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DIO PADRE IN SAN PAOLO

http://www.clerus.org/clerus/dati/1999-06/14-2/DioPadre3.rtf.html

DIO PADRE IN SAN PAOLO

Alberto Piola

Introduzione
Affrontando il messaggio su Dio presente nella teologia di san Paolo, non solo andiamo a conoscere che cosa Gesù ci ha rivelato su Dio, suo e nostro Padre, ma vediamo anche una riflessione cristiana su Dio. Nelle sue lettere Paolo seppur non in modo sistematico visto il loro carattere occasionale spiega ai primi cristiani il nuovo concetto cristiano di Dio, inscindibilmente legato a quanto è successo nell’evento della vita, morte e risurrezione di Gesù.
Alla ricerca di Dio
Essere cristiani secondo Paolo non significa essere delle persone che adorano Cristo come l’unico Dio: infatti, il rimando ultimo non è Gesù, ma il Padre; compito di Gesù è proprio quello di metterci in contatto con il Padre: 1 Timoteo 2,5-6 Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti.
Il centro della predicazione di Paolo ha un carattere soteriologico: Dio ha salvato gli uomini per mezzo di Gesù Cristo morto e risorto. Quindi egli guarda innanzi tutto a ciò che Dio ha fatto e non tanto alla sua natura e al suo mistero. Ma da quello che Dio « fa » si può capire ciò che Dio « è ».
Ma chi è questo Dio? È precisamente « il Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (Romani 15,5). Per Paolo questo è il volto specifico della prima persona della Trinità ed è questa paternità che gli permette di annunciare la nuova immagine cristiana di Dio.
Paolo non parte dall’ateismo: per lui è scontata l’esistenza e la presenza di Dio: Romani 11,36 da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Sente Dio come presente e vicino a sé: egli sta « davanti » a Lui, lo loda e lo ringrazia; Romani 1,8 rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo. È addirittura « il mio Dio »! e allora può arrivare a dire: 1 Corinzi 8,6 per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Tutto questo è possibile per Paolo perché ha capito di essere inserito in un progetto di Dio: Romani 8,28-30 noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. Per Paolo allora « Dio non è soltanto prima dell’uomo, ma è prima nell’amore; ha amato gli uomini prima che essi potessero amarlo: li ha amati dall’eternità. Il Dio vicino è dunque il Dio che chiama e ama l’uomo dalla profondità infinita della sua eternità. Così è un Dio vicino e, nello stesso tempo, un Dio lontano ».
Però, ci dice Paolo, questo Dio non è immediatamente raggiungibile: è necessaria nella vita dell’uomo la ricerca di Dio. Dio è più grande di noi: è uno ed unico; 1 Corinzi 8,4-6 noi sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo e che non c’è che un Dio solo. E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dei sia nel cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti dei e molti signori, per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Il netto rifiuto di altri idoli (cfr. l’ambiente pagano in cui Paolo annuncia il Vangelo) significa che per essere cristiani occorre fare il passaggio dagli idoli sempre possibili della nostra vita alla scelta dell’unico Dio; come hanno fatto i Tessalonicesi: vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero (1Tess 1,9).
Ciononostante, non è facile per Paolo capire chi è questo Dio, i cui giudizi sono imperscrutabili (Romani 11,33 O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!). L’uomo non può capire da solo chi sia Dio: 1 Corinzi 2,10-11 lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ci sono delle strade umane per arrivare a Dio:
la via della creazione: l’osservazione del mondo creato pone degli interrogativi per la sua grandezza e bellezza: Romani 1,20 dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità. Quindi le creature rimandano al Creatore; ma per Paolo questa via è pericolosa: il mistero di Dio rimane comunque inaccessibile e c’è sempre il pericolo di divinizzare il creato. Infatti gli uomini sono caduti nell’idolatria: Romani 1,21-23 sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. L’uomo da solo non è quindi in grado di arrivare dalle creature al Creatore: 1 Corinzi 1,20-21 Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione.
le opere buone: sono senza dubbio l’espressione dei nostri sforzi di fedeltà alla legge del Signore e manifestano il nostro desiderio di essere fedeli a Lui. Però Paolo conosce l’orgogliosa consapevolezza che il popolo di Israele aveva del possesso della Legge e invita a non farsi illusioni: la sola osservanza della Legge non salva: Romani 9,30-32 Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Non è quindi possibile giungere a Dio solo con una prestazione morale, perché Dio non si lascia ipotecare dai presunti meriti dell’uomo.
In Paolo risulta così « chiaro che il Dio del Nuovo Testamento, essendo colui che si rivela mediante l’imprevedibile e scandalosa stoltezza della Croce di Cristo (cfr. 1Cor 1,17-25), è per eccellenza il Dio della grazia (Ef 2,8), che preferisce i deboli, i peccatori, gli emarginati dalle religioni, i lontani. Egli è presente attivo là dove non lo si immaginerebbe: nel condannato e suppliziato Gesù di Nazareth. Egli perciò diventa, a sorpresa, oggetto di una scoperta donata: un Dio così non si poteva trovare in base a semplici presupposti umani; un Dio così poteva soltanto rivelarsi di sua propria iniziativa ».
L’azione salvifica di Dio Padre
Quindi il vero punto di partenza è che Dio si è rivelato in Gesù Cristo: il suo nome è proprio quello di essere il Padre di Gesù e in questo suo Figlio ci ha voluto salvare. Che Dio ci salvi è un’affermazione tanto scontata quanto problematica: l’uomo moderno sembra fare benissimo a meno di una salvezza, al limite può riconoscere la sua impotenza di fronte a certe situazioni.
È nella vita, morte e risurrezione di Gesù che Dio si è rivelato come il Dio per noi: Romani 8,31-32 Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?. È proprio in Gesù che abbiamo potuto conoscere un amore insospettato: Romani 8,35-39 Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.
Ma che cosa vuol dire per Paolo che Dio è un Padre che ci salva?
tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio (Romani 3,23): la condizione propria dell’uomo è quella del peccato: infatti tutti quanti commettiamo peccati e siamo all’interno di un mondo che porta con sé il peccato e la sua forza (cfr. i vari condizionamenti che subiamo verso il male). È la condizione dell’umanità in cui nasciamo: Romani 5,12 come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. È una condizione tragica, perché siamo lontani da Dio e siamo dominati dal potere del peccato; se infatti al di là di ingenue illusioni andiamo a vedere che cosa succede in noi quando siamo « abitati » dal peccato, ci rendiamo conto che se il circolo non viene spezzato facilmente siamo schiavi della logica del peccato che ci allontana da Dio rendendoci attraente il bene. Proprio per questa situazione Dio è venuto a salvarci in Gesù: Romani 5,17-19 se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
Dio nel suo amore misericordioso giustifica i peccatori: questo Padre che ci è venuto a cercare non ha voluto che noi restassimo in questa condizione di peccato ma ha scelto di trasformarci e di renderci giusti. Tutti gli uomini sono sotto il giudizio e l’ira di Dio (cfr. Romani 1,18): ma ad essere annientato non è l’uomo peccatore, bensì il suo peccato; perché Dio, oltre ad essere giusto, è anche il Dio della tolleranza e della pazienza: Romani 2,1-11 Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose. Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose. Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio? O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia. Tribolazione e angoscia per ogni uomo che opera il male, per il Giudeo prima e poi per il Greco; gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il Giudeo prima e poi per il Greco, perché presso Dio non c’è parzialità. Quell’uomo che era peccatore è ora reso giusto dall’amore di Dio in Cristo: Romani 5,8 Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. È questa la lieta notizia sul destino dell’uomo: 1 Tessalonicesi 5,9-10 Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Si tratta quindi di un Dio « giusto » e nello stesso tempo « giustificante », che ci rende giusti: Romani 3,24-26 tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù.
Non possiamo giustificarci da soli: la Legge degli Ebrei non serve più, l’unica condizione per essere resi giusti da Dio nostro Padre è la fede nel suo Figlio Gesù. Noi oggi non abbiamo certo più i problemi dei primi cristiani che si sentivano ancora vincolati all’osservanza della Legge giudaica, ma possiamo avere la medesima tentazione di fondo: cavarcela da soli, essere giusti per le nostre forze. È troppo forte per Paolo il rischio di sentirci orgogliosamente salvati da soli; il vero modello del credente è Abramo con la sua fede: Romani 3,28; 4,1-3.18-22 Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge. Che diremo dunque di Abramo, nostro antenato secondo la carne? Se infatti Abramo è stato giustificato per le opere, certo ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio. Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia . Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo aveva circa cento anni e morto il seno di Sara. Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. Ecco perché gli fu accreditato come giustizia.
Dio ci giustifica per mezzo della fede in Gesù Cristo: con il Cristo è cominciato il tempo ultimo della salvezza in cui Dio Padre ci ha detto e dato tutto nel suo Figlio Gesù. Egli è morto sulla croce « per noi », cioè a causa nostra e per i nostri peccati; ed è proprio lì che ci ha salvati, ci ha resi giusti liberandoci dalle colpe. Lui è il Risorto, colui che il Padre ha confermato dopo lo scacco supremo della morte: credere in Lui è ora per il cristiano il mezzo per salvarsi. Credere in Dio Padre si vedrà ora nel nostro rapporto personale di fede con il Figlio, perché tutta la nostra vita sia inserita nel Signore: Romani 14,7-8 Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore.
« In conclusione, il Dio che rivela san Paolo è il Dio Salvatore, cioè il Dio che, nel suo infinito amore per gli uomini peccatori, ha mandato nel mondo il suo Figlio Gesù, nato da donna, perché con la sua morte redimesse gli uomini e con la sua risurrezione desse la vita eterna a coloro che credono in lui e con la fede e la carità vivono in lui e per lui. Per san Paolo, Dio è il Dio di Abramo, di Mosè e dei Profeti; è il Dio della promessa fatta ad Abramo. Tuttavia la rivelazione che Gesù gli ha fatto di sé sulla via di Damasco ha trasformato la sua vita e la sua visione di Dio. Per lui ormai Dio è colui che salva gli uomini in Gesù Cristo. È il Dio per noi (Rm 8,31), il Dio che ci dà speranza, perché il suo amore è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,5) ».

Alcuni spunti
Il messaggio di Paolo su Dio Padre ci dà senza dubbio molti altri spunti oltre a quanto abbiamo già trovato nei Vangeli.
Dio Padre è un Dio che va sempre cercato: c’è da preoccuparsi seriamente quando non siamo più capaci a cercare Dio o quando crediamo di saper già tutto di lui Può non esserci molto difficile lasciare aperta la domanda su Dio di fronte alle bellezze del creato o di fronte ai grandi perché della vita; ma l’atteggiamento della ricerca è ancora qualcosa di più: è un dinamismo attivo, è un desiderio. Come è accaduto a Paolo, così ognuno può avere la sua caduta lungo la strada di Damasco: e si scopre di non conoscere ancora il vero volto di Dio.
L’esperienza personale di Paolo ci ha presentato un Dio presente e vicino, che lui chiama il « mio Dio »: è un punto di arrivo del cammino di fede, che deve partire dal riconoscimento della trascendenza di Dio (altrimenti diventa « l’amicone » che non mi mette più in discussione). Il Dio trascendente ed immanente è il Dio che vediamo nel Natale: l’Eterno sotto la figura di un piccolo bambino ma è proprio così che lo comprendiamo come il « Dio per noi », il Dio che sta dalla nostra parte, combatte la nostra stessa battaglia. Altrimenti che ce ne facciamo di un Dio che sta solo accanto a noi o sopra di noi?!
Nel nostro cammino verso Dio Padre ci ha avvertiti Paolo corriamo il rischio di divinizzare il creato: logicamente non fa problema che il passaggio da fare è quello dalle creature al Creatore, ma praticamente è molto più difficile riuscire a dare sempre a tutto il giusto posto. Verificare ogni tanto il nostro rapporto con i beni creati non fa male: dov’è il nostro cuore?
Nemmeno le « opere della Legge » servono per essere in comunione con il Padre: con Dio cioè non vale contrattare in base ai propri meriti. La logica commerciale può essere presente anche nel nostro rapporto con Dio, quando perdiamo la dimensione filiale; ovviamente i problemi nascono quando non siamo ripagati delle nostre prestazioni a Dio. Lasciarci salvare è terribilmente difficile: la passività arriva dopo una serie infinita di sforzi, e forse non ce la faremo mai ad essere totalmente ricettivi nei confronti di Dio. Intendere le nostre attività « solo » come risposta ad un dono richiede moltissima umiltà. Forse impariamo troppo poco dai nostri fallimenti
E per lasciarci salvare occorre riconoscere il peccato che è noi: è un’altra dimensione della medesima realtà. Ma se continueremo a dire che tutto sommato siamo a posto così, che c’è in fondo chi è peggio di noi, molto difficilmente avremo bisogno di invocare Dio salvatore. Al limite potremo pretendere che ci ricompensi dei nostri successi e che nella sua bontà un po’ ingenua chiuda gli occhi sui nostri insuccessi.
Credere in Dio è credere che Lui ci trasforma: può essere il messaggio finale che ci dona san Paolo; lui ha saputo cambiare la sua concezione di Dio e ha saputo lasciarci trasformare da Lui. Tutta la nostra vita cristiana è un cammino per lasciarci trasformare da Dio e per poter giungere a vivere con Lui per sempre.
Allora Giobbe rispose al Signore e disse: Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te. Chi è colui che, senza aver scienza, può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere (Gb 42,1-3.5-6).

L’ATLETA SPORTIVO COME SAN PAOLO, L’ATLETA DI DIO

http://www.ilfaroonline.it/2015/04/03/sport/latleta-sportivo-come-san-paolo-latleta-di-dio-52817.html

L’ATLETA SPORTIVO COME SAN PAOLO, L’ATLETA DI DIO

(è un sito sportivo, anche qui ho trovato San Paolo)

Nella lotta della gara, si manifesta quel combattimento quotidiano, che ogni uomo deve affrontare per vincere la sua corona incorruttibile

Il Faro on line -

San Paolo è considerato l’atleta di Dio. Dopo la sua conversione, con grande determinazione, intelligenza e amore per Cristo, portò la sua parola, in tutto il mondo conosciuto, allora. In quel tempo in cui l’Impero Romano regnava incontrastato. L’Apostolo delle Genti non conobbe direttamente Gesù, ma avvolto da una luce fortissima, lo seguì in tutta la sua vita, diventando uno dei fondatori della Chiesa cristiana.
Nella Prima Lettera a Timoteo (6:12), uno dei suoi consigli più sentiti e rivolti alla fede, fa riferimento allo sport. In quel caso, possiamo leggere questo : “Combatti il buon combattimento della fede, afferra la vita eterna alla quale sei stato chiamato e in vista della quale, hai fatto quella bella confessione di fede in presenza, di molti testimoni”. La lotta quindi. Come gli atleti fanno nelle proprie gare. Lo sport è la metafora della vita, sicuramente e se uno degli apostoli più grandi della Chiesa cattolica, lo ha preso da esempio, è certamente un fenomeno ed un dono, da non trascurare.
Sono conosciuti, i principi della Carta Olimpica, del Comitato Internazionale. Nel secondo punto, si spiega come lo sport sia una filosofia di vita, che esalta le qualità del corpo, la volontà e lo spirito. Dunque, esso mostra l’uomo in se stesso, con tutto il suo essere, fisico e spirituale : “Anche noi corriamo nello stesso stadio. La stessa corona, lo stesso premio, ci sta aspettando”. Continua a scrivere San Paolo, anche nella sua Lettera ai Corinzi (9:24-27). Questo passo, può riferirsi all’atleta sportivo, secondo il pensiero dell’atleta di Dio. Ogni uomo lo è, se nasce con il talento che Dio stesso gli ha dato e lo mette in pratica.
Lo sport ha il potere di cambiare il mondo, di migliorare la società civile e di entrare nel cuore di ognuno. Dal cuore di un campione. L’eroe dei valori, di ciascuno. Perché ? Lui combatte la buona battaglia della fede, in quella gara, in quel campo, in quella piscina, su quella pedana, su quel tatami, che rappresentano la vita di tutti. L’avversario esiste. Certamente, è presente fisicamente. Ma in verità, esso è lo specchio dell’atleta che si confronta con lui. E’ lì che la quotidianità si eleva. La speranza di vincere, la fatica, la paura, la stanchezza, la forza dei sogni. Il bene contro il male. E’ il primo che deve vincere.
Una delle domande più frequenti, del nostro tempo, ispirata a questo argomento, è la seguente : perché lo sport esiste ? Ognuno può rispondere, secondo la propria idea e coscienza. Può farlo, naturalmente, secondo quella libertà naturale, di cui gli uomini sono dotati. In riferimento al pensiero religioso, potrebbe trovare una risposta concreta, nella missione di San Paolo. Divulgare l’amore di Dio, attraverso l’esempio di ciascun uomo. Tramite la sua costanza, nel ricercare il bene, in gara, come nella vita.
Qual è allora il bene di un atleta ? E’ la vittoria ? Forse. Ma anche l’impegno e la responsabilità, perseguiti nella lotta sportiva, lo sono. Non importa se infine, il podio non arrivi, l’importante è che quel cuore si sia manifestato, con tutta la sua forza. E se lo ha fatto nel modo migliore, certamente, anche la vittoria non tarderà ad arrivare.
In questi giorni, esattamente il 2 di aprile, è ricorso il decennale della morte di Giovanni Paolo II. Santo, il 24 aprile 2014. Un grande esempio di atleta di Dio. Amante in vita, anche dello sport e dei suoi valori. Anche lui come San Paolo, instancabilmente, viaggiò molto per portare la parola di Dio ai popoli e lo fece anche, attraverso l’esempio quotidiano.
Come loro, ogni atleta lo fa. Ogni volta che scendendo in gara, apre il suo mondo interiore, per lasciare che tutti coloro che lo seguono, possano a loro volta, entrarvi. Per trovare un luogo migliore, dove ritrovare i propri valori.

