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IL FASCINO DI GESÙ CRISTO (AUGUSTINUS)

https://www.augustinus.it/vita/uomo/vpsa_2_05_testo.htm

IL FASCINO DI GESÙ CRISTO (AUGUSTINUS)

CAPITOLO QUINTO

È stato detto quale posto occupasse il nome di Gesù nel cuore di Agostino anche quando non ne conosceva con precisione il mistero. Quando poi, alla vigilia della conversione, comprese ciò che Gesù è veramente, l’Uomo-Dio, si strinse a lui con la passione del naufrago che afferra la tavola di salvezza: raccolse in Gesù tutto l’amore che portava a Dio, come aveva raccolto in Dio tutto l’amore che portava alla sapienza.
È inutile discutere se la pietà agostiniana sia teocentrica o cristocentrica (per usare parole in voga) o sapienziale, perché è tutte queste cose insieme e qualche cosa di più: è una pietà, come si vedrà, ecclesiologica, perché nel suo amore Agostino non separa la Chiesa da Gesù, come non separa Gesù da Dio e Dio dalla sapienza.
L’amore di Agostino per Gesù Cristo è tutto pervaso di gratitudine, di umiltà, di tenerezza. Dal mistero dell’Incarnazione, che il vescovo d’Ippona esprime con formule precise, preannunciatrici di quelle che saranno usate ad Efeso ed a Calcedonia – del resto egli ebbe modo di conoscere e di confutare un caso di nestorianismo ante litteram 1 – nasce la conseguenza che Gesù è tutto per noi. Nell’unità della Persona divina egli è uomo e Dio insieme (« Colui che è uomo è ugualmente Dio e colui che è Dio è ugualmente uomo, non a motivo di una stessa natura ma per l’unità della persona  » 2), e perciò via e patria: via come uomo, patria come Dio.  » Cristo Dio è la patria a cui tendiamo, Cristo uomo è la via per cui camminiamo  » 3. Anzi, distinguendo più sottilmente, Agostino vede in Gesù l’uomo che ci solleva dalle nostre miserie, l’uomo-Dio che (come Mediatore) ci guida verso la perfezione, Dio che ci dona la perfezione, cioè l’immortalità e la beatitudine. Il Verbo, infatti, aveva due beni: l’immortalità e la giustizia; noi, al contrario, due mali: la mortalità e la colpa; incarnandosi, prese uno dei nostri mali (la mortalità) per liberarci da tutt’e due 4.
Perciò Agostino aderisce innanzi tutto all’umanità di Gesù, per giungere, attraverso l’umanità, alla divinità. Nell’umanità, infatti, vi è il titolo di tutte le grazie per la nostra salvezza e vi sono i profondi tesori della scienza e della sapienza, che irrorano l’anima con la fede e la conducono alla contemplazione eterna della verità immutabile 5. La controversia antipelagiana altro non fu che un’appassionata difesa di questa dottrina, che comprende la redenzione, la giustificazione, la predestinazione. In essa si sente vibrare tutta l’anima del vescovo d’Ippona, traboccante d’amore per Gesù medico delle anime. I pelagiani insistevano sugli esempi di Gesù Cristo; Agostino non nega quest’aspetto dell’opera di redenzione, anzi lo sottolinea, ma non lo separa dal primo. Non v’è dubbio che, oltre esser fonte di grazia, l’umanità di Gesù è modello di virtù, è l’unico esemplare cui dobbiamo somigliare 6.  » Con le parole, con i fatti, con la vita, con la morte, col discendere (in terra), con l’ascendere (in cielo), ci grida di ritornare a Dio  » 7 e ci insegna ciò che è degno di essere amato e ciò che deve essere fuggito. Quest’insegnamento del Figlio di Dio per via di esempi è la medicina più efficace che pensar si possa per i nostri vizi. Quale superbia, infatti, potrà guarire, se non guarisce con l’umiltà del Figlio di Dio? Quale avarizia, quale iracondia, quale empietà, quale timidezza potranno guarire, se non guariscono con la povertà, la pazienza, la carità, la resurrezione del Figlio di Dio 8?
Tra tutte le virtù Agostino considera con più ammirata commozione l’umiltà. Gesù è chiamato con enfasi il  » dottore dell’umiltà  » 9, perché, quando ha voluto proporre se stesso per esempio, quasi dimentico di tutto il resto, non ha ricordato che questa virtù: Imparate da me che sono mite ed umile di cuore (Mt 11, 29). Queste parole di Gesù suggeriscono al santo dottore una stupenda preghiera, che nessuno, che lo possa, deve privarsi della gioia di leggere 10. Ma il vescovo d’Ippona parla anche con particolare predilezione dell’ » incredibile umiltà  » dell’Incarnazione 11, della  » umiltà di Dio  » 12 che in essa si manifesta. E insieme con l’umiltà l’amore, l’amore di Dio, che ci mostra nell’Incarnazione quanto ci ha amato e quali ci ha amato: quanto perché non disperassimo, quali perché non insuperbissimo 13.  » Come ci amasti, o Padre buono, – esclama Agostino – che non risparmiasti il Figliolo tuo, ma per noi lo consegnasti in mano agli empi! Come ci amasti!… per noi vincitore e vittima avanti a te, per questo vincitore, perché vittima: per noi sacerdote e sacrificio, e per questo sacerdote perché sacrificio; ci rese, da servi, figlioli tuoi, facendosi egli, Figliolo tuo, servo nostro. Ho ben ragione io di sperare fermamente in lui, perché per opera di lui tu guarirai tutte le mie infermità… se così non fosse, mi lascerei andare alla disperazione. Molte, infatti, e gravi sono le mie infermità, molte e gravi. Ma più potente è la tua medicina  » 14.
Confidenza, contemplazione, imitazione: ecco gli atteggiamenti abituali dell’amore di Agostino verso Gesù. Le sue opere sono ricche di preghiere, umili e fiduciose, rivolte a Dio  » per Gesù Cristo « , in cui ogni problema trova la soluzione, sia che il problema nasca dalla colpa, sia che nasca dalla debolezza nel fare il bene o dall’ignoranza. Evidente è pure, leggendo le sue opere, l’atteggiamento contemplativo di chi è invaghito della bellezza di Gesù e la vede espressa in ogni momento della vita di Lui, anche nel seno di Maria, anche sulla croce o nel sepolcro.  » Cristo ha trovato molte cose brutte in noi – dice Agostino ai fedeli di Cartagine -, eppure ci ha amati: se noi troveremo qualcosa di brutto in Lui, facciamo a meno di amarlo… Ma per chi capisce, anche il Verbo fatto carne è tutto bellezza… Bello come Dio… Bello nel seno della Vergine… Dunque, bello nel cielo, bello qui in terra, bello nel seno (di sua madre), bello nelle mani dei parenti, bello mentre fa miracoli, bello mentre subisce i flagelli, bello quando invita alla vita, bello quando disprezza la morte, bello quando depone l’anima, bello quando la riprende, bello nella croce, bello nel sepolcro, bello in cielo… L’infermità della sua carne non distolga i vostri occhi dallo splendore della sua bellezza  » 15. Ed ecco un’ardente esortazione alle vergini consacrate a Dio, perché contemplino la bellezza del loro Sposo:  » Contemplate la bellezza del vostro amante: contemplatelo uguale al Padre e suddito della Madre, dominatore nei cieli e servo in terra, Creatore di tutte le cose e creato tra le cose. Considerate quanto sia bello in Lui ciò che i superbi deridono: con gli occhi dello spirito contemplate le ferite di chi pende dalla croce, le cicatrici di chi risorge, il sangue di chi muore, il prezzo di chi si dona, lo scambio di chi ci redime  » 16. L’insistenza del vescovo d’Ippona sulla bellezza del Verbo Incarnato e sulla contemplazione dei misteri della sua umanità ci rivela un aspetto fecondo della pietà cristiana, che si crederebbe di trovare solo nei grandi mistici del medioevo.
Sull’imitazione degli esempi di Gesù, di cui si dirà subito parlando della purificazione, qui basterà ricordare soltanto un passo:  » Vi trafigga totalmente il cuore colui che per voi fu confitto in croce  » 17. Queste parole suggeriscono un programma di vita per le vergini; ma rivelano anche, non v’è dubbio, il programma proprio d’Agostino.

