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LECTIO DIVINA – CHIAMATI A LIBERTÀ: (Lc 4,16-39)

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LECTIO DIVINA – CHIAMATI A LIBERTÀ: (Lc 4,16-39)

IL GIUBILEO TEMPO DI GRAZIA

Stella Morra – 20 dicembre 1999

Monastero Cistercense – Fossano
La libertà in Cristo: la redenzione
Commento a Lc 4,16-39

Proseguiamo il cammino incominciato nei precedenti incontri sul tema del Giubileo, ma soprattutto sui contenuti del Giubileo. Nei primi due incontri ci siamo mossi sui testi del libro del Levitico, sul breve testo di istituzione del Giubileo, sul capitolo 19 del libro del Levitico “Siate santi perché io sono santo”. Questi due brevi percorsi ci consentivano di avere uno sfondo, che è lo sfondo dell’antica Alleanza, del patto con il popolo d’Israele dentro cui si radica l’idea del Giubileo. L’idea della libertà che il Giubileo porta con sé prende una forma concreta e l’esperienza dell’Esodo diventa l’esperienza, del popolo, della liberazione che Dio porta.
Questa sera (e viene bene perché siamo vicino al Natale) vorremmo fare un piccolo passo avanti, perché questo percorso di libertà e di riconoscimento che il tempo e la terra sono di Dio, cioè non appartengono a noi, trova in Cristo una svolta fondamentale.
Da questa sera in poi ci muoveremo su testi del Nuovo Testamento per cercare di raccogliere, da una parte, tutta l’eredità che viene dalla storia antica, ma anche rivisitarla dentro alla novità portata da Cristo.
Esamineremo una parte del cap. 4 del vangelo di Luca che è, in un certo senso, una sorta di manifesto di questa libertà.
Nella liturgia, normalmente, questo testo viene letto diviso: la prima parte, quella di Gesù che si alza nella sinagoga e legge il rotolo del profeta Isaia e dice: “Oggi questa parola si è adempiuta…”. Poi si legge, a volte, il pezzo in cui la folla vuole gettare Gesù dalla rupe, e poi si leggono le guarigioni.
E’ invece molto significativo il fatto che Luca ci presenti tutto questo come un quadro unitario, in qualche modo. Anche solo ad ascoltarlo si sentono le differenze di tono, di genere. Mi pare che in questa struttura noi possiamo vedere la qualificata differenza segnata da Gesù in questo annuncio di liberazione. C’è una prima parte in cui, leggendo Isaia, Lui dice: “Si è adempiuta questa parola” e dice: “Io sono questa buona notizia”. Poi c’è la reazione degli essere umani di fronte a questo; c’è poi l’azione di Gesù che segue la sua parola: le sue guarigioni. Sono guarigioni tipiche, tipologiche, due guarigioni che individuano un male molto preciso, guariscono da “quel” male, non da un male qualsiasi. Mi sembra bello vedere tutto il “movimento” del testo. Troppo spesso infatti leggiamo la prima parte e crediamo che Gesù è la lieta notizia data ai poveri, ma resta forse un’affermazione teorica perché non ci sono gli altri “pezzi”, la reazione: che cosa succede a noi, agli essere umani, a quelli che stavano davanti a Gesù, a noi, ogni volta che Gesù proclama questa libertà sulla nostra esistenza? E quali sono le opere che dobbiamo cercare intorno a noi, le azioni che mostrano la libertà che Gesù annuncia?