Alessandra Giorgi

Publié dans:Paolo - temi attuali, SPORT (LO) |on 8 avril, 2015 |Pas de commentaires »

SAN PAOLO: ANTESIGNANO DELLO SPIRITO EUROPEO?

http://www.filosofico.net/sanpaolocatalano.htm

(per quanto riguarda San Paolo, come spesso ho scritto, non sono del tutto convinta che siamo arrivati ad una vera – nel senso di profonda  – Interpretazione del pensiero dell’Apostolo, sempre in attesa di una comprensione sempre più piena)

SAN PAOLO: ANTESIGNANO DELLO SPIRITO EUROPEO?  

di Emanuela Catalano  

La seguente disamina verterà sulle relazioni esistenti tra le origini del primissimo Cristianesimo, in particolar modo tra il suo sistematizzatore Saulo di Tarso e l’odierno processo di unificazione dell’Europa. Il tema apparentemente non presenta immediati punti di contatto con l’attualità; se però riflettiamo sullo sforzo paolino di rendere universale quella che fino ad allora era una religione marcatamente nazionalista ecco che iniziano a delinearsi alcuni spunti di riflessione utili ad una analisi approfondita delle radici e dello spirito che da sempre ha animato i nostri legislatori e costituzionalisti. Il richiamo a San Paolo diviene perciò imprescindibile, un punto di riferimento affascinante ed ineludibile al tempo stesso per chiunque voglia interrogarsi sul senso del nostro tempo. Qual è il nesso dunque, il collegamento fra San Paolo, le sue Lettere[1], la sua predicazione ai gentili, la sua missione evangelizzatrice in poche parole e l’attuale processo di integrazione europea, nonché la stessa identità europea? Vedremo come lo sforzo intrapreso da Paolo, attuatosi fra l’altro proprio nell’area soggetta all’odierno processo di riunificazione, sia in realtà all’origine della costituzione di quell’humus socio-culturale comune che è alla base dell’implicito pensiero collettivo dell’Europa. Paolo è di una lungimiranza straordinaria se consideriamo il fatto che questioni da lui trattate duemila anni or sono si apprestano a tornare di grande attualità, non solo sotto il profilo teologico ma anche filosofico-politico. Egli fu un uomo del suo tempo, abituato a muoversi con grande libertà all’interno delle province dell’Impero romano; ebreo della diaspora, era orgoglioso di essere cittadino romano. Emerge il ritratto di un uomo colto, che parla ben quattro lingue[2] e che si dichiara pronto a spostarsi per terra e per mare, affermando a più riprese di volersi spingere fino alle estremità della Terra allora conosciuta per adempiere al disegno che Dio aveva tracciato su di lui: il suo è già un universalismo interiore, oltre che geografico. Paolo prende le mosse da Israele per estendere il suo discorso in direzione di una prospettiva più ampia e di ben più vasto raggio. Certamente non avrebbe mai potuto immaginare che il tempo dell’attesa escatologica, così centrale nella semantica del primo Cristianesimo, si potesse protrarre fino all’inverosimile: egli credeva davvero che il tempo stesse per terminare[3]. All’interno dell’excursus paolino, si passa così dall’iniziale elezione di Israele, da un nazionalismo settario, ad un allargamento ai pagani sino a comprendere l’intero genere umano, dal momento che il Messia di cui egli recava notizia non era venuto a dividere ulteriormente bensì ad abbattere tutti i muri della separazione, avendo Dio stesso elargito la sua promessa di salvezza eterna a tutte le genti. Leggiamo nelle Scritture: «Frattanto questo Vangelo del regno sarà annunziato in tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti; e allora verrà la fine» (Mt 24, 14)[4]. In poche parole, chiunque avesse avuto fede in Lui, nella sua morte e resurrezione, a prescindere dalle differenze di razza, di sesso, lingua, cultura, credo religioso, usi e costumi, sarebbe stato salvato: «Dio vi scelse come primizia per la salvezza attraverso la santificazione dello Spirito e la fede della verità» (II Tes 2, 13)[5]. Da qui, si comprende anche la necessità impellente di vigilare costantemente – si pensi all’importanza che il tema della veglia, dell’attesa riveste in certi autori, sto pensando in particolare allo scrittore ceco Franz Kafka – o ancora, a Pascal, che afferma che il “Cristo è in agonia fino alla fine del mondo e che in questo frattempo non dobbiamo dormire”[6]. Il dramma dell’attesa è costituito dal fatto che non sappiamo quando e dove il Messia verrà, anzi a complicare le cose – per citare Benjamin – “ogni istante diviene quella piccola porta attraverso la quale il Messia potrà entrare”[7], dal momento che Egli verrà “come un ladro nella notte” (II Tes 5, 2). Che senso aveva promettere la salvezza ad un popolo – innalzarlo al rango di popolo eletto, modello per le altre nazioni – per poi assistere al suo annientamento nelle camere a gas? Fin dagli esordi della sua storia, Israele fa sfoggio di un privilegio, il cosiddetto “vanto” dell’elezione, condizione della sua “separatezza” (e dunque perdizione?) essendo nota la tendenza degli ebrei a vivere isolati dagli altri popoli. La loro Torah costituisce infatti una siepe, una parete divisoria, finalizzata ad evitare qualsiasi tipo di contaminazione da altri elementi, considerati estranei o comunque “impuri”[8]. Ed è proprio in virtù di questa separatezza che Paolo va a predicare fra i gentili, i pagani per intenderci (etnos in greco), elargendo il dono della salvezza a tutta l’umanità. È noto che il giudaismo, a differenza del cristianesimo, non nasce e si sviluppa come fenomeno di proselitismo. Leggiamo in Mt 10, 15: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele». È soltanto in un secondo momento che prevarrà l’opinione secondo la quale gli apostoli, illuminati dallo Spirito Santo, sarebbero stati testimoni dell’unico Dio «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della Terra» (At 1, 8). E ancora: «Sia, dunque, noto a voi che questa salvezza di Dio viene ora rivolta ai pagani ed essi l’ascolteranno» (At 28, 28). Gli ebrei, colpevoli di non aver riconosciuto in Gesù il Messia che tanto attendevano, sarebbero forse stati ulteriormente messi alla prova da Dio (mi riferisco alla prima terribile prova cui fu sottoposto il patriarca Abramo)? Una prova che aveva come obiettivo quello di suscitare la gelosia di Israele. Oppure era necessario che il “resto” di cui parla Isaia fosse sacrificato in nome della redenzione degli altri, fino alla successiva, perentoria affermazione, secondo la quale “tutto Israele sarà salvato”? ma perché ciò accadesse era prima necessario che tutti rientrassero all’interno del disegno soteriologico finale, che tutti i popoli venissero cioè  ricompresi nell’imperscrutabile piano divino e che la salvezza fosse estesa loro senza distinzioni. Ecco l’elemento sovversivo della predicazione di Paolo: era davvero rivoluzionario per un ebreo di quel tempo pensare di poter diffondere la lieta novella fuori dai ristretti confini dell’ebraismo, di varcare le rigide mura del separatismo ebraico. Una delle peculiarità di Israele era proprio il vanto di cui dicevamo, il fatto che, in quanto popolo eletto, ‘scelto’ direttamente da Dio, gli ebrei si reputassero gli unici detentori del sapere e della rivelazione e per tale motivo i soli destinatari della promessa di salvezza escatologica finale. Paolo invece credeva si dovesse annunciare la buona novella anche ai goyim, e per questo andò a predicare il Vangelo in quelle che oggi sono la Macedonia, la Turchia e la Grecia, manifestando più volte l’intimo desiderio di «spingersi fino alle estremità della terra allora conosciuta» (At 13, 47), nella convinzione che anche coloro che non erano ebrei sarebbero diventati membri del nuovo Israele, anche se non osservavano rigorosamente la legge di Mosè. Per l’ebraismo questo punto costituisce l’aspetto fondamentale e dirimente della questione: per questa ragione diventa essenziale comprendere come Paolo operò ed effettuò questo passaggio, al prezzo della sua stessa vita, divenendo l’architrave del Cristianesimo nascente. Egli prende le mosse dalla circoncisione, rituale basilare dell’ebraismo ma in Deut 10, 16 compare per la prima volta l’espressione «circoncisione del cuore», che sarà ripresa a sua volta dal profeta Geremia: «Dentro di loro pianterò la mia Legge, scrivendola nei loro cuori» (Ger 31, 33). Vediamo come questa pratica, da semplice segno esteriore, tangibile, della carne diventi simbolo di qualcosa di “interiore”, di un’alleanza che scaturisce dall’intimità del singolo[9]. Per Paolo «non si è giudei manifesti nella carne, e la circoncisione non è quella manifesta nella carne. Si è giudei nel segreto, e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito, non nella lettera» (Rom 2, 28-29). Un simile modo di pensare metteva chiaramente in discussione quello che era stato uno dei capisaldi della religione ebraica e destituiva di senso la principale motivazione del loro vanto, il loro esclusivismo, frutto del fatto che gli ebrei si considerassero il popolo eletto par excellence – poiché Dio aveva scelto proprio loro, un loro avo, per stipulare il suo patto – essendo essi gli unici custodi della promessa della salvezza eterna. Paolo non mancherà di polemizzare contro questo vanto, proprio a partire dai suoi discorsi sulla circoncisione, richiamandosi a quanto scritto: «Il Signore vi ha amati e vi ha scelti, non perché eravate un popolo più numeroso di tutti gli altri, anzi siete inferiori a tanti altri come numero; ma è per l’amore che vi porta e per mantenere il giuramento fatto ai vostri padri» (Deut 7, 7). La conclusione che avrebbe tratto da questo suo insolito modo di pensare riguarda il fatto che i gentili, convertiti al nuovo messaggio evangelico, non avrebbero più necessitato della circoncisione, dal momento che «la circoncisione non è nulla, né il prepuzio: bensì la nuova creatura» (Gal 6, 15). È di conseguenza in Abramo che Paolo riconosce il vero progenitore del popolo ebraico. Al di là del racconto biblico e della sua storia, notiamo come egli, nel corso del suo ragionamento, ignori i primi versetti e concentri piuttosto la sua attenzione su un passo immediatamente antecedente a quello della promessa: «Abramo credette a Dio, e ciò gli fu accreditato a giustizia» (Gen 15, 6). Ecco il momento decisivo in cui Jahweh stabilisce il suo patto di alleanza con Abramo. La circoncisione era per gli ebrei il segno tangibile nella carne del patto con il loro Dio e chi non era circonciso, come abbiamo visto, non poteva appartenere al popolo di Israele. Il passo in questione è di una intensità e di una difficoltà ermeneutica senza pari: quando fu considerato giusto Abramo? Secondo Paolo, questo accadde prima della rivelazione della Legge, che cronologicamente viene fatta risalire a circa quattrocento anni dopo questi avvenimenti con Mosè, sul Monte Sinai. Abramo ebbe fede, credette nell’impossibile[10], «e credeva che Egli fosse giusto con lui», poiché si ricordava della promessa che Egli gli aveva fatto: «In te tutti i gentili saranno benedetti» (Gen 18, 18)[11]. Paolo può dirsi convinto che «un patto già confermato da Dio non viene infirmato dalla Legge sopraggiunta dopo quattrocento anni, al punto da dissolvere la promessa stessa» (Gal 3, 18). La circoncisione comportava tra l’altro, per chi decideva di sottoporsi ad essa, una totale sottomissione e l’impegno di osservare ‘tutta’ la Torah. Il presupposto sconcertante è che non esiste in realtà un solo uomo in grado di osservare la Legge in tutte le sue disposizioni, «nemmeno i circoncisi osservano la Legge» (Gal 6, 13); ciascuno perciò è colpevole, poiché non esiste un solo individuo che abbia fatto tutto ciò che è prescritto dalla Legge. Viene da domandarsi allora per quale motivo Dio avesse voluto dare queste disposizioni all’uomo, conscio del fatto che egli non sarebbe stato mai in grado di corrispondere pienamente ad esse. Leggiamo in Deut 27, 26 l’opinione secondo la quale chi trasgredisce anche uno solo dei precetti della Torah è maledetto[12]. Paolo stesso confessava di non essere stato in grado, nemmeno quando era uno zelante fariseo, di osservare ‘tutta’ la Legge. Da tutto questo discorso è possibile evincere il carattere assolutamente transitorio della legge, e la conseguente portata universale della predicazione del Messia, considerato il fine ma anche la fine della legge: egli giunge non per invalidare la legge, abolirla, inficiarla, bensì per “sospenderla”[13], completandola ed ampliandola. Diventava pertanto necessario passare dall’osservanza scrupolosa dei precetti ad una nuova legge, che è quella della fede nel Messia Gesù venuto a predicare l’amore universale. Ed è precisamente in virtù di tale interpretazione che Paolo poté tracciare una nuova storia della salvezza, la cui dimensione soteriologica si estendesse a tutti, senza distinzione alcuna di sesso o di razza. Non la nascita dunque ma la morte e la resurrezione del Cristo costituiscono la chiave di volta della prospettiva universalistica dal momento che essa – la resurrezione – è promessa a tutti, senza eccezione. Chiunque crederà in questo evento sarà salvato, non trattandosi più di una questione di popolo, di sangue, di razza bensì di FEDE per l’appunto e di Amore. Da qui la sostituzione della vecchia legge con quella nuova. La fedeltà ad un simile evento avrebbe eliminato i particolarismi settari e comunitari; l’enunciato “Cristo è risorto” – un evento singolare per intenderci – concerne dunque le leggi dell’universalità in generale. Un pensiero universale, partendo dalla proliferazione mondana delle alterità, produce come risultato la scomparsa delle categorie di ebreo, greco, uomo, donna, schiavo, libero, ecc. L’universale è lo Stesso che sussume in sé le varie alterità e non nega le particolarità che anzi continuano a sussistere. Ogni particolarità è un conformismo: si tratta in definitiva non di fuggire il mondo ma di convivere con esso (vedi 1 Cor 9, 19 sgg). Le differenze non si possono negare ma soltanto trascendere, attraverso la benevolenza nei riguardi di costumi ed opinioni diverse dalle proprie. In Rom 14, 1, si parla di “discernimento delle differenze” – una filosofia può contestare le varie opinioni, la fede no ed è proprio questo che la caratterizza e la contraddistingue. Mentre in Rom 2, 10, leggiamo un’espressione utile a smentire chiunque abbia tacciato Paolo di presunto antisemitismo: “per il giudeo prima”, in essa notiamo la posizione primaria dell’ebreo nel movimento che attraversa tutte le differenze per costruire l’universale. In Abramo vi è così un’anticipazione di ciò che potremmo definire universalismo del sito ebraico, dal momento che la sua promessa si riferisce a tutti i gentili e non alla sola discendenza ebraica. Le differenze dunque esistono, non si possono negare ma sono indifferenti, la vera universalità le fa venir meno ed esse possono accogliere la verità che le attraversa, sottraendole ad ogni forma di particolarismo e fondando per la prima volta nella storia la possibilità di una predicazione universale (1 Cor 14, 7). Gli uomini non dovranno più sentirsi apolidi quindi, senza patria ma figli del medesimo spirito europeo. Tutti siamo chiamati oggi a rispondere al compito che ci attende, contribuendo attivamente alla creazione e consolidazione di questo spirito, al rafforzamento dei principi della Rivoluzione francese, all’abbattimento delle frontiere[14], allo sviluppo di “nuovi” valori che, figli laici di quelli ereditati dalla bimillenaria riflessione cristiana, siano capaci di trarre l’Europa, e l’Occidente in genere, dalla crisi nichilistica oggi in atto. Urge, ancora, la necessità di partecipare ai cambiamenti che da anni ormai interessano il mondo nel quale viviamo, cooperando alla crescita ”morale” del nostro continente affinché ciascuno di noi possa sentirsi oltre che italiano, francese, rumeno, bulgaro, greco, anche e soprattutto eticamente europeo. È, perciò, necessario un mutamento delle coscienze: ed è Gadamer a ricordarci che «è probabilmente un privilegio dell’Europa il fatto di aver saputo e dovuto imparare, più di altri paesi, a convivere con la diversità»[15]. Il progetto di unificare popoli tra loro non omogenei è un esperimento unico nel suo genere. Preservare le differenze nel pieno rispetto della loro dignità significa mantenere aperti ampi varchi di libertà, perché l’Europa è una e molte al contempo, in un nuovo intendimento della sua identità e del senso di appartenenza. È dunque auspicabile che, alla raggiunta unità politica di questa compagine di stati, si aggiunga presto un’unità spirituale, compito ben più arduo in quanto coinvolge l’essere umano nella sua essenza più intima. Il limes della vecchia Europa è andato allargandosi ed ampliandosi, fino a lambire gli ultimi stati appartenenti all’ex blocco sovietico. Con l’ingresso di Bulgaria e Romania infatti il processo di integrazione si fa sempre più concreto e realizzabile. L’Europa dei ventisette è oramai una realtà di fatto; resta da verificare il processo nella fattispecie concreta ed effettualità storica, il che dipende dalle condizioni nelle quali versano i singoli paesi. Nel preambolo