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IRRADIARE LA BELLEZZA DI DIO

http://www.finesettimana.org/pmwiki/?n=Db.Sintesi?num=150

IRRADIARE LA BELLEZZA DI DIO

sintesi della relazione di Giannino Piana

Verbania Pallanza, 10 marzo 2001

Irradiare la bellezza di Dio significa rendere testimonianza con la vita e proclamarla con la parola sia da parte dei singoli credenti che delle comunità cristiane. Questo doppio movimento risponde alla logica che Gesù ha fatto propria: compiere gesti di liberazione e spiegarne il senso.
Si tratta di irradiare non la bellezza di una dottrina, per quanto sublime, ma la bellezza di una persona. Irradiare la bellezza di Dio vuol dire rendere trasparente il suo volto di misericordia e di amore, l’amore che Dio è.

la bellezza di Dio
Oltre alle definizioni già date nei precedenti incontri è possibile intendere la bellezza come la dimensione di profondità della realtà. La bellezza non va cercata in superficie, ma andando alla radice delle cose, oltre il livello della pura funzionalità, visione oggi dominante. Oggi conta sempre più il risultato, ciò a cui serve una certa cosa, ciò a cui è funzionale. La logica prevalente è quella funzionale e utilitaristica, anche nella valutazione etica.
La bellezza sfugge a queste logiche, per collegarsi alla logica del gratuito e dell’imprevedibile. E’ la bellezza del gesto gratuito, dello « spreco » da parte della donna che versa l’unguento sui piedi di Gesù.
Chi guarda la realtà in termini di funzionalità e utilità non è in grado di percepirne la bellezza, l’al di dentro, mai dominabile. La bellezza, la profondità è percepibile solo con un atteggiamento di ascolto e di accoglienza, come sa fare il poeta e il profeta, atteggiamento che apre all’al di là delle cose. Tanto più penetro al di dentro, tanto più sono rinviato al mistero insondabile che è dentro le cose e le trascende.
La percezione della bellezza delle cose, della loro dimensione più profonda apre alla bellezza di Dio, fonte sorgiva di ogni realtà.
la manifestazione di Dio nella storia del popolo di Israele e in Gesù Cristo
La rivelazione biblica di Dio ci mostra un Dio che afferma la sua assoluta trascendenza, la sua alterità, la sua non raffigurabilità, la sua innominabilità (primi comandamenti). Di Dio è sempre più quello che non conosciamo di quello che conosciamo. Rivelare significa per un verso manifestare e per altro verso velare di nuovo (ri-velare), coprire di nuovo. Il Dio della bibbia è un Dio presente e assente, vicino e lontano, alleato dell’uomo, ma insieme mai catturabile dentro a nessun concetto o immagine.
La preoccupazione di salvaguardare la trascendenza è espressa anche dal fatto che il volto di Dio non può essere guardato se non attraverso mediazioni (fenomeni naturali, angelo, sogno).
Ci sono però molte tracce che ci aiutano a scoprire, sempre solo analogicamente, il volto nascosto di Dio.
Innanzitutto la creazione porta su di sé l’impronta del creatore (« e Dio vide che tutto quello che aveva fatto era buono e bello »). La bellezza di Dio si rivela nelle sue opere e nel settimo giorno Dio si riposa contemplando la bellezza di ciò che ha fatto, svelandone così il senso ultimo, più profondo. « I cieli narrano la gloria di Dio ». La creazione è gratuità: Dio crea le cose perché è bello che siano.
Nel creato è l’uomo che rende maggiormente trasparente la bellezza di Dio, l’uomo creato a sua immagine e somiglianza. Anzi « a sua immagine li creò », quindi l’essere umano in quanto relazione, in quanto unità che si realizza in una differenza (maschio e femmina). L’immagine di Dio è nella realzione.
Il Nuovo Testamento poi ci dice che Dio non è un solitario, ma vive in una comunione di persone, che è un Dio relazione (Dio trinitario). In questo senso Dio è amore, è carità, come dice Giovanni. L’amore è la comunione tra persone.
In questa prospettiva la bellezza di Dio può essere annunciata solo dall’uomo, laddove sviluppa relazione autentiche. Bellezza e amore sono grandezze perfettamente omogenee.
Anche il mistero pasquale mette in luce questa dimensione. Il mistero pasquale comprende la croce, realtà in sé abbrutente. Ma la croce mostra la sua bellezza nell’essere un gesto d’amore estremo. O meglio la croce in sé non è bella, bello è l’amore senza riserve e misura che esprime.
Inoltre la croce è solo la penultima parola, l’ultima è la risurrezione, la nuova vita, la trasfigurazione. Il gesto di amore smisurato trasfigura, trasforma, è sorgente di novità di vita, di bellezza: è il Cristo risorto, primizia di tutti i risorti.
La bellezza di Dio è coglibile solo « come attraverso uno specchio », cioè solo attraverso la mediazione, ed « enigmaticamente », cioè attraverso la ineliminabile ambivalenza della bellezza umana, che non può mai essere assoluta gratuità. La bellezza che ci annuncia la presenza di Dio, denuncia anche la sua assenza.
La logica del mistero cristiano, della bellezza di Dio non è la logica formale della non contraddizione, ma quella dei doppi pensieri (Dostoevski), che mette insieme il diverso, l’opposto (Gesù perfetta immagine di Dio e piena immagine dell’uomo).
luoghi e modi di irradiazione della bellezza di Dio

Saranno indicati solo alcune modalità di espressione della bellezza di Dio
testimonianza della santità
Non si tratta della santità eroica, straordinaria, ma della santità a cui tutti i credenti sono chiamati. Tutti i credenti sono chiamati ad essere perfetti come il Padre, secondo modalità e forme legate alla propria vocazione.
E’ una santità che non è frutto anzitutto dello sforzo umano, dell’impegno ascetico, ma dono Dio, dello Spirito che plasma l’essere e l’agire dell’uomo. Non siamo noi per primi che amiamo Dio, ma è Dio che per primo ci ama. L’attitudine fondamentale, quanto mai impegnativa, non è quella del fare, ma del lasciarsi fare, del ricevere, dell’accogliere il dono. L’accoglienza implica una profonda attività. Ci vuole più forza nel riconoscere umilmente i propri limiti che non nel dare.
Il contenuto di questa testimonianza è espresso dall’adesione ai valori del regno, condensati nel discorso della montagna e nelle beatitudini. Nel vivere le beatitudini si rende trasparente la bellezza di Dio. Le beatitudini richiamano ad atteggiamenti di fondo che vanno poi tradotti in scelte quotidiane, ispirate a valori che sono controcorrente rispetto al modo di pensare e di vivere tutto incentrato sul potere, sul successo, sul denaro, sulla potenza. Le beatitudini proclamano la bellezza della mitezza, della povertà, della misericordia, dell’essere pacificatori…
Tutti questi valori sono riassumibili attorno al valore dell’amore, del dono di sé, indicando la necessità di una passaggio dalla ricerca di sé ad una perdita di sé (chi cerca la vita la perde, chi perde la vita la trova). E’ la bellezza del perdersi, del donarsi.
La santità come bellezza si esprime anche nel vivere secondo la logica dell’ « io vi dico »: non insultare il fratello (equiparato al non ucciderlo), al non opporsi al male con il male, all’amore per il nemico.
Una comunità cristiana che rendesse testimonianza a questi valori, che si impegnasse una migliore qualità dei rapporti, che reagisse al male con il bene, che fosse in grado di far cadere le barriere tra prossimo e nemico, considerando ogni uomo prossimo, sarebbe un elemento di feconda provocazione e darebbe concretezza e respiro al desiderio diffuso di un modo diverso di vivere le relazioni.