Proviamo a seguire il percorso passo a passo.
Innanzi tutto questo testo inizia a Nazareth dove Gesù era stato allevato: “…ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga”. In una riga e mezza fa il riassunto della vita di un buon adulto ebreo normale, nel posto dove era cresciuto, dove era stato bambino. Questo mi ha molto colpito perché riflettevo su come questo testo, tutto centrato sull’annuncio della grande libertà di Cristo, comincia con il racconto di un’abitudine e di legami con la storia del passato; racconta innanzi tutto la continuità di Gesù rispetto al posto dov’era stato allevato, il suo essere lì, ( tornato addirittura lì: era già andato via, ma era anche tornato lì, dove era stato allevato) e il suo agire normale, quindi in modo abitudinario, secondo una consuetudine che non era solo sua, ma era di tutto il popolo ebreo: entrare di sabato nella sinagoga.
Poi gli viene dato il rotolo del profeta e Lui legge, ed è un’altra azione tipica della vita religiosa di un buon ebreo: tutti i maschi adulti possono e devono leggere, a turno, i rotoli della Torah, pubblicamente, nella sinagoga. E’ l’azione tipica del maschio adulto, cioè è ciò che solo il maschio adulto può fare e deve fare, e il cui dover fare è un privilegio. Ovviamente maschio adulto vuol dire la pienezza del soggetto di fronte a Dio, per l’ebraismo. Si può discutere quanto questa cosa culturalmente sia per noi comprensibile, ma comunque quello che si dice è: colui che, a tutti gli effetti è un soggetto adulto, responsabile di fronte a Dio, fa questo.
Mi sembra che questo sia uno scenario tipico per ciascuno di noi, che ci accomuna tanto a questa storia, a questo annuncio di libertà, quanto ci provochi rispetto a noi stessi, perché dice ciò che, ci piaccia o no, siamo: gente che ha delle radici, che ha un passato, una storia (e ognuno sa la sua), una incrostazione di bene o di male, ricevuto o fatto, di cose che altri ci hanno insegnato e di cui siamo grati, di mali che altri ci hanno inflitto e di cui, per sforzandoci di perdonare, ancora portiamo qualche segno, di beni che abbiamo fatto ad altri e di cui conserviamo ancora un piccolo ricordo felice, di mali che abbiamo fatto e che vorremmo aver cancellato, di ferite aperte che non si rimarginano, di ferite rimarginate che fanno ancora un po’ male. Anche noi, in fondo, torniamo sempre lì dove siamo nati, dove siamo stati allevati. In qualche modo, ci piaccia o no, siamo, o siamo chiamati ad essere, dei soggetti adulti di fronte a Dio dentro una tradizione, che comporta delle regole, della abitudini, da: bisogna andare a messa la domenica a… tutto quello che possiamo immaginare.
Raramente noi pensiamo a tutto questo come all’inizio di una storia di libertà. Molto più facilmente, tutto ciò, a volte, ci sembra un carico, un fardello non particolarmente piacevole. Istintivamente, sentimentalmente, se pensiamo a una “botta” di libertà, pensiamo a una “botta” di novità, di qualcosa che interrompa, cambi, che renda discontinuo. Mi colpisce moltissimo che questo testo, questo grande annuncio di libertà che Gesù fa leggendo il profeta Isaia e questa parola che si dimostrerà efficace nelle opere che poi compie,nasca sotto questo segno.
E allora la domanda numero uno, mi pare, è: tutto ciò che fa di noi ciò che siamo è per noi un’esperienza, un annuncio di libertà, o no? E’ semplicemente un dato di fatto nel novanta per cento del tempo e una fatica nel restante dieci per cento del tempo?
Viene dato a Gesù il rotolo del profeta Isaia e Lui vi legge il passo che dice: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, mi ha mandato a..” e individua una serie di azioni: mi ha consacrato con l’unzione, mi ha mandato ad annunziare ai poveri un lieto messaggio, a proclamare ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a predicare un anno di grazia del Signore. E’, in qualche modo, il manifesto del Giubileo. Questo versetto “predicare un anno di grazia del Signore” è citato sempre in tutti i testi che riguardano il Giubileo, perché è la definizione, una delle definizioni più grandi del Giubileo. Questo testo di Isaia individua, disegna il Regno messianico.
La volta scorsa padre Cesare parlava del ritorno alle origini, del Giubileo che fa tornare al disegno di Dio, ma non è un disegno di nostalgia, che sta nel passato, ma un disegno di attesa, che ci sta di fronte. E’ interessante che i cristiani siano sempre costretti a questo meccanismo strano di ritorno al futuro, perché il disegno originario di Dio che ci ha generati nella sua pienezza, nella storia non è mai stato vissuto: lo vivremo nell’ultimo giorno. E allora dovremo sempre fare questo avanti-indietro dal disegno originario per essere attirati da un futuro.
Il Regno messianico disegna questa realtà: è la meta del santo viaggio. Questo era molto chiaro per un ebreo: è la Gerusalemme celeste, quella in cui i poveri sono lieti, i prigionieri sono liberati, i ciechi vedono, gli oppressi sono rimessi in libertà e c’è un anno di grazia del Signore.
Provocata dai primi versetti di cui vi dicevo prima, mi chiedo: qual è la qualità del nostro desiderio? Verso dove stiamo andando? Con quale bagaglio? Qual è il contorno di quello che per noi sarebbe un anno di grazia? Questa è un’altra questione qualificante perché possano agire le opere della libertà.
Si sente molto parlare, in bene ed in male, delle manifestazioni esteriori del Giubileo, ma in fondo che cosa ognuno di noi si aspetta da questo Giubileo? Forse questa è una domanda da farsi. Innanzi tutto per sé e poi per tutti. Altrimenti rischiamo di essere delusi e di pensare che non è servito a niente, perché, in fondo, non desideriamo niente. Qual è l’anno di grazia del Signore che ci attendiamo? Col nostro fardello con cui ci arriviamo: adulti con delle abitudini, con dei doveri, nel luogo dove siamo stati allevati, con ciò che siamo, con la nostra storia. Arrivando con tutto questo, che domanda facciamo all’anno di grazia del Signore?
Gesù arrotola il volume, lo rende all’inserviente e Luca annota: “Gli occhi di tutti nella sinagoga stavani fissi sopra di Lui”.
Nel testo di Isaia l’unica menomazione fisica cui si fa cenno è la cecità. Ci sono altri testi nei quali il Regno messianico viene legato a: i sordi odono, i muti parlano…
In questo testo l’unica cosa che si dice è: “I ciechi riavranno la vista”. E la reazione immediata della prima parte del racconto è: “Gli occhi di tutti stavano fissi su di Lui”. In qualche modo è come se Luca ci dicesse che già la Parola si è adempiuta: quelli che stanno lì, vedono, vedono Gesù. Ci sarà forse un problema dopo, in quanto forse non è quello che desideravano vedere, o forse non sapevano della loro cecità e quindi non hanno potuto rallegrarsi di “tenere gli occhi fissi su di Lui”.
Gesù dice: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi”. Mi pare che anche qui Luca “gioca” abbastanza: gli altri lo guardano e Lui parla delle orecchie; mostra come, in fondo, c’è uno spostamento. La Scrittura è la risposta a questi che lo guardano. Sto spiegando in modo letterario per dire una cosa che a me sembra importante: mi sembra che uno dei problemi più grandi che abbiamo nello sperimentare, nel ricevere, la libertà che il Signore ci dà, è l’essere sempre un po’ sfasati nel tempo, avere una grande difficoltà a metterci sul ritmo del Signore, sul fatto che regolarmente, quando Lui ci propone una cosa, noi ne stiamo cercando un’altra, che quando guardiamo ci sarebbe da sentire e quando sentiamo ci sarebbe da guardare; quando uno è sempre un po’ sfasato, alla fine si confonde.
Questo è molto comune, accade spesso nelle relazioni umane, negli affetti, negli amori: si sbaglia ritmo, si ha voglia di parlare quando l’altro non ha parole; ci vuole una grande intimità, una grande consuetudine per riuscire a trovare dei ritmi che non siano fatti di regole stabilite dall’esterno, ma di un respiro comune, per cui ci si conosce così tanto e si sa così tanto star vicino.
Nasce la terza questione per noi: con quello che siamo, e soprattutto aspettandoci qualcosa, desiderando qualche tipo di libertà, forse la nostra questione è trovare una familiarità tale con il Signore, per cui troviamo il Suo ritmo e riusciamo a sentire quando c’è da sentire e a guardare quando c’è da guardare, a riconoscere il gesto e la misura di Dio nei nostri confronti. La Sua misura è immensa, la libertà che ci offre costante, ma molto spesso noi siamo così concentrati su dei pezzi della nostra vita che ci perdiamo tutto ciò che succede intorno. E allora la condizione di tutto questo è la familiarità.