del Trattato costituzionale[16] sono delineati il ruolo centrale della Costituzione, già espressa dallo storico greco Tucidide e l’idea secondo la quale l’Europa sarebbe portatrice di valori universali, quali la civiltà, l’umanesimo, l’eguaglianza, la libertà, il rispetto dei vari credo religiosi, la possibilità di professare liberamente la propria fede nonché la rilevanza dell’immenso patrimonio culturale, artistico e umanistico. In particolare, si legge che la Costituzione si ispira alle “eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello stato di diritto”. I legislatori si dicono convinti che “l’Europa ormai riunificata dopo esperienze dolorose, intende avanzare sulla via della civiltà, del progresso e della prosperità per il bene di tutti i suoi abitanti, compresi i più deboli e bisognosi”. È stato ribadito come “i popoli d’Europa, pur restando fieri della loro identità e della loro storia nazionale, siano decisi a superare le antiche divisioni e, uniti in modo sempre più stretto, a forgiare il loro comune destino”, certi che l’Europa offra loro le migliori possibilità di proseguire, nel rispetto dei diritti di ciascuno e nella consapevolezza della loro responsabilità nei confronti della generazioni future e della terra, la grande avventura che fa di essa uno “spazio privilegiato della speranza umana”. Manca però il riferimento alle radici cristiane di cui tanto si è discusso, anche se sono accennati il concetto di ‘persona’, che è già idea cristiana e quello di ‘diritto’, che rimanda invece allo ius romano. Considerato in una prospettiva più ampia, ciò potrebbe significare la necessaria apertura dell’Europa alle altre confessioni religiose, essendo insita nel progetto, sin dalle sue origini, la coesistenza delle tre grandi religioni del Libro: è un fatto congenito che l’Europa debba vivere confrontandosi con la diversità, l’altro, l’estraneo. Consapevole del suo ruolo cardine, essa dovrà allora assurgere al suo compito – che non è più quello di mera appendice degli Stati Uniti – bensì quello di porsi come mediatore etico del delicatissimo dialogo e confronto tra Usa e mondo islamico, smussandone le tensioni. In tale ottica, più che di scontro di civiltà sarebbe opportuno parlare di incomprensione e nessun altro meglio dell’Europa, grazie alla sua straordinaria ricchezza interiore, avrà la forza di porsi come garante di un diverso assetto politico-istituzionale nei rapporti internazionali. L’“unità nella diversità” è il motto dell’Europa, nella quale unità e diversità procedono all’unisono, nel pieno rispetto delle differenze e nel mantenimento delle varie identità. È questa la sfida più grande che ciascuno di noi ha il compito e il dovere di portare avanti, facendosi carico di tutta la problematicità che questa reca con sé. L’Europa è e rimane lo spazio della speranza umana: solo interrogando le proprie radici, essa non dimenticherà il suo passato ed è proprio da questa capacità di autocritica che deriva il vantaggio della cultura europea. L’iniziale supremazia, per via degli avvenimenti che hanno funestato il secolo scorso, si è trasformata in una presa di coscienza del suo ruolo e della necessità di dialogare con le altre culture. Credo quindi, con Husserl, che l’Europa sia anzitutto un’idea da realizzare: solo quando i cittadini avranno preso pienamente coscienza del loro essere europei e superato le barriere mentali del nazionalismo, sarà possibile auspicare la completa riuscita e realizzazione del processo di unificazione europea. Un grandissimo passo in questa direzione è stato compiuto, ma molto rimane ancora da fare e proprio San Paolo può fungere da guida e da maestro: ascoltando le sue parole, il suo insegnamento, qualcosa potremmo ancora imparare. La sua missione non mirava ad erigere differenze, a scavare solchi di separazione, ma ad abbattere tutte le disuguaglianze, le diversità, poiché il Cristo stesso era venuto a far crollare tutti i muri della separazione, «non essendovi distinzione alcuna d’aspetto davanti a Dio» (Rom 2, 11). La Legge era stata per troppo tempo considerata come una siepe, una parete divisoria tra il mondo ebraico ed il variegato universo dei gentili:  «Adesso invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani siete diventati vicini per il sangue del Cristo. Egli infatti è la nostra pace; ha fatto dei due uno, ha abbattuto la parete dello sbarramento, l’inimicizia, e nella sua carne ha dissolto la legge dei comandamenti con i loro decreti. Così, facendo pace, dei due creò un uomo solo e nuovo; li riconciliò entrambi in un unico corpo per Dio mediante la croce, uccidendo con essa l’inimicizia»[17].  E questa situazione sarebbe durata fino a quando il Messia non avrebbe fatto «dei due uno». Non vi sarebbe più stata in tal modo nessuna differenza tra giudei e greci, maschio e femmina. Ciò significa che la linea di demarcazione tra pagani ed ebrei sarà abolita una volta per tutte e che gli uomini saranno salvati in virtù della fede in Cristo Gesù, a prescindere dalle distinzioni di razza, fede, cultura, lingua, religione, essendo il vangelo «potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, il giudeo anzitutto e anche il greco» (Rom 1, 16) e Dio stesso potrà essere conosciuto solo in quanto gli uomini cammineranno l’uno accanto all’altro. Si passa così da uno stato di chiusura nazionalistica ad uno di “apertura universalistica”, poiché il disegno soteriologico nel piano divino ingloberà tutti i gentili. Israele però aveva peccato e si rifiutava di accettare il Vangelo; scrive Paolo:  «Una parte di Israele si è irrigidita, fino a che non sia entrata la pienezza delle genti. Così tutto Israele sarà salvato, come sta scritto: Uscirà da Sion il liberatore, e stornerà le empietà da Giacobbe. E questo è il mio patto con loro, quando eliminerà i loro peccati»[18].  Non tutti gli ebrei infatti avevano riconosciuto in Gesù di Nazareth il Messia che tanto attendevano: abbiamo detto di come Dio avesse indurito i loro cuori, per salvarne poi quucuno; parlando degli ebrei in particolare Paolo li definisce:  «questi uccisori del Signore Gesù e dei profeti, nostri persecutori, spiacenti a Dio, avversi a tutti gli uomini; essi ci impediscono di parlare ai gentili affinché siano salvi, così completando sempre la misura dei loro peccati. Ma l’ira li ha finalmente raggiunti»[19].  Dio avrebbe allora ripudiato il suo popolo? «Non sia mai» (Rom 11, 1) risponde l’apostolo che istituisce, attraverso una bellissima metafora, il parallelismo tra il popolo di Israele ed i rami di un albero:  «Ed anche loro, se non persisteranno nell’incredulità, verranno innestati, poiché Dio ha il potere d’innestarli nuovamente. Se tu infatti sei stato reciso dall’olivastro a cui eri connaturato, e innestato innaturalmente in un olivo ben formato, quanto più essi, che vi sono connaturati, saranno innestati nel proprio olivo»[20].  In realtà, tutto ciò era funzionale al disegno divino: per la caduta di pochi, molti si salvarono, dal momento che lo stesso Paolo si rivolge ai pagani e va a predicare alle genti, nella speranza di suscitare la gelosia di Israele. E conclude: «Dio infatti ha rinchiuso tutti nell’incredulità, per usare a tutti misericordia» (Rom 11, 32). Subentra a questo punto il famoso “resto” di cui parlava Isaia, per cui solo nel momento in cui rimarrà un resto davvero irriducibile, ebbene solo allora tutti saranno inglobati nella salvezza ed Israele sarà salvato. Nell’iniziale schema escatologico, l’essere un popolo “eletto” significava che questo popolo sarebbe stato il primo a salvarsi; adesso invece, in virtù di un paradossale capovolgimento, questo resto sarà l’ultimo, nel senso che prima verranno compresi i gentili e, solo in un secondo momento, Israele entrerà a far parte della promessa. Per spiegare meglio questo concetto, Paolo ricorre all’immagine del rapporto intercorrente tra le molta membra del corpo ed il corpo mistico del Cristo, il quale è capo dell’unica Chiesa e solo Signore: «Come infatti il corpo è unico con molte membra, e tutte le membra del corpo, pur molte, sono un unico corpo, così anche il Cristo. Tutti noi siamo stati immersi nell’acqua in un unico Spirito per formare un unico corpo, sia giudei sia greci, sia servi sia liberi. […] Anzi, le membra del corpo apparentemente più delicate sono le più necessarie, e a quelle da noi giudicate più vili nel corpo attribuiamo un pregio assai maggiore, e le nostre parti indecorose non hanno bisogno di nulla. Ma Dio fuse il corpo attribuendo assai maggior pregio al membro che ne mancava, per impedire scissioni nel corpo stesso, e invece le membra si preoccupino l’una dell’altra. Così, se un membro soffre, soffrono con quello tutte le altre membra, e se un membro è glorificato, tutte le altre ne gioiscono con lui»[21].  Insistiamo sul termine ‘tutto’ per ribadire la sua importanza all’interno del nostro discorso[22]. La chiesa cattolica fonda se stessa in quanto ekklesia, a confermare il carattere universale della chiamata. Nelle Scritture, leggiamo: «In te verranno benedette tutte le nazioni» (Gn 12, 3) e Paolo commenta così queste parole: «così che quanti procedono dalla fede sono benedetti con Abramo fedele» (Gal 3, 9): già queste frasi sono anticipatrici dell’universalismo salvifico mediante Abramo. Da qui si capisce il perché dell’iniziale elezione di Israele e della sua successiva perdizione: Dio – dicevamo – non aveva scelto questo popolo in quanto migliore degli altri ma la sua elezione sarebbe stata il preludio della futura salvezza generale. L’elezione dei pagani è partecipazione all’elezione di Israele e Paolo precisa:  «Non tutti i discendenti di Israele sono infatti il vero Israele; né per essere discendenza d’Abramo sono tutti suoi figli, bensì in Isacco verrà chiamata la tua discendenza: ossia, non i figli della carne sono i figli di Dio, ma i figli della promessa saranno considerati come discendenza»[23]. Non i figli discendenti da Ismaele ma quelli discendenti da Isacco sarebbero stati davvero liberi ed eredi della promessa. I popoli, pervenuti finalmente alla salvezza, smuoveranno l’Israele disperso nella diaspora dell’incredulità e lo indurranno a ritornare a Sion[24]. La salvezza, che deriva da un dono [karisma] puro ed assolutamente gratuito, potrà essere elargita agli uomini solo se tutti, pagani ed ebrei, torneranno a volgersi a Sion. Nel precetto universale dell’amore è riassunto il principio del monoteismo assoluto e della necessità di prestare obbedienza ai comandamenti divini. A Paolo spetta in definitiva il merito di aver reso “universale”[25] il messaggio cristiano, facendolo uscire dai ristretti confini della Palestina, per giungere a tutte le genti. «Ciò nonostante, Dio aveva stretto un’alleanza con Israele per unirsi di nuovo, tramite questo popolo, con tutta l’umanità»[26], è il commento di Bouwman a questo proposito. Quando, alla fine delle sue riflessioni teologiche, Paolo proclamò la salvezza dell’Israele empirico degli ultimi tempi – ad avviso di Gnilka – stava in realtà professando la propria fede nella fedeltà a Dio (Rom 11, 28) e dichiarava la propria convinzione che l’inizio del popolo di Dio e la sua fine fossero identici, vale a dire sono costituite da Israele[27]. Gerusalemme, la città santa, si trova quindi all’inizio ed alla fine del percorso di salvezza e, alla fine dei tempi, tutti avranno libero accesso alla Gerusalemme celeste, “liberata” per dirla con Torquato Tasso, in riferimento alle lotte tra cristiani e musulmani che la insanguinarono nel Medioevo per la riconquista del santo sepolcro, eppure la storia sembra destinata a ripetersi ineluttabilmente, a scorrere nel suo essere sempre uguale a se medesima, come se gli uomini non avessero tratto nulla dagli insegnamenti del passato, considerando che anche oggi i combattimenti che lacerano il mondo sembrano identici a quelli che si perpetrarono ottocent’anni fa. Alla domanda nietzscheana dell’uomo folle “Dov’è Dio?” dovremmo piuttosto chiederci che fine abbia fatto l’uomo, nella sua umanità ed in ciò che connota propriamente la sua essenza più intima, perché è lui che, in riferimento ai massacri, alle ingiustizie perpetrate nel tempo, alle aberrazioni di quest’ultimo secolo in particolar modo, ha permesso tutto ciò. Dove regna il peccato, lì sovrabbonderà la grazia: il riferimento è allo scempio delle guerre, alle migliaia di donne, uomini, bambini, massacrati inutilmente e disumanamente, come pecore destinate al macello. Ciò vuol dire, al di là dei conflitti che hanno insanguinato il teatro della scena storica, delle lotte fratricide, tra fratelli appunto, poiché Dio si era rivelato ad Abramo ed in lui aveva promesso la salvezza a tutti, non si capisce bene per quale motivo le tre grandi religioni del Libro, cristianesimo, ebraismo ed islam, abbiano perduto di vista il loro punto comune mentre hanno invece insistito sulle differenze e sugli elementi di discontinuità, facendo leva su quest’ultime per muoversi guerra a vicenda. Se tutti devono la propria origine alla medesima fonte divina – se le tre grandi religioni monoteistiche derivano veramente dallo stesso Libro – che senso avrebbe questo continuare a farsi la guerra senza pervenire mai alla stipulazione di un accordo, senza una pace che sia per così dire duratura, “perpetua” per dirla con Kant? E perché in seguito al crollo di un muro vergognoso si è assistiti sgomenti ed impassibili all’edificazione di un altro muro altrettanto doloroso[28]? Dio che creò ogni cosa, compresi gli uomini, non lascerà che nulla di ciò che Gli appartenga possa smarrirsi; per dirla con Sanders: «Tutti noi e l’intera creazione appartengono a Lui»[29]. Lo stesso Isaia mette in bocca al suo Signore le seguenti parole: «Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato a quelli che non si rivolgevano a me, mentre di Israele dice: «Tutto il giorno ho steso le mani verso un popolo disobbediente e ribelle!» (Is 65, 1-2). Sulla scia di Paolo perciò non possiamo che tentare di ripensare ad una torah prima del Sinai[30], che si rivolga a ciò che esisteva prima della legge mortifera delle opere e della carne, e che torni a guardare non più a Mosè bensì ad Abramo ed all’incondizionato gesto d’amore che questi compì nel momento in cui ricevette la chiamata di Dio. Solo volgendosi indietro nel passato sarà possibile recuperare quell’autentico spirito di pace e fratellanza indispensabile per una pacifica convivenza e coesistenza delle molteplicità. Paolo parla di legge della promessa, in un contesto di “sospensione della legge”, che torni a dirigersi verso quell’incredibile promessa fattagli da Dio, alla quale egli tuttavia credette, “sperando contro ogni speranza” e pronto ad accogliere l’evento dell’impossibile. Perché, per riprendere l’annuncio del profeta Abdia, è da Sion che proverrà la salvezza: «Ma sul monte Sion vi sarà una porzione salva e sarà un luogo santo» (Abdia 1, 17). Siamo in presenza di un uomo, avanti negli anni, e di una donna, per di più sterile; eppure Abramo e Sara credettero, al di là di ogni logica e buon senso. È questo il gesto più inaudito ed incomprensibile per la sensibilità di noi uomini contemporanei; ed è da questa fede nella follia che bisogna ripartire. Ognuno di noi è chiamato, convocato da Dio a porsi su questa strada e a corrispondere al suo appello. Forse, ad avviso di Paolo, è proprio questo che ci viene richiesto: dare prova di una simile fede, prova terribile e difficile insieme ma non impossibile dal momento che solo la speranza, la fede e l’amore potranno far crollare, una volta per sempre, tutti i muri della separazione, di odio e di violenza che si erigono quotidianamente fra gli uomini, poiché, per dirla con Paolo, «uno solo è il Signore, una la fede» (Ef 4, 5) e noi tutti, a prescindere dalle apparenti differenze, «siamo stati fidanzati ad un unico sposo» (II Cor 11, 2). In un’epoca come la nostra, è necessario capire e recepire il messaggio di Paolo nella sua interezza e straordinaria attualità, comprendendo l’urgenza con la quale bisogna agire per abbattere tutte queste pareti di sbarramento. Per cui, nel momento in cui calerà il sipario e la promessa troverà finalmente la sua attuazione ed il suo compimento, quel che resterà sarà solo agape, nel suo dominio assoluto ed incontrastato. Ci piace pensare che tutto questo discorso non sia solo una mera utopia o un sogno irrealizzabile che svanirà non appena le parole non troveranno adempimento o riscontro nella realtà dei fatti ma che veramente, nel futuro regno messianico, letto oggi in una chiave secolarizzata, gli uomini possano imparare a riconoscersi come fratelli e, guidati dallo spirito della pace e dell’amore, sappiano dare vita ad una nuova comunità messianica di “eletti”, guidati dalla speranza e dallo spirito di “fratellanza, uguaglianza e libertà” e, con gli occhi infine scevri di pregiudizi ed inimicizia e di avversione l’uno per l’altro, al di là degli odi etnici e di razza contemporanei, ritrovare infine quell’elemento di comunione e di coesione che ci accomuna tutti quanti.  ———————-