il linguaggio simbolico
Anche l’annuncio deve essere sempre più momento di trasparenza della bellezza di Dio.
L’annuncio della bellezza ha bisogno di un proprio linguaggio, diverso da quello deduttivo. Alla bellezza pervengo per intuizione e induzione, non per deduzione.
Il linguaggio della bellezza cioè non può essere quella della razionalità dominante, cioè della razionalità ideologica, che tende a creare un sistema totalizzante in cui includere tutto, e della razionalità strumentale di matrice tecnico-scientifica, volta al perseguimento del potere o del dominio sulla realtà, avendo come metro di misura la funzionalità.
La tentazione di fronte a questa razionalità occidentale che tende a dominare tutto a ridurre tutto a strumento è quella di fuggire nell’irrazionale.
Nella bellezza entrano anche le emozioni, i sentimenti, ma non in alternativa alla ragione, ma come elementi che qualificano un’altra forma di ragione, una ragione, per dirla con Lévinas che non mira alla totalità, a rinchiudere tutto in un sistema, ma all’infinito, che apre, che accosta la realtà rinviando sempre oltre verso qualcosa di mai totalmente definibile, verso l’infinito.
Questa ragione nuova è la ragione simbolica. Il simbolo descrive la realtà, ma rinvia sempre oltre. Mette insieme anche il diverso, ma evocando qualcosa che va oltre, che non può mai essere del tutto definito.
La razionalità simbolica è evocativa, allusiva, che piuttosto che dimostrare, mostra, indica, apre al mistero, alla trascendenza all’alterità, mentre la forma totalizzante di ragione esclude la possibilità del riconoscimento della vera alterità.
1. Questo concetto di razionalità dovrebbe essere applicato ai momenti dell’annuncio, innanzitutto nelle omelie durante le assemblee liturgiche.
Occorre accostarsi alla Parola lasciandola parlare, senza sovrapporsi ad essa con sterili moralismi o inutili ideologismi. Anche la parola di Dio può essere strumentalmente ridotta alle nostre tesi. In passato la tentazione era quella di leggere la Parola facendo l’applicazione immediata in senso moralistico, soprattutto nella sfera della sessualità. Oggi può esserci la tentazione dell’ideologismo, piegando la parola a precostituite letture della realtà sociale. Ma il giudizio, anche necessario su eventi sociali, deve sgorgare dalla forza evocativa originaria della Parola stessa.
C’è troppo spesso la tendenza a dimostrare, a fare applicazioni immediate e non a sollecitare nelle coscienze dei singoli assunzioni di responsabilità e applicazioni in forza della Parola.
I pastori delle chiese protestanti sanno predicare molto meglio dei preti, anche perché si rivolgono a persone aduse all’accostamento alla Parola e in grado di percepire più facilmente il senso dei testi, e quindi possono limitarsi a offrire chiavi di lettura molto generali…
2. Anche i segni liturgici hanno una grande importanza. Quando i segni hanno bisogno di essere spiegati non sono più segni. Il segno deve parlare immediatamente, seppure in modo allusivo, della realtà altra a cui si riferisce.
La riforma liturgica ha operato un grande sforzo di semplificazione di molti segni, molti dei quali però sono ancora troppo lontani dalla cultura dell’uomo di oggi. C’è ancora troppo didascalismo.
Si è passati da una sacralità magico-superstiziosa, che avvolgeva di mistero il non conosciuto e il non capito (il latino, ecc.), ad una fredda razionalità che tutto spiega. Non si è passati dal sacro al santo, ad un linguaggio che evochi il mistero che sta nelle profondità delle cose e che rinvia all’alterità.Non si è passati dal sacro al mistico, che spinge nella direzione della apertura al non spiegabile.
Il linguaggio evocativo è proprio delle parabole. Gesù parla in parabole « perché vedendo non vedano e udendo non odano », C’è un percepire la profondità della realtà che va oltre il vedere. E l’udire non è ascoltare. L’ascoltare come il credere è andare in profondità, significa sintonizzarsi con l’interiorità dell’altro e non il rimanere in superficie
Gli stessi sacramenti sono l’assunzione di realtà materiali e umane già di per sé significative , che rinviano ad un senso ulteriore.
Il bello, in quanto dimensione della profondità delle cose, trascende il bene e il vero, dà al bene e al vero una nuova carica. La bellezza è ciò che impedisce al vero di diventare verità dogmatica, verità che si chiude su se stessa, che definisce.
E la bellezza impedisce al bene di cadere nel moralismo, di assolutizzarsi in norme e valori trascurando la creatività personale: Soltanto la carità è un valore assoluto, al servizio del quale devono essere posti tutti gli altri valori.

la preghiera come paradigma
La preghiera, non il recitare preghiere, ma l’attitudine del pregare, è il luogo in cui si rende trasparente la bellezza di Dio. E’ il pregare come modo di essere-al-mondo, caratterizzato dallo stare davanti a Dio e dal sentirsi abitati da lui.
Lo stare davanti a Dio significa riconoscere un’alterità che mi trascende, a cui mi riferisco costantemente.
L’essere abitati da Dio significa riconoscere che Dio è più intimo dell’intimo di me stesso, che Dio è dentro di me.
E’ la bellezza come profondità delle cose e dell’essere personale. Vuol dire sentire Dio come compagni di viaggio, ma anche come colui che non si sostituisce alle mie responsabilità nel mondo e mi rinvia al mio impegno intramondano.
Il senso del pregare è fare esperienza di Dio nella storia (il Dio cristiano è nella storia) e fare esperienza della storia in Dio, riconoscendo che la storia è una storia aperta, dentro cui si manifestano i segni di liberazione, segni del Regno che viene.
La preghiera non è tanto un atto dell’uomo che tende a dialogare con Dio quanto un atto di Dio che tende a dialogare con l’uomo. « Ascolta Israele » è l’invito che emerge da tutta la tradizione ebraica. E’ l’invito all’ascolto, all’accoglienza, alla povertà, alla gratuità, al vivere e irradiare la bellezza di Dio.

L’INSEGNAMENTO DI SAN BASILIO SUL SANTO SPIRITO

 http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/dogmatica/insegnspiritobasilchr.htm

Panagiotis Christou

L’INSEGNAMENTO DI SAN BASILIO SUL SANTO SPIRITO 

1. I pneumatomachi

Durante la prima fase della controversia ariana i teologi si erano esclusivamente preoccupati del problema della situazione del Figlio nella Trinità. Benché fosse evidente che, negando la divinità della natura del Figlio, gli ariani a maggior ragione avrebbero negato la divinità dello Spirito, gli aderenti al dogma di Nicea presero la risoluzione di combattere lungo il fronte in cui l’attacco era più grave. La pneumatomachia fece la sua apparizione quando si distinsero tra gli ariani gruppi di varia tendenza; particolarmente quando alcuni di loro cominciarono ad ammettere la divinità del Figlio, come la formula homoousios, ma in tutti i suoi significati. Verso il 360 apparvero i primi pneumatomachi: i tropicisti d’Egitto e gli anomei dell’Asia minore. Quest’ultimi avevano una modesta opinione riguardo al Figlio e allo Spirito. Nel 370 gli irriducibili pneumatomachi si allearono in una particolare fazione diretta da Eustazio di Sebaste il quale riunì gli omeani e gli omeousiani. Sono costoro che vengono propriamente detti pneumatomachi dal momento che, in confronto agli anomeani avevano un concetto più elevato del Figlio. San Basilio tendeva a supporre che i pneumatomachi, quando cercavano di diminuire l’eminente posizione dello Spirito, fossero condotti da presupposti logici. In realtà la loro maniera di pensare era determinata da diverse motivazioni. Prima di tutto, l’assenza d’una esplicita menzione sulla divinità dello Spirito nella Bibbia infonde l’impressione che i partigiani della divinità dello Spirito introducessero nella Chiesa una divinità che non fosse attestata e che fosse, di conseguenza, inaccettabile. In secondo luogo, il concetto della trascendenza assoluta di Dio escludeva la divinità dello Spirito e dei suoi interventi negli uomini e nel mondo. In terzo luogo, un certo rigore logico vuole che se anche lo Spirito è Dio, si affonda nel triteismo. Coloro che negavano la divinità dello Spirito avrebbero potuto rispondere alla domanda: “Cos’è esattamente lo Spirito?” allo stesso modo dei monarchiani dinamici per i quali lo Spirito non è una persona ma semplicemente una potenza (dynamis). San Basilio non si è confrontato con questa risposta. Inoltre essi avrebbero potuto pure rispondere che lo Spirito è una persona ma non divina. Chi risponde in tal modo parte dal principio che gli esseri esistono sia come ingenerati, come Dio, sia come generati, come il Figlio, sia infine come creature. Lo Spirito non appartenendo né alla prima né alla seconda di queste categorie, è necessariamente posto tra le creature. Tuttavia costoro, per fronteggiare le obiezioni degli ortodossi, hanno trovato una posizione tra Dio e le creature in modo da porre lo Spirito al livello d’un essere semidivino[1]. Detto diversamente, lo Spirito non è un servitore, come nel caso degli esseri creati, non è neppure un signore com’è Dio. È, piuttosto, una terza realtà indipendente[2]. Essi hanno formulato quest’opinione teologicamente e liturgicamente assegnando al Padre, come creatore, il ex hou (dal quale), al Figlio come servitore il di’hou (per il quale) e allo Spirito in quanto contiene in se stesso il tempo e lo spazio, il en hô (nel quale)[3]. Un terzo gruppo, senza considerare lo Spirito come Dio, lo caratterizza come divino subordinandolo e ponendolo al terzo posto dopo il Padre e il Figlio[4].

