Mais le Dieu sauveur est aussi le Dieu créateur, maître de tout. En proclamant Jésus « Seigneur », on affirme précisément qu’il est au-dessus de tous les prétendus seigneurs et de toutes les puissances qui peuvent faire peur à l’homme.
Le Seigneur nous fait participer à sa victoire sur la mort ; il nous prend dans son mystère de mort et de résurrection. Paul en fait l’expérience dans sa vie de croyant et d’apôtre.

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dalla «Lettera», detta di Barnaba (Capp. 1, 1 – 2, 5; Funk 1, 3-7)
 
La speranza della vita è il principio e il termine della nostra fede
Salute a voi nella pace, figli e figlie, nel nome del Signore che ci ha amato. Grandi e copiosi sono i favori che Dio vi ha concesso. Per questo molto mi rallegro sapendo quanto le vostre anime siano belle e liete per la grazia e i doni spirituali che hanno ricevuto. Ma ancora maggiore è la mia gioia sentendo nascere in me una viva speranza di salvezza nel vedere con quanta generosità la sorgente divina abbia effuso su di voi il suo Spirito. Davvero splendido lo spettacolo che avete offerto alla mia vista!
Persuaso di essermi avvantaggiato, molto nella via santa del Signore parlando con voi, mi sento spinto ad amarvi più della mia stessa vita, anche perché vedo in voi grande fede e carità per la speranza della vita divina.
Per l’amore che vi porto voglio mettervi a parte di quanto ho avuto, sicuro di ricevere beneficio dal servizio che vi rendo. Vi scrivo dunque alcune cose perché la vostra fede arrivi ad essere conoscenza perfetta.
Tre sono le grandi realtà rivelate dal Signore: la speranza della vita, inizio e fine della nostra fede; la salvezza, inizio e fine del piano di Dio; il suo desiderio di farci felici, pegno e promessa di tutti i suoi interventi salvifici.
Il Signore ci ha fatto capire, per mezzo dei profeti, le cose passate e presenti, e ci ha messo in grado di gustare le primizie delle cose future. E poiché vediamo ciascuna di esse realizzarsi proprio come ha detto, dobbiamo procedere sempre più sulla via del santo timore di Dio.
Per parte mia vi voglio indicare alcune cose che giovino al vostro bene già al presente. Vi parlo però non come maestro, ma come fratello.
I tempi sono cattivi e spadroneggia il Maligno con la sua attività diabolica. Badiamo perciò a noi stessi e ricerchiamo accuratamente i voleri del Signore. Timore e pazienza devono essere il sostegno della nostra fede, longanimità e continenza le nostre alleate nella lotta. Se praticheremo queste virtù e ci comporteremo come si conviene dinanzi al Signore, avremo la sapienza, l’intelletto, la scienza e la conoscenza. Queste sono le cose che Dio vuole da noi. Il Signore infatti ci ha insegnato per mezzo di tutti i profeti che egli non ha bisogno di sacrifici, né di olocausti, né di offerte. Che m’importa, dice, dei vostri sacrifici senza numero? Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. Non presentatevi nemmeno davanti a me per essere visti. Infatti chi ha mai richiesto tali cose dalle vostre mani? Non osate più calpestare i miei atri. Se mi offrirete fior di farina, sarà vano; l’incenso è un abominio per me. I vostri noviluni e i vostri sabati non li posso sopportare (cfr. Is 1, 11-13).

Responsorio    Cfr. Gal 2, 16; Gn 15, 6
R. Sappiamo che l’uomo è giustificato soltanto per mezzo della fede: * noi abbiamo creduto, per essere giustificati dalla fede in Cristo.
V. Abramo credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia;
R. noi abbiamo creduto, per essere giustificati dalla fede in Cristo.

Jesus prayer

Jesus prayer dans immagini sacre iconofChrisJesusPrayer-618x800-copy

http://ocpm-scoba.org/resources.html

Publié dans:immagini sacre |on 29 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

Shabbat

dal sito:

http://www.ritornoallatorah.it/public/index.php?option=com_content&view=article&id=70:sabato&catid=45:feste&Itemid=77