Publié dans:SANT'AGOSTINO |on 13 mai, 2019 |Pas de commentaires »

28 AGOSTO : SANT’AGOSTINO – BENEDETTO XVI – LA DOTTRINA. FEDE E RAGIONE

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080130.html

28 AGOSTO : SANT’AGOSTINO – BENEDETTO XVI – LA DOTTRINA. FEDE E RAGIONE

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 30 gennaio 2008

Sant’Agostino

Cari amici,

dopo la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani ritorniamo oggi alla grande figura di sant’Agostino. Il mio caro Predecessore Giovanni Paolo II gli ha dedicato nel 1986, cioè nel sedicesimo centenario della sua conversione, un lungo e denso documento, la Lettera apostolica Augustinum Hipponensem. Il Papa stesso volle definire questo testo «un ringraziamento a Dio per il dono fatto alla Chiesa, e per essa all’umanità intera, con quella mirabile conversione» (AAS, 74, 1982, p. 802). Sul tema della conversione vorrei tornare in una prossima Udienza. È un tema fondamentale non solo per la sua vita personale, ma anche per la nostra. Nel Vangelo di domenica scorsa il Signore stesso ha riassunto la sua predicazione con la parola: «Convertitevi». Seguendo il cammino di sant’Agostino, potremmo meditare su che cosa sia questa conversione: è una cosa definitiva, decisiva, ma la decisione fondamentale deve svilupparsi, deve realizzarsi in tutta la nostra vita.

La catechesi oggi è dedicata invece al tema fede e ragione, che è un tema determinante, o meglio, il tema determinante per la biografia di sant’Agostino. Da bambino aveva imparato da sua madre Monica la fede cattolica. Ma da adolescente aveva abbandonato questa fede, perché non poteva più vederne la ragionevolezza e non voleva una religione che non fosse anche per lui espressione della ragione, cioè della verità. La sua sete di verità era radicale e lo ha condotto quindi ad allontanarsi dalla fede cattolica. Ma la sua radicalità era tale che egli non poteva accontentarsi di filosofie che non arrivassero alla verità stessa, che non arrivassero fino a Dio. E a un Dio che non fosse soltanto un’ultima ipotesi cosmologica, ma che fosse il vero Dio, il Dio che dà la vita e che entra nella nostra stessa vita. Così tutto l’itinerario intellettuale e spirituale di sant’Agostino costituisce un modello valido anche oggi nel rapporto tra fede e ragione, tema non solo per uomini credenti, ma per ogni uomo che cerca la verità, tema centrale per l’equilibrio e il destino di ogni essere umano. Queste due dimensioni, fede e ragione, non sono da separare né da contrapporre, ma piuttosto devono sempre andare insieme. Come ha scritto Agostino stesso dopo la sua conversione, fede e ragione sono «le due forze che ci portano a conoscere» (Contro gli Accademici III,20,43). A questo proposito rimangono giustamente celebri le due formule agostiniane (Sermoni 43,9) che esprimono questa coerente sintesi tra fede e ragione: crede ut intelligas («credi per comprendere») – il credere apre la strada per varcare la porta della verità –, ma anche, e inseparabilmente, intellige ut credas («comprendi per credere») – scruta la verità per poter trovare Dio e credere.

Le due affermazioni di Agostino esprimono con efficace immediatezza e con altrettanta profondità la sintesi di questo problema, nella quale la Chiesa cattolica vede espresso il proprio cammino. Storicamente questa sintesi va formandosi, prima ancora della venuta di Cristo, nell’incontro tra fede ebraica e pensiero greco nel giudaismo ellenistico. Successivamente nella storia questa sintesi è stata ripresa e sviluppata da molti pensatori cristiani. L’armonia tra fede e ragione significa soprattutto che Dio non è lontano: non è lontano dalla nostra ragione e dalla nostra vita; è vicino ad ogni essere umano, vicino al nostro cuore e vicino alla nostra ragione, se realmente ci mettiamo in cammino.

Proprio questa vicinanza di Dio all’uomo fu avvertita con straordinaria intensità da Agostino. La presenza di Dio nell’uomo è profonda e nello stesso tempo misteriosa, ma può essere riconosciuta e scoperta nel proprio intimo: non andare fuori – afferma il convertito – ma «torna in te stesso; nell’uomo interiore abita la verità; e se troverai che la tua natura è mutabile, trascendi te stesso. Ma ricordati, quando trascendi te stesso, che tu trascendi un’anima che ragiona. Tendi dunque là dove si accende la luce della ragione» (La vera religione 39,72). Proprio come egli stesso sottolinea, con un’affermazione famosissima, all’inizio delle Confessioni, autobiografia spirituale scritta a lode di Dio: «Ci hai fatti per te e inquieto è il nostro cuore, finché non riposa in te» (I,1,1).

