Archive pour janvier, 2018

1Cor 2,5

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UDIENZA GENERALE – 8. Liturgia della Parola: I. Dialogo tra Dio e il suo popolo

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UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 31 gennaio 2018

La Santa Messa – 8. Liturgia della Parola: I. Dialogo tra Dio e il suo popolo

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Continuiamo oggi le catechesi sulla Santa Messa. Dopo esserci soffermati sui riti d’introduzione, consideriamo ora la Liturgia della Parola, che è una parte costitutiva perché ci raduniamo proprio per ascoltare quello che Dio ha fatto e intende ancora fare per noi. E’ un’esperienza che avviene “in diretta” e non per sentito dire, perché «quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura, Dio stesso parla al suo popolo e Cristo, presente nella parola, annunzia il Vangelo» (Ordinamento Generale del Messale Romano, 29; cfr Cost. Sacrosanctum Concilium, 7; 33). E quante volte, mentre viene letta la Parola di Dio, si commenta: “Guarda quello…, guarda quella…, guarda il cappello che ha portato quella: è ridicolo…”. E si cominciano a fare dei commenti. Non è vero? Si devono fare dei commenti mentre si legge la Parola di Dio? [rispondono: “No!”]. No, perché se tu fai delle chiacchiere con la gente non ascolti la Parola di Dio. Quando si legge la Parola di Dio nella Bibbia – la prima Lettura, la seconda, il Salmo responsoriale e il Vangelo – dobbiamo ascoltare, aprire il cuore, perché è Dio stesso che ci parla e non pensare ad altre cose o parlare di altre cose. Capito?… Vi spiegherò che cosa succede in questa Liturgia della Parola.
Le pagine della Bibbia cessano di essere uno scritto per diventare parola viva, pronunciata da Dio. È Dio che, tramite la persona che legge, ci parla e interpella noi che ascoltiamo con fede. Lo Spirito «che ha parlato per mezzo dei profeti» (Credo) e ha ispirato gli autori sacri, fa sì che «la parola di Dio operi davvero nei cuori ciò che fa risuonare negli orecchi» (Lezionario, Introd., 9). Ma per ascoltare la Parola di Dio bisogna avere anche il cuore aperto per ricevere le parole nel cuore. Dio parla e noi gli porgiamo ascolto, per poi mettere in pratica quanto abbiamo ascoltato. È molto importante ascoltare. Alcune volte forse non capiamo bene perché ci sono alcune letture un po’ difficili. Ma Dio ci parla lo stesso in un altro modo. [Bisogna stare] in silenzio e ascoltare la Parola di Dio. Non dimenticatevi di questo. Alla Messa, quando incominciano le letture, ascoltiamo la Parola di Dio.
Abbiamo bisogno di ascoltarlo! E’ infatti una questione di vita, come ben ricorda l’incisiva espressione che «non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). La vita che ci dà la Parola di Dio. In questo senso, parliamo della Liturgia della Parola come della “mensa” che il Signore imbandisce per alimentare la nostra vita spirituale. E’ una mensa abbondante quella della liturgia, che attinge largamente ai tesori della Bibbia (cfr SC, 51), sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, perché in essi è annunciato dalla Chiesa l’unico e identico mistero di Cristo (cfr Lezionario, Introd., 5). Pensiamo alla ricchezza delle letture bibliche offerte dai tre cicli domenicali che, alla luce dei Vangeli Sinottici, ci accompagnano nel corso dell’anno liturgico: una grande ricchezza. Desidero qui ricordare anche l’importanza del Salmo responsoriale, la cui funzione è di favorire la meditazione di quanto ascoltato nella lettura che lo precede. E’ bene che il Salmo sia valorizzato con il canto, almeno nel ritornello (cfr OGMR, 61; Lezionario, Introd., 19-22).
La proclamazione liturgica delle medesime letture, con i canti desunti dalla Sacra Scrittura, esprime e favorisce la comunione ecclesiale, accompagnando il cammino di tutti e di ciascuno. Si capisce pertanto perché alcune scelte soggettive, come l’omissione di letture o la loro sostituzione con testi non biblici, siano proibite. Ho sentito che qualcuno, se c’è una notizia, legge il giornale, perché è la notizia del giorno. No! La Parola di Dio è la Parola di Dio! Il giornale lo possiamo leggere dopo. Ma lì si legge la Parola di Dio. È il Signore che ci parla. Sostituire quella Parola con altre cose impoverisce e compromette il dialogo tra Dio e il suo popolo in preghiera. Al contrario, [si richiede] la dignità dell’ambone e l’uso del Lezionario, la disponibilità di buoni lettori e salmisti. Ma bisogna cercare dei buoni lettori!, quelli che sappiano leggere, non quelli che leggono [storpiando le parole] e non si capisce nulla. E’ così. Buoni lettori. Si devono preparare e fare la prova prima della Messa per leggere bene. E questo crea un clima di silenzio ricettivo[1].
Sappiamo che la parola del Signore è un aiuto indispensabile per non smarrirci, come ben riconosce il Salmista che, rivolto al Signore, confessa: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Sal 119,105). Come potremmo affrontare il nostro pellegrinaggio terreno, con le sue fatiche e le sue prove, senza essere regolarmente nutriti e illuminati dalla Parola di Dio che risuona nella liturgia?
Certo non basta udire con gli orecchi, senza accogliere nel cuore il seme della divina Parola, permettendole di portare frutto. Ricordiamoci della parabola del seminatore e dei diversi risultati a seconda dei diversi tipi di terreno (cfr Mc 4,14-20). L’azione dello Spirito, che rende efficace la risposta, ha bisogno di cuori che si lascino lavorare e coltivare, in modo che quanto ascoltato a Messa passi nella vita quotidiana, secondo l’ammonimento dell’apostolo Giacomo: «Siate di quelli che mettono in pratica la Parola e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi» (Gc 1,22). La Parola di Dio fa un cammino dentro di noi. La ascoltiamo con le orecchie e passa al cuore; non rimane nelle orecchie, deve andare al cuore; e dal cuore passa alle mani, alle opere buone. Questo è il percorso che fa la Parola di Dio: dalle orecchie al cuore e alle mani. Impariamo queste cose. Grazie!