2. Le fonti di san Basilio riguardanti la dottrina dello Spirito Santo Sul versante ortodosso, i primi che hanno affrontato il problema riguardante lo Spirito Santo, in maniera specifica durante questo periodo, sono Atanasio il Grande e Didimo il Cieco. Gli scritti autentici di Didimo su questo problema apparvero più tardi dell’anno 360 e, di conseguenza, tennero conto delle sette pneumatomache più tardive. Comunque, pure se si sono diffusi dopo il 381, comportano probabilmente argomenti che egli ha insegnato abbastanza presto alla scuola teologica di Alessandria. Sia Gregorio il Teologo sia Basilio il Grande probabilmente conoscevano le sue opinioni sullo Spirito prima della pubblicazione dei suoi scritti perché verosimilmente ne avevano seguito i corsi. Ciò spiega in parte la similitudine delle loro dimostrazioni in rapporto alle prove del loro maestro alessandrino. Basilio ha dedicato a questo problema uno scritto particolare: De Spiritu Sancto ad Amphilochium, nel quale giustifica la forma simmetrica della dossologia (Gloria al Padre e al Figlio e al Santo Spirito) impiegata correntemente con la formula asimmetrica dominante (Gloria al Padre, per il Figlio nel Santo Spirito) e presenta un insegnamento d’insieme sullo Spirito. La dottrina di Basilio è ugualmente completata da quanto dice nel terzo libro della sua opera Contro Eunomio, nel trattato Contra Sabellium, Arium et Anomoium e in alcune delle sue Lettere. Come tutti gli ortodossi, Basilio è stato accusato dagli eretici d’essere un innovatore perché riconosceva la divinità dello Spirito. Inoltre è stato violentemente accusato d’introdurre una nuova forma simmetrica di dossologia. Difendendosi da quest’accusa, Basilio è stato assolutamente sincero, dal momento che era perfettamente certo che la sua pneumatologia discendeva direttamente dalla tradizione e dalla vita della Chiesa: “Come potrei essere un innovatore, un creatore di nuove formule, dal momento che cito quali autori e campioni della Parola, nazioni intere, città, usi che risalgono prima di ogni memoria umana, uomini che sono stati pilastri della Chiesa e che sono stati illustrati per la loro conoscenza e la loro potenza spirituale?”[5]. Nel Nuovo Testamento, Basilio non trovò solo la formula battesimale trinitaria nella quale la personalità e la divinità dello Spirito erano liberamente significate – perché poste a fianco delle formule paoline che trattano sullo Spirito[6] –, trovò anche nomi come “paraclito, santo, unto, Signore, Dio” che testimoniavano la comunione[7] con Dio e le energie dello Spirito non convenienti che a Dio come, ad esempio, la conoscenza delle profondità divine[8]. Basilio non si accontenta della semplice citazione della Scrittura poiché anche i suoi avversari ne invocavano l’autorità. Ora, più che a qualsiasi epoca, s’imponeva la difesa d’una dottrina attraverso il richiamo alla tradizione. Precedentemente le discussioni dogmatiche erano limitate al Padre e al Figlio attorno ai quali esistevano abbondanti testimonianze scritturistiche. Quando l’interesse si concentrò sullo Spirito, le testimonianze bibliche erano insufficienti. Dopo Basilio tutta la tradizione della Chiesa, che ha uguale valore della Scrittura poiché ne esprime lo spirito[9], esplicita la divinità dello Spirito: “Non separate lo Spirito Santo dal Padre e dal Figlio; riverite la tradizione. È in questa maniera che il Signore ha insegnato, che gli apostoli hanno predicato, che i Padri hanno conservato e i martiri confermato”[10]. Tra i Padri, Basilio menziona il nome d’Ireneo, di Clemente d’Alessandria, d’Origene, di Gregorio il Taumaturgo e d’“Atenogene” come testimoni della tradizione kerigmatica conosciuta a riguardo della dottrina del Santo Spirito quale persona divina[11]. Comunque Basilio insiste maggiormente sulla tradizione dogmatica non scritta. Secondo la sua visione, che coincide in gran parte con il punto di vista dell’antica scuola alessandrina, gli apostoli e i Padri hanno conservato una parte della verità nascosta nei sacramenti e nei riti in generale: “Il dogma è una cosa, il kerygma un’altra. Se il primo è conservato nel silenzio, il secondo è proclamato”[12]. Il kerygma contenuto nelle Scritture e negli scritti dei Padri è trasmesso ai membri della Chiesa e a coloro che ne sono all’esterno attraverso la predicazione. Il dogma non contraddice il kerygma: ne dona l’interpretazione e un’intelligenza più profonda ma non è formulato. È un’esperienza vivente delle verità della fede nella vita generale e in quella sacramentale della Chiesa. Compreso in questo modo, il dogma non fa parte d’una tradizione segreta, nascosta alla gran massa dei fedeli poiché è la proprietà comune di tutti coloro che partecipano alla vita della Chiesa – anche se vi fosse una certa dissimulazione attraverso i secoli, dissimulazione accentuata dalla lettura segreta delle preghiere liturgiche e dall’erezione dell’iconostasi per nascondere la santa tavola. In ogni caso, le Scritture, l’insegnamento dei Padri, la confessione della fede, i sacramenti e il culto in generale, costituiscono parti legate tra loro delle quali ogni formulazione su uno specifico soggetto deve tenere conto; “noi dobbiamo essere battezzati e glorificare il Padre, il Figlio e il Santo Spirito, come lo crediamo”[13]. Per la prima volta, il culto d’adorazione che si svolge in un luogo difeso diviene un mezzo di difesa. Esistono due mezzi per condurci alla salvezza: la fede e il battesimo. Il primo è attestato dalla confessione che faceva il battezzato nella quale si unisce il Padre, il Figlio e il Santo Spirito[14] e che è giustamente l’antenato della dossologia trinitaria simmetrica[15]. Coloro che negano lo Spirito trasgrediscono naturalmente ogni confessione di fede perché ogni battezzato deve o assumere la fede intera o rinunciare al nome di cristiano[16]. Il secondo mezzo di salvezza, il battesimo, è ugualmente donato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo[17]. Il battesimo persegue due fini: la morte del corpo del peccato, compiuta con l’immersione e la ricezione della nuova vita suscitata dallo Spirito di vita[18]. Coloro che separano lo Spirito dal Padre e dal Figlio rendono, da una parte, il battesimo incompleto e, dall’altra, fanno della confessione di fede una realtà inadeguata[19]. È sicuramente impossibile essere battezzati allo stesso tempo nel nome di due esseri divini e d’un essere creato[20]. Da questi passi emerge chiaramente che Basilio attribuiva una grande importanza all’esperienza pneumatologica del cristiano. Quest’esperienza comincia con la partecipazione del cristiano al sacramento del battesimo. I bisogni spirituali dei cristiani esigono la divinità dello Spirito e la loro esperienza lo conferma. Se lo Spirito fosse una creatura, la dottrina della Trinità e la possibilità d’una deificazione dell’uomo sarebbero distrutti. Ne conseguirebbe l’affondamento di tutta la struttura della Chiesa. È perciò che Gregorio il Teologo esclama: “Se il Santo Spirito non è Dio che lo divenga e che in seguito mi deifichi come suo eguale!”[21].

3. Il doppio aspetto della dottrina del Santo Spirito Ogni realtà concernente Dio è irraggiungibile, è fuori dalla portata dello spirito umano. In effetti Dio partecipa ad una sfera d’esistenza nella quale l’uomo non può penetrare. Ogni conoscenza religiosa sarebbe stata impossibile senza averne avuto rivelazione. San Basilio rifiuta i principi fondamentali dell’insegnamento dei pneumatomachi e degli ariani, l’impossibilità naturale per Dio di entrare nella sfera umana, attraverso alcune distinzioni che giocheranno un importante ruolo nelle discussioni teologiche di dieci secoli più tardi. Se l’uomo, in quanto tale, non può entrare nel dominio divino, Dio può entrare nel dominio del mondo che è la sua creazione. Dio vi penetra attraverso la sua rivelazione, manifestazione della propria persona nel mondo, attraverso le sue energie. Se ignoriamo Dio nella sua inaccessibile essenza lo conosciamo attraverso le sue energie che discendono fino a noi[22]. Le energie sentite dal nostro senso spirituale, contribuiscono alla formazione d’una sorta di conoscenza empirica riguardo le ipostasi della Trinità. Così la dottrina dello Spirito Santo può rapportarsi sia alla sua esistenza eterna, sia alla sua attività nel mondo: nel primo caso, lo Spirito è situato a fianco del Padre e del Figlio; nel secondo è anche con gli uomini: “Quando consideriamo lo Spirito lo vediamo esaltato con il Padre e il Figlio, quando invochiamo la grazia comunicata ai suoi partecipanti, vediamo che lo Spirito Santo è in noi”[23]. Per queste ragioni le preposizioni sun (con) e en (in) sono intercambiabili; così le formule dossolgiche sono entrambe corrette: la simmetrica esprime il posto dello Spirito nella Trinità e l’asimmetrica esprime la sua attività nell’economia divina. Nella sua teologia sullo Spirito, san Basilio – come Atanasio nella sua teologia sul Figlio – parte da questo secondo aspetto. Dove possiamo situare lo Spirito? Gli eretici hanno seguito lo schema “ingenerato, generato, creato”. Ma san Basilio rifiuta tale schema affermando che tali categorie non si applicano allo Spirito poiché egli è lo “Spirito Santo”, un nome che esprime ogni cosa. Esiste una linea di separazione tra Dio e la creazione, e lo Spirito è in una delle due zone: “Nelle coppie di nomi Dio-creazione, signoria-schiavitù, energia santificante ed esseri santificati, da qual lato bisogna porre lo Spirito”[24]. È certamente impossibile a colui che santifica e a colui che ha bisogno d’essere santificato, a colui che insegna e a colui che viene istruito, a colui che rivela e a colui che ha bisogno di una rivelazione, avere un’identica natura[25]. La creazione è schiava, al punto che lo Spirito libera la personalità umana e la rende perfetta; non lo si può dunque concepire che di natura divina. La santificazione e la perfezione non può essere concepita attraverso dei mezzi creati. Nel movimento esicasta del XIV secolo incontriamo ulteriormente gli stessi argomenti, questa volta più sviluppati. Gli esicasti contestano la possibilità d’una rigenerazione e d’una deificazione dell’uomo attraverso mezzi creati, li attribuiscono all’energia increata e naturale del solo Spirito.