La lontananza di Dio equivale allora alla lontananza da se stessi: «Tu infatti – riconosce Agostino (Confessioni, III,6,11) rivolgendosi direttamente a Dio – eri all’interno di me più del mio intimo e più in alto della mia parte più alta», interior intimo meo et superior summo meo; tanto che – aggiunge in un altro passo ricordando il tempo antecedente la conversione – «tu eri davanti a me; e io invece mi ero allontanato da me stesso, e non mi ritrovavo; e ancora meno ritrovavo te» (Confessioni V,2,2). Proprio perché Agostino ha vissuto in prima persona questo itinerario intellettuale e spirituale, ha saputo renderlo nelle sue opere con tanta immediatezza, profondità e sapienza, riconoscendo in due altri celebri passi delle Confessioni (IV,4,9 e 14,22) che l’uomo è «un grande enigma» (magna quaestio) e «un grande abisso» (grande profundum), enigma e abisso che solo Cristo illumina e salva. Questo è importante: un uomo che è lontano da Dio è anche lontano da sé, alienato da se stesso, e può ritrovare se stesso solo incontrandosi con Dio. Così arriva anche a sé, al suo vero io, alla sua vera identità.

L’essere umano – sottolinea poi Agostino nel De civitate Dei (La città di Dio XII,27) – è sociale per natura ma antisociale per vizio, ed è salvato da Cristo, unico mediatore tra Dio e l’umanità e «via universale della libertà e della salvezza», come ha ripetuto il mio predecessore Giovanni Paolo II (Augustinum Hipponensem, 21): al di fuori di questa via, che mai è mancata al genere umano – afferma ancora Agostino nella stessa opera – «nessuno è stato mai liberato, nessuno viene liberato, nessuno sarà liberato» (La città di Dio X,32,2). In quanto unico mediatore della salvezza, Cristo è capo della Chiesa e ad essa è misticamente unito, al punto che Agostino può affermare: «Siamo diventati Cristo. Infatti se Egli è il capo, noi le sue membra, l’uomo totale è Lui e noi» (Commento al Vangelo di Giovanni 21,8).

Popolo di Dio e casa di Dio, la Chiesa nella visione agostiniana è dunque legata strettamente al concetto di Corpo di Cristo, fondata sulla rilettura cristologica dell’Antico Testamento e sulla vita sacramentale centrata sull’Eucaristia, nella quale il Signore ci dà il suo Corpo e ci trasforma in suo Corpo. È allora fondamentale che la Chiesa, popolo di Dio in senso cristologico e non in senso sociologico, sia davvero inserita in Cristo, il quale – afferma Agostino in una bellissima pagina – «prega per noi, prega in noi, è pregato da noi; prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio: riconosciamo pertanto in Lui la nostra voce e in noi la sua» (Esposizione sui Salmi 85,1).

Nella conclusione della Lettera apostolica Augustinum Hipponensem Giovanni Paolo II ha voluto chiedere allo stesso Santo che cosa abbia da dire agli uomini di oggi, e risponde anzitutto con le parole che Agostino affidò a una lettera dettata poco dopo la sua conversione: «A me sembra che si debbano ricondurre gli uomini alla speranza di trovare la verità» (Ep. 1,1); quella verità che è Cristo stesso, Dio vero, al quale è rivolta una delle preghiere più belle e più famose delle Confessioni (X,27,38): «Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco tu eri dentro e io fuori, e lì ti cercavo, e nelle bellezze che hai creato, deforme, mi gettavo. Eri con me, ma io non ero con te. Da te mi tenevano lontano quelle cose che, se non fossero in te, non esisterebbero. Hai chiamato e hai gridato e hai rotto la mia sordità, hai brillato, hai mostrato il tuo splendore e hai dissipato la mia cecità, hai sparso il tuo profumo e ho respirato e aspiro a te, ho gustato e ho fame e sete, mi hai toccato e mi sono infiammato nella tua pace».

Ecco, Agostino ha incontrato Dio e durante tutta la sua vita ne ha fatto esperienza, al punto che questa realtà – che è anzitutto incontro con una Persona, Gesù – ha cambiato la sua vita, come cambia quella di quanti, donne e uomini, in ogni tempo hanno la grazia di incontrarlo. Preghiamo che il Signore ci dia questa grazia e ci faccia trovare così la sua pace.

DAL « TRATTATO SULLA PRIMA LETTERA DI SAN GIOVANNI » – SANT’AGOSTINO

http://www.collevalenza.it/Riviste/2009/Riv0509/Riv0509_03.htm

DAL « TRATTATO SULLA PRIMA LETTERA DI SAN GIOVANNI » – SANT’AGOSTINO

(VII, 1. 7. 9; PL 35, 2029. 2032. 2033. 2034)

Se non volete morire bevete la carità
Questo mondo appare a tutti i fedeli, che sono in cammino verso la patria, come appariva il deserto al popolo d’Israele. Se ne andavano vagabondi alla ricerca della patria; ma non potevano smarrirsi perché erano sotto la guida di Dio. La strada per loro fu il comando di Dio. Furono raminghi per quarant’anni, ma il loro viaggio si sarebbe potuto compiere in pochissime tappe, tutti lo sappiamo. Veniva rallentata la loro marcia, perché erano messi alla prova, non perché fossero abbandonati. Quello che Dio ci promette, è una dolcezza ineffabile, un bene, come dice la Scrittura e come sovente udiste dalle nostre parole, che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrò in cuore d’uomo (cfr. 1 Cor 2, 9; Is 64, 4). Siamo messi alla prova dagli affanni terreni e riceviamo esperienza dalle tentazioni della vita presente.
Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amato. (GV 13,34)
Ma se non vogliamo morire assetati in questo deserto, beviamo la carità. E’ la sorgente che il Signore volle far sgorgare quaggiù, perché non venissimo meno lungo la strada: ad essa attingeremo con maggiore abbondanza, quando saremo giunti alla patria. « In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi » (1 Gv 4, 9).
Siamo esortati ad amare Dio. Lo potremmo amare, se egli non ci avesse amati per primo? Se fummo pigri nell’intraprendere l’amore, non siamo pigri nel ricambiare l’amore! Egli ci ha amato per primo e in un modo tale come neppure noi sappiamo amare noi stessi. Amò dei peccatori, ma tolse il loro peccato: sì, amò dei peccatori, ma non li radunò in una comunità di peccato. Amò degli ammalati, ma li visitò per guarirli. « Dio, dunque, è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo Unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui » (1 Gv 4, 8. 9).
Allo stesso modo il Signore disse: Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici » (Gv 15, 13); e, in quella circostanza, fu verificato l’amore di Cristo verso di noi, perché egli morì per noi. Ma l’amore del Padre verso di noi, in quale cosa ebbe la sua verifica? Nel fatto che mandò l’unico suo Figlio a morire per noi. L’Apostolo dice appunto: « Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? » (Rm 8, 32). « Egli ha mandato il suo Figlio, come vittima di espiazione per i nostri peccati » (1 Gv 4, 10), quindi come espiatore, come sacrificatore. Offrì un sacrificio per i nostri peccati. Dove trovò l’offerta, dove trovò la vittima pura che voleva immolare? Non trovò altri all’infuori di sé, e si offerse. « Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri » (1 Gv 4, 11).
Da questo sappiamo d’aver conosciuto Cristo: se osserviamo i suoi comandamenti. (GV 13, 35)
Però, fratelli miei, quando parliamo di carità vicendevole dobbiamo guardarci dall’identificarla con la pusillanimità o con un’inerte passività. Avere la carità non significa certo essere imbelli e corrivi. Non pensate che la carità possa esistere senza una certa bontà o addirittura senza alcuna bontà. La carità autentica non è certo questo. Non credere di amare il tuo domestico unicamente per il fatto che gli risparmi la meritata punizione, o che vuoi bene a tuo figlio solo perché lo lasci in balia di se stesso, o che porti amore al prossimo solo perché non gli fai nessuna correzione. Questa non è carità, ma mollezza. La carità è una forza che sollecita a correggere ed elevare gli altri. La carità si diletta della buona condotta e si sforza di emendare quella cattiva. Non amare l’errore, ma l’uomo. L’uomo è da Dio, l’errore dall’uomo. Ama ciò che ha fatto Dio, non ciò che ha fatto l’uomo. Se ami veramente l’uomo lo correggi. Anche se talvolta devi mostrarti alquanto duro, fallo proprio per amore del maggior bene del prossimo.