[1]  Per le citazioni paoline, faremo riferimento a: San Paolo, Le lettere, a cura di C. Carena, Einaudi, Torino 1999. [2] È noto che Paolo parlasse ben quattro lingue; lo conferma E. P. Sanders, San Paolo, tr. it. di P. Ursino, il melangolo, Genova 1997, pp. 17-18: «Cittadino e cosmopolita, Paolo si muove invece a suo agio nel mondo greco-romano. Probabilmente parla aramaico (o ebraico o entrambe le lingue, At 21, 40); ed è possibile che conosca anche il latino; ma la sua lingua principale è una delle più grandi lingue di tutti i tempi: la koiné, il greco parlato allora nel vicino Oriente». [3] C’è anche da dire – sulla scia di Heidegger – che le comunità protocristiane avevano una modalità del tutto particolare di esperire la temporalità. Cfr. M. Heidegger, Esplicazione fenomenologica di fenomeni religiosi concreti sulla scorta delle lettere dell’apostolo Paolo, in Fenomenologia della vita religiosa, tr. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2003. Agamben parla al riguardo di un tempo fra il “già” della prima venuta ed il “non ancora” della parousia, il ritorno del Messia su questa terra. Vedi G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000. [4] Per i riferimenti biblici, vedi La Sacra Bibbia, edizioni paoline, Roma 1960. [5] È insita una critica radicale al concetto di razza e di popolo basato sul sangue. [6] B. Pascal, Pensieri, Bompiani, Milano 2003. [7] Vedi la IX tesi in W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, p. 35. [8] G. Agamben, Il tempo che resta, cit., p. 49: «La legge, per essi, non era soltanto la Torah in senso stretto, la legge scritta, ma anche la Torah orale, la tradizione concepita come una “parete divisoria” o una “siepe” attorno alla Torah, che deve proteggerla da ogni contatto impuro». L’autore prosegue sostenendo che Paolo parla di separazione a proposito del suo vecchio status di fariseo in relazione al nomos, ma anche in riferimento alla sua nuova condizione di ebreo, messo in disparte per l’evangelo di Dio. La separazione è appunto la connotazione precipua che caratterizza la condizione di santità. [9] E. P. Sanders, Paolo, la legge e il popolo giudaico, cit., p. 213: «Il vero giudeo è chi pratica la legge, e non ne fa mostra in pubblico, può non essere circonciso fisicamente (“nella carne”), ma lo è interiormente, in segreto, non si tratta di una circoncisione concreta, ma di una circoncisione spirituale, del cuore». [10] Uno degli esegeti più mirabili di questa terribile prova è certamente S. Kierkegaard, Timore e tremore, tr. it. di F. Fortini e K. Montanari Guldbrandsen, Mondadori, Milano 1991. [11] A supporto di quanto affermato, potremmo citare H. Hübner, La legge in Paolo, tr. it. di R. Favero, Paideia, Brescia 1995, p. 36: «Alle promesse fatte ad Abramo spetta dunque nei confronti del nomos una priorità cronologica e quindi effettiva. Rilevante per la salvezza, dunque, non è Mosè ma Abramo!». Resta da capire perché Jahweh abbia voluto dare poi la Legge, quattrocento anni dopo la promessa, e che cosa accadde in questo intervallo di anomia. [12] Ivi, p. 39: «Ciascuno è colpevole, poiché non c’è proprio un solo individuo che abbia fatto tutto ciò che è prescritto nella legge. […] Chi trasgredisce anche solo in un unico punto la torà sia maledetto». [13] Vedi a tal proposito la definizione dello stato d’eccezione in C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità in Le categorie del «Politico», a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1998, p. 33. Il Messia non sarebbe venuto ad abbattere o ad abrogare definitivamente la Legge, bensì a ‘sospenderla’, a suggellarla, a compierla una volta per tutte: in poche parole, a portare la pienezza. Per riprendere le parole di Matteo, «Gesù non è venuto ad abolire, ma a completare» (Mt 5, 17). Ciò che veniva sospesa era la sua normatività, l’abolizione definitiva della Legge essendo di pertinenza soltanto del futuro regno messianico. [14] Vedi a tal proposito la normativa relativa agli accordi di Schengen (libera circolazione alle frontiere). [15] H. G. Gadamer, L’eredità dell’Europa, tr. it. di F. Cuniberto, Einaudi, Milano 1991, p. 22. [16] I riferimenti al Trattato costituzionale sono tratti dal sito http://europa.eu/index_it.htm [17] Ef 2, 13-17. [18] Rom 11, 25-27. [19] I Tes 2, 15-16. [20] Rom 11, 23-24. [21] I Cor 12, 12-26. [22] Che il cristianesimo si presentasse in questa veste ugualitaria ed avesse elargito la sua promessa di vita eterna indistintamente a tutta l’umanità non è altro che, agli occhi di Nietzsche, un’emerita follia ed un’impostura. Il cristianesimo avrebbe preso le difese di tutto ciò che nella storia è debole, abietto e malriuscito e lo avrebbe innalzato a dignità. In realtà, i preti facendo leva su questo sentimento non avrebbero fatto che considerare la stragrande maggioranza degli uomini alla stregua di un animale malato, un gregge bisognoso di aiuto e di guida, convincendoli che lo loro sottomissione fosse giusta, assieme al soffocamento di ogni istinto, alla svalutazione di ogni realtà sensibile. Il cristianesimo è stato la più grande sciagura dell’umanità, l’unica grande maledizione e, come tale, va condannato, per il suo aver fatto di ogni valore un disvalore, aver discreditato la vita in ogni sua forma di autopotenziamento ed accrescimento, per aver innalzato ogni anima ad una condizione di uguaglianza davanti a Dio! Perciò il tempo, ad avviso di Nietzsche, non va computato a partire dal primo giorno in cui ebbe origine questa fatalità – dies nefastus – bensì dall’ultimo, vale a dire da oggi stesso. Vedi F. Nietzsche, L’anticristo. Maledizione del Cristianesimo, tr. it. di F. Masini, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 2002. [23] Rom 9, 6-9. [24] Vedi J. Gnilka, Paolo di Tarso. Apostolo e testimone, tr. it. di V. Gatti, Paideia, Brescia 1988, p. 373. [25] L’aggettivo “cattolico” in realtà non designa altro che la vocazione universalistica della comunità messianica. [26] G. Bouwman, Libertà e legge, tr. it. di F. Spaltro-Hendriksen, a cura di P. De Benedetti, Bompiani, Milano 1970, p. 82. [27] J. Gnilka, Paolo di Tarso…, cit., pp. 374-375. [28] Mi riferisco alla barriera di separazione israeliana, sistema di barriere fisiche costruito da Israele in Cisgiordania sotto il nome di “chiusura di sicurezza”, allo scopo ufficiale d’impedire fisicamente ogni intrusione di terroristi palestinesi nel territorio nazionale. Questa barriera, il cui tracciato di circa 700 km è controverso ed è stato ridisegnato più volte particolarmente a causa delle pressioni internazionali, consiste per tutta la sua lunghezza in una successione di muri, trincee e porte elettroniche. Il progetto ha suscitato una grande controversia fra la maggioranza dei civili israeliani che vogliono una protezione supplementare comportata da questa barriera dopo l’avvio della Seconda Intifada e i detrattori della barriera, soprannominata “muro della vergogna”, che denunciano l’attentato perpetrato ai diritti umani e vedono il manufatto come un tentativo d’annessione di parte dei territori cisgiordanici occupati da Israele, essendo una porzione del tracciato in territorio occupato. È ugualmente chiamato “Muro della vergogna” o “Muro dell’annessione” da chi è ostile al progetto. Alcuni di loro parlano anche di “Muro dell’Apartheid”. I Palestinesi (fra cui i loro media) si riferiscono spesso a questa barriera usando l’espressione “Muro di separazione razziale”. I partigiani della barriera usano invece il nome ufficiale di “chiusura di sicurezza israeliana” o la chiamano “barriera anti-terrorista” o, ancora, “muraglia di protezione”. L’ONU e la comunità internazionale utilizzano più frequentemente il termine “Muro”, ma sono usate talora anche altre espressioni: chiusura/muro/barriera di separazione/sicurezza. [29] E. P. Sanders, San Paolo, cit., p. 140. [30] L’espressione è di E. Lévinas. 

 

IL RAPPORTO LEGGE-LIBERTÀ NEL PENSIERO DI PAOLO – † LUIGI PADOVESE

http://www.cccsanbenedetto.it/Pagina_CCC/I_nostri_incontri/conferenza_legge-liberta.doc.

SAN BENEDETTO CENTRO CULTURALE CATTOLICO

La fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta,  non intensamente pensata, non fedelmente vissuta, Giovanni Paolo II

(non mi sembra di averlo messo)

In occasione dell’Anno Paolino, il Centro Culturale « Alle Grazie » della comunità domenicana della Basilica di Santa Maria delle Grazie di Milano, il Centro Culturale Cattolico San Benedetto, la Fondazione Vittorino Colombo e il Coordinamento regionale dei Centri Culturali Cattolici della Lombardia hanno organizzato la mostra su San Paolo « Sulla via di Damasco. L’inizio di una vita nuova » e tre serate di approfondimento una era stato sul tema « La legge e la libertà » Mons Padovese era stato ospite del Centro Culturale San Benedetto Venerdì 3 aprile 2009 insieme a padre Paolo Garuti (domenicano, biblista, docente di Scienze bibliche presso la Pontificia Università S. Tommaso di Roma e l’École Biblique di Gerusalemme) La serata era stata presentata da Luca Tanduo e Paolo Tanduo fondatori del Centro Culturale Cattolico San Bendetto