4. Esistenza eterna dello Spirito San Basilio, come molti altri Padri greci della stessa epoca, riconduce la teologia ad una triadologia e non sviluppa la triadologia come un prodotto del pensiero filosofico, ma come una verità empirica. Parte dalle ipostasi concrete, attive nel mondo, per raggiungere l’unità di Dio. Le ipostasi divine si manifestano in diverse maniere e in diversi luoghi ma sono apparse in particolari attività in maniera più totale; il Padre nella creazione, il Figlio nell’opera della rigenerazione e lo Spirito nella vita della Chiesa. Il Figlio e lo Spirito sono venuti nel mondo in un senso reale. Alcuni Padri, come Cirillo di Gerusalemme[26] e Gregorio il Teologo[27] ad esempio, parlano della venuta, o dell’incarnazione dello Spirito. Anche Basilio parla della discesa e della dimora nell’uomo dello Spirito anche se non usa lo stesso vocabolario. La causalità provoca in Dio la distinzione delle persone che occupano un determinato posto nella Trinità. Il Padre è ingenerato, il Figlio generato e lo Spirito procede[28]; i loro attributi distintivi corrispondenti sono la paternità, la filialità e la santificazione[29]. Ma dal momento che il termine gennasthai esprime globalmente un modo di derivazione in maniera comprensibile, non è la stessa cosa per quanto riguarda il termine ekporeuesthai poiché tale termine non descrive precisamente l’origine dello Spirito. È questa la ragione per cui san Basilio afferma che lo Spirito procede in maniera ineffabile[30] dal Padre; la processione designa la familiarità e preserva un modo d’esistenza inesprimibile. Tuttavia egli non dubita mai sulla personalità dello Spirito. In nessuna epoca i Padri, chiunque essi fossero, hanno dichiarato che lo Spirito procede anche dal Figlio. Certi passi di Cirillo d’Alessandria, parlando della derivazione dello Spirito dal Figlio, fanno allusione non alla causa ma alla sua missione; l’intera Trinità partecipa alla sua missione tramite un’energia comune poiché tutte le energie divine sono comuni all’insieme della Trinità. Il fatto che le due ipostasi derivino solo dal Padre crea l’impressione facilmente dissipabile della monarchia dell’ipostasi paterna. Ma le proprietà del Figlio e dello Spirito non sono certo ritenute inferiori a quelle del Padre; esse non sono effettivamente distinte che in rapporto alla causa che deve rimanere rigorosamente unica per evitare ogni specie di dualismo, ma esse non lo sono in rapporto alla natura increata. Le ipostasi non sono prima, seconda e terza; esse sono d’uguale valore – e non numerate –, sono designate dal loro santo nome, un solo Dio, Padre, un solo ingenerato, il Figlio, un solo Santo Spirito. Ogni genere di subordinazione conduce al politeismo[31]. Queste distinte ipostasi sono legate in tal maniera che alcuna può essere concepita senza le altre e che ciascuna presuppone le altre due. Esse costituiscono tre persone perfette, inseparabilmente unite: “Poiché dov’è presente il Santo Spirito là è anche il Cristo e dov’è il Cristo anche il Padre è presente”[32]. In tal modo che chiunque non crede nello Spirito non può certamente credere al Figlio e chi non crede al Figlio non può certamente credere in Dio Padre[33]. In che consiste l’unità delle ipostasi? Prima di tutto essa può consistere nella comune ousia. Secondo Aristotele, ousia può significare due cose: a) quant’è comune a tutti e non può essere percepito che dall’intelletto e b) l’esistenza individuale. In alcune sue lettere, san Basilio impiega due espressioni aristoteliche per definire l’ousia (nel primo senso) e l’ipostasi (ousia nel secondo senso)[34]. Di queste categorie non è completamente soddisfatto perché la logica aristotelica esige delle divisioni e delle classificazioni ch’egli rigetta assolutamente perché inapplicabili a Dio. A volte caratterizza le ipostasi come realtà aventi la stessa ousia, homoousios[35]. Egli è conforme al dogma niceno ma cerca d’integrare questa nozione nelle strutture della triadologia della scuola di Cappadocia nella quale ousia non si pone ad un livello più elevato rispetto alle persone, come se fosse una sorta di sorgente dalla quale le persone trarrebbero la loro origine. Il termine ousia, inoltre, infonde di primo acchito l’impressione d’una realtà materiale e creata, benché il suo uso in teologia ne abbia fatto divenire un termine particolare. La maniera con la quale san Basilio evita d’applicare il termine homoousios al Santo Spirito può spiegarsi considerando le sue esitazioni davanti al termine ousia, per le ragioni menzionate e per l’altra ragione che la stessa parola era utilizzata dai pneumatomachi per designare una subordinazione. San Basilio non si serve di tal termine se non quando è assolutamente indispensabile. I suoi principi teologici non gli permettevano d’insistere troppo sull’homoousios. Egli non vuole dare l’impressione che Dio consiste in questa o quell’ousia, perché è incomprensibile e non può essere definito. Non esplica l’homoousios identificando l’essenza e l’ipostasi poiché la persona si confonderebbe, ma distinguendo l’essenza dall’ipostasi, ciò che stabilisce la distinzione delle persone. Così, in quanto ousia, permane l’illimitata e incomprensibile visione di Dio. Per evitare ogni malinteso, san Basilio scarta deliberatamente il termine homoousios per quanto concerne il Santo Spirito, come farà ulteriormente il secondo concilio ecumenico. Secondo quest’ottica, la Trinità non è composta da una pluralità di ousia, ma è costituita da tre persone definite. Poiché le persone hanno il loro valore e la loro individuale dignità – uguale per tutte e tre – il Santo Spirito possiede lo stesso onore delle altre persone della Trinità, egli è homotimos. San Basilio è più a suo agio quando impiega i termini physis e theotês: “Il Padre, il Figlio e il Santo Spirito hanno la stessa natura e sono un solo Dio”[36]. Il Santo Spirito è “una natura divina e santa”[37]. Natura è il termine che meglio conviene alla persona perché non descrive la costituzione materiale d’una cosa ma caratterizza il modo d’esistenza. San Basilio non attribuisce allo Spirito il nome di Dio. Atanasio ha motivato questo rifiuto per la dispensazione dell’oikonomia e Gregorio il Teologo l’ha giustificato per ragioni di prudenza. Ma quest’ultimo a volte è rimasto turbato da tale riserva e gli ha apertamente chiesto fino a quando nasconderà la luce sotto il moggio[38]. Altri hanno considerato Basilio progressista per quanto riguarda il punto in oggetto mentre gli ariani lo ritenevano modernista per delle ragioni contrarie. Le opinioni secondo le quali san Basilio ha formulato il suo insegnamento trinitario, sia per ragioni d’opportunismo politico sia per simpatia per gli homeousiani, non sembrano rispondere alla situazione di fatto. Vi sono altre ragioni teologiche importanti. Nel sistema teologico di Basilio, troviamo Dio (= il Padre), Dio da Dio (= il Figlio) e Colui che procede da Dio (= lo Spirito). Non dubita che i tre siano Dio; ma se nomina con logica le tre persone divine, teme d’essere accusato di adottare tre dei perché sarebbe costretto a porli in un certo ordine progressivo: primo, secondo e terzo; egli teme inoltre di distruggere il carattere unico della casualità nella Trinità. Per questa ragione, preferisce dare alle tre persone i nomi che le distinguono: Padre, Figlio e Santo Spirito. Il nome del Santo Spirito significa parecchie cose, tra le altre quella ch’Egli è Dio e ciò rivela che egli accetta l’homoousios. Lo ha chiaramente dichiarato in conversazioni private da quanto ne afferma Gregorio il Teologo[39]. Inoltre quanto ha detto sullo Spirito era comunque più di quanto altri facevano. Infatti, altri denominavano il Santo Spirito senza impiegare la formula syn to pneumati nella dossologia. Ma se è molto importante chiamare Dio il Santo Spirito, in certe condizioni anche l’uomo viene chiamato Dio! Ecco perché è molto più importante rivolgerGli preghiere coma ad un Dio. L’unità delle ipostasi della triade è espressa felicemente dall’identificazione della potenza, dell’energia e della volontà. Esiste una corrente indivisa d’energia tra il Padre, il Figlio e lo Spirito: “Così la maniera di conoscere Dio proviene dall’unico Spirito attraverso il Figlio e va all’unico Padre e, inversamente, la naturale bontà, la santificazione e l’ufficio reale vengono dal Padre attraverso il Figlio unigenito verso lo Spirito”[40]. L’attività della Trinità è comune benché certe energie paiano a volte separarsi a causa delle ipostasi. Nella creazione, ad esempio, il Padre è la causa iniziale di tutto quanto è creato nel mondo, il Figlio la causa creatrice e lo Spirito la causa perfezionatrice, ma la sorgente è unica. Senza dubbio nessuna ipostasi ha attività imperfetta in modo da rendere necessaria l’attività delle altre. Si tratta d’una volontà unificata; ciascuna ipostasi ha la volontà d’agire in accordo con le altre[41]. Soprattutto l’unità delle ipostasi è espressa dalla loro comune sorgente, il Padre, com’è stato precedentemente detto. San Basilio caratterizza lo Spirito con una perifrasi, come immagine del Figlio[42], perché in Lui e attraverso di Lui gli uomini vedono il Figlio. Le ipostasi si fanno ciascuna rivelatrice delle altre agli uomini; lo Spirito riflette in Se stesso l’immagine del Figlio, il Figlio quella del Padre. Così l’itinerario della conoscenza di Dio parte dallo Spirito, attraverso il Figlio per arrivare al Padre. Ma nella Trinità non esiste un’immagine dello Spirito che lo rende meno conosciuto rispetto alle altre ipostasi. Il Figlio ha parlato del Padre ed è stato manifestato dallo Spirito che ha parlato nel passato ai profeti come oggi parla alla Chiesa. Nelle scritture troviamo abbondanti testimonianze su queste due persone, il Padre e il Figlio. Inoltre, la loro opera è oggettiva – la creazione del mondo e l’istituzione delle condizioni della rigenerazione dell’uomo – e cade immediatamente sotto i sensi. Quanto allo Spirito la Scrittura lo menziona solo occasionalmente. Senza dubbio egli abita nella Chiesa e si fa conoscere attraverso le sue energie ma l’esperienza spirituale acquisita dagli illuminati è spesso poco precisa e non permette una completa comprensione della sua personalità. Per questa ragione i Padri hanno evitato di precisare le sue origini. Pure il termine di “processione”, come abbiamo detto altrove, non dissipa la nostra ignoranza del modo della sua esistenza, ignoranza che san Basilio considera d’altronde come senza importanza[43]. È la ragione per cui, interpretando l’origine del Santo Spirito in termini non biblici, abbiamo proceduto con prudenza: “Poiché è tipico dell’uomo pio non dire nulla sullo Spirito Santo su ciò che le scritture tacciono e questo perché è nostra convinzione che l’esperienza e la comprensione a suo riguardo risiedono per noi nel mondo futuro”[44]. Era ugualmente prudente quando caratterizzava lo Spirito come homoousios e come Dio, come abbiamo già detto. La Chiesa ha sempre saputo e ha sempre concepito quest’attitudine di prudenza. Benché abbia composto degli inni allo Spirito non ha composto preghiere che gli fossero rivolte ad eccezione di una sola. Nelle sue preghiere a Dio essa chiama in modo generico lo Spirito Santo utilizzando le espressioni: coeterno, di identico valore, di uguale gloria ed homoousios. L’innologia della Chiesa riflette l’insegnamento di Gregorio il Teologo che, nella sua maniera di presentare la divinità dello Spirito era più ardito mentre le preghiere della Pentecoste riflettono l’insegnamento di Basilio il Grande.

