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OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO – « Pregare è andare con Gesù al Padre che ci darà tutto »

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DALLA CAPPELLA DI CASA SANTA MARTA

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO – « Pregare è andare con Gesù al Padre che ci darà tutto »

Domenica, 10 maggio 2020

Omelia
In questo passo del Vangelo (cfr Gv 14,1-14), il discorso di congedo di Gesù, Gesù dice che va dal Padre. E dice che sarà con il Padre e che anche chi crede in Lui «compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre. E qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò» (vv. 12-14). Possiamo dire che questo passo del Vangelo di Giovanni è la dichiarazione dell’ascesa al Padre.
Il Padre sempre è stato presente nella vita di Gesù, e Gesù ne parlava. Gesù pregava il Padre. E tante volte, parlava del Padre che ha cura di noi, come ha cura degli uccelli, dei gigli del campo… Il Padre. E quando i discepoli gli chiesero di imparare a pregare, Gesù insegnò a pregare il Padre: «Padre nostro» (Mt 6,9). Sempre va [si rivolge] al Padre. Ma in questo passo è molto forte; e anche è come se aprisse le porte della onnipotenza della preghiera. “Perché io sono con il Padre: voi chiedete e io farò tutto. Ma perché il Padre lo farà con me” (cfr Gv 14,11). Questa fiducia nel Padre, fiducia nel Padre che è capace di fare tutto. Questo coraggio di pregare, perché per pregare ci vuole coraggio! Ci vuole lo stesso coraggio, la stessa franchezza che per predicare: la stessa. Pensiamo al nostro padre Abramo, quando lui – credo che si dica – “mercanteggiava” con Dio per salvare Sodoma (cfr Gen 18,20-33): “E se fossero di meno? E di meno? E di meno?…”. Davvero, sapeva “negoziare”. Ma sempre con questo coraggio: “Scusami, Signore, ma fammi uno sconto: un po’ di meno, un po’ di meno…”. Sempre il coraggio della lotta nella preghiera, perché pregare è lottare: lottare con Dio. E poi, Mosè: le due volte che il Signore avrebbe voluto distruggere il popolo (cfr Es 32,1-35 e cfr Nm 11,1-3) e fare lui capo di un altro popolo, Mosè ha detto “No!”. E ha detto “no” al Padre! Con coraggio! Ma se tu vai a pregare così – [bisbiglia una preghiera timida] – questa è una mancanza di rispetto! Pregare è andare con Gesù al Padre che ti darà tutto. Coraggio nella preghiera, franchezza nella preghiera. La stessa che ci vuole per la predica.
E abbiamo sentito nella prima Lettura quel conflitto nei primi tempi della Chiesa (cfr At 6,1-7), perché i cristiani di origine greca mormoravano – mormoravano, già a quel tempo si faceva questo: si vede che è un’abitudine della Chiesa… – mormoravano perché le loro vedove, i loro orfani non erano ben curati; gli apostoli non avevano tempo di fare tante cose. E Pietro [con gli apostoli], illuminato dallo Spirito Santo, “inventò”, diciamo così, i diaconi. “Facciamo una cosa: cerchiamo sette persone che siano brave e che questi uomini si prendano cura del servizio” (cfr At 6,2-4). Il diacono è il custode del servizio, nella Chiesa. “E così questa gente, che ha ragione di lamentarsi, sia curata bene nei suoi bisogni e noi – dice Pietro, l’abbiamo sentito – e noi ci dedicheremo alla preghiera e all’annuncio della Parola” (cfr v. 5). Questo è il compito del vescovo: pregare e predicare. Con questa forza che abbiamo sentito nel Vangelo: il vescovo è il primo che va dal Padre, con la fiducia che ha dato Gesù, con il coraggio, con la parresìa, a lottare per il suo popolo. Il primo compito di un vescovo è pregare. Lo disse Pietro: “E a noi, la preghiera e l’annuncio della Parola”.
Io ho conosciuto un sacerdote, un santo parroco, buono, che quando trovava un vescovo lo salutava, bene, molto amabile, e sempre faceva la domanda: “Eccellenza, quante ore al giorno Lei prega?”, e sempre diceva: “Perché il primo compito è pregare”. Perché è la preghiera del capo della comunità per la comunità, l’intercessione al Padre perché custodisca il popolo.
La preghiera del vescovo, il primo compito: pregare. E il popolo, vedendo il vescovo pregare, impara a pregare. Perché lo Spirito Santo ci insegna che è Dio che “fa la cosa”. Noi facciamo un pochettino, ma è Lui che “fa le cose” della Chiesa, e la preghiera è quella che porta avanti la Chiesa. E per questo i capi della Chiesa, per dire così, i vescovi, devono andare avanti con la preghiera.
Quella parola di Pietro è profetica: “Che i diaconi facciano tutto questo, così la gente è ben curata e ha risolto i problemi e anche i suoi bisogni. Ma a noi, vescovi, la preghiera e l’annuncio della Parola”.
È triste vedere bravi vescovi, bravi, gente buona, ma indaffarati in tante cose, l’economia, e questo e quell’altro e quell’altro… La preghiera al primo posto. Poi, le altre cose. Ma quando le altre cose tolgono spazio alla preghiera, qualcosa non funziona. E la preghiera è forte per questo che abbiamo sentito nel Vangelo di Gesù: «Io vado al Padre. E qualunque cosa chiederete nel mio nome al Padre, la farò, perché il Padre sia glorificato» (Gv 14,12-13) Così va avanti la Chiesa, con la preghiera, il coraggio della preghiera, perché la Chiesa sa che senza questa ascesa al Padre non può sopravvivere.