Mi pare che sia una buona domanda: come si trova la familiarità con il Signore? Una consuetudine con Lui?
C’è poi un versetto strano che dice: “Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati dalle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca”.Il versetto è strano perché non si capisce a che cosa rendono testimonianza. Che cosa significa? Si capisce quando nei Vangeli si dice che qualcuno rende testimonianza dopo aver visto un miracolo, si capisce quando Gesù richiede la testimonianza e dice: “Tu credi?”.
Ma qui, che cosa vuol dire: “Tutti gli rendevano testimonianza”?
La questione è seria. Gesù dice: “Ora si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito”. E tutti gli rendono testimonianza: che ha ragione, che davvero si è adempiuta questa Scrittura; eppure non hanno visto niente, Lui ha solo parlato, Lui ha solo detto.
La familiarità con Gesù fa rendere testimonianza che la Sua Parola è vera, e non c’è bisogno di provarla: è la storia di un rapporto, di un incontro serio. Nel nostro linguaggio comune noi diremmo: “Io mi fido di lui”.
Tutti gli rendono testimonianza e tutti sono meravigliati: è il segnale che Luca mette dopo la sfasatura dei tempi per dire che c’è un modo: è stare vicini; la Parola è compiuta quando si sta vicini al Signore, quando si ha questa familiarità con Lui che consente di trovare il Suo ritmo. Paolo dice: “Tutto coopera al bene di coloro che credono”. Tutto diventa una prova, una testimonianza.
Poi c’è un improvviso cambio di tono, una frattura. Letterariamente qui si tratta di due brani attaccati insieme, ma nella lettura che noi abbiamo, nel testo, così come è, non è senza logica. C’è la storia di adulti, c’è questo annuncio di libertà la cui condizione è la familiarità e poi c’è una frattura durissima: dicevano: “Non è il figlio di Giuseppe?”. Anche Gesù assume un tono polemico e dice: “Forse mi direte: medico cura te stesso…”. Si passa dal tono della familiarità all’altra possibile reazione: dentro un rapporto questa parola è compiuta, fuori da un rapporto, questa parola non si capisce, non c’è una logica.
Lontani da Gesù, si dice di Lui: “Non è costui il figlio di Giuseppe?”, non c’è via d’uscita.
Gesù è molto duro, dice: “C’erano molte vedove al tempo di Elia, eppure fu scelta una vedova di Sarepta in Sidone; c’erano molti lebbrosi al tempo di Eliseo, eppure fu scelto per essere guarito Naaman il siro”.
Gesù dice ai suoi che dentro la storia c’è questa ambiguità. In fondo qui per gli ebrei il tema era: chi appartiene al popolo ebraico e chi no, chi è il bravo maschio adulto che può leggere la Torah e invece… la vedova di Sidone, Naaman il siro, i pagani, che non potevano nemmeno entrare nella sinagoga.
E’ come se Gesù dicesse: la familiarità non è data da un’appartenenza; non basta “stare lì”, non basta dirsi bravi cattolici, non basta stare semplicemente dentro questa storia; la familiarità è data dallo spazio possibile per le opere che liberano, che salvano, e da questo incontro con Lui. Dunque, attenzione alle ambiguità: non scegliete troppo in fretta chi è vicino e chi no, chi ha ragione e chi ha torto, chi è buono e chi è cattivo.
Ma anche, e ancora di più c’è un tema molto forte di ambiguità dei segni. Una domanda per noi: dentro la storia quali segni cerchiamo? Quali sono le cose che ci confermano o che ci mettono dubbi sulla libertà che Dio ha portato?
I segni sono ambigui, perché possono riguardare i pagani, perché possono non essere dati in un posto come questo, la città della sua nascita, la sinagoga, il sabato: il massimo del “giusto” del “tutto ben sistemato”.
Il tema è grande: la nostra storia di adulti, con tutto quello che ci portiamo dietro, la domanda su qual è l’anno di grazia che ci aspettiamo, la questione della familiarità con Dio, tutto ciò sta sotto il segno di un’ambiguità, dell’impossibilità di tracciare confini precisi, di decidere una volta per tutte, di sapere esattamente come vanno le cose, chi ha ragione e chi ha torto, dove stanno le cose giuste e quelle sbagliate, della necessità di interrogare i segni. Mi pare che anche qui l’esperienza del Giubileo è un’esperienza piena di segni: il pellegrinaggio, la porta santa, la visita alle basiliche; è una storia di segni e c’è una grande sapienza nel farci periodicamente rifare l’esperienza che ci sono dei segni e che i segni vanno letti, guardati, pensati. Ma c’è anche l’ambiguità dei segni quotidiani che sono segni dati per spiegare, dunque sono segni “chiari”. Nella nostra vita quotidiana non sappiamo mai se la soglia che stiamo per attraversare è una porta santa o una porta di perdizione, non sappiamo mai bene se il luogo verso cui stiamo pellegrinando è un luogo “segno” della presenza del Signore o no, se la persona che incontriamo ci sta mostrando la povertà di Cristo o che cosa.
Questo tema dell’ambiguità della storia è un tema tipico dell’adultità credente. Usciamo dall’entusiasmo giovanile che sa sempre chi ha ragione e chi ha torto e cominciamo ad essere un po’ più pensosi, a sapere qualcosa di più di noi stessi, della nostra vita, ad essere un po’ più cauti nel decidere chi ha ragione e chi ha torto.
Questa ambiguità è qualcosa che Gesù ripropone: l’anno di grazia è proclamato, ma nella storia sta sotto spoglie ambiguamente interpretabili; come Lui, che è il Figlio di Dio incarnato e di cui si può dire: “Non è forse costui il figlio di Giuseppe?”. La frase non è casuale, non è un insulto qualsiasi, la frase è: è Lui stesso un segno ambiguo, è qualcuno che può essere chiamato con il nome del suo padre in terra che è Giuseppe, e Lui invece è il Figlio del Padre.
“All’udire queste cose tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno. Si levarono, lo cacciarono fuori dalla città e lo condussero sulla cima del monte per gettarlo giù dal precipizio”. Anche qui Luca si dimostra buon conoscitore degli esseri umani. Possiamo essere meravigliati di un annuncio di libertà e anche ammirarlo, ma l’annuncio dell’ambiguità ci angoscia. Quindi si arrabbiano molto e vogliono buttarlo giù da un monte. Cioè vogliono negare il dovere di discernere nei segni che invece viene messo nelle loro mani. Credo che capiti anche a noi così: molto spesso preferiremmo che gli annunci di libertà ci fossero dati preconfezionati; se qualcuno mi dice che cosa devo fare, posso poi decidere se farlo o no, il fatto è che viene rimessa in mano a ciascuno di noi la nostra esistenza, che sarà ancora la stessa cosa che il Risorto farà (pensiamo all’incontro tra il Risorto e Maria di Magdala, nel quale lei, quando lo riconosce, lo chiama maestro e Lui la chiama Maria, cioè le restituisce il suo nome, le ridà la sua vita). L’incontro con Gesù nei Vangeli è sempre raccontato sotto questo segno: chi ha fede in Lui, chi lo incontra gli domanda qualcosa e Lui rende sempre a se stessi, ti rimette in mano tutta la tua vita.
C’è chi, come i vari pubblicani, dice: “ho sbagliato”, c’è chi, come il giovane ricco se ne va triste. Le reazioni sono molto diverse: c’è chi, come Pietro si agita moltissimo, ma l’operazione di grande libertà, la parola adempiuta della grande libertà, è che ognuno è reso a se stesso, che significa anche reso alla propria ambiguità, alla fatica che noi facciamo a sapere di noi, dei nostri desideri, di quello che ci accade, di quello che vogliamo.Ma questa è la parola compiuta della libertà: essere resi a noi stessi.
Gli uditori di Gesù, secondo Luca, si arrabbiano molto: vogliono buttarlo giù dal monte. “… ma Egli, passando in mezzo a loro, se ne andò.” Moltissime volte, nel Vangelo, c’è questa espressione. Gesù scatena la discussione, ma poi non vi partecipa. Tutte le volte che c’è una reazione è come se desse questo segnale: da quel punto in poi il problema è loro, non è più suo. Dunque Lui passa in mezzo e se ne va. E’ qualcosa che, in qualche modo, non lo riguarda più, non è più un dato suo, ha fatto ciò che doveva fare, Lui l’ha fatto. Questa dunque è la prima parte: l’annuncio della libertà e la reazione.