Publié dans:SANT'AGOSTINO, Santi - scritti |on 5 mars, 2018 |Pas de commentaires »

LA SCIENZA E LA SAPIENZA – AGOSTINO DI IPPONA

http://disf.org/agostino-ippona-scienza-sapienza

LA SCIENZA E LA SAPIENZA – AGOSTINO DI IPPONA

399-420

De Trinitate, dai Libri XII e XIII

Se la scienza è conoscenza delle cose temporali, la sapienza è conoscenza delle cose eterne. Ambedue, però, sono rivelate in pienezza in Cristo, nostra scienza e nostra sapienza.

XII, 14. Perché anche la scienza è benefica alla sua maniera, se ciò che in essa gonfia o suole gonfiare è dominato dall’amore delle cose eterne, che non gonfia, ma che, come sappiamo, edifica (1Cor 8, 1). Senza la scienza infatti non possono esistere nemmeno le virtù con le quali si possa dirigere questa misera vita in modo da raggiungere quella eterna, che è veramente beata.
14, 22. C’è tuttavia una differenza tra la contemplazione delle cose eterne e l’azione con la quale facciamo buon uso delle cose temporali: quella si attribuisce alla sapienza, questa alla scienza. Sebbene infatti anche la sapienza possa venir chiamata scienza, come lo mostra l’affermazione dell’Apostolo, che dice: “Ora conosco parzialmente, allora conoscerò come sono conosciuto” (1Cor13, 12), per questa scienza egli intende certamente la contemplazione di Dio, che sarà il premio supremo dei santi; tuttavia dove l’Apostolo dice: “Ad uno è dato per mezzo dello Spirito il linguaggio della sapienza, ad un altro il linguaggio della scienza secondo lo stesso Spirito” (1Cor 12, 8), distingue, senza dubbio, l’una dall’altra, benché non spieghi la natura della loro differenza, e i caratteri che permettano di distinguerle. Ma dopo aver scrutato le molteplici ricchezze delle sante Scritture, trovo scritta nel libro di Giobbe questa sentenza del santo uomo: “Ecco, la pietà è la sapienza, la fuga dal male è la scienza” (Gb 28, 28). Questa distinzione ci fa comprendere che la sapienza riguarda la contemplazione, la scienza l’azione. In questo passo Giobbe identifica la pietà con il culto di Dio, che in greco si dice qeosbeia . È questa la parola che si trova presso i codici greci in questo passo. E fra le cose eterne che vi è di più eccellente di Dio, che solo possiede una natura immutabile? E che è il culto di Dio, se non l’amore di lui, amore che ci fa desiderare di vederlo, che ci fa credere e sperare che lo vedremo, perché nella misura in cui progrediamo lo vediamo ora per mezzo di uno specchio, in enigma, ma un giorno lo vedremo nella sua piena manifestazione? È ciò che dice l’apostolo Paolo quando parla della «visione» faccia a faccia (1Cor 13, 12), è anche quello che dice l’apostolo Giovanni: “Carissimi, ora siamo figli di Dio, e ciò che saremo un giorno non è stato ancora manifestato; ma sappiamo che al momento di questa manifestazione saremo simili a lui, perché lo vedremo come è” (1Gv 3, 2). In questi passi e in passi simili si tratta proprio, mi pare, della sapienza (1Cor 12, 8). Astenersi invece dal male (Gb 28, 28), ciò che Giobbe chiama scienza, appartiene certamente all’ordine delle cose temporali. Perché è in quanto siamo nel tempo che siamo soggetti al male, che dobbiamo evitare, per giungere ai beni eterni. Perciò tutto quanto compiamo con prudenza, forza, temperanza e giustizia, appartiene a quella scienza o regola di condotta, che guida la nostra azione nell’evitare il male e nel desiderare il bene e le appartiene pure tutto ciò che, come esempio da evitare o da imitare e come conoscenza necessaria tratta da avvenimenti adatti ad illuminare la nostra vita, raccogliamo attraverso la conoscenza della storia […].
XIII, 19. 24. Tutto ciò che il Verbo fatto carne (Gv 1, 14) ha fatto e sofferto per noi nel tempo e nello spazio appartiene, secondo la distinzione che abbiamo cominciato a chiarire, alla scienza, non alla sapienza (cf. 1Cor 12, 8; Col 2, 3). Invece ciò che il Verbo è al di fuori del tempo e dello spazio, è coeterno al Padre e tutto intero in ogni luogo; di questo, se qualcuno può, per quanto gli è possibile, parlare secondo verità, ciò che dirà apparterrà alla sapienza (1Cor 12, 8); per questo motivo il Verbo fatto carne, Cristo Gesù, possiede i tesori della sapienza e della scienza (Gv 1, 14; Col 2, 2-3). Ecco perché l’Apostolo scrive ai Colossesi: “Voglio infatti che voi sappiate quanto grande sia la lotta che io sostengo per voi e per questi che sono a Laodicea e per tutti coloro che non mi hanno mai veduto di persona, affinché siano consolati i loro cuori e, intimamente uniti in carità, possano essere del tutto arricchiti d’una pienezza d’intelligenza, per conoscere il mistero di Dio, che è Cristo, in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza” (Col 2, 1-3). Chi può sapere in quel misura l’Apostolo conosceva questi tesori, quanto era penetrato in essi, quali misteri aveva scoperto? Da parte mia tuttavia, secondo ciò che sta scritto: “La manifestazione dello Spirito è data a ciascuno di noi per utilità: infatti ad uno è dato dallo Spirito il linguaggio della sapienza, ad un altro il linguaggio della scienza, secondo lo stesso Spirito” (1Cor 12, 7-8), se la differenza tra la sapienza e la scienza risiede in questo: che la sapienza si riferisce alle cose divine, la scienza a quelle umane, riconosco l’una e l’altra in Cristo e con me la riconosce ogni fedele di Cristo. E quando leggo: “Il Verbo si è fatto carne ed abitò tra noi” (Gv 1, 14), nel Verbo vedo con l’intelligenza il vero Figlio di Dio (2Cor 1, 19), nella carne riconosco il vero figlio dell’uomo (Dan 7, 13; Mt 9, 6; Mc 2, 10; Lc 5, 24; Gv 5, 27), l’uno e l’altro uniti nella sola persona del Dio-uomo, per un dono ineffabile della grazia. Per questo l’Evangelista aggiunge: “E abbiamo contemplato la sua gloria, gloria uguale a quella dell’Unigenito del Padre pieno di grazia e di verità (Gv 2, 14). Se riferiamo la grazia alla scienza, la verità alla sapienza (cf. 1Cor 12, 8), penso che non andiamo contro la distinzione tra scienza e sapienza, che abbiamo proposto. Infatti, nell’ordine delle cose che traggono la loro origine nel tempo, la grazia più alta è l’unione dell’uomo con Dio nell’unità della stessa persona, nell’ordine delle cose eterne la più alta verità è, a ragione, attribuita al Verbo di Dio. Ora, quello stesso che è l’Unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità (Gv 1, 14), l’incarnazione fa sì che egli sia pure quello stesso il quale agisce per noi nel tempo affinché, purificati per mezzo della fede in lui, lo contempliamo per sempre nell’eternità. I più grandi filosofi pagani poterono, per mezzo della creazione, contemplare con l’intelligenza le perfezioni invisibili di Dio (Rm 1, 20); tuttavia poiché filosofarono senza il Mediatore, cioè senza il Cristo uomo e non hanno creduto ai Profeti che vaticinarono la sua venuta, né agli Apostoli che proclamarono tale venuta, hanno tenuta imprigionata la verità, come sta scritto di loro, nell’ingiustizia (Rm 1, 18). Posti in quest’ultimo grado della creazione, non poterono infatti che cercare dei mezzi per giungere a quelle realtà di cui avevamo compreso la grandezza; così facendo sono caduti negli inganni dei demoni che hanno fatto loro scambiare la gloria di Dio incorruttibile con delle immagini rappresentanti l’uomo corruttibile, uccelli, quadrupedi e rettili ( Rm 1, 23). Infatti sotto tali forme hanno costruito degli idoli e hanno reso loro culto (cf. Rm 1, 25). Dunque la nostra scienza è Cristo (cf. 1Cor 12, 8); la nostra sapienza è ancora lo stesso Cristo. È Lui che introduce in noi la fede che concerne le cose temporali, Lui che ci rivela la verità concernente le cose eterne. Per mezzo di Lui andiamo a Lui, per mezzo della scienza tendiamo alla sapienza; senza tuttavia allontanarci dal solo e medesimo Cristo in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza (Col 2, 3). Ma ora parliamo della scienza, riservandoci di parlare in seguito della sapienza, per quanto Egli ci donerà di farlo. Tuttavia guardiamoci dal prendere queste parole in un’accezione così precisa che ci impedisca di parlare di sapienza a riguardo delle cose umane, e di scienza a riguardo delle cose divine. In senso lato si può parlare di sapienza in ambedue i casi ed in ambo i casi si può parlare di scienza. Tuttavia l’Apostolo non avrebbe scritto mai: “ad uno è dato il linguaggio della sapienza, ad un altro il linguaggio della scienza (1Cor 12, 8), se ciascuna di queste parole non avesse un’accezione propria.