5. L’economia dello Spirito Le attività dello Spirito, ineffabili nella loro ampiezza ed innumerevoli[45], si rapportano all’insegnamento, all’adattamento filiale e, in particolare, alla ripartizione dei carismi; nessun carisma è accordato alla creatura senza l’azione dello Spirito[46]. San Basilio riassume i loro frutti nei termini di confermazione, santificazione e perfezione. Il santo così definisce l’attività delle ipostasi nella creazione delle potenze angeliche: “Di conseguenza il numero tre viene allo spirito: il Signore ordina il Logos che crea e lo Spirito che consolida. Ora, cos’è il consolidare se non perfezionare nella santità, questa parola designa sicuramente il fatto d’essere fermo, immutabile e solidamente fissato nel bene. Non esiste santificazione senza lo Spirito”[47]. Queste energie si sono manifestate da tutta l’eternità: prima del mondo invisibile e al di qua del tempo. Esse ricoprono ogni epoca della storia dell’essere capace di ragione. Basilio sembra escludere la creatura priva di ragione dall’attività dello Spirito proprio perché solo gli esseri dotati di ragione e di personalità hanno il bisogno e la capacità di perfezionarsi elevandosi come personalità. È significativo che san Basilio nel passo della sua seconda omelia sull’Examerone, dov’è obbligato ad interpretare il testo “E lo Spirito di Dio si muoveva sulle acque”, non presenta un’interpretazione in base a ciò che crede ma si richiama all’unanime autorità per mostrare che questa frase biblica significa la vivificazione della natura dell’acqua attraverso lo Spirito. Egli ha reso perfette le potenze angeliche con la santificazione, al momento della creazione del mondo, nel corso del progressivo rinnovamento dell’umanità, egli ha donato uno dei suoi più importanti carismi, la profezia[48]; al momento del vero rinnovamento era presente e attivo con Cristo[49]. Nella vita della Chiesa crea il suo adornamento[50] e al momento dell’ultimo giudizio sarà con il Giudice[51]. Da un certo punto di vista, l’attività per eccellenza dello Spirito è la continua e attiva conservazione della rivelazione e la sua ripartizione individuale agli esseri particolari. Lo Spirito abita nella Chiesa ed è simultaneamente posseduto dall’insieme dei suoi membri come da ciascuno in particolare. È il legame che collega i suoi membri nel tempo e nello spazio[52]. I ministri della Chiesa sono illuminati per divenire buoni pastori e i fedeli sono fortificati per divenire buon gregge. Nei due casi l’attività dello Spirito si rapporta alla personalità di colui che ne è il portatore. L’attività dello Spirito è ben più personale nella vita privata del credente. Disceso su tutti i credenti egli tocca solo colui che è puro di cuore come il sole non tocca che l’occhio che gode buona salute[53]. Su questo punto ci si rende conto delle tendenze ascetiche di Basilio. L’illuminazione dello Spirito tocca prima l’anima e il cuore, poi l’intelletto. La sua grazia, ineffabilmente unita alla personalità e all’esistenza umana è una potenza di permanente rigenerazione in loro e li rende spirituali e portatori dello Spirito[54]. Così lo Spirito può essere designato come l’eidos[55], che dona una forma all’uomo naturale, lo libera dalla schiavitù dalle potenze e dalle necessità naturali e ne fa una personalità libera con una metamorfosi piena di forza[56]. L’uomo spirituale è reso conforme all’immagine di Dio, ne è in qualche sorta l’immagine dello Spirito[57] che, dunque, non trovandosi nella Trinità appare nell’umanità. Dimorando nei santi, lo Spirito è da loro visto misticamente; l’ignoranza originale è così superata esistenzialmente. Non manifesta ad essi solo se stesso, manifesta anche la gloria del Figlio e la visione archetipa. “Poiché noi vediamo la bellezza dell’immagine invisibile di Dio, dono allo spettacolo soprannaturale degli archetipi, vi troviamo anche inseparabilmente unito a Dio, lo Spirito di conoscenza che offre in se stesso il potere di vedere l’immagine agli amanti della verità… Egli manifesta anche in se la gloria del Figlio e offre la conoscenza di Dio ai veri adoratori”[58]. Il fine del pellegrinaggio dell’uomo spirituale è la visione del Dio triadico. Questo vuol dire che chi ha già raggiunto un tal grado di perfezione può abitare con Dio, essergli simile e divenire Dio[59]. Attraverso l’attività del Santo Spirito l’umanità è collegata alla Trinità.

P. Christou, Theologika Meletemata, 2 Grammateia tou IV aionos,Thessaloniki, 1975

DIO PADRE IN SAN PAOLO

http://www.clerus.org/clerus/dati/1999-06/14-2/DioPadre3.rtf.html

DIO PADRE IN SAN PAOLO

ALBERTO PIOLA

Introduzione

Affrontando il messaggio su Dio presente nella teologia di san Paolo, non solo andiamo a conoscere che cosa Gesù ci ha rivelato su Dio, suo e nostro Padre, ma vediamo anche una riflessione cristiana su Dio. Nelle sue lettere Paolo seppur non in modo sistematico visto il loro carattere occasionale spiega ai primi cristiani il nuovo concetto cristiano di Dio, inscindibilmente legato a quanto è successo nell’evento della vita, morte e risurrezione di Gesù.

Alla ricerca di Dio
Essere cristiani secondo Paolo non significa essere delle persone che adorano Cristo come l’unico Dio: infatti, il rimando ultimo non è Gesù, ma il Padre; compito di Gesù è proprio quello di metterci in contatto con il Padre: 1 Timoteo 2,5-6 Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti.
Il centro della predicazione di Paolo ha un carattere soteriologico: Dio ha salvato gli uomini per mezzo di Gesù Cristo morto e risorto. Quindi egli guarda innanzi tutto a ciò che Dio ha fatto e non tanto alla sua natura e al suo mistero. Ma da quello che Dio « fa » si può capire ciò che Dio « è ».
Ma chi è questo Dio? È precisamente « il Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (Romani 15,5). Per Paolo questo è il volto specifico della prima persona della Trinità ed è questa paternità che gli permette di annunciare la nuova immagine cristiana di Dio.
Paolo non parte dall’ateismo: per lui è scontata l’esistenza e la presenza di Dio: Romani 11,36 da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Sente Dio come presente e vicino a sé: egli sta « davanti » a Lui, lo loda e lo ringrazia; Romani 1,8 rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo. È addirittura « il mio Dio »! e allora può arrivare a dire: 1 Corinzi 8,6 per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Tutto questo è possibile per Paolo perché ha capito di essere inserito in un progetto di Dio: Romani 8,28-30 noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. Per Paolo allora « Dio non è soltanto prima dell’uomo, ma è prima nell’amore; ha amato gli uomini prima che essi potessero amarlo: li ha amati dall’eternità. Il Dio vicino è dunque il Dio che chiama e ama l’uomo dalla profondità infinita della sua eternità. Così è un Dio vicino e, nello stesso tempo, un Dio lontano ».
Però, ci dice Paolo, questo Dio non è immediatamente raggiungibile: è necessaria nella vita dell’uomo la ricerca di Dio. Dio è più grande di noi: è uno ed unico; 1 Corinzi 8,4-6 noi sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo e che non c’è che un Dio solo. E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dei sia nel cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti dei e molti signori, per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Il netto rifiuto di altri idoli (cfr. l’ambiente pagano in cui Paolo annuncia il Vangelo) significa che per essere cristiani occorre fare il passaggio dagli idoli sempre possibili della nostra vita alla scelta dell’unico Dio; come hanno fatto i Tessalonicesi: vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero (1Tess 1,9).
Ciononostante, non è facile per Paolo capire chi è questo Dio, i cui giudizi sono imperscrutabili (Romani 11,33 O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!). L’uomo non può capire da solo chi sia Dio: 1 Corinzi 2,10-11 lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ci sono delle strade umane per arrivare a Dio:
la via della creazione: l’osservazione del mondo creato pone degli interrogativi per la sua grandezza e bellezza: Romani 1,20 dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità. Quindi le creature rimandano al Creatore; ma per Paolo questa via è pericolosa: il mistero di Dio rimane comunque inaccessibile e c’è sempre il pericolo di divinizzare il creato. Infatti gli uomini sono caduti nell’idolatria: Romani 1,21-23 sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. L’uomo da solo non è quindi in grado di arrivare dalle creature al Creatore: 1 Corinzi 1,20-21 Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione.
le opere buone: sono senza dubbio l’espressione dei nostri sforzi di fedeltà alla legge del Signore e manifestano il nostro desiderio di essere fedeli a Lui. Però Paolo conosce l’orgogliosa consapevolezza che il popolo di Israele aveva del possesso della Legge e invita a non farsi illusioni: la sola osservanza della Legge non salva: Romani 9,30-32 Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Non è quindi possibile giungere a Dio solo con una prestazione morale, perché Dio non si lascia ipotecare dai presunti meriti dell’uomo.
In Paolo risulta così « chiaro che il Dio del Nuovo Testamento, essendo colui che si rivela mediante l’imprevedibile e scandalosa stoltezza della Croce di Cristo (cfr. 1Cor 1,17-25), è per eccellenza il Dio della grazia (Ef 2,8), che preferisce i deboli, i peccatori, gli emarginati dalle religioni, i lontani. Egli è presente attivo là dove non lo si immaginerebbe: nel condannato e suppliziato Gesù di Nazareth. Egli perciò diventa, a sorpresa, oggetto di una scoperta donata: un Dio così non si poteva trovare in base a semplici presupposti umani; un Dio così poteva soltanto rivelarsi di sua propria iniziativa ».