Poi ci sono i due racconti di guarigione.
“Discese a Cafarnao…”: va in un’altra città e comincia a compiere le opere delle quali ha annunciato nella lettura del testo di Isaia.
A Cafarnao “insegna”, ammaestra la gente, che rimane colpita dal suo insegnamento, e c’è lo scontro con il demonio, lo spirito immondo che gli dice: “so chi sei, il Santo di Dio”. Gesù gli dice: “Taci, vattene”. E tutti sono presi da paura e dicono: “Che parola è mai questa, che comanda con autorità e potenza agli spiriti immondi ed essi se ne vanno?”.
E’ chiaro che Luca sta dicendo che la parola che Gesù ha detto nella prima parte “ora si è compiuta..”, che è una parola efficace, una parola che opera, e opera su due cose: sullo spirito immondo e sulla febbre della suocera di Simone.
Il grande annuncio è che la prima libertà che ci viene data è la libertà dalle invisibili forze che ci abitano, la libertà da tutte quelle parti di noi o da quella esperienza di noi che facciamo e che è così difficilmente governabile e che in realtà è la più grande schiavitù che abbiamo: quasi mai sono le cose esterne, o comunque solo in situazioni limite, che ci rendono schiavi; la nostra esperienza quotidiana è che, in fondo, abbiamo un margine di manovra piuttosto ampio, ma è la nostra esperienza interiore che fa di noi, in qualche modo, degli schiavi.
La seconda guarigione, la guarigione della suocera di Simone ci racconta la guarigione da qualcosa che ci viene dall’esterno, che nella vita può accadere. Questa è molto più semplice, non è scenografica come la prima, è banale: qualcun altro chiede per lei la guarigione e Gesù guarisce. La cosa svanisce, ma il risultato è che “lei cominciò a servirli”. Come se ciò che ci libera dal di dentro ci rendesse capaci di “stare”, di “essere”, ciò che ci libera dal di fuori provoca gratitudine e capacità di servizio.
Riflettiamo su queste due dimensioni di libertà: se non siamo liberi dentro, liberi da noi stessi, dalle prigioni che ci costruiamo, non siamo nemmeno persone, ma è vero che poi le mille cose dell’esterno fanno spazio e allora possiamo servire il Signore, cioè possiamo avere lo spazio di cuore, di anima, di energia, di desiderio per fare ciò che serve al Suo Regno.
Questo testo disegna bene questa novità portata da Gesù: è la novità di una parola di libertà incarnata, che non dice solo più i valori, ma libertà incarnata nella storia di Gesù e, dunque, nella nostra storia; l’annuncio di libertà ha i colori e i sapori dei nostri percorsi di vita, di quello che siamo, si fa carico dell’ambiguità e della fatica, ma anche della potenza di risposta della nostra vita quotidiana.