La Trinità, XII, 14,22 e XIII, 19,24, in “Opere di Sant’Agostino”, tr. it. di Giuseppe Beschin, Città Nuova, Roma 1987, vol. IV, pp. 491-492 e 551-555.

Publié dans:SANT'AGOSTINO |on 5 février, 2018 |Pas de commentaires »

SANT’AGOSTINO – LA SCENA DELLA CONVERSIONE: TOLLE LEGE

http://www.cassiciaco.it/navigazione/agostino/vita/tolle.html

SANT’AGOSTINO – LA SCENA DELLA CONVERSIONE: TOLLE LEGE

Ormai Agostino stesso si rende conto che gli avvenimenti, che si succedono, stanno preparando la strada alla soluzione del dramma interiore. La grazia di Dio, che lo preme senza dargli tregua, lo raggiunge nel giardino della sua casa a Milano.
Esce di casa con Alipio, portando il libro delle Epistole di S. Paolo. Vanno a sedersi lontano, sotto un albero di fichi, Alipio si allontana di qualche passo, ma lo segue con occhio attento e partecipa alla lotta con l’animo e col cuore, in silente preghiera. Agostino è tutto un fremito, anima e cuore. Il dramma di un’anima tra spirito e senso, tra ragione e passione, tra Dio e Satana deve essere qualcosa di veramente angoscioso. E’ l’ora suprema! Siamo all’atto finale di un travaglio penosissimo, ma esaltante, Agostino avverte che è ormai assediato da ogni parte. Occorre l’ultima spinta vittoriosa della grazia di Dio sulla resistenza residua della Volontà.
« Quando dal più profondo dell’anima mia – dice Agostino – l’alta meditazione ebbe tratto e ammassato tutta la mia miseria davanti agli occhi del mio cuore, scoppiò una tempesta ingente, grondante un’ingente pioggia di lacrime » (Conf. 8, 12, 28). Così, inondato di pianto leva un grido: « Fino a quando, Signore, durerà la tua ira contro di me?  » Al grido straziante di Agostino una voce d’angelo risponde quasi con un canto: « Prendi, leggi! Prendi, leggi!  » Un incanto dei sensi, un attimo di stupore e meraviglia insieme; poi un lampo di genio: « È un comando divino! « 
Uno scatto: raggiunge Alipio. Afferra le Lettere di S. Paolo e legge il primo brano che gli capita sott’occhi: « Non nelle crapule e nelle ubriachezze, non nelle morbidezze e nelle disonestà, non nella discordia e nell’invidia; ma rivestitevi del Signor Nostro Gesù Cristo e non abbiate cura della carne, nè delle concupiscenze ». I dubbi scompaiono come nebbia al sole e una luce vivissima inonda la sua anima, che sfavilla di gioia indescrivibile. Calmo, sereno, il volto ancora irrorato di pianto, si volge ad Alipio e gli annuncia il trionfo di Dio. Alipio gli chiede il libro, legge le parole che Agostino gli mostra e continua a leggere: « Chi è debole nelle fede fa’ di assisterlo! « . Un abbraccio, un pianto di consolazione, un canto di amore nel cuore: sono convertiti ! Corrono da Monica e le rivelano l’accaduto.
Lei si getta al collo di Agostino, lo bacia con tenero esultante amore e piange di viva commozione. Al racconto brillano di gioia i suoi occhi, come per un trionfo e benedice Dio che ha esaudito le sue preghiere oltre le aspettative. Infatti la conversione di Agostino è il ritorno nelle sue profondità per liberare il cuore dal male e riempirlo di Cristo. Siamo ai primi di agosto del 386; Agostino ha trentatrè anni. Monica ne ha cinquantaquattro: Agostino inizia il cammino di fede; Monica è vicina a presentare la sua offerta al Signore. Monica è colma di gioia; Agostino ne è come inondato. È festa per tutti: amici e parenti esultano nel gaudio, contemplando il giubilo di Agostino. Quello di Agostino è un volo superbo di aquila, che si libra al di sopra di ogni vetta e affissa le pupille nell’altissimo cielo. Sente infatti Agostino una frenesia indescrivibile: vuol liberarsi di ciò che gli impedisce di levarsi in alto: la scuola d ‘un tratto gli diventa pesante, i discorsi alla corte noiosi; una nuova via gli si apre dinanzi: quella della sapienza, della contemplazione, della santità. Ne comunica la decisione alla madre, al figlio, ai pochi intimi, che aspettano gli eventi e lo incoraggiano a camminare nella via di Dio.
Sopravvengono intanto dei fastidi fisici: dolori al petto, affievolimento di voce, oppressione ai polmoni. Se fa lezione, si lascia vincere dall’ansia e dall’attesa che termini l’anno scolastico. L’amore alla retorica e all’eloquenza è svanito; gli scolari gli sono di peso, le lezioni senza soddisfazione. Ai primi di settembre termina l’anno scolastico. È la liberazione. Con l’aiuto di Monica sfuma il matrimonio con la fanciulla promessa. Agostino pensa seriamente al battesimo, deciso a realizzare il suo proposito di seguire il modello della vita apostolica. Rimangono da superare opposizioni presentate da alcuni amici e dall’autorità per le sue dimissioni dalla scuola e dalla corte imperiale. Con una mirabile lettera annuncia al vescovo Ambrogio la sua conversione, che gli risponde congratulandosi e consigliandogli di leggere il Profeta Isaia.