Shabbat 
  
« Ricordati del giorno di Sabato per santificarlo. Lavorerai sei giorni e in essi farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è Sabato in onore del Signore tuo Dio; non farai dunque alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né lo straniero che vive presso di te; poiché in sei giorni il Signore fece i cieli e la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e il settimo giorno cessò; perciò il Signore ha benedetto il giorno di Sabato e l’ha santificato. » (Esodo 20:8-11)
Secondo la Torah, lo Shabbat (Sabato), ovvero il settimo giorno della settimana, rappresenta la festività del riposo durante la quale tutti gli Ebrei devono astenersi dal loro lavoro.
Fu proprio Dio ad osservare per primo lo Shabbat, quando terminò l’opera della creazione il settimo giorno. (Genesi 2:2-3).
Il termine Ebraico Shabbat deriva proprio dal verbo « cessare », o « fermarsi », ed è quindi adatto ad indicare il riposo o la sospensione delle proprie attività ordinarie.
La Bibbia attribuisce a questa festività un duplice significato:
Nel libro dell’Esodo, il Sabato è definito come il giorno sacro in cui Dio completò la creazione (Es. 20:10-11);
Nel Deuteronomio, invece, è scritto che lo scopo del Sabato è quello di ricordare la liberazione dalla schiavitù in Egitto (Deuteronomio 5:15).
Secondo la Halakhà, nonostante ricorra ogni settimana, lo Shabbat è la festa più importante dell’Ebraismo. Infatti, è la prima ad essere menzionata nella Torah; il riposo Sabatico è ordinato nel quarto Comandamento, ma Dio rivelò agli Ebrei la solennità di questo giorno addirittura prima del loro arrivo al Sinai.
Lo Shabbat inizia al tramonto del Venerdì e si conclude al sopraggiungere della sera del giorno seguente.
Prima della festività, la madre di famiglia accende due candele che simboleggiano il ricordo dello Shabbat e la sua osservanza.
Il padre di famiglia, prima del pasto serale, deve recitare il Kiddush, una preghiera di santificazione in cui si ringrazia Dio per il frutto della vite e per il dono del Sabato, ricordando anche i due significati Biblici della festività.
La preghiera da pronunciare al termine dello Shabbat, invece, è detta Havdalah, e tramite essa si saluta il giorno sacro per ritornare al tempo ordinario.
Questo giorno di riposo deve essere dedicato allo studio della Torah, alla preghiera, e alla famiglia. E’ inoltre consigliato ospitare parenti o amici in casa propria, e secondo la Kabbalah, anche avere rapporti sessuali con il coniuge.
Nella tramandazione Ebraica troviamo un elenco di trentanove attività proibite durante lo Shabbat: seminare, arare, mietere, fare i covoni, trebbiare, togliere la pula, setacciare, nacinare, vagliare, impastare, cuocere, tosare la lana, lavarla, cardarla, tingerla, filarla, ordire, dare due punti, tessere due fili, scucire due fili, fare un nodo, disfare un nodo, cucire due punti, strappare con l’intenzione di ricucire due punti, cacciare il cervo, sgozzarlo, pelarlo, salarlo, lavorare la sua pelle, spelarla, tagliarlo, scrivere lettere, cancellare con l’intenzione di scivere, costruire, demolire,spegnere,accendere, forgiare con un martello, trasportare un oggetto da un posto all’altro.
Molti accusano gli Ebrei di aver trasformato il giorno festivo in un peso insostenibile. Infatti, leggendo tutte le regole dell’osservanza dello Shabbat, si è spesso portati a pensare che si tratti di sterile formalismo, nonchè di un insieme di norme insensate e difficili da rispettare.
Questo tuttavia non corrisponde a verità. Gli Ebrei hanno sempre considerato il Sabato come un giorno gioioso, e addirittura come uno dei più preziosi doni che Dio abbia dato al Suo popolo. Un uomo abituato fin da bambino ad osservare la Torah non trova affatto difficile vivere questa festività senza profanarla.
Lo Shabbat, assieme alla circoncisione, è spesso citato nella Bibbia come il simbolo del Patto tra il Creatore e Israele, poichè si tratta di un’usanza che ha da sempre distinto in modo particolare il popolo Ebraico dalle altre nazioni.
L’importanza di questo comandamento è ribadita nel Talmud, dove è scritto che se gli Ebrei osservassero a dovere due Sabati consecutivi, il Messia arriverebbe immediatamente.
L’era Messianica è paragonata proprio allo Shabbat, poichè sarà un tempo di riposo dalle fatiche e dalle ansie per Israele e per tutta la terra.
Per approfondire l’argomento visita il seguente sito:

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO: LE FESTIVITÀ |on 29 juillet, 2011 |Pas de commentaires »
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