BRANO BIBLICO SCELTO – 1 CORINZI 10,1-6.10-12

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BRANO BIBLICO SCELTO – 1 CORINZI 10,1-6.10-12

1 Non voglio che ignoriate, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, 2 tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, 3 tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, 4 tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. 5 Ma della maggior parte di loro Dio non si compiacque e perciò furono abbattuti nel deserto. 6 Ora ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. 10 Fratelli, non mormorate, come mormorarono alcuni di essi, e caddero vittime dello sterminatore. 11 Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio e sono state scritte per ammonimento nostro, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. 12 Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.

COMMENTO 1 Corinzi 10,1-6.10-12 Il pericolo dell’idolatria Uno dei problemi sottoposti a Paolo dai cristiani di Corinto era quello riguardante le carni sacrificate agli idoli (1Cor 8-10) Nella sua risposta l’apostolo, pur apprezzando la «conoscenza» di chi si ritiene libero di mangiare questo tipo di carne, sottolinea anzitutto l’esigenza di rispettare la coscienza dei fratelli più deboli, i quali credono che ciò non sia permesso (1Cor 8); come punto di riferimento presenta poi il suo esempio personale di dedizione totale ai fratelli (1Cor 9); ritornando al tema della sezione, egli mette in luce il pericolo dell’idolatria (1Cor 10,1-13) e infine viene alle direttive concrete (1Cor 10,14-33). La liturgia propone il testo in cui Paolo mette in luce il rischio di cadere nell’idolatria, sottolineando che esso può derivare anche da un comportamento troppo libero nel mangiare la carne sacrificata agli idoli, soprattutto quando questo gesto è collegato con il culto dei falsi dèi. Egli motiva questa affermazione con una riflessione sulla storia di Israele (vv. 1-6), ricavando poi da essa insegnamenti e ammonizioni (vv. 7-13). Il metodo a cui si ispira è quello giudaico del midrash, che gli permette di rileggere il passato in funzione della nuova situazione in cui si trovano i credenti in Cristo.

La storia di Israele (vv. 1-6). Al fine di mettere in guardia i corinzi, Paolo presenta anzitutto in sintesi l’esempio dei padri, mostrando che essi, pur avendo ricevuto notevoli grazie spirituali, non hanno saputo resistere all’attrattiva del peccato. Dopo la formula iniziale («Non voglio infatti che ignoriate, fratelli») con la quale sottolinea l’importanza di ciò che sta per dire e al tempo stesso indica l’inizio di una nuova riflessione, Paolo prosegue: «I nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare» (vv. 1-2). L’esperienza fatta dagli israeliti al tempo dell’esodo ha valore anche per i cristiani, i quali riconoscono in essi i loro progenitori nella fede. Ora tipico di questi progenitori è il fatto di essere stati sotto la nube e di aver attraversato il mare. Queste due esperienze vengono interpretate simbolicamente come un «essere battezzati» (baptisthênai, essere immersi) nella nube e nel mare. L’idea che gli israeliti fossero immersi nella nuvola non è attestata nel libro dell’Esodo, dove si dice semplicemente che la nube li precedeva e li seguiva (cfr. Es 13,21); essa viene però suggerita nel Sal 105,9 («Dio stese una nube per proteggerli»), e in Sap 19,7 («Si vide la nube coprire d’ombra l’accampamento»). Nessun accenno all’immersione nel mare si trova invece nell’AT, dove si parla soltanto di un passaggio degli israeliti all’asciutto, dopo che le acque si erano ritirate (cfr. Es 14,29): bisogna dunque pensare che Paolo ha dato una sua interpretazione personale dell’esodo, o che conosceva una tradizione popolare andata perduta che esprimeva in quel modo gli eventi allora capitati. Tuttavia è chiaro che se egli descrive in questo modo gli eventi dell’esodo, lo fa perché appaia che i doni ricevuti dai padri sono un’anticipazione del battesimo cristiano. Questo battesimo simbolico si è verificato «in rapporto a (eis, verso) Mosè»: ciò vuol dire che l’immersione nella nube e nel mare significa la solidarietà con il condottiero dell’esodo; ciò richiama naturalmente il battesimo cristiano, che appunto era amministrato «in (eis) Cristo Gesù» (cfr. Rm 6,3). Il rapporto degli ebrei con Mosè prefigurava dunque l’incorporazione a Cristo effettuata nel battesimo cristiano e ne anticipava la realtà salvifica. Dopo aver presentato la liberazione degli israeliti come un’esperienza battesimale Paolo prosegue: «Tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo» (vv. 3-4). Il cibo spirituale, dato cioè dallo Spirito di Dio e quindi apportatore di un dono salvifico, non è altro che la manna, chiamata anche «pane del cielo» (Sal 78,24; cfr. Sap 16,20), nella quale i primi cristiani vedevano la prefigurazione del pane moltiplicato da Gesù durante il suo ministero, simbolo a sua volta del pane distribuito nell’ultima cena (Gv 6,31-33) e consumato dai corinzi nella celebrazione della cena del Signore (cfr. 1Cor 11,17-34). La bevanda spirituale è l’acqua scaturita dalla roccia (Es 17,6). Riprendendo una leggenda rabbinica (Tosefta Sukka 3,11), Paolo dice che questa roccia seguiva gli israeliti nel deserto. Inoltre, ispirandosi forse al fatto che essa era stata identificata da Filone di Alessandria con la Sapienza (Allegorie delle leggi 2,86), afferma che la roccia era il Cristo, da lui stesso già precedentemente designato come Sapienza di Dio (cfr. 1Cor 1,24.30): lo stesso Cristo dunque era già presente nell’esodo come fonte di salvezza per gli israeliti. L’esperienza della salvezza fatta da Israele non ha dunque nulla da invidiare a quella dei cristiani. «Ma, soggiunge Paolo, la maggior parte di loro non fu gradita a Dio, e perciò furono sterminati nel deserto» (v. 5). Se essi sono stati rifiutati da Dio, ciò non è dovuto a un venir meno della grazia divina, ma alla mancanza di collaborazione da parte loro. L’apostolo vuole dunque insinuare che i sacramenti non operano in modo automatico, come i corinzi potevano pensare (cfr. 11,17-34), ma richiedono la fede viva e operosa di chi li riceve. Dopo aver descritto l’esperienza degli ebrei, Paolo soggiunge: «Ora ciò avvenne come esempio (typos) per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono» (v. 6). Il termine greco typos significa impronta, e di conseguenza segno, figura, esempio. La continuità della storia della salvezza fa sì che gli errori del passato divengano esempio e figura di quanto può capitare anche ai credenti in Cristo, se non si dissociano dalla mentalità da cui Israele si è lasciato dominare. Il peccato da evitare è il desiderio egoistico proibito dal decalogo (Es 20,17), che ha spinto gli israeliti nel deserto a chiedere carne di cui sfamarsi (cfr. Nm 11,4.34): questo stesso desiderio potrebbe ora, anche per i corinzi, aprire la strada all’idolatria.