Publié dans:SANT'AGOSTINO |on 29 août, 2017 |Pas de commentaires »

AGOSTINO, COSTRUTTORE DELLA CITTÀ DI DIO NELLA CITTÀ DELL’UOMO

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AGOSTINO, COSTRUTTORE DELLA CITTÀ DI DIO NELLA CITTÀ DELL’UOMO

Posted by Padre Eugenio Cavallari on 24 April 2013

Amore di Dio e amore del mondo
Se conosciamo veramente, non possiamo non amare: una conoscenza senza amore non ci salva. Se professate la fede, ma non amate, voi assomigliate ai demoni. Perciò, come ameremo Dio se amiamo il mondo? Egli vuole farsi accogliere in noi mediante la carità. Ci sono dunque due amori: quello del mondo e quello di Dio; se alberga in noi l’amore del mondo, non potrà entrarvi l’amore di Dio. Si tenga lontano l’amore del mondo e resti in noi l’amore di Dio. Abbia posto in noi l’amore migliore (Commento I lettera di Giovanni 2, 8).

La città dei santi
Sion è la città di Dio, che con altro nome si chiama Gerusalemme. Sion significa speculazione, cioè visione e contemplazione. Orbene ogni anima, che con attenzione fissa la luce divina per venirne illuminata, è Sion. Se invece essa si volge a fissare la propria luce, diventa opaca. E qual è la città di Dio se non la Chiesa? Gli uomini che amano Dio e si amano a vicenda costituiscono la città di Dio. Ogni città è governata da una legge: la legge di costoro è la carità. La legge di questa città è la carità, e la carità è Dio. Chi è colmo di carità è pieno di Dio. Sii nella Chiesa e Dio non sarà al di fuori di te (Esposizione Salmo 98, 4).

Le due città
La redenta famiglia di Cristo Signore e l’esule città di Cristo Re adduca contro i propri nemici ogni argomento; ricordi però che anche fra i nemici sono nascosti dei futuri concittadini. Non ritenga privo di risultato il fatto che, prima di giungere ad essi come compagni di fede, li deve sopportare come avversari. Allo stesso modo la città di Dio accoglie con sé, finché è esule in questo mondo, alcuni che partecipano ai suoi sacramenti, ma non saranno con lei nell’eterna eredità dei santi. Di essi alcuni sono celati, altri manifesti. E questi ultimi non si fanno scrupolo di mormorare assieme ai nemici di Dio, pur avendo in fronte il sacramento. Infatti le due città non sono identificabili nel fluire dei tempi e sono fra loro perfettamente mescolate, finché non saranno separate nell’ultimo giudizio (Città di Dio 1, 35).

Prerogative delle due città
Sebbene molti grandi popoli coesistano nel mondo con diverse religioni e costumi, distinguendosi per notevole diversità di lingua, armamento e abbigliamento, tuttavia non vi sono che due tipi di umana convivenza. Secondo il linguaggio biblico, li possiamo definire giustamente le due città. Una è quella degli uomini che vogliono vivere secondo la carne, l’altra di coloro che intendono vivere secondo lo spirito: ciascuna nella pace del proprio stile di vita. E quando conseguono il fine a cui tendono, ciascuna vive nella propria pace. (Città di Dio 10, 25).

Nella storia si profilano le due città
Due amori diedero origine a due città: alla terrena l’amore di sé fino al disprezzo per Dio, alla celeste l’amore a Dio fino al disprezzo di sé. Quella si gloria in sé, questa in Dio. Quella esige la gloria dagli uomini, per questa la più grande gloria è Dio, testimone della coscienza. Quella leva in alto la testa nella sua gloria, questa dice a Dio: Tu sei la mia gloria perché levi in alto la mia testa. Nella prima prevale la passione del dominio sia nei capi sia nei popoli che assoggetta, in questa si scambiano i servizi della carità: i capi col deliberare, i sudditi con l’obbedire. Quella ama la propria forza nei propri eroi, questa dice al suo Signore: Tu sei la mia forza. Nella città terrena quindi i filosofi hanno dato rilievo al bene o del corpo o dell’anima, o di tutti e due. Coloro che poi potevano conoscere Dio, non lo adorarono e ringraziarono come Dio, ma si smarrirono nei propri pensieri e fu lasciato nell’ombra il loro cuore stolto perché credevano di essere sapienti: in essi domina la superbia. Per questo divennero sciocchi e sostituirono alla gloria di Dio immortale quella dell’uomo o dell’animale mortale: in tali forme di idolatria furono guide o partigiani della massa. Così si asservirono nel culto alla creatura, anziché a Dio creatore, che è benedetto per sempre. Nella città celeste invece l’unica filosofia è la religione con cui Dio si adora convenientemente, perché essa attende il premio nella società degli eletti affinché Dio sia tutto in tutti (Città di Dio 14, 1).