IL RAPPORTO LEGGE-LIBERTÀ NEL PENSIERO DI PAOLO

 † L U I G I   P A D O V E S E   

VICARIO APOSTOLICO DELL’ANATOLIA E PRESIDENTE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE TURCA

 E’ stato il documento conciliare Gaudium et spes a rilevare che « mai come oggi gli uomini hanno avuto un senso così acuto di libertà » . Concetti analoghi ritroviamo nell’istruzione Libertà cristiana e liberazione della Congregazione per la dottrina della fede. Nel testo in questione si legge che « la coscienza della libertà e della dignità dell’uomo, congiunta con l’affermazione dei diritti inalienabili della persona e dei popoli, è una delle caratteristiche del nostro tempo » .  Queste considerazioni poggiano sul fatto storico che l’accresciuta consapevolezza della libertà è stata una delle forze principali nel plasmare la nostra civiltà. A modo di premessa va precisato che la libertà non costituisce un bene per sé stesso, un valore finale. Ciò che è appetibile per sé stesso è possedere il proprio fine sino al punto in cui ogni appetizione viene meno. Da questo punto di vista la libertà non è nient’altro che lo stile umano, il modo umano di autodeterminarsi nella scelta e nell’esecuzione della scelta.  Il cammino storico che porta a questo concetto generale di libertà si sviluppò originariamente nella Grecia e nelle sue colonie. Qui il concetto di libertà s’è via via precisato ‘per contrasto’ : nell’opposizione tra schiavo e padrone; all’interno della città, tra cittadino con diritti e chi non li aveva; all’interno del mondo antico, tra le libere città greche e i persiani. La riflessione filosofica greca ha concorso a meglio definire la libertà della persona come « libertà spirituale » caratterizzata dalla piena padronanza di sé e dall’emancipazione da condizionamenti esterni .  Il sentimento di libertà, espresso nel pensiero greco, si è successivamente fuso, arricchendosi, con il messaggio cristiano contribuendo alla nascita del sentire odierno. Lo stesso fenomeno di arricchimento si può constatare anche in altri ambiti. Basterebbe rilevare l’incidenza che la riflessione trinitaria e cristologica della Chiesa antica ha avuto nel definire il senso dell’esistenza umana, già precedentemente intravisto dalla filosofia greca. Espressioni come « persona », « dignità personale », « dialogo », rimarrebbero suoni vuoti se non avessero trovato una prima applicazione in teologia, divenendo in un secondo momento oggetto dell’antropologia. E’ stato, infatti, dimostrato che « nella storia dello spirito occidentale la concezione del Dio personale, in particolare quella trinitaria, appare come uno dei presupposti essenziali, se non come il più essenziale, della possibilità di una soggettività libera, dello sviluppo dei diritti umani come diritti soggettivi di libertà » .  Uno sviluppo analogo non si constata nell’ambito culturale di altre religioni . Veramente il discorso su Dio e su Cristo ha stimolato e allargato le conoscenze sull’uomo ed ha sensibilmente contribuito ad affermarne il valore profondo. Tanto per esemplificare, osserviamo come la lotta per il riconoscimento della dignità e libertà umana trovi, in ambito originariamente cristiano, motivazioni e impulsi a partire dalla ‘parentela’ intrecciata da Dio con l’uomo e rafforzata in Cristo. Le teologie che leggono la storia della salvezza come evento di libertà e per questa strada vogliono liberare l’uomo dalle diverse schiavitù odierne, scoprono il loro fondamento ultimo nel testo di Gn 1,26 (« Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza ») e nella constatazione che « il Verbo si è fatto carne ».  Queste considerazioni sul rapporto tra teologia e antropologia in ordine al tema della dignità e libertà umana, non impediscono di riconoscere che l’idea di libertà, maturata con l’apporto determinante anche se non esclusivo del cristianesimo, non è più un concetto omogeneo; anzi è talmente esposta a fraintendimenti da indurre a credere che la crisi dell’Occidente sia una crisi dell’idea di libertà . Come non osservare che la parola libertà, inflazionata sino alla svalutazione, serve a giustificare un atteggiamento di  indifferenza verso gli altri, di apparente tolleranza che – tutto sommato – nasconde una mentalità relativista sia in ambito sociale che privato? Non è forse vero che l’uomo è libero ma non sa più perché (libero da, libero di, ma non libero per?)  E’ vera libertà la mancanza di vincoli? E’ vera libertà il semplice fatto di disporre di beni di consumo come vorrebbe farci credere una società di mercato che riduce questo concetto all’autogestione dell’uomo su se stesso e alla funzione dell’avere?  Non è forse vero che libertà e scelta nella cultura odierna sono divenuti sinonimi? Una tale idea di libertà è certamente riduttiva, perché non rispetta la struttura comunicativa, relazionale dell’uomo.  E’ la libertà dell’individuo, non della persona.  In riferimento al mondo occidentale il sociologo Ulrich Beck ha recentemente osservato che « la nostra vera ‘malattia’ non è una crisi, ma la libertà, o, più precisamente, sono le conseguenze involontarie e le forme in cui trova espressione  quel sovrappiù di libertà che…domina ormai la nostra vita quotidiana » .  Dinanzi a questo stato di cose un rimando al concetto cristiano di libertà risulta utile per comprenderne la specificità. La libertà cristiana possiede infatti un carattere identitario.  E’ noto come sulla bocca di Gesù la parola ‘libertà’ sia del tutto assente. E nondimeno è fuori dubbio che tale concetto impronta tutti i suoi ‘facta et dicta’.  Basti riandare a Marco che « come nessun altro ha scritto il vangelo della libertà » .  Certo, se la libertà costituisce il ‘tratto caratteristico’ di Cristo e la sua storia come ci è presentata, ha una rilevanza teologica, allora la sua libertà diviene l’elemento di verità e di autenticità del discepolo . Detto altrimenti, la realtà di Gesù, uomo libero che libera, non può non riflettersi nel movimento che a lui si richiama. Insomma, non si può essere ed agire da schiavi alla sequela di un libero. Pur lontani dalla tendenza di proiettare in Gesù i nostri desideri, facendone un simbolo che non è più sé stesso, non si può tuttavia dimenticare che proprio nella libertà i discepoli e la comunità primitiva hanno ‘riletto’ la vicenda umana di Cristo. Il filtro di lettura del solo ‘amore’ con il quale è stata poi intesa la personalità di Gesù non deve lasciare in penombra questo aspetto essenziale. Questa libertà/liberazione che traspare da tutto il comportamento e dalle parole di Gesù ha trovato particolare sviluppo nella riflessione di Paolo che  ne ha fatto una parola chiave dell’annuncio cristiano. Nelle sue lettere l’apostolo s’è trovato a dare soluzioni concrete  per delle comunità non ben strutturate all’interno di un mondo multietnico e multireligioso, ma anche singolarmente per dei neofiti con un’identità in formazione e con quesiti precisi che richiedevano una netta  presa di posizione (culto degli idoli, lavoro, sesso, rapporto con il potere politico, rapporto con i pagani, ecc). L’impegno di Paolo è stato quello di  tradurre in vita concreta le conseguenze della fede in Cristo. Ciò spiega perché la tematica della libertà che l’apostolo ha reso un termine fondamentale del suo annuncio è stata affrontata con sfumature diverse sulla base di differenti sollecitazioni. Né va dimenticato che questo annuncio andava poi indirizzato a persone viventi in un ambiente diverso da quello originario della Palestina.   Pur senza tradire l’ispirazione di fondo del messaggio teocratico radicale di Gesù, afamiliare e apolide – impraticabile nelle comunità cittadine ellenistiche – l’apostolo l’ha reso accessibile a uomini e donne viventi in sedentarietà. Evidentemente il passaggio dell’annuncio cristiano dall’ambito aramaico a quello greco ha significato anche un mutamento a livello di contenuti e di rappresentazioni assunti dal bagaglio culturale ellenistico. Lo stesso richiamo paolino alla libertà presentata come il vero segno caratteristico dei cristiani e della comunità, rientra in questo processo di adattamento o d’inculturazione. Nessuno tra gli autori del NT vi ha dedicato tanto interesse quanto Paolo per il quale « la libertà precede l’obbligazione, ogni tipo di obbligazione. Proprio in ciò il messaggio cristiano, secondo l’Apostolo, si dimostra letteralmente eu-anghellion, cioè annuncio buono e lieto, tale che è un sollievo ascoltarlo: perché in prima battuta esso non impone prescrizioni da osservare, ma propone una libertà da accogliere gratuitamente e da fare propria » .  Se è pur vero che il rimando alla libertà, addotta quale criterio identitario del cristiano, risente dell’adattamento all’ambiente ellenistico al cui interno l’apostolo opera, non è meno vero che la centralità data alla libertà  risente della sua esperienza personale sulla via di Damasco. E’ qui che egli fa l’esperienza della grazia,  termine che nel suo linguaggio ha il senso fondamentale  di « benevolenza » .   A Damasco Paolo comprende che l’uomo autocratico, vive una ‘religiosità di scambio’, per la quale ritiene che Dio gli debba qualcosa se adempie i suoi comandamenti. E’, insomma,  l’uomo che si giustifica, non il « giustificato », e – per conseguenza – colui che vanifica l’azione salvifica di Cristo. Che senso ha la sua incarnazione, morte e resurrezione se si può fare a meno di Lui?  Il fatto di sentirsi un ‘graziato’, senza alcun merito, apre gli occhi dell’apostolo ad una nuova immagine di Dio che segnerà tutto il suo cammino. D’ora innanzi Cristo diviene  il riferimento fondamentale ed imprescindibile della sua esperienza religiosa. E’ per questa ragione che ai Galati, in termini appassionati, scrive: « Questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (2,20).  Nello spostare il baricentro da una religiosità che  pone al centro l »io dell’uomo anziche il ‘tu’ di Dio, Paolo – attraverso la sua esperienza personale – ci mette in guardia dall’abbaglio di fissarsi su un’immagine di Dio che ne altera i tratti e che presume di misurare l’incommensurabile. Non era lui, Saulo, che, nel nome di Dio, perseguitava i cristiani? Non apparteneva a quanti anche in seguito li avrebbero messi a morte, pensando così di dar gloria a Dio? Ancora ai nostri giorni vediamo terroristi che fanno stragi nel nome di Dio. Tutto questo mostra quali implicazioni pratiche contradditorie si diano nel riferirsi a Dio e come non di rado lo si misuri con un metro umano.  Nell’incontro con Cristo a Damasco l’apostolo ha inteso che l’amore costituisce il primo e più importante principio ermeneutico della fede cristiana che non potrà mai limitarsi ad un semplice assenso della mente se il cuore non è coinvolto. La cosiddetta « conversione » di questo orgoglioso fondamentalista ebraico che aveva identificato l’amore per la Legge con l’aggressione ai dissidenti cristiani ,  indica ora adesione « a una persona viva e liberante come Gesù Cristo, capace di orientare in una nuova direzione non solo le energie umane di cui si dispone, ma anche i propri valori religiosi di origine » . Questo spiega perché l’apostolo, riferendosi alla sua vicenda personale, non abbia mai parlato di un « convertirsi, ravvedersi », « ricredersi », « cambiare ». L’esperienza di Damasco è piuttosto « chiamata », « elezione, « rivelazione » nella quale anche la fase precristiana  ha trovato un senso. C’è così un rapporto di continuità/discontinuità rispetto al passato. D’ora innanzi la Legge per il Paolo ‘convertito’, non sarà più la stessa del Paolo ‘osservante fariseo’. La parola rimane, ma il contenuto cambia. E’ la Legge in Cristo che non conosce obbligazione né paura. E’ la legge della libertà, dal momento che l’amore esclude ogni imposizione ed è ben diversa dalla Legge precedente posta sotto l’imperativo del « dovere ». Ora, secondo Paolo, « il ‘devi’ è diventato un ‘voglio’. La Legge cristiana ha quindi nella libertà il suo fondamento e ciò contrariamente alla concezione greca dove è la legge a fondare la libertà E’ la legge dei figli, ammesso che si possa ancora parlare di legge quando non si è più schiavi, ma figli (Gal 4,3-7). Questi concetti, espressi nella Lettera ai Galati scritta da Paolo presumibilmente da Efeso attorno al 57, sono sviluppati in contesto polemico all’interno della primitiva comunità cristiana . La questione riguardava il ‘peso’ da attribuire alla Legge e, per conseguenza, all’opera redentiva di Cristo  Dopo aver sperimentato la sua cosiddetta ‘conversione’ come una liberazione, l’apostolo comprende che  l’idea di pervenire alla libertà mediante la legge ai suoi occhi è un fallimento . Pertanto collegherà la libertà soltanto con Cristo e non con la legge, come avveniva nello stoicismo e nel giudaismo nel quale si riteneva che fosse l’osservanza della Torà a rendere libero l’uomo Questa concentrazione sulla Legge, però, poteva alla lunga lasciare in penombra Dio stesso Per questa strada si giunse ad attribuire alla Legge dei tratti quasi divini e l’uomo che si riteneva libero, di fatto si trovò schiavo di un dovere che non poteva mai compiere perfettamente. E’ il dramma (di Sisifo) che contrassegna certo giudaismo e che Paolo, da buon fariseo, metterà in luce affermando che l’uomo non è così libero e la legge non cosi liberante come si pensa. La liberazione e la libertà vanno cercate altrove e in altro modo. Contrariamente a questo convincimento, tra i cristiani della Galazia da lui evangelizzati, alcuni missionari giudeo cristiani predicano il ritorno alle osservanze giudaiche in vista della salvezza. Per costoro la legge costituirebbe ancora una condizione o requisito necessario per entrare nella comunità . Il fatto di sentirsi ancora parte d’Israele li induce a richiedere ai convertiti la pratica della circoncisione e l’osservanza delle legge, così come si richiedeva ad un ‘proselito’. Per contro Paolo insiste che i gentili non abbisognano delle legge di Mosé per essere membri del popolo di Dio. L’osservanza della legge, come pure la circoncisione (cf Gal 6,15) non possono valere come requisiti fondamentali per l’ammissione alla comunità. Si tratta ormai di realtà indifferenti (« Essere circoncisi o non esserlo non conta nulla », 1Co 7,19), poiché la giustificazione proviene esclusivamente da Cristo.  Affermare – come predicavano gli ignoti missionari contrari a Paolo – una giustificazione attraverso la legge significava vanificare l’azione di Gesù . Ma ciò era evidentemente in linea con il pensiero giudaico per il quale « accettare la legge e vivere in conformità con essa era il segno e la condizione di una situazione di privilegio » . Togliendo invece valore alla legge Paolo veniva automaticamente a negare il concetto di elezione.  Intorno a questi concetti si svilupperà la riflessione paolina su Cristo che, giustificando l’uomo, lo rende libero. La libertà, dunque, esprime lo ‘status’ del credente in Cristo.  In quanto cittadino della città celeste, Gerusalemme, che è nostra madre e che è libera (cf Gal 4,24-31), anch’egli è libero .  Con altra immagine, Paolo presenta questa libertà anche come effetto ed espressione della nuova condizione di figli (cf Gal 4,3-7). E’ una libertà che inerisce all’essere del cristiano e non va vista tanto come libertà  di scelta ma come uno stato salvifico duraturo. Libertà in Cristo prima che libertà da… o per…. Non si tratta, poi, di una libertà ‘qualità’  che viene ‘conquistata’ : essa è piuttosto frutto dell’evento escatologico di Cristo  che « ci ha liberati per la libertà »(Gal 5,1). Dicendo così, Paolo mette in luce un doppio aspetto : a.l’uomo non può liberarsi da solo, ma abbisogna di un redentore. b.la libertà è un dono e il fine della sua azione salvifica .  Nell’insegnamento dell’apostolo è mediante il battesimo che l’uomo acquisisce questa libertà. Da quel momento – direbbe Paolo -  « sono stato crocifisso con Cristo. Non sono più io che vivo; è Cristo che vive in me »(Gal 2, 19b-20a).  In altre parole la libertà per Paolo è dono ed è espressione di un nuovo stato ontologico. Essa poi « permane nella dipendenza, perché il vivere  nella grazia non costituisce uno stato chiuso, ma un dono continuamente accolto in libertà » .  Quali gli effetti di questo essere « stati uniti a Cristo mediante il battesimo »(Gal 3,27)? Nel possesso dello stesso dono e della stessa dignità, cadono le separazioni precedenti e si crea un nuovo spazio di libertà: uno spazio di uguaglianza, fraternità, amore vicendevole . Ora « non ha più importanza alcuna l’essere ebreo o pagano, schiavo o libero, uomo o donna, perché uniti a Gesù Cristo, siete diventati un sol uomo »(Gal 3,28). Liberato dal proprio passato, il cristiano è libero per il futuro. Crolla il « dominio degli spiriti che governavano il mondo »(Gal 4,3), vengono meno le prescrizioni riguardanti osservanze di tempi speciali, cibi(cf Gal 4,10). Il ‘mangiare insieme’ con cristiani dalla gentilità è divenuto un ‘adiaphoron’ (cf Gal 2,11). Ma è soprattutto ridimensionato il senso della legge. La nuova via della fede libera da essa, eppure non si tratta d’una libertà assoluta dal momento che è « la libertà che abbiamo in Cristo »(Gal 2,4). Questa ha piuttosto una sua norma (Legge di Cristo) nella parola della croce di Gesù « attraverso la quale il mondo è per me crocifisso ed io per il mondo »(Gal 6,14). E’ in questa esperienza della croce e dell’essere crocifisso con Cristo che la libertà cristiana trova la sua vera essenza. Se perciò Paolo proclama « Dio vi ha chiamati a libertà »(Gal 5,13), subito dopo aggiunge : »Ma non servitevi della libertà per i vostri comodi »(Gal 5,13). Libertà e amore del prossimo sono perciò due facce della stessa medaglia.  Il legame inscindibile di libertà ed amore è ulteriormente sviluppato nella 1Co che Paolo scrisse pure  da Efeso (cf 1Co 16,8) verso il 57.  In essa l’apostolo presenta la libertà interiore come indipendenza dell’uomo dalla sua condizione sociale divenuta ormai indifferente. Ora essere libero o schiavo importa relativamente dal momento che la chiamata alla fede prescinde da tutto ciò. « Chi era  schiavo quando il Signore lo ha chiamato alla fede, è già diventato un uomo libero che è al servizio del Signore. E, viceversa, chi era un uomo libero quando il Signore lo ha chiamato alla fede, è diventato ora uno schiavo di Cristo »(1Co 7,22).  Questa libertà interiore, stando alle parole di Paolo, è altresì indipendenza dal destino che sembrerebbe ‘possedere’ l’uomo. Ormai « tutto è vostro: il mondo, la morte, il presente e il futuro. Voi invece appartenete a Cristo e Cristo appartiene a Dio »(1Co 22-23). Chiaro il senso di queste espressioni: la libertà è un bene che scaturisce dalla constatazione che « voi – commenta l’apostolo – non appartenete più a voi stessi perché Dio vi ha fatti suoi riscattandovi a caro prezzo »(1Co 6,19-20).  Queste affermazioni si comprendono in relazione a quel gruppo di cristiani ‘pneumatici’  di Corinto che avevano inteso malamente il suo annuncio di ‘libertà’ per vivere a loro modo, facendo i propri comodi. Costoro partivano da una falsa teologia della resurrezione che ignorava la croce, fraintendevano il senso dell »escatologia in atto’ come se fossero già perfetti e proclamavano la libertà di coscienza come bene addirittura superiore alla carità verso i più ‘deboli’. Sentendosi ormai risuscitati con Cristo (cf Ef 2,6; Col 2,12-13) attraverso il battesimo, essi nutrivano l’idea di essere cittadini del cielo, non più vincolati alle ‘leggi’ della terra. E’ chiaro che questo  sentire aveva riverberi concreti.  L’apostolo non contesta l’affermazione di principio che costoro usavano e che egli riporta tre volte: « Posso fare tutto quel che voglio »(1Co 6,12; 10,23). « E’ vero » – soggiunge Paolo -  eppure egli sottopone il concetto gnostico di libertà ad una griglia di interrogativi che ne mettono a nudo i fondamenti :   1. l’uso della libertà è sempre finalizzato al bene ? (cf 1Co 6,12a)   2. è libertà lasciarsi vincere dall’impulso del momento ? (cf 1Co 6,12b)   3. è sempre utile l’esercizio della libertà ? (cf 1Co 10,23a)   4. serve al bene della comunità ? (cf 1Co 10,23b).  Con questa serie di impliciti interrogativi Paolo stabilisce una norma tipicamente cristiana: « quando la libertà e l’amore entrano in conflitto, è la libertà che deve cedere il passo all’affermazione dell’amore. La libertà ad ogni costo può essere segno di immaturità e di infantilismo, mentre l’amore è sempre segno di vita adulta e responsabile » . Occorre sottolineare che Paolo, nel trattare questi temi concernenti la morale dei suoi lettori,  non ha fatto uso del suo potere di apostolo (??o????) . Piuttosto « rimprovera, consiglia, ordina, ma sempre portando ragioni per persuadere, come si fa con gli uomini adulti, mai imponendo semplicemente il suo parere. Bisogna raggiungere la maturità con l’uso stesso della libertà, correndo il rischio di commettere errori » . E dunque « dinanzi alla libertà pericolosa dei Corinti, egli non la limita dando norme, ma la educa facendo emergere con la sua argomentazione il senso di responsabilità per gli altri » . A questo proposito – ma anche per giustificare il suo operato da accuse che proprio a Corinto gli si muovevano – Paolo propone il suo esempio. « Non sono libero io ? Non sono forse apostolo ?…Io sono libero. Non sono schiavo di nessuno. Tuttavia mi sono fatto schiavo di tutti, per portare a Cristo il più gran numero possibile di persone »(1Co 9,1.19). La libertà della quale egli aveva usato era quella di farsi « schiavo di tutti »(1Co 9,19) : una libertà dell’amore .  E’ ancora questo tipo di libertà che l’apostolo proclama a quei Corinti i quali mangiavano carne immolata agli idoli scandalizzando i deboli (« Qualcuno mi obietterà: ‘Ma perché la coscienza di un altro deve limitare la mia libertà ?’ » 1Co 10,29). Secondo l’apostolo, la libertà deve piegarsi al rispetto della coscienza altrui, anche se ‘debole’. E anche qui l’apostolo può richiamarsi al principio che regola i suoi atti e che traluce dalla sua vita: la ricerca del bene altrui (« Comportatevi come me, che in ogni cosa cerco di piacere a tutti. Non cerco il mio bene personale, ma quello di tutti, perché tutti siano salvati » 1Co 10,33).   E’ certo significativo che negli scritti neotestamentari successivi a Paolo gli accenni alla libertà cristiana siano pressoché scomparsi. Soltanto in Gc 1,25.2,12 ed in 1Pt 2,16 vi si fa riferimento. Sembra ridotto l’entusiasmo che animava le prime comunità le quali devono ora confrontarsi con problemi che non potevano che ridimensionare il concetto di libertà. Come scrive E. Käsemann « la libertà non è più la corrente impetuosa che trascina l’intera vita sia del singolo credente che della chiesa, ma è uno dei molti ruscelli cui la comunità si abbevera per il suo ammaestramento » .  Ad un siffatto mutamento hanno concorso diverse cause: il bisogno di stabilità e l’emergere di un sistema patriarcale, lo sfumarsi del sentire escatologico, l’affermarsi dell’episcopato e la conseguente istituzionalizzazione dei carismi, e – non da ultimo – le eresie, gli scismi, ovvero tutti  gli sbagli umani che portavano ad essere guardinghi.  In questa temperie di circostanze la libertà cristiana non è stata soppressa ma comprensibilmente « posta sotto controllo ed in un certo senso anche incanalata » .  Eppure l’esperienza di Gesù e del suo apostolo è sempre lì ad indicarci qual è il cammino da percorrere e il mondo sta ancora e sempre attendendo la rivelazione « della gloriosa libertà dei figli di Dio » (Rom 8,21), ossia la nostra testimonianza identitaria di cristiani che si oppongono alla pressione sociale ed alle regole occulte imposte dall’individualismo e dalla mercificazione globale che stanno minando la libertà.  Paolo ci ricorda che possiamo essere liberi da e liberi di, se anzitutto siamo liberi in Cristo.  Come ha scritto anni fa l’esegeta tedesco Ernst Käsemann: » Nulla di più noi dobbiamo dargli (al mondo) e gli rifiutiamo l’evangelo se non schiudiamo ai suoi occhi questa libertà, non come un’utopia, ma come chiamata e dono di Gesù » .