Ammonizioni (vv.10-12). Gli eventi che hanno contrassegnato la liberazione di Israele non sono solo figure della salvezza già attuata da Cristo e trasmessa attraverso i sacramenti, ma rappresentano anche severe ammonizioni perché i cristiani non commettano gli stessi peccati di cui si sono macchiati i loro progenitori nella fede. Paolo ne menziona quattro, di cui i prime tre sono omessi nel brano liturgico: l’idolatria, la fornicazione e la tentazione di Dio e la mormorazione. All’idolatria, di cui è un esempio l’adorazione del vitello d’oro, si riferisce la frase: «Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi» (v. 7; cfr. Es 32,6): in realtà è proprio l’idolatria il peccato più grave in cui i corinzi potrebbero cadere mangiando carni sacrificate agli idoli. La fornicazione (porneia) è collegata con l’episodio del culto di Baal-Peor, raccontato nel libro dei Numeri, che ha provocato lo sterminio di ventitremila persone (v. 8; cfr. Nm 25,1-9). La tentazione di Dio si rifà alla richiesta di cibo nel deserto, a cui fa seguita come punizione la morsicatura da parte dei serpenti (v. 9; cfr. Nm 21,5-6). Infine, e qui riprende il testo liturgico, Paolo mette in guardia i corinzi dalla mormorazione: «Non mormorate, come mormorarono alcuni di essi, e caddero vittime dello sterminatore» (v. 10). La mormorazione è collegata a diversi episodi in cui gli israeliti si lamentarono per le difficoltà dell’esodo e alcuni di loro furono sterminati da Dio (v. 10; cfr. Nm 17,6-15). Al termine di questa lista di peccati Paolo riprende quanto aveva affermato nel v. 6, commentando: «Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio (typikôs), e sono state scritte per nostro ammonimento (nouthesian), di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi» (v. 11). Nessuno deve pensare, perché sono giunti i tempi della salvezza definitiva attuata da Cristo, che non vi sia più pericolo di peccare. «Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere» (v. 12). La tentazione resta, ma il credente ha il potere di superarla, purché non si lasci prendere dalla falsa presunzione di essere esente da cadute. L’apostolo conclude con una riflessione, non riportata dalla liturgia, con la quale intende incoraggiare i suoi corrispondenti: non li ancora ha sorpresi nessuna tentazione che non sia semplicemente «umana», cioè proporzionata alle loro forze; Dio è fedele e non permette che essi siano tentati con una intensità che supera le loro forze ma, con la tentazione, dà anche il modo di uscirne e la forza per superarla (v. 13). La grazia di Dio è più forte della tentazione: chi sbaglia è l’unico responsabile del suo peccato, perché Dio dà a tutti la possibilità di superare la prova.

Linee interpretative Nel c. 8 Paolo aveva dato al problema delle carni sacrificate agli idoli una soluzione improntata da un lato alla libertà e dall’altro al rispetto della coscienza, sia la propria, che deve essere seguita quando proibisce qualcosa come peccaminoso, sia quella degli altri, quando si comportano conformemente ad essa. Il riferimento alla coscienza propria e altrui rappresenta il vero e unico limite della propria libertà. Tuttavia esiste anche l’obbligo, sottolineato in questo brano, di non porre gesti che in se stessi possono avere conseguenze dannose per chi li compie, anche se ciò a prima vista non appare. In questa luce deve essere considerata la partecipazione ad atti di culto veri e propri nell’ambito sociale in cui i cristiani vivevano. Rifacendosi all’esempio degli israeliti Paolo mette in luce come, in certe circostanze, il mangiare la carne sacrificata agli idoli può comportare il rischio di cadere, contrariamente alle proprie intenzioni, nel peccato stesso di idolatria. È bene comunicare alla vita dei propri concittadini, ma vi sono dei limiti che non è conveniente oltrepassare. Confidare troppo nelle proprie forze significa tentare Dio, e questo, insieme alla fornicazione e alla mormorazione, è già un peccato che può separare da lui. La tentazione di lasciarsi coinvolgere nell’idolatria diffusa nel proprio ambiente era forte, ma Paolo sottolinea che Dio, permettendo la tentazione, dà anche la possibilità di resisterle. Al tempo di Paolo questa direttiva esigeva dai cristiani un forte isolamento dal resto della società proprio in quei momenti di culto o di festa nei quali era più facile e spontaneo solidarizzare. In pratica però si trattava di sganciarsi da una mentalità “idolatrica” che pervadeva i più disparati settori della società: non solo quindi l’ambito più specificamente religioso, ma anche quelli dell’economia e della politica, che più in profondità erano espressione di un’idolatria pratica, consistente nell’ingiustizia e nello sfruttamento dell’altro. Il farsi tutto a tutti, di cui Paolo aveva parlato appena prima, ha dunque dei confini che non si possono valicare. Se il credente nella vita sociale è disposto ad adeguarsi senza riserve all’idolatria del consumismo, del potere e dei soldi, la sua fede si riduce a una semplice etichetta, che non trasforma in profondità la sua esistenza, e che quindi rappresenta una formalità inutile. >

SECONDA LETTURA – PRIMA LETTERA DI SAN PAOLO AI CORINZI, 12, 4-11 – MARIE-NOËLLE THABUT

http://www.eglise.catholique.fr/approfondir-sa-foi/la-celebration-de-la-foi/le-dimanche-jour-du-seigneur/commentaires-de-marie-noelle-thabut/