L’azione salvifica di Dio Padre
Quindi il vero punto di partenza è che Dio si è rivelato in Gesù Cristo: il suo nome è proprio quello di essere il Padre di Gesù e in questo suo Figlio ci ha voluto salvare. Che Dio ci salvi è un’affermazione tanto scontata quanto problematica: l’uomo moderno sembra fare benissimo a meno di una salvezza, al limite può riconoscere la sua impotenza di fronte a certe situazioni.
È nella vita, morte e risurrezione di Gesù che Dio si è rivelato come il Dio per noi: Romani 8,31-32 Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?. È proprio in Gesù che abbiamo potuto conoscere un amore insospettato: Romani 8,35-39 Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.

Ma che cosa vuol dire per Paolo che Dio è un Padre che ci salva?
tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio (Romani 3,23): la condizione propria dell’uomo è quella del peccato: infatti tutti quanti commettiamo peccati e siamo all’interno di un mondo che porta con sé il peccato e la sua forza (cfr. i vari condizionamenti che subiamo verso il male). È la condizione dell’umanità in cui nasciamo: Romani 5,12 come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. È una condizione tragica, perché siamo lontani da Dio e siamo dominati dal potere del peccato; se infatti al di là di ingenue illusioni andiamo a vedere che cosa succede in noi quando siamo « abitati » dal peccato, ci rendiamo conto che se il circolo non viene spezzato facilmente siamo schiavi della logica del peccato che ci allontana da Dio rendendoci attraente il bene. Proprio per questa situazione Dio è venuto a salvarci in Gesù: Romani 5,17-19 se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà  vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
Dio nel suo amore misericordioso giustifica i peccatori: questo Padre che ci è venuto a cercare non ha voluto che noi restassimo in questa condizione di peccato ma ha scelto di trasformarci e di renderci giusti. Tutti gli uomini sono sotto il giudizio e l’ira di Dio (cfr. Romani 1,18): ma ad essere annientato non è l’uomo peccatore, bensì il suo peccato; perché Dio, oltre ad essere giusto, è anche il Dio della tolleranza e della pazienza: Romani 2,1-11 Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose. Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose. Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio? O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia. Tribolazione e angoscia per ogni uomo che opera il male, per il Giudeo prima e poi per il Greco; gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il Giudeo prima e poi per il Greco, perché presso Dio non c’è parzialità. Quell’uomo che era peccatore è ora reso giusto dall’amore di Dio in Cristo: Romani 5,8 Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. È questa la lieta notizia sul destino dell’uomo: 1 Tessalonicesi 5,9-10 Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Si tratta quindi di un Dio « giusto » e nello stesso tempo « giustificante », che ci rende giusti: Romani 3,24-26 tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù.
Non possiamo giustificarci da soli: la Legge degli Ebrei non serve più, l’unica condizione per essere resi giusti da Dio nostro Padre è la fede nel suo Figlio Gesù. Noi oggi non abbiamo certo più i problemi dei primi cristiani che si sentivano ancora vincolati all’osservanza della Legge giudaica, ma possiamo avere la medesima tentazione di fondo: cavarcela da soli, essere giusti per le nostre forze. È troppo forte per Paolo il rischio di sentirci orgogliosamente salvati da soli; il vero modello del credente è Abramo con la sua fede: Romani 3,28; 4,1-3.18-22 Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge. Che diremo dunque di Abramo, nostro antenato secondo la carne? Se infatti Abramo è stato giustificato per le opere, certo ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio. Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia . Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo aveva circa cento anni e morto il seno di Sara. Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. Ecco perché gli fu accreditato come giustizia.
Dio ci giustifica per mezzo della fede in Gesù Cristo: con il Cristo è cominciato il tempo ultimo della salvezza in cui Dio Padre ci ha detto e dato tutto nel suo Figlio Gesù. Egli è morto sulla croce « per noi », cioè a causa nostra e per i nostri peccati; ed è proprio lì che ci ha salvati, ci ha resi giusti liberandoci dalle colpe. Lui è il Risorto, colui che il Padre ha confermato dopo lo scacco supremo della morte: credere in Lui è ora per il cristiano il mezzo per salvarsi. Credere in Dio Padre si vedrà ora nel nostro rapporto personale di fede con il Figlio, perché tutta la nostra vita sia inserita nel Signore: Romani 14,7-8 Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore.
« In conclusione, il Dio che rivela san Paolo è il Dio Salvatore, cioè il Dio che, nel suo infinito amore per gli uomini peccatori, ha mandato nel mondo il suo Figlio Gesù, nato da donna, perché con la sua morte redimesse gli uomini e con la sua risurrezione desse la vita eterna a coloro che credono in lui e con la fede e la carità vivono in lui e per lui. Per san Paolo, Dio è il Dio di Abramo, di Mosè e dei Profeti; è il Dio della promessa fatta ad Abramo. Tuttavia la rivelazione che Gesù gli ha fatto di sé sulla via di Damasco ha trasformato la sua vita e la sua visione di Dio. Per lui ormai Dio è colui che salva gli uomini in Gesù Cristo. È il Dio per noi (Rm 8,31), il Dio che ci dà speranza, perché il suo amore è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,5) ».

Alcuni spunti
Il messaggio di Paolo su Dio Padre ci dà senza dubbio molti altri spunti oltre a quanto abbiamo già trovato nei Vangeli.
Dio Padre è un Dio che va sempre cercato: c’è da preoccuparsi seriamente quando non siamo più capaci a cercare Dio o quando crediamo di saper già tutto di lui Può non esserci molto difficile lasciare aperta la domanda su Dio di fronte alle bellezze del creato o di fronte ai grandi perché della vita; ma l’atteggiamento della ricerca è ancora qualcosa di più: è un dinamismo attivo, è un desiderio. Come è accaduto a Paolo, così ognuno può avere la sua caduta lungo la strada di Damasco: e si scopre di non conoscere ancora il vero volto di Dio.
L’esperienza personale di Paolo ci ha presentato un Dio presente e vicino, che lui chiama il « mio Dio »: è un punto di arrivo del cammino di fede, che deve partire dal riconoscimento della trascendenza di Dio (altrimenti diventa « l’amicone » che non mi mette più in discussione). Il Dio trascendente ed immanente è il Dio che vediamo nel Natale: l’Eterno sotto la figura di un piccolo bambino ma è proprio così che lo comprendiamo come il « Dio per noi », il Dio che sta dalla nostra parte, combatte la nostra stessa battaglia. Altrimenti che ce ne facciamo di un Dio che sta solo accanto a noi o sopra di noi?!
Nel nostro cammino verso Dio Padre ci ha avvertiti Paolo corriamo il rischio di divinizzare il creato: logicamente non fa problema che il passaggio da fare è quello dalle creature al Creatore, ma praticamente è molto più difficile riuscire a dare sempre a tutto il giusto posto. Verificare ogni tanto il nostro rapporto con i beni creati non fa male: dov’è il nostro cuore?
Nemmeno le « opere della Legge » servono per essere in comunione con il Padre: con Dio cioè non vale contrattare in base ai propri meriti. La logica commerciale può essere presente anche nel nostro rapporto con Dio, quando perdiamo la dimensione filiale; ovviamente i problemi nascono quando non siamo ripagati delle nostre prestazioni a Dio. Lasciarci salvare è terribilmente difficile: la passività arriva dopo una serie infinita di sforzi, e forse non ce la faremo mai ad essere totalmente ricettivi nei confronti di Dio. Intendere le nostre attività « solo » come risposta ad un dono richiede moltissima umiltà. Forse impariamo troppo poco dai nostri fallimenti
E per lasciarci salvare occorre riconoscere il peccato che è noi: è un’altra dimensione della medesima realtà. Ma se continueremo a dire che tutto sommato siamo a posto così, che c’è in fondo chi è peggio di noi, molto difficilmente avremo bisogno di invocare Dio salvatore. Al limite potremo pretendere che ci ricompensi dei nostri successi e che nella sua bontà un po’ ingenua chiuda gli occhi sui nostri insuccessi.
Credere in Dio è credere che Lui ci trasforma: può essere il messaggio finale che ci dona san Paolo; lui ha saputo cambiare la sua concezione di Dio e ha saputo lasciarci trasformare da Lui. Tutta la nostra vita cristiana è un cammino per lasciarci trasformare da Dio e per poter giungere a vivere con Lui per sempre.
Allora Giobbe rispose al Signore e disse: Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te. Chi è colui che, senza aver scienza, può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere (Gb 42,1-3.5-6).