Preghiera per fare la comunione spirituale
Le persone che non si comunicano fanno adesso la comunione spirituale:
Ai tuoi piedi o mio Gesù mi prostro e ti offro il pentimento del mio cuore contrito, che si abissa nel suo nulla e nella tua santa presenza. Ti adoro nel Sacramento del tuo amore, l’ineffabile Eucaristia. Desidero riceverti nella povera dimora che ti offre il mio cuore. In attesa della felicità della comunione sacramentale, voglio possederti in spirito. Vieni a me o mio Gesù, che io vengo da te. Possa il tuo amore infiammare tutto il mio essere per la vita e per la morte. Credo in te, spero in te, ti amo.

PAPA FRANCESCO CELEBRAZIONE A SANTA MARTA – PER GLI OPERATORI SANITARI CHE HANNO DATO LA VITA PER COMBATTERE IL VIRUS – 18 MARZO

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LA CELEBRAZIONE MATTUTINA TRASMESSA IN DIRETTA
DALLA CAPPELLA DI CASA SANTA MARTA

PER GLI OPERATORI SANITARI CHE
HANNO DATO LA VITA PER COMBATTERE IL VIRUS

Mercoledì, 18 marzo 2020

È stata «per i defunti», per «coloro che a causa del virus hanno perso la vita» — e «in modo speciale, per gli operatori sanitari che sono morti in questi giorni» donando «la vita nel servizio agli ammalati» — la preghiera con cui Papa Francesco ha introdotto la messa mattutina nella cappella di Casa Santa Marta.
Proseguendo mercoledì 18 marzo la celebrazione quotidiana in diretta streaming, a causa della pandemia da covid-19, il Pontefice ha dapprima letto l’antifona d’ingresso tratta dal verso 133 del salmo 119 — «Guida i miei passi secondo la tua parola, nessuna malizia prevalga su di me» — quindi, dopo aver ascoltato la proclamazione delle letture, ha pronunciato un’omelia tutta incentrata sul tema della “legge” di un Dio che ha voluto farsi vicino agli uomini, ma la cui prossimità viene da questi troppo spesso rifiutata con l’allontanamento, il nascondersi da Lui, il rifiuto, che può portare fino all’omicidio: come insegna la storia dell’umanità da Adamo ed Eva, e da Caino e Abele, fino al giorno d’oggi.
Ambedue i testi — ha esordito riferendosi ai passi del Deuteronomio 4, 1.5-9 e del Vangelo di Matteo 5, 17-19 — parlano infatti della «Legge che Dio dà al suo popolo». Si tratta, ha spiegato, della «Legge che il Signore ha voluto darci e che Gesù ha voluto» portare «fino alla massima perfezione». Ma ad attirare l’attenzione di Francesco è soprattutto «il modo in cui Dio dà la Legge». Basta ascoltare quello che «dice Mosè», ha chiarito il Papa, ripetendone le parole: «Infatti, quale grande nazione ha gli dei così vicini a sé come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che Lo invochiamo?». Il messaggio è chiaro: «Il Signore dà la Legge al suo popolo con un atteggiamento di vicinanza. Non sono prescrizioni di un governante, che può essere lontano, o di un dittatore». Al contrario, ha fatto notare il Pontefice, «è la vicinanza; e noi sappiamo per la rivelazione che è una vicinanza paterna, di padre, che accompagna il suo popolo dandogli il dono della Legge».
Insomma la liturgia del giorno è un vero e proprio inno al «Dio vicino», come testimonia Mosè, con i versi che sono stati rilanciati dal Pontefice: «Infatti, quale grande nazione ha gli dei così vicini a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi, ogni volta che Lo invochiamo?». La risposta è più che evidente per Francesco: «Il nostro Dio — ha ribadito — è il Dio della vicinanza, è un Dio vicino, che cammina con il suo popolo. Quell’immagine nel deserto, nell’Esodo, la nube, la colonna di fuoco per proteggere il popolo: cammina con il suo popolo».
Ma c’è un ulteriore elemento ravvisato da Francesco: «Non è un Dio che lascia le prescrizioni scritte, “e vai avanti”». Tutt’altro: il Signore «fa le prescrizioni — le scrisse con le proprie mani sulla pietra —, le dà a Mosè»; gliele consegna, ma non è che le lascia «e se ne va: cammina, è vicino. “Quale nazione ha un Dio così vicino?”. È la vicinanza. Il nostro è un Dio della vicinanza», ha rimarcato il Papa.