COMMENTAIRES DE MARIE-NOËLLE THABUT, DIMANCHE 17 JANVIER 2016

SECONDA LETTURA – PRIMA LETTERA DI SAN PAOLO AI CORINZI, 12, 4-11

(traduzione Google dal francese)    

Le lettere ai Corinti risalgono venti secoli e non sono invecchiate di un po ‘? Piuttosto, è del tutto pertinente: come rimanere cristiani in un mondo che ha altri valori? Come ordinare le idee che circolano, quelli compatibili con la fede cristiana? Come convivere con i non cristiani senza venir meno alla carità? Ma non perdere la nostra anima, come si dice? Il mondo intorno a parlare di sesso e denaro … Come evangelizzare? Questi erano i problemi dei cristiani di Corinto recenti convertiti in un mondo prevalentemente pagana; sono nostri ormai vecchi cristiani o no, ma in una società che non è più sottolinea i valori cristiani. le risposte di Paolo ci riguardano quindi quasi tutti. Parla delle divisioni nella comunità, i problemi della vita coniugale, soprattutto quando i coniugi non condividono la stessa fede, il Capo di stare in mezzo a tutte le nuove idee commercianti: su tutti questi punti, mette la le cose al loro posto. Ma sempre, come quando parla di cose molto concrete, ha prima ricorda la fondazione delle cose, che è il nostro Battesimo: nelle parole di Giovanni Battista, mediante il Battesimo, siamo stati immersi nel fuoco dello Spirito (Mt. 3, 11), e ora è lo Spirito che si rifrange attraverso di noi secondo la nostra diversità. Paolo dice la stessa cosa: « Colui che agisce in tutto questo è uno e medesimo Spirito distribuisce i suoi doni a ciascuno secondo la sua volontà. « In Corinto, come in tutto il mondo ellenistico, l’intelligenza era adorato, abbiamo sognato di scoprire la saggezza, si è parlato ovunque filosofia. Per quelle persone che sognavano di saggezza scoprire da loro stessi e dal rigore delle loro argomentazioni, Paolo risponde: la vera saggezza, la conoscenza da sola che conta, non è la fine del nostro discorso: è un dono di Dio . « A uno viene concesso dallo Spirito, il linguaggio della sapienza di Dio; a un altro, sempre nello spirito, il linguaggio della conoscenza di Dio. « Non c’è niente di cui vantarsi, tutto è dono. La parola « donazione » è ripetuto sette volte! Nella Bibbia, questa non è una novità! Qui Paolo limita a ripetere i cristiani in termini che il suo popolo aveva da tempo scoperto, che solo Dio conosce e può trovare la vera saggezza. La novità del discorso di Paolo è altrove: consiste nel parlare dello Spirito come di una persona. Più profondamente, Paolo si distingue completamente dalla ricerca filosofica di ogni altro: non propone una nuova scuola di filosofia , un altro … Qualcuno ha annunciato. Perché i doni e distribuiti ai membri della comunità cristiana non sono all’ordine del potere o competenza, sono una presenza interiore: il nome dello Spirito è menzionato otto volte in questo brano. Infine, questo testo è rivolto ai Corinzi, ma non parla di loro, parla solo dello Spirito al lavoro nella comunità cristiana; . E che, con pazienza, senza sosta, ci conduce verso il nostro Padre (lui ci soffia a dire « Abbà » – Padre) e ci si gira verso i nostri fratelli Giusto per essere chiari, Paolo dice: « Ognuno riceve la manifestazione lo Spirito per il bene comune di tutti.  » Sappiamo che i Corinzi erano ansiosi di fenomeni spirituali straordinarie, ma San Paolo ricorda loro solo obiettivo: il bene di tutti. Ai fini dello Spirito non è altro dal momento che è l’amore personificato. E poi nelle sue mani, per così dire, diventiamo strumenti di una varietà infinita per la grazia di Dio che è Uno: « I doni di grazia sono molteplici, ma lo stesso Spirito. I servizi sono molteplici, ma lo stesso Signore. Le attività sono varie, ma è lo stesso Dio che agisce in tutto e in tutti. « Questa è la meraviglia della nostra diversità: ci fanno capaci, a loro modo, per dimostrare l’amore di Dio. Una delle lezioni del testo di St. Paul è sicuramente imparare a gioire per le nostre differenze. Sono le tante sfaccettature dell’amore che ci permette di fare secondo l’originalità di ciascuno. Rallegriamoci dunque la varietà di razze, colori, lingue, regali, arte, invenzioni … E ‘quello che fa la ricchezza della Chiesa e del mondo ha fornito vivete nell’amore. E ‘come un’orchestra: la stessa ispirazione … diversi e complementari espressioni dei diversi strumenti e qui una sinfonia … una sinfonia fornito per giocare tutti nella stessa chiave … è quando noi non giocano tutti nella stessa tonalità vi è una cacofonia! La sinfonia in questione qui è la canzone d’amore che la Chiesa è responsabile per il canto nel mondo dire « inno alla carità », come si suol dire « Inno alla gioia ‘di Beethoven. La nostra complementarietà nella Chiesa non è una questione di ruoli, funzioni, in modo che la Chiesa viva, con una organizzazione in atto … E ‘molto più grave e più bello di questo: è la missione affidato alla Chiesa per rivelare l’amore di Dio: questa è la nostra unica ragione d’essere.

 

L’ALTRA GUANCIA O LA SPADA? – GIANFRANCO RAVASI

http://www.notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=9164:laltra-guancia-o-la-spada&catid=479:lectio-divina&Itemid=298

L’ALTRA GUANCIA O LA SPADA?