Un simbolo biblico dello Spirito Santo: Ruach: vento e respiro

dal sito:

http://www.spiritosanto.org/mensile/312/page1.htm

Un simbolo biblico dello Spirito Santo:

il vento

Padre Ubaldo Terrinoni, OFM Capp.

Ruach: vento e respiro

 È paradossale ma vera l’affermazione del teologo protestante Karl Barth nel suo commento all’epistola ai Romani: «Dello Spirito Santo è impossibile parlarne, impossibile tacere». La terza persona della santissima Trinità non è un fantasma inafferabile, non è una realtà evanescente, né una forza misteriosa, indecifrabile. Tutt’altro! È una persona divina, presente e molto dinamica nella storia della salvezza; svolge la specifica missione di santificare, consigliare, consolare, sostenere e guidare il cammino spirituale di ogni uomo. È Dio eterno, infinito, onnipotente, della stessa sostanza del Padre e del Figlio.
 Nel messaggio biblico viene presentato come l’esegeta del Cristo («Il Consolatore vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» Gv 14,26) che non dice nulla di sé, non spiega e non rivela se stesso («Non parlerà di sé» Gv 16,13) e non propone una sua dottrina («Prenderà del mio e ve lo annunzierà» Gv 16,14). Lo Spirito agisce, rimanendo nell’ombra, nel nascondimento, si dedica a radicali trasformazioni di storie di cuori, senza rendersi mai visibile, compie un’azione misteriosa, incessante e sempre nuova in ogni uomo, senza farsi notare. Ed è precisamente questo suo agire discreto nell’intimo dell’uomo che determina in noi il vivo desiderio di sapere di più di lui, di conoscerlo, di precisarne qualche personale dinamismo! Ovviamente la via migliore da percorrere in questa affascinante ricerca è di partire dai simboli biblici che descrivono la multiforme azione dello Spirito per poter risalire così alla sua persona.
 Sovente la Rivelazione designa la Terza Persona della Trinità con il simbolo del vento che in ebraico suona ruach. È un termine che nel contesto biblico ha un ampio diagramma semantico col significato di vento, alito, soffio, spirito, vapore, fumo, respiro, esalazione, ecc. Nel significato originario indica l’effetto del movimento dell’aria prodotto dall’azione del respiro o dal soffio forte oppure lieve del vento. Non si dimentichi che la primitiva mentalità semitica non conosceva l’aria al di fuori di questo movimento e quindi ciò che suscitava interesse non era tanto il moto in sé quanto il segreto dinamismo dell’energia (respiro o vento) che lo causava e lo manifestava.
 Però, anche se il campo semantico di ruach è molto esteso, può tuttavia essere ricondotto a due termini fondamentali, cioè al binomio vento-respiro. Un numero elevato di testi biblici si riferisce a ruach-vento descritto come una realtà misteriosa, che non ha autonomia in sé, ma dipende esclusivamente dal volere di Dio, il quale ne è l’origine e la fonte e ne dispone liberamente: «Egli fa salire le nubi dall’estremità della terra, produce le folgori per la pioggia e dalle sue riserve libera il vento (ruach)» (Ger 10,13). Il salmista esprime incanto e stupore per il grandioso scenario della creazione e celebra la maestà di Dio che «Cammina sulle ali del vento (ruach) e fa dei venti i suoi messaggeri» (Sal 104,4). Il profeta Amos eleva un canto alla trascendenza di Dio Creatore: «Ecco colui che forma i monti e crea i venti e cammina sulle alture della terra, Signore Dio degli eserciti è il suo nome» (Am 4,13); gli fa eco il profeta Isaia quando magnifica la grandezza di Dio: «Secca l’erba, il fiore appassisce quando il vento del Signore soffia su di essi» (Is 40,7).
 Non meno numerosi sono i testi che si riferiscono a ruach come respiro per indicare l’energia vitale dell’uomo e di ogni altro vivente. La religiosità sapienziale biblica riconosce la totale dipendenza della creatura dal Creatore soprattutto nella dinamica del respiro. È proprio ciò che ricorda il personaggio Eliu, con drammatica tensione, al martoriato Giobbe: «Se egli richiamasse il suo spirito e a sé ritraesse il suo soffio, ogni carne morirebbe all’istante e l’uomo ritornerebbe in polvere» (Gb 34,14-15). In qualunque momento Dio può sottrarre all’uomo il respiro e immediatamente si bloccherebbe il ciclo vita-morte: «Se togli il respiro muoiono e ritornano nella polvere, mandi il tuo spirito e sono creati» (Sal 104,29-30). La complessa vitalità dell’uomo ha poi un’ampia parabola di sensibilità umane che vanno dalle emozioni forti, incontenibili a quelle più lievi e quasi trascurabili. L’energia vitale si manifesta nel furore (Gdc 8,3), nel coraggio (Nm 14,24), nella gioia (Lv 9,24), nel pianto (Sal 142,2-4), nella tensione (Qo 7,8) nella depressione (1Sam 16,14-16.23) e nell’annullamento dello slancio vitale (1Sam 1,15).

Il vento, simbolo dello Spirito
 In alcuni testi del Nuovo Testamento, gli autori ispirati fanno riferimento al fenomeno tanto comune del vento per rendere più accessibili la misteriosa azione dello Spirito Santo nella vita del cristiano. Nella narrazione che Luca fa della Pentecoste descrive la presenza dello Spirito nel Cenacolo di Gerusalemme come un «Vento che si abbatte gagliardo» (At 2,2). Ma già Gesù, nel dialogo notturno con Nicodemo, un capo dei giudei, si era riferito al vento per annunciargli una nuova nascita dall’Alto: «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,7-8).
 Quel maestro in Israele, Nicodemo, non deve ritenere impossibile ciò che umanamente non è spiegabile. Una nuova nascita per intervento dello Spirito non è impossibile. Al contrario, è possibile e reale, pur restando tanto misteriosa. Del resto si pensi al vento…! Secondo una antichissima convinzione molto diffusa nella cultura semitica, il vento era ritenuto come una realtà piena di mistero, una realtà inafferrabile, imprevedibile, invisibile, ma se ne avverte il passaggio e sono riscontrabili a occhio nudo i suoi effetti: il vento spira, sibila, agita le foglie, rispande il profumo nell’aria, spazza via le nubi e rende azzurro il cielo, piega i rami e sradica gli alberi. Ebbene, come il vento esiste e lo si avverte negli effetti, anche se è inspiegabile, così è dello Spirito: esiste e opera, benché resti misteriosa la sua esistenza e la sua attività. Il vento che soffia dall’Alto, dal Cielo, da Dio, non lo si vede, ma si fa sentire; non ha un volto da offrire alla visione ma fa avvertire la sua presenza: è una forza che afferra tutta la persona, è un fuoco che riscalda e illumina « dentro », è un impulso irresistibile che parte dal più profondo e investe vita, lavoro, aspirazioni e progetti. La sua azione segreta e discreta si manifesta nelle ispirazioni, nelle illuminazioni improvvise, negli eroismi di carità, nella forza di svincolarci dalla stretta delle numerose schiavitù del male, della paura, del conformismo e ci fa risultare persone nuove, coraggiose, ricche di slanci e di creatività. L’esperienza conferma largamente che il vento soffia qua e là, dove più forte e dove meno, dove a lungo e dove brevemente. Spazia per l’universo, sui monti e sui mari, senza che gli si possano imporre degli argini, dei limiti invalicabili e senza che sia possibile catturarlo e imbavagliarlo. Ma ciò è molto più vero dell’altro « Vento » che spira dall’Alto: agisce con sovrana libertà dove vuole, come e quando vuole; il suo arrivo, la sua intima azione e l’incidenza della sua opera restano nascoste all’uomo. Però la certezza assoluta di fede è che egli diventa il nuovo principio vitale dell’uomo, agisce intimamente in lui per modellarlo a immagine di Cristo «Uomo perfetto» (GS, 22). E persegue così la storia della salvezza, ma alla storia dell’antica alleanza costituita da eventi esterni, ne fa seguito un’altra, quella della nuova alleanza, fatta di eventi interiori di cui lo Spirito è protagonista.