Purtroppo però, è stata la successiva considerazione, «la prima risposta dell’uomo», quella che si ritrova «nelle prime pagine della Bibbia», si materializza in «due atteggiamenti di non vicinanza. La risposta nostra sempre è di allontanarsi; ci allontaniamo da Dio. Lui si fa vicino e noi ci allontaniamo». Basta sfogliare, ha osservato Francesco, «quelle due prime pagine» del libro della Genesi, per constatare che «il primo atteggiamento di Adamo con la moglie, è nascondersi: si nascondono dalla vicinanza di Dio, hanno vergogna, perché hanno peccato, e il peccato ci porta a nasconderci, a non volere la vicinanza». Di più, questi comportamenti conducono «tante volte, a fare una teologia soltanto pensata “nel giudice”, e per questo mi nascondo: ho paura».
Ma c’è anche di peggio: infatti «il secondo atteggiamento, umano, alla proposta di questa vicinanza di Dio» — secondo il Pontefice — «è uccidere. Uccidere il fratello. “Io non sono il custode di mio fratello”», è la celebre frase pronunciata da Caino dopo l’omicidio di Abele.
Insomma, è stata la conclusione del Papa, gli uomini di solito hanno questi «due atteggiamenti che cancellano ogni vicinanza»: in pratica rifiutano «la vicinanza di Dio». Ma — e questa è la buona notizia — siccome «Lui vuole essere padrone dei rapporti e la vicinanza sempre porta con sé qualche debolezza», ecco allora che «il “Dio vicino” si fa debole, e quanto più vicino si fa, più debole sembra. Quando viene da noi, ad abitare con noi, si fa uomo, uno di noi: si fa debole e porta la debolezza fino alla morte e la morte più crudele», la stessa «morte degli assassini… dei peccatori più grandi»: quella avvenuta sulla croce.
Inoltre, e questo è un secondo elemento consolatorio individuato da Francesco, «la vicinanza umilia Dio. Lui si umilia per essere con noi, per camminare con noi, per aiutare noi. Il “Dio vicino” ci parla di umiltà. Non è un “grande Dio”» che se ne sta lontano «lì; no. È vicino. È di casa. E questo lo vediamo in Gesù, Dio fatto uomo, vicino fino alla morte, con i suoi discepoli: li accompagna, insegna loro, li corregge con amore». E il pensiero del Papa è andato subito «alla vicinanza di Gesù ai discepoli angosciati di Emmaus» che «erano sconfitti»; ma «Lui si avvicina lentamente, per far loro capire il messaggio di vita, di risurrezione». Ecco dunque l’attualità della riflessione di Francesco: «Il nostro Dio — ha sottolineato — è vicino e chiede a noi di essere vicini, l’uno all’altro; di non allontanarci tra noi». Specie «in questo momento di crisi per la pandemia che stiamo vivendo», chiede di manifestare di più «questa vicinanza…, di farla vedere di più». Certo, il Papa si è detto consapevole che «non possiamo, forse, avvicinarci fisicamente per la paura del contagio»; ma «risvegliare in noi un atteggiamento di vicinanza tra noi», quello sì, è possibile. Come? Francesco lo ha chiarito con esempi concreti: «con la preghiera, con l’aiuto, tanti modi di vicinanza. E perché noi dobbiamo essere vicini l’uno all’altro? Perché il nostro Dio è vicino, ha voluto accompagnarci nella vita. È il Dio della prossimità. Per questo, noi non siamo persone isolate: siamo prossimi, perché l’eredità che abbiamo ricevuto dal Signore è la prossimità, cioè il gesto della vicinanza». Da qui l’esortazione finale del Pontefice a pregare il Signore per domandargli «la grazia di essere vicini, l’uno all’altro» e non, al contrario, di «nascondersi l’uno dall’altro», né di «lavarsene le mani, come ha fatto Caino, del problema altrui». Perché il momento attuale esige «prossimità. Vicinanza. “Infatti — ha concluso Francesco rinnovando la domanda di Mosè — quale grande nazione ha gli dei così vicini a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi, ogni volta che Lo invochiamo?».
Prima della conclusione della messa, è stato collocato sull’altare l’ostensorio — col quale poi il Papa ha impartito la benedizione finale — per alcuni minuti di silenziosa preghiera di adorazione. Al termine del rito, Francesco ha sostato davanti all’immagine mariana posta accanto all’altare della cappella di Santa Marta. E a mezzogiorno, nella basilica di San Pietro, il cardinale arciprete Angelo Comastri ha guidato la recita dell’Angelus e del rosario.