 

L’OBLIO DI PAOLO NEI PRIMI SECOLI

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L’OBLIO DI PAOLO NEI PRIMI SECOLI 

 Frainteso e respinto specie da giudeocristiani 
  
L’Apostolo delle genti, proprio perché si rivolse ai gentili e abbandonò la legge di Mosè, fu in vita attaccato violentemente e poi dimenticato, soprattutto dai cristiani provenienti dal giudaismo. Il relativo silenzio circa i suoi scritti presso alcuni autori della prima ora dipende anche dall’uso fatto della sua dottrina in ambienti gnostici. Differenze poi superate.                                     
         
Autore: Claudio Gianotto  
(Docente di storia del cristianesimo antico presso l’Università di Torino)
  
Tratto da: Vita Pastorale del 01/01/2006
 

Paolo dovette fronteggiare già durante la sua vita serie difficoltà, sia in riferimento alla sua rivendicazione di un’autorità apostolica, sia a proposito dei contenuti dell’Evangelo che annunciava (cf Gal 1). Analoghe difficoltà incontrò, dopo la sua morte, la ricezione dei suoi scritti; per tutto il secolo II, infatti, si registra, accanto a violente contestazioni del personaggio e della sua teologia, un rifiuto, o quantomeno un oblio, dei suoi scritti, che resta difficile da spiegare.
 
DATI GNOSTICI
 Una delle ipotesi cui volentieri si fa ricorso nel tentativo di trovare una motivazione per questo imbarazzante silenzio è suggerita da Tertulliano, il quale definisce Paolo come «haereticorum apostolus» (Adv. Marc. III, 5, 4). Sappiamo che, verso la metà del secolo II, Marcione, nel suo sforzo di identificare e fissare in modo preciso l’insegnamento di Gesù, operò una drastica selezione tra gli scritti attribuiti agli apostoli e destinati a far parte del Nuovo Testamento, accogliendo soltanto il vangelo di Luca (anche questo opportunamente epurato), alcune lettere di Paolo, ed escludendo tutto il resto.
 Sappiamo, inoltre, che Paolo godette di una certa fortuna presso i diversi gruppi gnostici del secolo II, che dimostrano di conoscerne gli scritti e li utilizzano nell’elaborazione delle loro complesse teologie. Questa situazione avrebbe condizionato gli altri autori cristiani, i quali, con il loro silenzio, manifesterebbero un atteggiamento, se non di vero e proprio rifiuto, almeno di sospetto nei confronti dell’Apostolo.
 Alla luce di un più attento esame delle fonti, questa ipotesi deve essere precisata e sfumata. In primo luogo, non si può dire che il silenzio su Paolo nei primi secoli sia generalizzato. Dimostrano di conoscere e di utilizzare le tradizioni paoline la Lettera ai Corinzi di Clemente di Roma; le lettere di Ignazio di Antiochia e di Policarpo di Smirne; la Lettera a Diogneto; l’Epistula apostolorum; gli Atti di Paolo e gli Atti di Pietro apocrifi. In molti scritti che tacciono di Paolo, il silenzio sembra potersi meglio spiegare sulla base di ragioni contingenti (problematiche affrontate, genere letterario utilizzato, ambiente d’origine, ecc.) piuttosto che in riferimento a un atteggiamento di sospetto o di consapevole rifiuto.
È questo, ad esempio, il caso della Didachè, che sceglie di affrontare il problema della legge nella prospettiva di Matteo piuttosto che in quella di Paolo; del Pastore di Erma, che, in forza della sua ispirazione profetica e della sua condizione di visionario, si rifiuta di richiamarsi a qualsiasi tradizione precedente; della Lettera dello Pseudo-Barnaba, il quale sviluppa la sua proposta di un’interpretazione non letterale, bensì allegorica e simbolica dei precetti della legge mosaica esclusivamente all’interno di un confronto con gli scritti dell’Antico Testamento; degli apologisti Giustino, Taziano, Atenagora, Teofilo, i quali in certa misura dimostrano di conoscere gli scritti di Paolo, benché non ne sviluppino le tematiche teologiche.
 Anche nel caso di autori come Papia di Gerapoli o Egesippo, la cui opera peraltro ci è giunta in modo solo frammentario, non si può parlare di un vero e proprio rifiuto di Paolo, ma piuttosto di scarso interesse per la forma di annuncio tipicamente paolina.
 
 DAI GIUDEOCRISTIANI
Un’aperta ostilità nei confronti di Paolo e un rifiuto radicale dei suoi scritti si registra invece, anche se in modo differenziato, negli ambienti giudeocristiani. Sappiamo che Paolo fu contestato, già durante il suo ministero pubblico, da esponenti e gruppi legati a Giacomo, fratello del Signore (cf Gal 2; At 15), i quali gli rimproveravano di insegnare «a tutti i giudei che sono tra i gentili ad allontanarsi da Mosè, dicendo loro di non far più circoncidere i loro figli e di non comportarsi più secondo i costumi tradizionali» (At 21,21). Il pericolo di un ritorno a un legalismo giudaizzante è segnalato negli ambienti legati alla missione di Paolo (cf Col 2, 16-19) e l’autore delle lettere pastorali si vede costretto a prendere posizione contro gente che viene dalla circoncisione (1Tm, 1,6-7; Tt 1,10).
 In alcuni casi, il perdurare del legame con il giudaismo produce atteggiamenti di esplicito rifiuto di Paolo, Ireneo, nella sua notizia sugli ebioniti, riferisce che costoro continuano a praticare la circoncisione e a vivere secondo gli usi e i costumi propri dei giudei, così come sono prescritti dalla legge; e inoltre attesta che «solo autem eo, quod est secundum Matthaeum, evangelio utuntur et apostolum Paulum recusant, apostatam eum legis dicentes» (Adversus haereses I, 26, 2). Accanto al gruppo degli ebioniti, Origene menziona anche gli elcasaiti come eretici che respingevano le lettere di Paolo. Epifanio, infine, spiega il rifiuto di Paolo da parte di questi gruppi facendo riferimento a due espressioni dell’Apostolo tratte da Gal 5,2.4.
 Ma l’opposizione più radicale a Paolo viene da un complesso di scritti noti sotto il nome di Pseudoclementine, in cui si sono raccolti, attraverso una lunga e complessa storia di trasmissione, materiali letterari di epoche diverse, i più antichi dei quali potrebbero risalire ai primi decenni del secolo III. La polemica contro Paolo e il paolinismo non vi è mai sviluppata in modo esplicito e aperto, ma più o meno velato. Il principale avversario che si oppone a Pietro e alla sua predicazione nelle Pseudoclementine è Simon Mago. Ora la descrizione di questo personaggio documentata da questo gruppo di scritti non trova rispondenza in nessuna delle presentazioni che la tradizione eresiologica ci ha lasciato di lui.
 Si tratta, quindi, con ogni verosimiglianza, di una costruzione letteraria che, utilizzando il testo di At 8,9-24 e le leggende su Simone diffuse in particolare in Siria e nelle regioni limitrofe, dà vita a un personaggio polivalente, dietro il quale si celano diversi obiettivi polemici, tra i quali i pensatori gnostici, Marcione e anche Paolo. A quest’ultimo allude Pietro quando, scrivendo a Giacomo, capo della Chiesa madre di Gerusalemme, gli segnala che alcuni gentili hanno respinto il suo insegnamento di fedeltà alla legge, preferendogli quello insensato dell’inimicus homo. (Ep. Petri 2, 3-4).
 Lo stesso epiteto riferito a Paolo ritorna in un passo dove si racconta del tentativo messo in atto da parte di Giacomo per convertire la gente di Gerusalemme, insieme con i sacerdoti del tempio, e indurli a farsi battezzare nel nome di Gesù; operazione che non riesce unicamente per l’intervento violento dell’inimicus homo, il quale arringa la folla, suscitando odio e risentimento nei confronti dei seguaci di Gesù e arriva addirittura ad alzare le mani su Giacomo, che viene scaraventato giù dalla scalinata del Tempio e quasi ne muore (Rec. I, 70-71).
 In questi ambienti giudeocristiani, la diffidenza e anche l’opposizione esplicita nei confronti del personaggio di Paolo e della sua teologia erano motivate dal fatto che l’Apostolo, identificando in Gesù Cristo il mediatore esclusivo della salvezza, metteva in discussione la validità e soprattutto la funzione salvifica della legge mosaica, nella quale essi continuavano a riconoscersi. I gruppi giudeocristiani sopravvivranno per diversi secoli soprattutto nelle regioni orientali dell’impero romano, ma saranno sempre più marginalizzati.
 In ogni caso, a partire dalla fine del secolo II, con Ireneo di Lione, l’eredità paolina, superate le diffidenze e le esitazioni, entrerà pienamente a far parte del patrimonio dottrinale della grande Chiesa.

“ORA ET LABORA”: MOTTO PAOLINO

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“ORA ET LABORA”: MOTTO PAOLINO.

Il motto “ora et labora” ormai viene attribuito, anche nei discorsi ufficiali degli ultimi Sommi Pontefici, a san Benedetto.
Leggendo, però, la sua Regola non troviamo mai il motto in questione, né l’accostamento immediato tra preghiera e lavoro.
Storicamente, dobbiamo risalire indietro nel tempo e andare agli inizi stessi del monachesimo, per trovare nella biografia di sant’Antonio Abate, scritta da sant’Atanasio, la vera origine di questo binomio.
Nella Vita di Antonio è narrato l’episodio nel quale un Angelo, alternando preghiera e lavoro, consegna al grande Anacoreta e al monachesimo cristiano “la Regola” che supera l’apparente contraddizione tra il comando divino: «Mangerai il tuo pane solo dopo avertelo sudato con un duro lavoro» (Gen 3,19), e l’invito di Gesù a «pregare sempre, senza stancarci» (Lc 18,1).
Prima di Antonio, l’apostolo Paolo aveva già risolto questo dilemma, scrivendo ai suoi discepoli di Tessalonica motivato dal fatto che alcuni di essi avevano stravolto, in modo strumentale, il suo invito a «pregare ininterrottamente» (1Ts 5,17) e, con questa scusa, «vivevano disordinatamente, senza far nulla», pretendendo di essere mantenuti dalla Comunità.
L’Apostolo si ribella a tale interpretazione, ed «esorta tutti nel Signore Gesù Cristo, a mangiare il pane, lavorando in pace» (2Ts 3,11-12).
San Paolo dichiara che questa è la “Regola” che lui ha consegnato ai suoi discepoli, insieme al “suo vangelo”. Tutti devono osservarla, perché, conclude in modo perentorio: «Chi non vuole lavorare, non dovrebbe neanche mangiare» (3,10).
Dell’osservanza di questa “Regola” e di come l’Apostolo, prima di proporla agli altri, l’abbia lui stesso vissuta, ci parla Luca negli Atti degli Apostoli, quando ci ricorda che Paolo, a Corinto, prese alloggio nella casa di Aquila e Priscilla «dove lavorava insieme a loro, perché faceva lo stesso mestiere di fabbricante di tende» (At 18,3); perciò, nel discorso d’addio agli Anziani di Efeso, egli può dire di se stesso, senza falsa umiltà: «Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere!» (At 20,34-35).
Forse san Benedetto si è ispirato a questi testi paolini quando, nell’eventualità che i monaci «si occupino personalmente della raccolta dei prodotti agricoli», li invita a non lamentarsi, anzi a vedere in ciò un dono della divina Provvidenza, «perché i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle proprie mani come i nostri Padri e gli Apostoli» (RB, 48,7-8).
E, a proposito dei “Padri” (monastici) a cui ci rimanda il fondatore di Montecassino: nei “Detti dei Padri del deserto” ce n’è uno attribuito all’abate Lucio, dove si smonta, con sottile ironia, l’eresia monastica dei messaliani, i quali presumevano di poter attuare alla lettera il comando paolino di «pregare senza interruzione».
Il saggio Anziano non interrompendo neppure per la mensa la preghiera dei suoi ospiti – che di questo si lamentarono con lui – fece loro capire come il lavoro manuale, accettato per il proprio mantenimento e per poter aiutare i poveri, permetta al monaco d’imitare l’Apostolo e lo stesso Signore Gesù, che a Nazaret, fino all’età di trent’anni, così visse.
Il monaco che sa unire la preghiera al lavoro, arriva, di fatto, alla “preghiera ininterrotta”, perché con l’elemosina, frutto del suo stesso lavoro, egli troverà dei poveri che, per riconoscenza, pregheranno per lui quando egli, fisicamente, non potrà farlo. Il “detto” sembra la riproposizione letterale di ciò che disse Paolo agli Anziani di Efeso.
Anche in questo caso potremmo constatare come “ci sia più gioia nel dare (ai poveri il frutto del proprio lavoro), che nel ricevere (da Dio ciò che gli chiediamo con la nostra povera preghiera)”.

Possiamo, dunque, dire che il motto “ora et labora” più che benedettino è paolino.
Dall’Apostolo, infatti, impariamo a vivere bene i due momenti, non come contrapposti, ma come complementari l’uno all’altro.
Non a caso la «continua agitazione» (1Ts 3,12) che egli rimprovera agli oranti “fannulloni” di Tessalonica, Gesù ha cercato di correggerla nell’ospitale e “laboriosa” sua amica, Marta (Lc 10,41).
Con questi insegnamenti, noi dovremmo vivere senza agitazione, perciò con «con tranquillità» (2Ts 3,12), sia il momento della “preghiera” (che ha la giusta priorità nella RB, in quanto riguarda il nostro rapporto interpersonale con Dio), e sia il tempo del “lavoro” (anch’esso necessario perché è attuazione pratica dell’amore verso il prossimo).
È significativo che in greco san Paolo ci chieda di lavorare «µet? ?s???a?» (2Ts 3,12); una parola: l’esichia, che nell’Oriente cristiano indica “la preghiera del cuore” e la pace interiore che da essa proviene. Dunque:“Ora et labora” ma sempre con esichia.

San Paolo nella letteratura moderna

PAOLO ESALTATO E CONTESTATO
(presentazione mia dello studio, non sapevo quanta letteratura anche « contro » Paolo!)

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=123985

San Paolo nella letteratura moderna

Attenta com’è all’ascolto delle voci profonde, la letteratura non può non ascoltare quella di san Paolo. Dai primi secoli del cristianesimo ai nostri giorni, poeti, romanzieri e letterati gli si sono accostati, lo hanno ascoltato, interpellato, esaltato, contestato…
L’articolo è una carrellata, agile e sintetica, ma sintomatica, sulla letteratura moderna — saggistica, narrativa, opere drammatiche, biografie — per rintracciare e presentare i vari atteggiamenti assunti nei riguardi di san Paolo. La carrellata prende l’avvio da Nietzsche e inquadra autori di diverse estrazioni: Gibran, Gide, Merejkowski, Papini, I. Giordani, Luzi, Citati, Taylor Caldwell, Dobraczynski, Mészoly, G. Manacorda, Fabbri, Pasolini, E. Baumann, Daniel-Rops. Le varie inquadrature mostrano l’interesse della letteratura per una personalità così densa di storia, di pensiero, di anima e di mistero come quella dell’apostolo Paolo. Il suo posto fu tale che non possiamo comprendere Gesù e la sua Parola senza riferirci al messaggio e all’azione del genio di Tarso.
Attenta com’è all’ascolto delle voci profonde, la letteratura non può non ascoltare quella di san Paolo. Dai primi secoli del cristianesimo ai nostri giorni, poeti, romanzieri e letterati gli si sono accostati, lo hanno ascoltato, interpellato, esaltato, contestato. L’articolo analizza l’incontro di 17 autori moderni con san Paolo. La carrellata, agile e sintetica, ma sintomatica, vuole presentare i vari atteggiamenti della letteratura nei riguardi dell’Apostolo, percorrendo saggistica, narrativa, opere drammatiche e biografie, oltre che il film mancato di Pasolini.
 