Il vento: soffio di vita
 «Respirare, per l’uomo, è una necessità e un mistero. In questa funzione, l’uomo scorge il segreto della vita. Il Signore, che si rivela come il « Dio vivente », appare dotato di un soffio, di un’energia creatrice e restauratrice in cui l’essere umano scopre l’inesauribile sorgente della propria esistenza. Il Signore con un soffio immette la vita» (M. Cocagnac, I simboli biblici, pp. 145-146). Ed è un soffio il gesto che compie Gesù risorto sugli undici nel Cenacolo di Gerusalemme per trasmettere lo Spirito: «Soffiò su di loro e disse: ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22). Gesù ripete lo stesso gesto che Dio aveva compiuto nell’Eden quando, dopo aver modellato il corpo dell’uomo dalla polvere della terra, «Soffiò nelle narici un soffio vitale» (Gn 2,7). L’evangelista Giovanni si serve dello stesso verbo greco di cui si è servito l’autore del libro della Sapienza nel riferire la creazione di Adamo: «Gli inspirò un’anima attiva e soffiò in lui uno spirito vitale» (Sap 15,11).
 Ad un essere inerme, inattivo, spento, Dio infonde la vita e subito si ha il grande prodigio: un uomo vivo, un essere dinamico, una persona capace di pensare, di volere e di agire. Anche il profeta Ezechiele, portavoce di un ordine di Dio, profetizza su una valle tutta lastricata di scheletri calcificati, su un campo di ossa inaridite, prive del minimo segno di vita, e immediatamente le ossa si accostano l’uno all’altro, tornano a ricomporsi i nervi e la carne, e la pelle ricopre il corpo. Ma in essi manca lo Spirito. Il profeta deve prodursi ancora con un ordine perché lo Spirito scenda su questi corpi: «Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano» (Ez 37,9). E subito si ha una comunità di vivi, grazie al soffio dello Spirito.
 Nel libro dei Proverbi, ci si imbatte in una sorprendente espressione: l’autore afferma che il soffio vitale che è nell’uomo, è come una « Lampada di Dio »: «Il soffio dell’uomo è una fiaccola del Signore che scruta tutti i segreti recessi del cuore» (Pr 20,27). Il dono del « soffio », dunque, non solo fa dell’uomo la creatura più straordinaria del creato, ma gli permette di scrutare se stesso alla luce di questa singolare… lampada di Dio. È la lucerna dell’autocoscienza di cui sono privi gli altri esseri, è la capacità di introspezione che permette di scoprire la giusta norma di vita e di attuarla nel vivere quotidiano.

di Bruno Forte: Credo nello Spirito Santo

 

dal sito:

http://www.clerus.org/pls/clerus/cn_clerus.h_centro?dicastero=2&tema=7&argomento=20&sottoargomento=54&lingua=3&Classe=1&operazione=ges_formaz&rif=930&rif1=930venerdi

CREDO NELLO SPIRITO SANTO

di Bruno Forte

 » È bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò  » (Gv 16,7): con queste parole Gesù sembra indicare che il compimento delle promesse di Dio viene a realizzarsi nel dono dello Spirito Santo. Senza lo Spirito, che è disceso sul Cristo e da lui è stato effuso su ogni carne, la salvezza dell’uomo resterebbe incompiuta: l’abisso che ci separa nel tempo dagli eventi pasquali rimarrebbe incolmato, e lo stesso Gesù si ridurrebbe ad uno splendido modello, lontano da noi, ma non sarebbe il Vivente in noi e per noi. Il Consolatore attualizza l’opera del Cristo, rendendola presente ed operante nella varietà della storia umana: egli è « lo Spirito di verità « , lo Spirito cioè della fedeltà di Dio, che raggiunge le diverse situazioni storiche e le redime tutte nel suo amore trasformante e vivificatore.

È la storia di Pasqua a rivelarci il mistero dello Spirito Santo: in lui il Figlio si è offerto al Padre nell’ora della Croce, quando, a supremo compimento dell’amore,  » consegnò lo Spirito  » (Gv 19,30); in lui il Padre ha donato la pienezza della vita al Crocifisso,  » costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore  » (Rm 1,4). Nello Spirito Dio « esce » da sé per creare l’altro e vivificarlo nella forza del suo amore. Nello Spirito Dio ricongiunge a sé quanto da Lui è lontano. Lo Spirito apre il cuore del Dio trinitario al mondo degli uomini, fino a rendere possibile l’ingresso del Figlio nell’esilio dei peccatori, e unifica quanto è diviso, fino al supremo compimento della riconciliazione pasquale. Lo Spirito è dono che libera ed è amore che unisce: così peraltro è colto nei diversi approfondimenti del mistero da parte delle due grandi tradizioni teologiche dell’Oriente e dell’Occidente.

Per la sapienza dell’Oriente lo Spirito è  » l’estasi di Dio « , colui nel quale il Padre e il Figlio escono da sé per donarsi nell’amore. È la rivelazione a testimoniarci che, ogni volta che Dio esce da sé, lo fa nello Spirito: così è nella creazione ( » Lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque « : Gn 1,2); così nella profezia ( » Effonderò il mio Spirito sopra ogni persona e profeteranno « : Gal 3,1 e At 2,18); così nell’Incarnazione ( » Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo « : Lc 1,35); così nella Chiesa, su cui si effonde lo Spirito a Pentecoste ( » Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni « : At 1,8). Lo Spirito è  » Dio come pura eccedenza, Dio come emanazione di amore e di grazia  » (W. Kasper): e, proprio per questo, è Spirito creatore, che colma il cuore dei fedeli, è il Paraclito, che soccorre e conforta, è il dono del Dio altissimo, la fonte viva, il fuoco, l’unzione spirituale (come canta la Chiesa nel Veni, Creator Spiritus).

Nello Spirito Dio ama i lontani, gli ultimi, quelli che nessuno ama. Perciò lo Spirito è il  » padre dei poveri  » (come lo invoca il Veni, Sancte Spiritus), di quelli cioè che non hanno altra speranza che nell’amore sorprendente e creatore di Dio. Perciò è la gioia e la consolazione del cuore di chi crede, la certezza della fedeltà divina sulle vie oscure che ci stanno davanti, il coraggio per muoversi verso l’ignoto, avvolto dalla promessa di Dio:  » La funzione dello Spirito è quella di esiliare dalla patria, per lanciare sulla strada di un avvenire insospettato  » (C. Duquoc). Nello Spirito l’esodo dell’amore di Dio suscita l’esodo del cuore dell’uomo, il suo uscire da sé per andare verso l’altro…

Secondo la riflessione dell’Occidente lo Spirito è il vincolo dell’amore eterno, colui che unisce il Padre e il Figlio:  » Ecco sono tre: l’Amante, l’Amato e l’Amore  » (Sant’Agostino, De Trinitate, 8, 10, 14). In questa luce si può dire che egli procede dal Padre e dal Figlio come legame del loro amore ricevuto e donato, « luogo » e forza dell’eterno dialogo della carità.

Amore personale in Dio, lo Spirito unisce i credenti col Padre e fra loro: è lui che riempie i cuori della grazia che viene dall’alto; è lui che infonde in noi l’amore di Dio (cfr. Rm 5,5), grazie al quale siamo resi capaci di amare. Il Consolatore unisce non solo il tempo all’eterno, ma anche il presente al passato e al futuro: Egli riattualizza gli eventi salvifici nella memoria efficace del mistero celebrato e vissuto:  » Lo Spirito Santo che il Padre manderà nel

mio nome vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto  » (Gv 14,26). Egli unisce il presente al futuro  » tirando  » nel presente degli uomini l’avvenire di Dio: egli è la primizia, la caparra, il pegno della speranza che non delude. Ed è Lui ad unire i credenti come principio profondo dell’unità della Chiesa, Spirito della salvezza che è comunione, sorgente dell’unità del Corpo di Cristo: egli unisce senza mortificare il diverso, anzi suscitando e nutrendo la meravigliosa varietà dei doni e dei servizi. Grazie alla sua azione la comunione ecclesiale, sacramento di salvezza, è  » icona della Trinità « , nutriente esperienza di pace nell’amore del Padre e del Figlio.

Davanti a questo amore divino, che fa liberi ed unisce nella verità e nella pace, sta l’uomo, la creatura che può lasciarsi amare ed amare a sua volta, o può rifiutare l’amore. La  » bestemmia contro lo Spirito « -chiusura radicale all’amore veniente dall’alto -è radicata in questa possibilità suprema, che costituisce il pericolo, ma anche l’altissima dignità dell’esistenza umana in questo mondo. Finché esiste una possibilità di non perdono, connessa ad un vero poter scegliere e rifiutare l’amore, esiste anche una libertà e una dignità della creatura davanti al Creatore: veramente  » Colui che ti ha creato senza di te, non ti salverà senza di te  » (Sant’Agostino). Dio aspetta e rispetta il sì dell’uomo: infinitamente ricco, Egli accetta di essere povero, perché colui che è infinitamente povero possa essere ricco della sua libertà. Solo davanti a questa libertà si ferma l’audacia dell’amore divino: l’infinita misericordia non può perdonare chi non vuol essere perdonato, chi non accetta di aprirsi in umiltà al dono che viene dall’alto. La stessa misericordia può invece tutto-anche ciò che appare umanamente impossibile-in chi docilmente si apre al soffio creatore dello Spirito Santo, per lasciarsi plasmare e condurre da Lui:  » Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio » (Rm 8,14).

Vieni, Spirito Santo! Vincolo dell’amore eterno vieni ad unirci nella pace: riconciliaci con Dio, rinnovaci nell’intimo, fa’ di noi verso tutti i testimoni e gli operatori dell’unità che viene dall’alto. Tu che sei l’estasi del Dio vivente, dono perfetto dell’Amante e dell’Amato nel loro amore creatore e redentore, vieni ad aprirci alle sorprese dell’Eterno, anticipando in noi, poveri e pellegrini, la gloria della patria, intravista ma non posseduta. Padre dei poveri, ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo, sii tu in noi la libertà e la pace, la novità e il vincolo dell’unità più forte del dolore e del silenzio della morte.

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