Publié dans:PAPA FRANCESCO |on 18 mars, 2020 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO L’angelo e il bambino – 2 ottobre 2015

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PAPA FRANCESCO L’angelo e il bambino – 2 ottobre 2015

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.225, 03/10/2015)

Per non lasciarci mai soli Dio ha messo accanto a ciascuno di noi un angelo custode che ci sostiene, ci difende, ci accompagna nella vita. Sta a noi saper cogliere la sua presenza ascoltandone i consigli, con la docilità di un bambino, per mantenerci sulla strada giusta verso il paradiso, forti della saggezza popolare che ci ricorda come il diavolo “faccia le pentole ma non i coperchi”. È proprio alla missione di «ambasciatori di Dio» dei santi angeli custodi, nel giorno della loro memoria liturgica, che Francesco ha dedicato l’omelia della messa celebrata venerdì 2 ottobre, nella cappella della Casa Santa Marta.
Per la sua riflessione il Pontefice ha preso spunto dalla preghiera eucaristica iv, perché «c’è una frase che ci fa riflettere». Infatti «diciamo al Signore: “Quando, per la sua disobbedienza, l’uomo perse la tua amicizia, tu non lo hai abbandonato”». E, ancora, «pensiamo — ha suggerito Francesco — a quando Adamo è stato cacciato via dal paradiso: il Signore non ha detto “arrangiati come puoi!”, non l’ha lasciato solo».
Del resto, ha detto riferendosi alla prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo (23, 20-23), Dio «ha sempre inviato aiuti: in questo caso si parla dell’aiuto degli angeli». Si legge, infatti, nel passo biblico: «Ecco, io mando un angelo davanti a te, per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che io ho preparato». Il Signore, dunque «non ha abbandonato» ma «ha camminato con il suo popolo, ha camminato con quell’uomo che aveva perso l’amicizia con lui: il cuore di Dio è un cuore di padre e mai abbandona i suoi figli».
Il Pontefice ha rimarcato che «oggi la liturgia ci fa riflettere su questo, e anche su un modo particolare di compagnia, di aiuto che il Signore ci ha dato a tutti: gli angeli custodi». Ognuno di noi, ha spiegato, «ne ha uno; ne ha uno che ci accompagna». E, ha aggiunto, proprio «nella preghiera, all’inizio della messa, abbiamo chiesto la grazia che nel cammino della vita siamo sorretti dal suo aiuto per poi godere, con loro, nel cielo».
Siamo «sorretti proprio dal loro aiuto: l’angelo che cammina con noi», ha ribadito il Papa, riferendosi all’espressione dell’Esodo: «Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato».
L’angelo custode «è sempre con noi e questa è una realtà: è come un ambasciatore di Dio con noi». E, sempre nel passo del libro dell’Esodo, proprio «il Signore ci consiglia: “Abbi rispetto della sua presenza!”». Così «quando noi, per esempio, facciamo una cattiveria e pensiamo» di essere soli, dobbiamo ricordarci che non è così, perché «c’è lui». Ecco, allora, l’importanza di «aver rispetto della sua presenza» e di «dare ascolto alla sua voce, perché lui ci consiglia». Perciò «quando sentiamo quell’ispirazione “Ma fa’ questo… questo è meglio… questo non si deve fare…”», il consiglio giusto è di ascoltarla e non di ribellarci all’angelo custode.
«Il mio nome è in lui» ha affermato ancora Francesco. E «lui ci consiglia, ci accompagna, cammina con noi nel nome di Dio». È sempre il libro dell’Esodo a indicare l’atteggiamento migliore: «Se tu dai ascolto alla sua voce e fai quanto ti dirò, io sarò il nemico dei tuoi nemici e l’avversario dei tuoi avversari». Ma «cosa vuol dire?», si è domandato il Papa. La risposta di Dio è chiara: «io sarò il tuo difensore, sarò sempre a difenderti, a custodirti. “Io!” dice il Signore, ma perché tu hai ascoltato i consigli, l’ispirazione dell’angelo».
Magari, ha proseguito il Pontefice, in alcune occasioni pensiamo di poter «nascondere tante cose»: è vero, «possiamo nasconderle». Eppure «il Signore ci dice che possiamo nascondere tante cose brutte, ma alla fine tutto si saprà». E «la saggezza del popolo dice che il diavolo fa le pentole, non i coperchi». Alla fine, perciò, «si sa tutto»; e «questo angelo, che noi tutti abbiamo, è per consigliarci, andare sul cammino». Dunque «è un amico, un amico che noi non vediamo, ma che sentiamo; è un amico che sarà con noi in cielo, nella gioia eterna».
«Dio ci manda l’angelo — ha detto Francesco — per liberarci, per allontanare il timore, per allontanarci dalla sventura». Ci «chiede soltanto di ascoltarlo, di rispettarlo»; dunque «soltanto questo: rispetto e ascolto». E «questo rispetto e ascolto a questo compagno di cammino si chiama docilità: il cristiano deve essere docile allo Spirito Santo», ma «la docilità allo Spirito Santo incomincia con questa docilità ai consigli di questo compagno di cammino».
È «l’icona del bambino» che Gesù sceglie «quando vuol dire come deve essere un cristiano». Ce lo rammenta il passo liturgico di Matteo (18, 1-5.10): «Chiunque si farà piccolo come questo bambino» sarà più grande nei cieli; e «guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli».
Queste parole di Gesù significano, ha spiegato il Papa, «che la docilità a questo compagno di cammino ci fa come bambini: non superbi, ci fa umili; ci fa piccoli; non sufficienti come quello orgoglioso e superbo. No, come un bambino!». Proprio «questa è la docilità che ci fa grande e ci porta in cielo».
Concludendo la sua meditazione, Francesco ha chiesto al Signore «la grazia di questa docilità, di ascoltare la voce di questo compagno, di questo ambasciatore di Dio che è accanto a noi nel nome suo», in modo che possiamo essere «sorretti dal suo aiuto, sempre in cammino».
E «anche in questa messa, con la quale noi lodiamo il Signore — ha concluso — ricordiamo quanto buono è il Signore: dopo aver perso l’amicizia non ci ha lasciato soli, non ci ha abbandonato», ma «ha camminato con noi, col suo popolo, e anche oggi ci dà questo compagno di cammino». Dunque, «ringraziamo e lodiamo il Signore per questa grazia e stiamo attenti con questo amico che il Signore ci ha dato».

 

PAPA FRANCESCO – I GUAI DI SAN PAOLO (2013)

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PAPA FRANCESCO – I GUAI DI SAN PAOLO (2013)

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Giovedì, 16 maggio 2013

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 112, Ven. 17/05/2013)