GIANFRANCO RAVASI

Diventato persino uno stereotipo, pronunciato spesso con una punta di ironia: « porgere l’altra guancia » è, come si sa, una citazione semplificata del Vangelo di Matteo (5,38-41 ) e, più precisamente, di quel discorso di Gesù detto « della Montagna », a causa del suo fondale forse più simbolico che reale. E’ interessante, comunque, risalire al testo integrale e al suo contesto. Cristo rievoca la cosiddetta « legge del taglione »: « Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente ». Su questa norma, espressa in modo apodittico e icastico, bisognerebbe essere più cauti di quanto si è soliti fare. Essa, infatti, non è – al di là della sua formulazione che suona brutale ai nostri orecchi – nient’altro che una colorata definizione della giustizia distributiva: a un delitto deve corrispondere una pena del tutto pari e coerente. Ora, se stiamo alle guerre e alle stesse ritorsioni che vengono praticate da certi stati (compreso lo stato di Israele), la legge del taglione è violata e sostituita da quella che porta il nome di un personaggio biblico, Lamek, il quale dichiarava senza esitazione: « Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamek settantasette » ( Genesi 4, 23-24 ). Gesù non vuole negare il principio della giustizia ma – come avviene in tutta la serie di casi che egli propone in quel discorso – vuole suggerire al suo discepolo di procedere oltre, imboccando la via dell’ amore, del perdono, della non-violenza. Ecco, allora, il suo insegnamento affidato a un trittico di esempi che sono simili a mini-parabole: « Io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; a chi ti vuol chiamare in causa per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello; e se uno ti costringe a fare un miglio, tu fanne con lui due ». Alla stessa legge di Lamek egli opporrà questa legge antitetica: « Non perdonerai fino a sette volte sette ma fino a settanta volte sette » (Matteo 18,22). E Gesù sarà sempre coerente con questo suo principio: si pensi al suo arresto e all’ invito rivolto al suo discepolo che tenta di difenderlo con una spada (« Rimetti la spada nel fodero… »). Ora, nello spirito di tutto quel discorso della Montagna – si pensi solo alla splendida ed emozionante pagina di apertura, le beatitudini – Gesù non vuole proporre né una legislazione ecclesiale o sociale né codificare una regola concreta. Egli delinea un atteggiamento radicale, una vera e propria opzione della coscienza; la sua è una spina messa nel fianco del buonsenso, dell’ovvio, del luogo comune così da mostrare una più alta potenzialità di vita, una ben diversa società, una meta, possibile eppur desueta, aperta all’uomo. In questa luce si può parlare di utopia ma nel senso più alto del termine e Gesù incarna in modo forse supremo la missione genuina delle religioni. Esse non devono ridursi a gestire l’esistente, come deve fare uno Stato, né ridursi al piccolo cabotaggio ma far tendere l’umanità verso un Oltre e un Altro. In questa prospettiva si colloca coerentemente il costante magistero di Giovanni Paolo II, anche in occasione degli attuali eventi tragici. Questo, però, non significa che la morale religiosa (e cristiana in particolare ) debba escludere la giustizia e la storicità con tutto il suo peso. Gesù stesso polemizza aspramente con la gestione del potere politico e religiosa di allora, facendo denuncie specifiche ( si legga, ad esempio, Matteo 23 ) ma anche col suo celebre detto: « Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio » riconosce un’ autonomia al potere politico. Paolo nella Lettera ai Romani affronta la questione fiscale affermando non solo la legittimità dell’autorità costituita – che nella fattispecie era quella imperiale di Nerone – e del suo sistema penale perché « non invano essa porta la spada » ( 13,1-7 ) . L’ Apocalisse, invece, attacca aspramente le repressioni e le ingiustizie di quello stesso potere romano, raffigurato sotto l’ immagine di Babilonia. Ecco, allora, la costante necessità per i cristiani di non perdere di vista l’ideale, riducendosi a un partito o a movimento di opinione, ma anche di non astrarsi dalla realtà racchiudendosi nel bozzolo della tensione apocalittica o mistica. E’ un difficile equilibrio che comporta, da un lato, la continua affermazioni dei grandi valori, della moralità alta, di ideali anche supremi, e d’altro lato, la necessità della loro « incarnazione » e quindi del confronto col groviglio delle vicende sociali, politiche, economiche. Riguardo a questo secondo versante vorremmo proporre un esempio che ben s’adatta ai giorni che stiamo vivendo. Intendiamo riferirci alla legittima difesa che di per sé eccede rispetto alla logica del « porgere l’altra guancia » ma che si colloca nel piano più « basso » della norma di giustizia. Famosa è la giustificazione etica addotta da Tommaso d’ Aquino: « L’azione di difendersi reca con sé un duplice effetto: l’uno è la conservazione della propria vita, l’altro è la morte dell’aggressore. Il primo è quello veramente voluto, l’altro non lo è » (Summa Theologiae II-III,64,7). La tradizione cristiana preciserà questa regola del « duplice effetto » in ambito pubblico elencando le condizioni da rispettare per ammettere la legittimità di questa autodifesa: che tutti gli altri mezzi si rivelino impraticabili e inefficaci, che l’uso di armi non crei mali e disordini più gravi del male da eliminare (proibita sarebbe, perciò, l’opzione nucleare), che non si colpiscano innocenti, che il danno inflitto dall’ aggressore sia durevole, grave e provato nelle sue responsabilità. E’ ciò che è affermato anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 (nn.2.263e 2.309) ed è ciò che è stato ripetuto dalla lettera dei vescovi cattolici americani al presidente Bush nei giorni scorsi: « La nostra nazione ha il diritto morale e il grave obbligo di difendere il bene comune contro tali attacchi terroristici…Ma ogni risposta militare dev’essere in accordo con i sani principi morali quali la probabilità di successo, l’immunità dei civili e la proporzionalità ». Ma lo stesso testo comprende anche una eco del principio evangelico da cui siamo partiti, formulato attraverso l’invito a impegnarsi per rimuovere le cause strutturali ingiuste, a ripudiare l’intolleranza etnica e religiosa, a considerare sempre arabi e musulmani come fratelli e sorelle, « parte della nostra famiglia nazionale e umana », e – citando una frase di Giovanni Paolo II – a « non cedere alla tentazione dell’odio e della violenza, impegnandosi al servizio della giustizia e della pace ». La chiesa, quindi, pur coinvolta nella giustizia che dovrebbe reggere la città di Cesare, non deve mai dimenticare la legge ultima del Regno di Dio.

Il Sole24Ore – 30/9/2001

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