San Paolo nella saggistica
In Ecce homo Nietzsche (1844-1900) si è autodefinito: «Io non sono un uomo, sono dinamite» (1). Dinamite perché, novello messia, avrebbe scosso dalle fondamenta il vecchio mondo per costruirne uno nuovo. A frantumarsi per primo sarebbe stato il cristianesimo, fondato non da Gesù ma da Paolo di Tarso. Contro di lui egli si scaglia con violenza e disgusto, soprattutto nel capitolo 42 dell’Anticristo. «In Paolo — scrive — s’incarna il tipo opposto al “buon nunzio”, il genio in fatto di odio, di inesorabile logica dell’odio! Che cosa non ha sacrificato all’odio questo disangelista?» (2). Innanzitutto ha sacrificato Gesù: «Lo ha inchiodato alla sua croce». Paolo ha cancellato quanto non serviva al suo odio. Non gli serviva «il significato e il diritto dell’intero Vangelo», ma la sua contraffazione; «Non la realtà, non la verità storica [...]. E ancora una volta l’istinto sacerdotale degli Ebrei commise un identico, grande crimine contro la storia [...], si inventò una storia del primo cristianesimo». Non soltanto: falsificò la storia d’Israele, asservendo tutto ai suoi scopi.
La menzogna più deleteria di Paolo riguarderebbe la risurrezione di Gesù. A lui non serviva un redentore morto in croce, serviva un redentore risorto. «Paolo voleva il fine, quindi volle anche i mezzi [...]. Ciò che egli stesso non credeva, credettero gli idioti, tra i quali aveva diffuso la sua dottrina. — La potenza era il suo bisogno: con Paolo ancora una volta il prete mirò alla potenza — egli poteva utilizzare soltanto idee, teorie, simboli, con cui si tiranneggiano masse, si formano greggi». A tale scopo serviva soprattutto la credenza nell’immortalità, vale a dire la dottrina del “giudizio”». È doveroso pertanto definire Paolo uno spaventoso impostore, negatore della vita, nemico dell’umanità. Se il cristianesimo «è stato la più grande sciagura dell’umanità» lo si deve a Paolo di Tarso.
Sulla scia di Nietzsche si è avventurato anche Kahlil Gibran (1883-1931) in Gesù figlio dell’uomo (3). La presentazione di san Paolo ha un sapore selvatico: «A volte sembra quasi un animale nella foresta, braccato, ferito, in cerca di un antro dove celare al mondo la sua sofferenza» (p. 57). «Uomo strano», dai lineamenti disarmonici; quando parla non riferisce le parole di Gesù, ma predica il Messia annunciato dai profeti dell’antichità. È un giudeo colto, gode di «poteri nascosti», è capace di ammaliare l’uditorio. Si potrebbe definire un anticristo perché la sua dottrina è antitetica a quella di Gesù. Un personaggio che ha ascoltato entrambi così afferma: «Noi che conoscemmo Gesù e udimmo i suoi discorsi possiamo affermare che ci insegnava a rompere le catene della schiavitù per liberarci dal nostro ieri. Ma Paolo sta forgiando catene per l’uomo di domani. Col suo martello intende percuotere l’incudine nel nome di uno che neppure conosce» (p. 57). L’antitesi Gesù-Paolo continua spietata e approda alla seguente conclusione: Gesù vuole armonizzare l’umanità con quanto la natura ha di bello e di vivo, è portatore di gioia terrestre, liberatore da leggi e tradizioni, pura espressione del divino che è in noi; Paolo è nemico della vita e della gioia, schiavo di leggi e prescrizioni, annunziatore di un Gesù-Messia da lui pensato per compensare le proprie frustrazioni. Come il Gesù di Gibran è espressione poetica del suo romanticismo, così il suo Saulo di Tarso rivela l’insofferenza per quanto sa di Chiesa, cioè di dogmatico e di proibito.
Meno chiassosa ma più sottile e insidiosa delle precedenti è l’accusa che André Gide (1869-1951) ha formulato nei riguardi di san Paolo. Il perché va ricercato in uno degli aspetti portanti della sua opera. Scrive nei Nuovi nutrimenti: «Ho ammirato, non ho finito di ammirare, nel Vangelo, un sovrumano sforzo verso la gioia. La prima parola che ci è riferita del Cristo è “Beati…”. Il suo primo miracolo, la metamorfosi dell’acqua in vino [...]. C’è voluta la stolta interpretazione degli uomini, per fondare sul Vangelo un culto, una santificazione della tristezza e della pena» (4). Autore di questa stoltezza interpretativa è soprattutto san Paolo; la teologia della croce, recepita dalla Chiesa e presentata come verità rivelata, è sua invenzione. Spiegare questo tradimento del Vangelo («Anche il Vangelo secondo Marco, il più antico, avrebbe già subito l’influsso di Paolo») «è di suprema importanza». In merito, il testo gidiano più esplicito si trova nel Diario. Lo sintetizziamo.
Agli occhi del mondo la vita di Gesù è stata un fallimento. In realtà, Cristo, recandosi a Gerusalemme con gli Apostoli, pensava di andare verso il trionfo, non verso la morte in croce. Bisognava pertanto fornire una giustificazione della croce e dimostrare che la fine ignominiosa era stata prevista, dunque necessaria al compimento delle Scritture e alla salvezza degli uomini. Per questo motivo l’espressione «morto a causa dei peccatori» fu sostituita con l’altra: «morto per i peccatori». La sfumatura risultò «una felice confusione in favore della predicazione di san Paolo. Il Cristo non fu più veduto che sulla croce, e questa divenne il simbolo indispensabile. Era necessario gloriarsi soprattutto del segno dell’ignominia: solo così poteva apparire, ad onta di tutto, trionfatrice l’opera di colui che si era detto figlio di Dio. Ciò era indispensabile all’inizio per legittimare e propagare la dottrina» (5).
Gide ristabilisce la verità. La croce è una contraffazione del Vangelo; Cristo ha predicato la santità dei «nutrimenti terrestri» e degli istinti naturali; la «vita eterna», da lui proposta, non ha nulla di futuro, è l’immersione nell’«ebbrezza mistica» dei sensi che dà l’esperienza dell’éternité vécue dès maintenant. I divieti, le condanne e le minacce si cercano invano nel Vangelo: Tout cela n’est que de Saint Paul. Divenuta «padrona degli spiriti e dei cuori», la dottrina paolina ha reso impossibile il recupero della gioia evangelica: «La croce aveva trionfato del Cristo stesso, il Cristo crocifisso, questo si continuava a vedere, a insegnare. Ed è così che questa religione pervenne a oscurare il mondo (enténébrer le monde)» (6). La battuta è di sapore nietzschiano, ma Gide non vuole offendere Cristo: l’«oscuramento del mondo» si deve alla «follia della croce», escogitata dagli animi malati degli Apostoli e soprattutto da san Paolo.
«Riusciamo a scorgere il volto di Paolo, ma il suo cuore ci resta celato» (7). Così inizia la presentazione di Paolo lo scrittore russo Dimitri Merejkowski (1865-1941) nel volume Tre santi in cui, analizzando l’esperienza religiosa di Paolo, Agostino e Francesco d’Assisi, presenta la sua concezione cristiana. Di Paolo è un estimatore convinto. Lo ha frequentato leggendo le sue Lettere e gli Atti degli Apostoli, ha interrogato i suoi esegeti e i suoi storici, ne ha avvertito la presenza nel proprio spirito. Conseguenza? Un sentimento di stupore e di smarrimento perché nell’Apostolo egli ha avvertito la presenza di una realtà sconcertante: la santità. Con Paolo «s’inizia una via lungo la quale, simili a segni misteriosi o a segnali di fuoco, sorgono mille altri santi» (p. 12). Il mistero della santità ci resta sconosciuto.
Osservando il volto dell’Apostolo, Merejkowski riesce a cogliere il segreto del suo cuore: l’amore. «Nessuno, dopo Cristo, ha mai amato più di Paolo gli uomini di maggiore amore. Ecco dove si deve ricercare e dove si trova il segreto della vittoria di Paolo, che ha vinto il mondo» (p. 41). Tale amore è, in lui, fusione della sua volontà con quella del Salvatore; in essa «sta il mistero della Predestinazione, la gioia di tutte le gioie» (p. 31). Alla forza dell’amore si accompagna, in Paolo, la passione per la libertà. È «il più libero degli uomini» perché «sempre prigioniero dello Spirito» (p. 70). Questi due elementi hanno fatto di lui — come del resto anche di Gesù — un ribelle e un perturbatore: «Il primo ribelle è Gesù, il secondo Paolo» (p. 72), «il primo tra tutti i perturbatori è Gesù, il secondo è Paolo» (p. 85).
 Uno degli aspetti più significativi di san Paolo è, a parere di Merejkowski, il suo contrasto con Pietro: contrasto da lui enfatizzato fino alla contraffazione, allo scopo di far credere che «la Chiesa non proviene da Cristo» (p. 220). Pietro e la Chiesa sarebbero la legge, la schiavitù, la religiosità statica; Paolo il propulsore di una religiosità dinamica, ispirata allo spirito di libertà. «L’eterna opposizione, l’antinomia tra la legge e la libertà, lacera il cuore di Paolo e lacera il cuore di tutta la Chiesa» (p. 63). Il cristianesimo di Paolo è più genuino di quello della Chiesa perché «appreso da Cristo stesso, suo unico Maestro» (p. 45).
Questo atteggiamento anticattolico dello Scrittore russo gli deriva non soltanto dalla sua dipendenza da studiosi razionalisti e positivisti, ma soprattutto dal fatto che egli «trasfonde nella maggioranza dei suoi scritti la sua strana filosofia della religione, affettatamente profonda, ma in realtà superficiale e isterica» (8). A ciò si deve se il volto del suo san Paolo ha taluni tratti gradevoli e convincenti, altri ambigui e inaccettabili.
Di san Paolo Giovanni Papini (1881-1956) è un cultore entusiasta. Lo cita con frequenza, ne ammira la dedizione, l’energia, la passione. Nel volume Santi e poeti (9) ricerca «quel che di romano vi fu nel suo pensiero e nella sua opera»; nello stesso tempo delinea i tratti specifici della sua personalità. Partendo dall’assioma che «ogni genio ha più d’una patria», all’Apostolo assegna la Giudea come patria etnica, la Cilicia come patria carnale, Roma come patria per diritto e per desiderio.
Alla domanda: quali sono gli elementi che permettono di considerare «romani» il pensiero e l’opera di san Paolo, Papini così risponde: «L’aspirazione all’unità del genere umano, sotto una sola legge e un solo dominatore, la tendenza alla conquista dei popoli, il riconoscimento dell’autorità terrestre ai fini della giustizia e del bene, la diffidenza verso le speculazioni filosofiche che non esclude l’uso della ragione come ausiliaria per la ricerca della verità sono i punti nei quali la prassi di Roma e l’anima di Paolo si accordano» (p. 50). Naturalmente — nota lo scrittore — l’opera di Paolo fu la trasposizione a un ordine indicibilmente più elevato — spirituale e mistico invece che temporale e civico — degli elementi «romani» sopra accennati. Ma ciò non impedisce di scorgere quelle analogie e concordanze che permettono di considerare Paolo «non soltanto cittadino ma santo romano».
Igino Giordani (1894-1980), saggista e narratore, oltre a un’agile biografia di san Paolo (Paolo, apostolo martire, 1929), ha scritto su di lui un profilo preciso ed entusiasta in cui sintetizza gli aspetti che maggiormente lo caratterizzano. «C’è in lui — scrive — il genio del conquistatore, per cui ricorda Alessandro ai greci e Cesare ai romani; c’era nella sua speculazione una profondità che ricordava Platone; e c’era nel suo tratto una tenerezza e una fantasia innamorata, che l’avvicinavano a Virgilio. Ma le loro qualità le fondeva in una sintesi, la quale traeva luce e faceva da candelabro a sette braccia a una fede soprannaturale unica» (10).
 In un primo tempo, influenzato da Gide e da certa letteratura nordica, Mario Luzi (1914-2005) confessa di aver visto san Paolo «con occhi distorti», considerandolo «una sorte di custode, autoritario e severo, dell’ortodossia». In seguito ha capito che questo aspetto talvolta c’è, ma in un contesto particolare. San Paolo è tutt’altro: «È una figura mirabile per l’empito e il titanismo, in un certo modo, che egli sprigiona. Veramente quando leggi le sue Lettere ti accorgi della sua estrema consapevolezza e della sua centralità: su di lui grava la decisione di un grande evento, che può finire nel nulla oppure divampare a segnacolo mondiale» (11). Luzi lo ama e lo ammira perché vede in lui «un uomo di grande umanità e di fraternità», consapevole di inaugurare una nuova èra, sovvertendo un modo di vivere e di pensare.
L’elemento che maggiormente colpisce Luzi è il «fuoco di profezia» che fa vibrare l’anima dell’Apostolo. «Mentre parla per istruire gli adepti delle comunità si illumina egli stesso di nuovo sapere, è abbagliato e scosso dalla forza di ciò che sul momento gli si presenta come nuovo argomento di rivelazione. Non cessa dunque di essere in atto profeta neppure quando amministra o governa: e si deve a questa esuberanza di profezia se egli può assumere vertiginosamente sopra di sé l’autorità esclusiva di dettare e di interpretare il vero Vangelo» (p. 156 s). Tale «fuoco di profezia» si sprigiona «da alcune rocciose certezze» che lo alimentano e conferiscono alla sua parola energia e novità. «È il primo a far sentire la fede come sublime non-senso», follia e scandalo. «Paolo esaspera ed enfatizza questa differenza per aumentare lo scandalo della rottura, per mettere in chiaro una volta per sempre la natura sconvolgente della fede» (p. 16). Centro della fede è Gesù Cristo, il Vivente, il Risorto. «Il nucleo della sua [di Paolo] forza sta nell’assunzione totale ed esclusiva del Cristo Gesù come termine di ogni verità e di ogni giudizio» (p. 161). Paolo emerge dal «caos dell’errore e dell’inquieta aspettativa degli uomini per dare un senso alla speranza» (p. 163).
Pietro Citati (1930) in un capitolo del volume La luce della notte (12) immagina che un oscuro letterato platonico, vissuto tra la fine del primo e l’inizio del secondo secolo d. C., legga la prima Lettera ai Corinzi e la Lettera ai Romani e ne resti sconvolto. «Aveva un’altissima immagine di Dio: come di un Essere purissimo e invisibile, senza forma e colore, completamente diverso dall’uomo, e sempre uguale a se stesso». Le Lettere di Paolo capovolgono questa sua immagine, soprattutto le affermazioni: che Dio si era fatto uomo e amava l’uomo di carne; che Dio si manifesta nella storia degli uomini come scandalo, follia e stoltezza; che il male non sta nella creazione, fuori di noi, ma nel nostro animo. Paolo inoltre derideva ogni sapienza umana e respingeva quanto era stato affermato su Dio, sull’uomo, sul tempo, sul futuro, sull’amore.
Che cosa conclude Citati? «Malgrado tanto tempo trascorso, e tante migrazioni e fusioni, malgrado la furia di Paolo si sia ammorbidita e il suo stile abbia trovato una forma, il cristianesimo è ancora lo scandalo: la follia della croce, la ferita di Dio, la lacerazione dell’universo. Il contrasto non è conciliato: né forse può esserlo mai. A noi spetta soltanto di conservarlo puro nella nostra mente: di percorrere entrambe le strade sino all’estremo, senza attendere una soluzione» (p. 107). In verità, «dentro di noi c’è un platonico che commenta Paolo; e un cristiano paolino che commenta Platone» (ivi).
 
San Paolo nella narrativa
A san Paolo la scrittrice anglo-americana Taylor Caldwell (1900-85) ha dedicato un fluviale romanzo — Il leone di Dio (13) — dopo «uno studio approfondito durato diversi anni». È da crederle perché, a lettura finita, bisogna riconoscerle larghe conoscenze dell’ambiente geografico, storico, etnico, politico, religioso. Carente è invece la preparazione biblica e la personale sensibilità religiosa nel trattare episodi e documenti.
 
Nell’Apostolo l’Autrice ha «voluto vedere l’uomo così come egli era, un uomo simile a noi, con gli stessi dolori, dubbi, ansie e collere, e intolleranze, e “debolezze della carne” che affliggono noi tutti» (p. 12). Aveva un geloso e tenace attaccamento alla corrente dei farisei, un’intelligenza acuta, ma intollerante e polemica, una psicologia alterata: era osservante scrupoloso della Legge, dominato da un timore di Dio fino all’ossessione e talvolta alla disperazione; soprattutto era un uomo dominato dal confuso presentimento di una grande missione da compiere senza sapere né come né dove.
Le prime due parti del romanzo si leggono con gusto e interesse, data la capacità dell’Autrice di costruire la figura del protagonista con una straordinaria forza di lineamenti, in una prosa piacevole e duttile. Nell’ultima parte — la terza — il romanzo perde mordente: ci si sofferma su descrizioni, belle ma superflue, la fantasia corre senza controllo, la figura di san Paolo sbiadisce e perde di autenticità. Il leone di Dio è un romanzo per alcuni aspetti pregevole, per altri debole e mal sicuro.
Convincente per solidità di struttura e per validità letteraria è il romanzo La spada santa di Jan Dobraczynski (14), tra i più noti, fecondi e discussi scrittori polacchi del Novecento. La storia di san Paolo è il sottotitolo del romanzo. In esso l’elemento storico è solido, il fantastico è dilatazione della storia, suo completamento e spiegazione, l’insieme risulta armonico e compatto. Il romanzo si presenta come un mosaico sul quale è ritratta la storia della primitiva comunità cristiana. Grazie a un continuo flashback, il lettore si muove sull’itinerario di Paolo, ne rivive gli incontri, le peripezie, i dilemmi, ne approfondisce il messaggio, ne intuisce il mistero che in lui si compie.
Le idee di fondo del romanzo sono quattro. Innanzitutto, la presenza di Cristo nella vita dell’Apostolo. Essa conferisce significato al suo agire, chiarezza alle sue scelte, coraggio e fiducia alle sue imprese. In secondo luogo, la consapevolezza dell’universalità della redenzione. Idea, questa, che per un ebreo come Paolo, legato a Gerusalemme e al Tempio con tutte le fibre dell’essere, costituiva un continuo martirio. La terza idea è la novità cristiana che rivoluziona pratiche secolari e proclama il loro superamento. Infine, la consapevolezza della propria nullità. Dopo aver riferito alla comunità di Gerusalemme la diffusione del Vangelo in molte regioni pagane e perfino in città ritenute dissolute (Corinto), arroganti (Atene), «impestate da mostruose superstizioni» (Efeso), dichiara: «Non io le ho conquistate, fratelli, perché io sono una nullità, e quando arriva il momento di predicare, sto davanti alla gente, debole e spaventato, e non trovo le parole, e nella testa ho una grande confusione. Ma il Signore si compiace di mostrare la Sua potenza attraverso la mia miseria. Chi sono io? Mi conoscete. Ero un criminale, figlio dell’ira, che agiva male anche se non lo sapeva. Non conquisterei nessuno, se non fosse per il Signore. Il Signore è tutto» (p. 61).
Nel presentare san Paolo, Dobraczynski ne fa vedere anche l’attualità e l’urgenza: la pace e la giustizia non vanno ricercate con la spada ma con la comprensione e la fratellanza. Cioè con l’amore. E l’amore per il Risorto abbraccia e trasfigura ogni realtà: «Ma alla fine capii — afferma Paolo —. Capii che amare Gesù significa amare tutto e che in questo amore nulla perisce. Perché quando tutto sprofonderà in esso, in esso tutto si potrà ritrovare» (p. 272).
Miklós Mészöly (1921-2001), noto scrittore ungherese, nel romanzo Saulo (15) descrive l’antitesi tra il mondo intransigente della Legge, simboleggiato da Abiatar, amico di Saulo, e quello del nuovo Verbo, fondato sull’amore e sul perdono, simboleggiato da Stefano. Saulo è impegnato a fondo nella difesa della Legge e nel punire quanti la misconoscono. Un dialogo notturno con Stefano, prima che questi venga arrestato, gli rivela la superiorità di una legge fondata sull’amore e sulla libertà. Partecipa alla lapidazione di Stefano, ma si sente braccato da una misteriosa presenza che lo sospinge verso coloro che perseguita. Andando verso Damasco, calzando i sandali che Stefano gli ha lasciato in eredità, resta accecato. Dove lo condurrà la misteriosa presenza?
 