Con la sua testimonianza di verità il cristiano deve «dar fastidio» alle «nostre strutture comode», anche a costo di finire «nei guai», perché animato da una «sana pazzia spirituale» per tutte «le periferie esistenziali». Sull’esempio di san Paolo, che passava «da una battaglia campale a un’altra», i credenti non devono rifugiarsi «in una vita tranquilla» o nei compromessi: oggi nella Chiesa ci sono troppo «cristiani da salotto, quelli educati», «tiepidi», per i quali va sempre «tutto bene», ma che non hanno dentro l’ardore apostolico. È un forte appello alla missione — non solo nelle terre lontane ma anche nelle città — quello che Papa Francesco ha lanciato stamani, giovedì 16 maggio, nella messa celebrata nella cappella della Domus Sanctae Marthae.
Punto di partenza della sua riflessione il passo degli Atti degli apostoli (22, 30; 23, 6-11) che vede protagonista appunto san Paolo nel pieno di una delle sue «battaglie campali». Ma stavolta, ha detto il Papa, è una battaglia «anche un po’ iniziata da lui, con la sua furbizia. Quando si è accorto della divisione fra quelli che lo accusavano», tra sadducei e farisei, ha fatto in modo che andassero «uno contro l’altro. Ma tutta la vita di Paolo era di battaglia campale in battaglia campale, di persecuzione in persecuzione. Una vita con tante prove, perché anche il Signore aveva detto che questo sarebbe stato il suo destino»; un destino «con tante croci, ma lui va avanti; lui guarda il Signore e va avanti».
E «Paolo dà fastidio: è un uomo — ha spiegato il Pontefice — che con la sua predica, con il suo lavoro, con il suo atteggiamento dà fastidio perché proprio annuncia Gesù Cristo. E l’annuncio di Gesù Cristo alle nostre comodità, tante volte alle nostre strutture comode, anche cristiane, dà fastidio. Il Signore sempre vuole che noi andiamo più avanti, più avanti, più avanti». Vuole «che noi non ci rifugiamo in una vita tranquilla o nelle strutture caduche. E Paolo, predicando il Signore, dava fastidio. Ma lui andava avanti, perché aveva in sé quell’atteggiamento tanto cristiano che è lo zelo apostolico. Aveva proprio il fervore apostolico. Non era un uomo di compromesso. No! La verità: avanti! L’annuncio di Gesù Cristo: avanti! Ma questo non era soltanto per il suo temperamento: era un uomo focoso».
Tornando al racconto degli Atti, il Papa ha rilevato come «anche il Signore s’immischia» nella vicenda, «perché proprio dopo questa battaglia campale, la notte seguente, dice a Paolo: coraggio! Va’ avanti, ancora di più! È proprio il Signore che lo spinge ad andare avanti: “Come hai testimoniato a Gerusalemme le cose che mi riguardano, così è necessario che tu dia testimonianza anche a Roma”». E, ha aggiunto il Papa, «fra parentesi, a me piace che il Signore si preoccupi di questa diocesi fin da quel tempo: siamo privilegiati!».
«Lo zelo apostolico — ha quindi precisato — non è un entusiasmo per avere il potere, per avere qualcosa. È qualcosa che viene da dentro e che lo stesso Signore vuole da noi: cristiano con zelo apostolico. E da dove viene questo zelo apostolico? Viene dalla conoscenza di Gesù Cristo. Paolo ha trovato Gesù Cristo, ha incontrato Gesù Cristo, ma non con una conoscenza intellettuale, scientifica — è importante perché ci aiuta — ma con quella conoscenza prima, quella del cuore, dell’incontro personale. La conoscenza di Gesù che mi ha salvato e che è morto per me: quello proprio è il punto della conoscenza più profonda di Paolo. E quello lo spinge a andare avanti, annunciare Gesù».
Ecco allora che per Paolo «non ne finisce una che ne incomincia un’altra. È sempre nei guai, ma nei guai non per i guai, ma per Gesù: annunciando Gesù, le conseguenze sono queste! La conoscenza di Gesù Cristo fa che lui sia un uomo con questo fervore apostolico. È in questa Chiesa e pensa a quella, va in quella e poi torna a questa e va all’altra. E questa è una grazia. È un atteggiamento cristiano il fervore apostolico, lo zelo apostolico».
Papa Francesco ha poi fatto riferimento agli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola, suggerendo la domanda: «Ma se Cristo ha fatto questo per me, cosa devo fare io per Cristo?». E ha risposto: «Il fervore apostolico, lo zelo apostolico si capisce soltanto in un’atmosfera di amore: senza l’amore non si capisce perché lo zelo apostolico ha qualcosa di pazzia, ma di pazzia spirituale, di sana pazzia. E Paolo aveva questa sana pazzia».
«Chi custodisce proprio lo zelo apostolico — ha proseguito il Pontefice — è lo Spirito Santo; chi fa crescere lo zelo apostolico è lo Spirito Santo: ci dà quel fuoco dentro per andare avanti nell’annuncio di Gesù Cristo. Dobbiamo chiedere a lui la grazia dello zelo apostolico». E questo vale «non soltanto per i missionari, che sono tanto bravi. In questi giorni ho trovato alcuni: “Ah padre, è da sessant’anni che sono missionario nell’Amazzonia”. Sessant’anni e avanti, avanti! Nella Chiesa adesso ce ne sono tanti e zelanti: uomini e donne che vanno avanti, che hanno questo fervore. Ma nella Chiesa ci sono anche cristiani tiepidi, con un certo tepore, che non sentono di andare avanti, sono buoni. Ci sono anche i cristiani da salotto. Quelli educati, tutto bene, ma non sanno fare figli alla Chiesa con l’annuncio e il fervore apostolico».
Il Papa ha invocato quindi lo Spirito Santo perché «ci dia questo fervore apostolico a tutti noi; ci dia anche la grazia di dar fastidio alle cose che sono troppo tranquille nella Chiesa; la grazia di andare avanti verso le periferie esistenziali. La Chiesa ha tanto bisogno di questo! Non soltanto in terra lontana, nelle Chiese giovani, nei popoli che ancora non conoscono Gesù Cristo. Ma qui in città, in città proprio, hanno bisogno di questo annuncio di Gesù Cristo. Dunque chiediamo allo Spirito Santo questa grazia dello zelo apostolico: cristiani con zelo apostolico. E se diamo fastidio, benedetto sia il Signore. Avanti, come dice il Signore a Paolo: “Coraggio!”».
Hanno concelebrato, tra gli altri, il cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson e il vescovo Mario Toso, rispettivamente presidente e segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, monsignor Luigi Mistò, segretario dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Apsa), e il gesuita Hugo Guillermo Ortiz, responsabile dei programmi di lingua spagnola di Radio Vaticana. Tra i presenti, personale del dicastero Iustitia et Pax e un gruppo di dipendenti dell’emittente vaticana.