La gloriosissima città di Dio
Essa conosce e adora un solo Dio. L’hanno annunziata i santi angeli che ci hanno invitato alla sua vita comunitaria e hanno voluto che in essa noi fossimo loro concittadini..Non vogliono che sacrifichiamo loro ma, con essi, siamo un sacrificio a Dio. Tutti gli immortali felici ci vogliono bene: se non lo volessero, non sarebbero felici. Ci vogliono bene appunto perché anche noi siamo felici con loro: ci soccorrono e ci aiutano di più se adoriamo con loro il solo Dio: padre, Figlio, Spirito Santo, che non se adorassimo loro stessi con sacrifici (Città di Dio 14, 28).

Le due vite della Chiesa
La Chiesa conosce due vite, che le sono state rivelate e raccomandate da Dio: una è nella fede, l’altra nella visione; una appartiene al tempo del pellegrinaggio, l’altra all’eterna dimora; una è nella fatica, l’altra nel riposo; una lungo la via, l’altra in patria; una nel lavoro dell’azione, l’altra nel premio della contemplazione; una che si tiene lontana dal male e compie il bene, l’altra che non ha alcun male da evitare ma un solo grande bene da godere; una combatte con l’avversario, l’altra regna senza contrasti; una è forte nelle avversità, l’altra non ha alcuna avversità da sostenere; una deve tenere a freno le passioni della carne, l’altra riposa nelle gioie dello spirito; una è tutta impegnata nella lotta, l’altra gode tranquilla e in pasce i frutti della vittoria; una chiede aiuto nelle tentazioni, l’altra, libera da ogni tentazione, trova il riposo in colui che è stato il suo aiuto; una soccorre l’indigente, l’altra vive dove non esiste alcun indigente; una perdona le offese per essere a sua volta perdonata, l’altra non subisce offese da perdonare, né deve farsi perdonare alcuna offesa; una è colpita duramente dai mali affinché non esulti nei beni, l’altra gode di tale pienezza di grazia ed è così libera da ogni male, che senza alcuna tentazione di superbia aderisce al sommo bene: una discerne il bene dal male, l’altra non ha che da contemplare il Bene. Quindi una è buona, ma ancora infelice, l’altra è migliore e beata (Commento Vangelo Giovanni 124, 5).

Confronto fra le due città
Nell’evoluzione della storia umana le due città, la celeste e la terrena, sono mescolate dall’inizio alla fine. La terrena ha creato per sé, da ogni provenienza o anche dagli uomini, i falsi dèi che ha voluto, per sottomettersi a loro mediante l’offerta di vittime. Invece quella celeste, che è esule sulle terra, non crea falsi dèi, ma essa è stata creata dal vero Dio ed essa stessa è la sua vera immolazione. Tutte e due però usano ugualmente i beni temporali e sono colpite dai mali con diversa fede, diversa speranza, diverso amore, fino a che siano separate dal giudizio finale e ciascuna raggiunga il proprio fine che non ha fine (Città 18, 54, 2).

Il fine ultimo
Fine del nostro bene è quello per cui gli altri beni si devono desiderare ed esso per se stesso; fine del male è quello per cui gli altri mali si devono evitare ed esso per se stesso. In questo modo diciamo fine del bene non là dove termina, cioè dove cessa di esistere, ma là dove raggiunge la compiutezza poiché ha tutta la pienezza; allo stesso modo diciamo fine del male non dove cessa di essere, ma là dove conduce nel danneggiare. Questo fine è dunque il sommo bene e il sommo male (Città 19, 1).

Nel giudizio la coscienza e il libro della vita
L’apostolo Giovanni scrive: Furono aperti i libri, e fu aperto anche un altro libro, che è proprio dell’esistenza di ciascuno; i morti furono giudicati in base a ciò che era scritto nei libri, ciascuno secondo le proprie azioni (Apocalisse 20, 12). I primi libri sono i Libri del Vecchio e Nuovo Testamento, in base ai quali veniamo giudicati; l’altro libro è quello dell’esistenza di ciascun uomo, con cui verificare quale dei precetti divini ciascuno avrà osservato o violato. Chi apre questo libro è un potere divino, per cui avviene che a ciascun uomo sono richiamate alla memoria tutte le proprie opere, buone e cattive, che saranno esaminate con mirabile prontezza da un immediato atto della mente, in modo tale che la consapevolezza interiore accusi o scusi la coscienza e così tutti e ciascun uomo siano simultaneamente giudicati. Questo divino potere ha certamente avuto il nome di ‘libro’ perché in esso in certo qual senso si legge ogni particolare della vita, che mediante tale potere viene appunto rievocato (Città 20, 14).

Salutare il pensiero dell’Inferno
Con l’aiuto della grazia di Dio siamo sempre all’erta con costante attenzione perché non ci inganni l’infondata certezza di ciò che sembra vero, non suggestioni un discorso scaltro, non offuschino le tenebre di qualche errore, non si creda male ciò che è bene e bene ciò che è male, né il timore distolga dalle azioni che si devono compiere, né il sole tramonti sopra la nostra ira, le inimicizie non spingano a ricambiare male per male, non avvilisca una disonesta o smodata tristezza, una mente ingrata non induca all’indifferenza del bene che si deve compiere, una buona coscienza non sia importunata dalle dicerie della maldicenza, un nostro sospetto temerario sull’altro non ci inganni e il falso dell’altro su di noi ci butti a terra, non regni il peccato sul nostro corpo mortale per obbedire ai suoi desideri, non siano usate le nostre membra come armi di malvagità per il peccato, non si faccia ciò che non è lecito. Infine: in questa aperta battaglia di affanni, sofferenze e impegno non si speri di ottenere la vittoria con le nostre sole forze, ma tutto si attribuisca solo alla infinita grazia di Dio (Città 22, 23).

Nella contemplazione della verità il riposo dei beati
Questa vita dei santi riempirà anche i loro corpi, trasformati nello stato celeste e angelico, ed essi godranno di tale vigore immortale che da nessuna necessità dello stato mortale potranno essere attirati né essere allontanati dalla contemplazione e dalla lode della verità che li fa beati. La stessa verità sarà per loro cibo e riposo, come lo è il riposo del sonno. E’ stato scritto: Sederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno del Padre mio. Questo significa che nel gran riposo si nutriranno del cibo della verità: cibo che viene assunto come alimento senza mai venire a mancare, viene assunto a sazietà senza venire intaccato, viene a completarti senza consumarsi, diversamente dal nostro cibo che restaura le forze, ma si esaurisce, e finisce perché non finisca la vita di chi se ne alimenta. Quel riposo sarà la pace eterna, quel cibo sarà la verità immutabile, quel banchetto sarà la vita eterna, cioè lo stesso conoscere: Questa è la vita eterna, che conoscano te, l’unico vero Dio e colui che hai mandato Gesù Cristo (Disc. 362, 29, 30).