San Paolo in tre opere drammatiche
Guido Manacorda (1879-1965), letterato di vasta cultura, è autore di Paolo di Tarso (16), dramma sacro in tre atti e un intermezzo, costruito con intelligenza storica, denso di contenuto, un po’ debole nella struttura drammatica.
Il primo atto si svolge a Gerusalemme, nella spianata del Tempio, a pochi giorni dalla crocifissione di Gesù. In un incalzare di voci si distinguono quelle degli Apostoli, frastornati dagli eventi. Sulla scena interviene Saulo, osserva con disgusto la gente che acclama Barabba, dichiara il suo odio per i mercanti e i sacerdoti che tradiscono la Legge. Poi, rivolto a Giovanni, incalza: «Ma più di tutti odio voi, Nazareni, perché con le vostre parole di perdono e di pace snervate le ultime forze d’Israele, e volendo tutti fratelli, ci date in balia del nemico» (p. 29).
L’intermezzo ha come sfondo la strada per Damasco. Quando Saulo incontra la Samaritana, che crede in Gesù, e un pastore che a Betlemme ha visto il Bambino e ascoltato la voce degli angeli che lo hanno proclamato «Cristo, il Salvatore del mondo», furente, punta la spada contro di loro, ma una luce violenta lo abbatte. Lo sguardo velato, le braccia aperte, «Fratelli miei in Cristo, Signore nostro…» comincia a dire, ma vacilla, come sopraffatto, è sorretto e condotto a Damasco.
Il secondo atto si svolge nell’areopago di Atene. Paolo parla ai filosofi che lo ascoltano con interesse ma ne respingono le idee: «Manca di scuola!» e «quell’accento giudaico, che peccato!». Soltanto Dionigi e Damaride, povera peccatrice convertita, lo seguono. Nel terzo atto siamo a Roma, presso un coemeterium dove i cristiani si sono radunati per la santa Cena. Presiede Pietro, partecipano Paolo e Giovanni. Si legge il Libro, si canta, si prega, si consuma l’agape, ci si esorta alla fedeltà a Cristo, in un’atmosfera di gioia ma anche di ansia per il presentimento del martirio di Pietro e Paolo.
Nel dramma Manacorda ha inteso puntualizzare lo scontro tra l’ebraismo religioso del tempo, svuotato d’interiorità, e l’adorazione «in spirito e verità», chiesta da Gesù; tra la filosofia greca e la verità della Rivelazione. In particolare il dramma mette in risalto la rivoluzione dell’amore cristiano che non conosce barriere, illumina la vita, vince il peccato e la morte. Paolo si congeda con un invito alla gioia: «Pantote chairete… Siate sempre gioiosi».
Altre due opere drammatiche hanno san Paolo come protagonista. In Al Dio ignoto Diego Fabbri (1911-80) porta sulla scena un gruppo di attori, stanchi di finzioni e di parole vuote, e assetati di verità e di consistenza. È possibile credere nella risurrezione e sperare in un traguardo trascendente e appagante? Si ribellano all’eclissi di Dio e allo scetticismo, e si impegnano ad approfondire «il punto fondamentale» della fede cristiana, la risurrezione. Così decidono di riviverla per verificarne la veridicità. L’azione drammatica si fa viva e intensa per l’intervento dei vari testimoni e la disarmante semplicità dei testi evangelici. Dopo l’apparizione di Cristo sotto forma di luce, avanza verso il gruppo degli attori Paolo, fa un gesto di tacere, e rivolge un discorso esaltante. Sì, Cristo è realmente risorto, è apparso agli Apostoli, a molti fratelli ancora vivi, infine anche a lui. Dichiara che per testimoniare la risurrezione si affrontano persecuzioni di ogni genere, e conclude: «Non si soffre, fratelli miei, come abbiamo sofferto noi, non si è imprigionati e flagellati come è accaduto a noi, non si versa il proprio sangue per delle visioni: noi abbiamo avuto e abbiamo la certezza della risurrezione. La nostra è una moltitudine pacifica ma travolgente che ha per condottiero un Risorto» (17).
Paolo fra gli Ebrei di Franz Werfel (1890-1945) (18), più che un vero dramma, è una «leggenda drammatica», fondata su due tradizioni, al cui centro sta lo scontro tra il Rabbi Gamaliele e il suo discepolo Saulo di Tarso, convertito a Cristo. L’amato Rabbi si dichiara disposto a riconoscere in Gesù un Maestro giusto, ma non il Messia, come crede Saulo. Congedandosi da Gamaliele morente, Paolo ha la rivelazione del suo drammatico destino: «Andare, andare, perché Cristo è un cacciatore infaticabile».
 
Il film mancato di P. P. Pasolini
Nel «progetto per un film su san Paolo» (19) Pasolini intendeva mostrare l’attualità dell’Apostolo. Più chiaramente, intendeva trasportare l’intera vicenda di san Paolo ai nostri giorni, in modo che lo spettatore percepisse che «san Paolo è qui, oggi, tra noi e che lo è quasi fisicamente e materialmente. Che è alla nostra società che egli si rivolge; è la nostra società che egli piange e ama, minaccia e perdona, aggredisce e teneramente abbraccia». Conseguentemente l’itinerario paolino si sarebbe spostato dal bacino del Mediterraneo all’Atlantico; così al posto di Gerusalemme, Antiochia, Tarso, Atene, avremmo avuto Parigi, Roma, Londra, Monaco, New York, Barcellona, Napoli. La sostituzione delle località avrebbe comportato la sostituzione del conformismo del tempo di Paolo col conformismo contemporaneo, più precisamente con quello degli Anni Sessanta del Novecento. Vicende personali e difficoltà produttive impedirono la realizzazione del film; di esso abbiamo un abbozzo di sceneggiatura — San Paolo — che consente una conoscenza della concezione pasoliniana sull’apostolo Paolo.
L’idea portante del film fu espressa dallo stesso Pasolini in una lettera a don Emilio Cordero, che reca la data 9 giugno 1966: «Sono certo che sia lei che Don Lamera sarete, come si dice, choccati, da questo abbozzo. Infatti qui si narra la storia di due Paoli: il santo e il prete. E c’è una contraddizione, evidentemente, in questo; io sono tutto per il santo, mentre non sono certo molto tenero con il prete». Tale distinzione permette a Pasolini di identificare la Chiesa col potere, con una istituzione umana, con una necessità («L’istituzione della Chiesa è stata solamente una necessità», p. 56). Tale istituzione è opera diabolica, suggerita e raccontata da Luca, autore degli Atti degli Apostoli, «invaso dal Demonio» (p. 66); «in lui si è incarnato il mandante di Satana» (p. 49).
Paolo vive il dramma di un’anima scissa tra santità — che è libertà, interiorità, gioia — e sacerdozio, che è potere, schiavitù, moralismo. Pasolini insiste nella presentazione di un Paolo spiritualmente dilacerato perché privo di unità interiore. Nel salone di rappresentanza dell’ambasciata italiana «appare in veste di organizzatore, di ex-fariseo, duro, invasato, diplomatico, insomma non santo, ma prete» (p. 130). E il prete, in lui, è autoritario, «il suo volto spira forza, sicurezza, salute e, in qualche modo, una forma di violenza» (p. 140). Il «prete» arriva anche a pronunciare queste parole: «Il nostro è un movimento organizzato… Partito, Chiesa… chiamalo come vuoi [...]. Dobbiamo difendere questo futuro bene di tutti, accettando, sì, anche di essere diplomatici, abili, ufficiali. Accettando di tacere su cose che si dovrebbero dire, di non fare cose che si dovrebbero fare, di fare cose che non si dovrebbero fare» (p. 114).
L’anima del «santo» è soprattutto libertà. Dopo il battesimo, un misterioso sorriso illumina la sua «faccia distorta di fanatico, e dice a bassa voce, ma come si dicono le prime parole di un inno, guardandosi umilmente intorno: “Per la libertà Cristo ci ha liberati”» (p. 33). Libertà da quanto è istituzione, legalismo, convenienza, non importa se ciò comporta scandalo ed emarginazione. Infatti sarà emarginato e respinto sia dai fautori dell’organizzazione sia dagli intellettuali; trascorrerà i suoi giorni in balia di malanni, di rimorsi e di ossessioni che lo ridurranno a uno straccio. L’ultima inquadratura lo presenta «con la faccia del malato, del reietto, ben diverso dal grande organizzatore e teologo, potente e sicuro di sé, in una povera stanza di albergo, ispirato e doloroso», intento a scrivere la lettera di commiato a Timoteo: «Quanto a me, io sono già versato in libagione ed è giunto il momento che io debba sciogliere le vele. Ho combattuto il buon combattimento, ho terminato la corsa, ho mantenuto la fede» (p. 164).
In San Paolo Pasolini riferisce — trasfigurandoli poeticamente — vari episodi della vita dell’Apostolo e riporta correttamente molti suoi testi; tutto però avviene in un contesto «pasoliniano», abitato da complessi psicologici, da rimorsi mai sopiti, da arbitrarie riduzioni teologiche. Nell’Apostolo egli ha trasferito le proprie ossessioni e prospettive.
 
Due biografie
Emile Baumann (1868-1941), narratore dagli sfondi psicologici, talvolta aspri e audaci, è l’autore di una biografia di san Paolo, notevole per validità letteraria, storica e strutturale. Dopo aver percorso gli itinerari dell’Apostolo, ne ha raccontato la «sublime e terribile avventura» con il preciso scopo di «raggiungere l’anima». Grazie alla sua capacità di scavo psicologico, di resa letteraria, di fedeltà ai testi storici, raggiunge lo scopo e offre al lettore un’immagine viva di Paolo che definisce «una delle anime più ardenti di passione, che abbiano sconvolto la terra» (20).
Suggestiva e ben definita è la biografia dell’Apostolo scritta da Henri Daniel-Rops (1901-65), noto storico della Chiesa e robusto autore di romanzi. Nella sua ottica san Paolo «è un ebreo, figlio di una cittadina ellenistica e di un cittadino romano. Ciò vuol dire che egli partecipa di tre forme di civiltà, che egli è attraversato da tre correnti differenti» (21). Il tutto in lui si fonde, si nobilita e si trasfigura nella redenzione operata da Cristo. Sotto l’aspetto psicologico, Paolo «è un essere pieno di contrasti, esigente e tenero, violento e sensibile e, nello stesso tempo, energico e meditativo» (p. 89). In particolare «la potenza della sua personalità è una potenza d’amore; non è l’umanità intera, considerata astrattamente che egli ama e vuol condurre alla salvezza; è ogni uomo in quanto persona, poiché l’amore non conosce che persone» (p. 90 s).
In Paolo — nota Daniel-Rops — si trovano quelle note, intellettuali e spirituali, che fanno di lui «un essere senza pari», diciamo pure «un genio»: «la lunga pazienza, la solidità, l’accanimento nello sforzo [...], la conoscenza lucida dello scopo da raggiungere, l’energia paziente nel tendervi [...], lo spirito di entusiasmo, la fede» (p. 92 s). È anche un «grande scrittore [...] perché possiede il dono delle formule che colpiscono», di dare alle parole un senso nuovo «con ravvicinamenti abbaglianti». Possiede inoltre la potenza di evocazione, l’arte di condensare in brevi battute concetti profondi, la varietà di toni e di formule, il balzo poetico che gli consente voli sublimi «come un grande uccello al di sopra di abissi vertiginosi». Con felice intuizione, così lo Scrittore conclude l’argomento: «Se san Paolo è un grandissimo scrittore, è perché prima è un uomo, e poi uno scrittore» (p. 175).
Chi è san Paolo? «Vien detto di lui “che egli fu il primo dopo l’unico”; il suo posto fu tale che non possiamo comprendere Gesù e la sua Parola senza riferirci al santo genio di Tarso, al suo messaggio, alla sua azione» (p. 235).
«Assume sul suo cuore la passione del Dio eterno»
Paolo, come Gesù, segno di contraddizione: accolto e respinto, amato e odiato. Non ci si accosta a lui impunemente: la sua parola colpisce, rivela, interpella, esalta, inquieta. La sua visione dell’uomo e della storia riceve luce dall’Alto. Paul Claudel ne descrive alcuni tratti in solenni ritmi poetici: «Vedendo Dio, [Paolo] vede con Dio questo mondo ingrato e crudele, e assume sul suo cuore umano la passione del Dio eterno. / E poiché Dio non ha voce, egli è la voce che parla per lui. / [...] Egli va dove il vento lo porta, senza fine né sosta, da un capo all’altro del mondo, come un fuoco che il vento strappa e trascina oltre il mare! [...] E vedendo quei figli ciechi e quei popoli che muoiono senza battesimo, / piange, si torce le mani e chiede di essere anatema per essi» (22).
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1 F. NIETZSCHE, «Ecce homo», in Opere 1882-1895, Roma, Newton, 1993, 894.
10 I. GIORDANI, «San Paolo», in G. BARRA (ed.), Santi per oggi, Torino, Borla, 1955, 127.
11 M. LUZI, La porta del cielo, a cura di S. VERDINO, Casale Monferrato (Al), Piemme, 1997, 73.
12 Cfr P. CITATI, La luce della notte, Milano, Mondadori, 1996.
13 Cfr T. CALDWELL, Il leone di Dio, ivi, 1972.
14 Cfr J. DOBRACZYNSKI, La spada santa. La storia di san Paolo, Torino, Gribaudi, 2002.
15 Cfr M. MÉSZÖLY, Saulo, Roma, E/O, 2001.
16 Cfr G. MANACORDA, Paolo di Tarso, Firenze, Vallecchi, 1927.
17 D. FABBRI, Tutto il teatro, vol. II, Milano, Rusconi, 1984, 2.341.
18 Il dramma — Paulus unter den Juden (1926) — non è stato tradotto in italiano.
19 Cfr P. P. PASOLINI, San Paolo, Torino, Einaudi, 1977. Per una puntuale esegesi del testo pasoliniano cfr I. QUIRINO, Pasolini sulla strada di Paolo, Lungro (Cs), Marco, 1999.
2 ID., L’Anticristo, ivi, 797.
20 E. BAUMANN, San Paolo, Brescia, Gatti, 1952, 340.
21 H. DANIEL-ROPS, San Paolo, Alba (Cn), Ed. Paoline, 1952, 104. Il titolo originale è Saint Paul, conquérant du Christ.
22 P. CLAUDEL, Corona benignitatis anni Dei, Parigi, Gallimard, 1920, 169.
3 Cfr K. GIBRAN, Gesù figlio dell’uomo, Milano, SE, 1987.
4 A. GIDE, «I nuovi nutrimenti», in ID., I nutrimenti terrestri, Milano, Mondadori, 1948, 169.
5 ID., Diario, vol. III, Milano, Bompiani, 1954, 44.
6 Ivi.
7 D. MEREJKOWSKI, Tre santi: Paolo, Agostino, Francesco d’Assisi, Milano, Mondadori, 1936.
8 N. VON ARSENJEV, Die russische Literatur der Neuzeit und Gegenwart, Mainz, 1929, 360. Il testo è riportato da B. SCHULTZE, Pensatori russi di fronte a Cristo, voll. II e III, Firenze, Mazza, 1949, 57.
9 G. PAPINI, Santi e poeti, Firenze, Lef, 1948. 
 
Fonte: La Civiltà Cattolica 2008 III 475-488  quaderno 3798

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