 

UDIENZA GENERALE – 8. Liturgia della Parola: I. Dialogo tra Dio e il suo popolo

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UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 31 gennaio 2018

La Santa Messa – 8. Liturgia della Parola: I. Dialogo tra Dio e il suo popolo

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Continuiamo oggi le catechesi sulla Santa Messa. Dopo esserci soffermati sui riti d’introduzione, consideriamo ora la Liturgia della Parola, che è una parte costitutiva perché ci raduniamo proprio per ascoltare quello che Dio ha fatto e intende ancora fare per noi. E’ un’esperienza che avviene “in diretta” e non per sentito dire, perché «quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura, Dio stesso parla al suo popolo e Cristo, presente nella parola, annunzia il Vangelo» (Ordinamento Generale del Messale Romano, 29; cfr Cost. Sacrosanctum Concilium, 7; 33). E quante volte, mentre viene letta la Parola di Dio, si commenta: “Guarda quello…, guarda quella…, guarda il cappello che ha portato quella: è ridicolo…”. E si cominciano a fare dei commenti. Non è vero? Si devono fare dei commenti mentre si legge la Parola di Dio? [rispondono: “No!”]. No, perché se tu fai delle chiacchiere con la gente non ascolti la Parola di Dio. Quando si legge la Parola di Dio nella Bibbia – la prima Lettura, la seconda, il Salmo responsoriale e il Vangelo – dobbiamo ascoltare, aprire il cuore, perché è Dio stesso che ci parla e non pensare ad altre cose o parlare di altre cose. Capito?… Vi spiegherò che cosa succede in questa Liturgia della Parola.
Le pagine della Bibbia cessano di essere uno scritto per diventare parola viva, pronunciata da Dio. È Dio che, tramite la persona che legge, ci parla e interpella noi che ascoltiamo con fede. Lo Spirito «che ha parlato per mezzo dei profeti» (Credo) e ha ispirato gli autori sacri, fa sì che «la parola di Dio operi davvero nei cuori ciò che fa risuonare negli orecchi» (Lezionario, Introd., 9). Ma per ascoltare la Parola di Dio bisogna avere anche il cuore aperto per ricevere le parole nel cuore. Dio parla e noi gli porgiamo ascolto, per poi mettere in pratica quanto abbiamo ascoltato. È molto importante ascoltare. Alcune volte forse non capiamo bene perché ci sono alcune letture un po’ difficili. Ma Dio ci parla lo stesso in un altro modo. [Bisogna stare] in silenzio e ascoltare la Parola di Dio. Non dimenticatevi di questo. Alla Messa, quando incominciano le letture, ascoltiamo la Parola di Dio.
Abbiamo bisogno di ascoltarlo! E’ infatti una questione di vita, come ben ricorda l’incisiva espressione che «non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). La vita che ci dà la Parola di Dio. In questo senso, parliamo della Liturgia della Parola come della “mensa” che il Signore imbandisce per alimentare la nostra vita spirituale. E’ una mensa abbondante quella della liturgia, che attinge largamente ai tesori della Bibbia (cfr SC, 51), sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, perché in essi è annunciato dalla Chiesa l’unico e identico mistero di Cristo (cfr Lezionario, Introd., 5). Pensiamo alla ricchezza delle letture bibliche offerte dai tre cicli domenicali che, alla luce dei Vangeli Sinottici, ci accompagnano nel corso dell’anno liturgico: una grande ricchezza. Desidero qui ricordare anche l’importanza del Salmo responsoriale, la cui funzione è di favorire la meditazione di quanto ascoltato nella lettura che lo precede. E’ bene che il Salmo sia valorizzato con il canto, almeno nel ritornello (cfr OGMR, 61; Lezionario, Introd., 19-22).
La proclamazione liturgica delle medesime letture, con i canti desunti dalla Sacra Scrittura, esprime e favorisce la comunione ecclesiale, accompagnando il cammino di tutti e di ciascuno. Si capisce pertanto perché alcune scelte soggettive, come l’omissione di letture o la loro sostituzione con testi non biblici, siano proibite. Ho sentito che qualcuno, se c’è una notizia, legge il giornale, perché è la notizia del giorno. No! La Parola di Dio è la Parola di Dio! Il giornale lo possiamo leggere dopo. Ma lì si legge la Parola di Dio. È il Signore che ci parla. Sostituire quella Parola con altre cose impoverisce e compromette il dialogo tra Dio e il suo popolo in preghiera. Al contrario, [si richiede] la dignità dell’ambone e l’uso del Lezionario, la disponibilità di buoni lettori e salmisti. Ma bisogna cercare dei buoni lettori!, quelli che sappiano leggere, non quelli che leggono [storpiando le parole] e non si capisce nulla. E’ così. Buoni lettori. Si devono preparare e fare la prova prima della Messa per leggere bene. E questo crea un clima di silenzio ricettivo[1].
Sappiamo che la parola del Signore è un aiuto indispensabile per non smarrirci, come ben riconosce il Salmista che, rivolto al Signore, confessa: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Sal 119,105). Come potremmo affrontare il nostro pellegrinaggio terreno, con le sue fatiche e le sue prove, senza essere regolarmente nutriti e illuminati dalla Parola di Dio che risuona nella liturgia?
Certo non basta udire con gli orecchi, senza accogliere nel cuore il seme della divina Parola, permettendole di portare frutto. Ricordiamoci della parabola del seminatore e dei diversi risultati a seconda dei diversi tipi di terreno (cfr Mc 4,14-20). L’azione dello Spirito, che rende efficace la risposta, ha bisogno di cuori che si lascino lavorare e coltivare, in modo che quanto ascoltato a Messa passi nella vita quotidiana, secondo l’ammonimento dell’apostolo Giacomo: «Siate di quelli che mettono in pratica la Parola e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi» (Gc 1,22). La Parola di Dio fa un cammino dentro di noi. La ascoltiamo con le orecchie e passa al cuore; non rimane nelle orecchie, deve andare al cuore; e dal cuore passa alle mani, alle opere buone. Questo è il percorso che fa la Parola di Dio: dalle orecchie al cuore e alle mani. Impariamo queste cose. Grazie!