Sublime visione spirituale di Dio
In Dio, che è presente ovunque e dirige al proprio fine tutte le cose, noi vedremo noi stessi e tutti gli uomini nella luminosità spirituale dei nostri corpi. E così contempleremo Dio che è incorporeo e conduce tutti gli esseri al proprio fine. Dio sarà a noi noto con tanta evidenza che sarà veduto con la propria facoltà spirituale da ognuno di noi, da uno nell’altro, in se stesso, nel nuovo cielo e nella nuova terra e in ogni creatura che esisterà nell’eternità, sarà veduto anche mediante il corpo in ogni corpo, in qualunque direzione saranno volti gli occhi del corpo spirituale con un’acutezza che raggiunge l’oggetto.. Si sveleranno anche i nostri pensieri dall’uno all’altro. (Città 22, 29, 6).

L’Amen e l’Alleluia della vita celeste
Tutta la nostra attività consisterà nell’Amen e nell’Alleluia. Che ne dite, fratelli? Vedo che vi rallegra l’udire questo, ma vi prego anche di non rattristarvi ancora ragionando secondo la mentalità carnale che porta a pensare, che, ripetendo per un giorno lem stese parole, proverebbe una gran noia e vorrebbe soltanto tacere. Proverò a spiegarmi come potrò. Noi non diremo queste due parole con suoni fuggevoli, ma con il moto interiore dell’amore. Amen infatti significa: E’ vero; Alleluia significa: Lodate Dio. Dio è verità incommensurabile, nella quale sono impensabili carenza o progresso, aumento o diminuzione o cedimento o falsità, perché resta perpetuamente stabile e sempre incorruttibile. Tutto ciò che facciamo quaggiù è figura della realtà, espresso attraverso la mediazione del corpo, e in esso ci muoviamo retti dalla fede. Ma quando vedremo faccia a faccia quello che ora vediamo in uno specchio, in maniera confusa, allora proclameremo: E’ vero, in un modo così diverso che non si può nemmeno dire. Esclameremo: Amen, saziandocene in modo insaziabile. Si potrà parlare di sazietà perché non si avvertirà alcuna mancanza, ma poiché tale pienezza non cesserà mai di dare diletto, si può in certo modo dire insaziabile la sazietà stessa. E come vi sazierete insaziabilmente della verità, così con insaziabile verità proclamerete il vostro Amen. Nessuno può dire per ora come saranno quelle cose che occhio non vide né orecchio udì né mai entrarono in cuore di uomo. Ma poiché, senza alcuna noia, anzi col massimo diletto perpetuo,, vedremo il vero e lo contempleremo nella più certa evidenza, noi stessi, accesi dall’amore della verità e a lei uniti in dolce e casto abbraccio, fuori dalla mediazione del corpo, con tale acclamazione loderemo Dio e diremo: Alleluia. Esultando in tale lode con l’ardente carità che li unisce tra loro e a Dio, i cittadini di quelle città celeste diranno: Alleluia, perché diranno : Amen (Discorso 362, 28, 29).

Publié dans:SANT'AGOSTINO, SANTI |on 19 septembre, 2015 |Pas de commentaires »

NESSUNO È SALITO AL CIELO, FUORCHÉ IL FIGLIO DELL’UOMO CHE DAL CIELO DISCESE – SANT’AGOSTINO

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20010525_agostino_it.html

NESSUNO È SALITO AL CIELO, FUORCHÉ IL FIGLIO DELL’UOMO CHE DAL CIELO DISCESE

DAI « DISCORSI » DI SANT’AGOSTINO, VESCOVO (SERM. DE ASCENS. DOM., 98, 1-2; PLS 2, 494-495)

« Oggi il nostro Signore Gesù Cristo è salito al cielo; salga con lui il nostro cuore. Ascoltiamo l’Apostolo che dice: Se siete risorti con Cristo, cercate le cose dell’alto, dove Cristo è assiso alla destra di Dio; pensate alle cose dell’alto, non a quelle della terra. Come infatti egli è salito ma non si è allontanato da noi, così anche noi siamo già là con lui, sebbene nel nostro corpo non sia ancora avvenuto ciò che ci è promesso.
Egli viene ormai esaltato al di sopra dei cieli; tuttavia soffre qui in terra tutti gli affanni che noi, che siamo sue membra, sopportiamo. Di questo diede testimonianza gridando dall’alto: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? E: Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare. Perché anche noi non fatichiamo sulla terra, in modo tale che per mezzo della fede, carità e speranza, tramite le quali siamo uniti a lui, riposiamo già fin d’ora con lui in cielo?
Egli, pur essendo là, è anche con noi; anche noi, pur vivendo quaggiù, siamo anche con lui. Egli può fare quello sia per la potestà, sia per la divinità, sia per l’amore; noi invece, anche se non possiamo fare questo, come lui, per la divinità, lo possiamo tuttavia per l’amore che nutriamo verso di lui.
Egli non abbandonò il cielo, quando di là discese fino a noi; e neppure si e allontanato da noi quando è nuovamente asceso al cielo. Infatti che fosse là, mentre si trovava qui, lo asserisce così lui stesso: Nessuno, dice, è salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo, che dal cielo discese e che è in cielo. Questo è stato detto in conseguenza dell’unità, perché egli è il nostro capo e noi siamo il suo corpo. Dunque nessuno può fare questo se non lui, perché anche noi siamo lui, per il motivo che egli è il Figlio dell’uomo per noi, e noi siamo figli di Dio per lui.
Così infatti l’Apostolo dice: Come, infatti, il corpo è uno, sebbene abbia molte membra; e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, formano un solo corpo, così anche il Cristo. Non dice: così Cristo, ma dice: così anche il Cristo. Cristo dunque ha molte membra, ma un solo corpo. Perciò egli è disceso dal cielo per la sua misericordia e non è asceso se non lui, mentre noi siamo saliti in lui per grazia. E parimenti non discese se non Cristo, e non salì se non Cristo, non perché la dignità del capo sia confusa nel corpo, ma perché l’unità del corpo non sia separata dal capo. »

Preghiera
Dio onnipotente, guarda la tua Chiesa che esulta e ti rende grazie in questa liturgia di lode, poiché in Cristo che ascende al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te: concedi a noi, membra del suo corpo, di vivere la speranza che ci chiama a seguire il nostro capo nella gloria: Lui che vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.

« a cura del Dipartimento di Teologia Spirituale
della Pontificia Università della Santa Croce »

 

Publié dans:SANT'AGOSTINO |on 28 avril, 2014 |Pas de commentaires »
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