 

PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA CRISTIANA – 24. LO SPIRITO SANTO CI FA ABBONDARE NELLA SPERANZA

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2017/documents/papa-francesco_20170531_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA CRISTIANA – 24. LO SPIRITO SANTO CI FA ABBONDARE NELLA SPERANZA

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 31 maggio 2017

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nell’imminenza della solennità di Pentecoste non possiamo non parlare del rapporto che c’è tra la speranza cristiana e lo Spirito Santo. Lo Spirito è il vento che ci spinge in avanti, che ci mantiene in cammino, ci fa sentire pellegrini e forestieri, e non ci permette di adagiarci e di diventare un popolo “sedentario”.
La lettera agli Ebrei paragona la speranza a un’àncora (cfr 6,18-19); e a questa immagine possiamo aggiungere quella della vela. Se l’àncora è ciò che dà alla barca la sicurezza e la tiene “ancorata” tra l’ondeggiare del mare, la vela è invece ciò che la fa camminare e avanzare sulle acque. La speranza è davvero come una vela; essa raccoglie il vento dello Spirito Santo e lo trasforma in forza motrice che spinge la barca, a seconda dei casi, al largo o a riva.
L’apostolo Paolo conclude la sua Lettera ai Romani con questo augurio: sentite bene, ascoltate bene che bell’augurio: «Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (15,13). Riflettiamo un po’ sul contenuto di questa bellissima parola.
L’espressione “Dio della speranza” non vuol dire soltanto che Dio è l’oggetto della nostra speranza, cioè Colui che speriamo di raggiungere un giorno nella vita eterna; vuol dire anche che Dio è Colui che già ora ci fa sperare, anzi ci rende «lieti nella speranza» (Rm 12,12): lieti ora di sperare, e non solo sperare di essere lieti. E’ la gioia di sperare e non sperare di avere gioia, già oggi. “Finché c’è vita, c’è speranza”, dice un detto popolare; ed è vero anche il contrario: finché c’è speranza, c’è vita. Gli uomini hanno bisogno di speranza per vivere e hanno bisogno dello Spirito Santo per sperare.
San Paolo – abbiamo sentito – attribuisce allo Spirito Santo la capacità di farci addirittura “abbondare nella speranza”. Abbondare nella speranza significa non scoraggiarsi mai; significa sperare «contro ogni speranza» (Rm 4,18), cioè sperare anche quando viene meno ogni motivo umano di sperare, come fu per Abramo quando Dio gli chiese di sacrificargli l’unico figlio, Isacco, e come fu, ancora di più, per la Vergine Maria sotto la croce di Gesù.
Lo Spirito Santo rende possibile questa speranza invincibile dandoci la testimonianza interiore che siamo figli di Dio e suoi eredi (cfr Rm 8,16). Come potrebbe Colui che ci ha dato il proprio unico Figlio non darci ogni altra cosa insieme con Lui? (cfr Rm 8,32) «La speranza – fratelli e sorelle – non delude: la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Perciò non delude, perché c’è lo Spirito Santo dentro di noi che ci spinge ad andare avanti, sempre! E per questo la speranza non delude.
C’è di più: lo Spirito Santo non ci rende solo capaci di sperare, ma anche di essere seminatori di speranza, di essere anche noi – come Lui e grazie a Lui – dei “paracliti”, cioè consolatori e difensori dei fratelli, seminatori di speranza. Un cristiano può seminare amarezze, può seminare perplessità, e questo non è cristiano, e chi fa questo non è un buon cristiano. Semina speranza: semina olio di speranza, semina profumo di speranza e non aceto di amarezza e di dis-speranza. Il Beato cardinale Newman, in un suo discorso, diceva ai fedeli: «Istruiti dalla nostra stessa sofferenza, dal nostro stesso dolore, anzi, dai nostri stessi peccati, avremo la mente e il cuore esercitati ad ogni opera d’amore verso coloro che ne hanno bisogno. Saremo, a misura della nostra capacità, consolatori ad immagine del Paraclito – cioè dello Spirito Santo –, e in tutti i sensi che questa parola comporta: avvocati, assistenti, apportatori di conforto. Le nostre parole e i nostri consigli, il nostro modo di fare, la nostra voce, il nostro sguardo, saranno gentili e tranquillizzanti» (Parochial and plain Sermons, vol. V, Londra 1870, pp. 300s.). E sono soprattutto i poveri, gli esclusi, i non amati ad avere bisogno di qualcuno che si faccia per loro “paraclito”, cioè consolatore e difensore, come lo Spirito Santo fa con ognuno di noi, che stiamo qui in Piazza, consolatore e difensore. Noi dobbiamo fare lo stesso con i più bisognosi, con i più scartati, con quelli che hanno più bisogno, quelli che soffrono di più. Difensori e consolatori!
Lo Spirito Santo alimenta la speranza non solo nel cuore degli uomini, ma anche nell’intero creato. Dice l’Apostolo Paolo – questo sembra un po’ strano, ma è vero: che anche la creazione “è protesa con ardente attesa” verso la liberazione e “geme e soffre” come le doglie di un parto (cfr Rm 8,20-22). «L’energia capace di muovere il mondo non è una forza anonima e cieca, ma è l’azione dello Spirito di Dio che “aleggiava sulle acque” (Gen1,2) all’inizio della creazione» (Benedetto XVI, Omelia, 31 maggio 2009). Anche questo ci spinge a rispettare il creato: non si può imbrattare un quadro senza offendere l’artista che lo ha creato.
Fratelli e sorelle, la prossima festa di Pentecoste – che è il compleanno della Chiesa – ci trovi concordi in preghiera, con Maria, la Madre di Gesù e nostra. E il dono dello Spirito Santo ci faccia abbondare nella speranza. Vi dirò di più: ci faccia sprecare speranza con tutti quelli che sono più bisognosi, più scartati e per tutti quelli che hanno necessità. Grazie.

PAPA FRANCESCO – IMMAGINI FORTI

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PAPA FRANCESCO – IMMAGINI FORTI

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Martedì, 13 giugno 2017

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVII, n.136, 14/06/2017)

L’«annuncio del Vangelo» non ammette «sfumature» o incertezze, non si nasconde dietro i “sì e no”. È solamente “sì” la parola su cui si fonda l’annuncio cristiano. Ed è questa la forza che «porta alla testimonianza», a essere «sale della terra» e «luce del mondo» e a «glorificare Dio». Le immagini e le parole «forti» proposte dalla liturgia di martedì 13 giugno sono state al centro della meditazione del Papa nella messa celebrata a Santa Marta.
«Immagini forti — ha detto il Pontefice — per significare quanto sia schiacciante, contundente, decisivo l’annuncio del Vangelo». Non si tratta quindi, ha spiegato, «di quelle parole, di quelle sfumature che sono un po’ “sì-sì”, “no-no”, e che alla fine ti portano a cercare una sicurezza artificiale, come per esempio è la casistica». Siamo invece di fronte a «parole forti: “sì”, è così. Parole che indicano la forza del Vangelo, la forza dell’annuncio cristiano, quella forza che ti porta alla testimonianza e anche a glorificare Dio».
San Paolo, ad esempio, nella seconda lettera ai Corinzi, (1, 18-22), spiega che nel “sì”, sono racchiuse «tutte le promesse di Dio: in Gesù sono compiute. Sono “sì”», perché «lui è la pienezza delle promesse. In lui si compie tutto quello che è stato promesso e per questo lui è pienezza, è “sì”». Ha detto Francesco: «In Gesù non c’è un “no”: sempre “sì”, per la gloria del Padre». E ha aggiunto: «Ma anche noi partecipiamo di questo “sì” di Gesù, perché lui ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo, ci ha dato la “caparra” dello Spirito». Quindi «partecipiamo perché siamo unti, sigillati e abbiamo in mano quella sicurezza — la “caparra” dello Spirito». Quello Spirito «che ci porterà al “sì” definitivo», alla «nostra pienezza», e che «ci aiuterà a diventare luce e sale», cioè a dare «testimonianza».
Di contro, «chi nasconde la luce fa una contro-testimonianza; è un po’ “sì” e un po’ “no”. Ha la luce, ma non la dona, non la fa vedere e se non la fa vedere non glorifica il Padre che è nei cieli». Allo stesso modo, c’è chi «ha il sale, ma lo prende per se stesso e non lo dona». Il Signore, invece, ci ha insegnato «parole decisive» e ha detto: «Il vostro parlare sia questo: sì, no. Il superfluo proviene dal maligno». Questo «atteggiamento di sicurezza e di testimonianza», ha spiegato il Pontefice, è stato affidato dal Signore «alla Chiesa e a tutti noi battezzati», ai quali si richiede «sicurezza nella pienezza delle promesse in Cristo: in Cristo tutto è compiuto», e «testimonianza verso gli altri». Questo, ha aggiunto, «è essere cristiano: illuminare, aiutare a che il messaggio e le persone non si corrompano, come fa il sale». Ma se non si accettano «il “sì” in Gesù» e la «“caparra” dello Spirito», allora «la testimonianza sarà debole».
La «proposta cristiana», ha specificato il Papa, è tanto «semplice» quanto «decisiva» e «dà tanta speranza». Basta quindi domandarsi: «Io sono luce per gli altri? Io sono sale per gli altri, che insaporisce la vita e la difende dalla corruzione? Io sono aggrappato a Gesù Cristo, che è il “sì”? Io mi sento unto, sigillato? Io so che ho questa sicurezza che andrà a essere piena nel cielo, ma almeno ne è “caparra”, adesso, lo Spirito?».
Per meglio comprendere le similitudini della luce e del sale, Francesco ha ricordato che anche «nel parlato quotidiano, quando una persona è piena di luce, diciamo: “questa è una persona solare”». Qui, ha spiegato, siamo di fronte al «riflesso del Padre in Gesù, nel quale le promesse sono tutte compiute», e al «riflesso dell’unzione dello Spirito che tutti noi abbiamo».
Ma, ha concluso, quale è il fine di tutto questo? Perché, insomma, «abbiamo ricevuto questo?». La risposta si trova nelle letture del giorno. Infatti san Paolo dice: «E per questo, attraverso Cristo, sale a Dio il nostro “amen” per la sua gloria», quindi «per glorificare Dio». E Gesù — nel vangelo di Matteo (5, 13-16) — dice ai discepoli: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre». Ancora una volta, «per glorificare Dio». Perciò, ha suggerito il Papa, «chiediamo questa grazia: di essere aggrappati, radicati nella pienezza delle promesse in Cristo Gesù, che è “sì”, totalmente “sì”», e di «portare questa pienezza con il sale e la luce della nostra testimonianza agli altri per dare gloria al Padre che è nei cieli».

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