 

SOVRABBONDO DI GIOIA IN OGNI TRIBOLAZIONE. DALLE «OMELIE SULLA SECONDA LETTERA AI CORINZI» DI SAN GIOVANNI CRISOSTOMO, VESCOVO

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SOVRABBONDO DI GIOIA IN OGNI TRIBOLAZIONE. DALLE «OMELIE SULLA SECONDA LETTERA AI CORINZI» DI SAN GIOVANNI CRISOSTOMO, VESCOVO

By Mc.Rodriguez

(Om. 14, 1-2; PG 61, 497-499)

Paolo riprende il discorso sulla carità, moderando l’asprezza del rimprovero. Dopo avere infatti biasimato e rimproverato i Corinzi per il fatto che, pur amati, non avevano corrisposto all’amore, anzi erano stati ingrati e avevano dato ascolto a gente malvagia, mitiga il rimprovero dicendo: «Fateci posto nei vostri cuori» (2 Cor 7, 2), cioè amateci. Chiede un favore assai poco gravoso, anzi più utile a loro che a lui. Non dice «amate», ma con squisita delicatezza: «Fateci posto nei vostri cuori». Chi ci ha scacciati, sembra chiedere, dai vostri cuori? Chi ci ha espulsi? Per quale motivo siamo stati banditi dal vostro spirito? Dato che prima aveva affermato: «È nei vostri cuori invece che siete allo stretto» (2 Cor 6, 12), qui esprime lo stesso sentimento dicendo: «Fateci posto nei vostri cuori». Così li attira di nuovo a sé. Niente spinge tanto all’amore chi è amato quanto il sapere che l’amante desidera ardentemente di essere corrisposto.
«Vi ho già detto poco fa, continua, che siete nel nostro cuore per morire insieme e insieme vivere» (2 Cor 7, 3). Espressione massima dell’amore di Paolo: benché disprezzato, desidera vivere e morire con loro. Siete nel nostro cuore non superficialmente, in modo qualsiasi, ma come vi ho detto. Può capitare che uno ami, ma fugga al momento del pericolo: non è così per me.
«Sono pieno di consolazione» (2 Cor 7, 4). Di quale consolazione? Di quella che mi viene da voi: ritornati sulla buona strada mi avete consolato con le vostre opere. È proprio di chi ama prima lamentarsi del fatto che non è amato, poi temere di recare afflizione per eccessiva insistenza nella lamentela. Per questo motivo aggiunge: «Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia».
In altre parole: sono stato colpito da grande dispiacere a causa vostra, ma mi avete abbondantemente compensato e recato gran sollievo; non avete solo rimosso la causa del dispiacere, ma mi avete colmato di più abbondante gioia.
Paolo manifesta la sua grandezza d’animo non fermandosi a dire semplicemente «sovrabbondo di gioia», ma aggiungendo anche «in ogni mia tribolazione». È così grande il piacere che mi avete arrecato che neppure la più grande tribolazione può oscurarlo, anzi è tale da farmi dimenticare con l’esuberanza della sua ricchezza, tutti gli affanni che mi erano piombati addosso e ha impedito che io ne rimanessi schiacciato.

I nomi di Dio nell’Antico Testamento

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Publié dans:immagini sacre |on 29 janvier, 2018 |Pas de commentaires »

«SIAMO MEMBRA GLI UNI DEGLI ALTRI». LA CURA E L’ATTENZIONE ALL’ALTRO

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«SIAMO MEMBRA GLI UNI DEGLI ALTRI». LA CURA E L’ATTENZIONE ALL’ALTRO

Emanuele Rimoli

Per i cristiani la cura, la premura e l’attenzione all’altro non sono una questione immediatamente etica, tantomeno filantropica. Non ci facciamo prossimi solo perché è giusto, né perché « abbiamo una certa sensibilità » – che poi, detto così, sembra una cosa esclusiva solo di alcuni cosiddetti « sensibili », come se la qualità delle relazioni (giacché questo è in gioco) fosse appannaggio solo di alcuni e non di tutti. La premura per l’altro, infatti, non s’identifica immediatamente con i sentimenti fraterni, né con l’indignazione contro l’ingiustizia, ancor meno con l’intenzione di fare il bene. Piuttosto è la naturale conseguenza “operativa” dell’assunto paolino: «Pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri» (Rm 12,5).
Per i cristiani la cura e la premura affondano le loro radici in Cristo, evidentemente, quando disse: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12); traduzione di un versetto di poco precedente: «Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9). A dire che l’amore con cui ci amiamo reciprocamente ha la sua fonte, radice e motivo di esistenza nell’amore del Padre verso il Figlio. Amore del quale il Figlio ci ha reso partecipi – «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,27). Nello Spirito Santo, infatti, siamo eredi del rapporto, della vita di comunione amorosa del Padre con il Figlio. Così, infatti, la prima lettera di Giovanni: «Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in Lui. E da questo conosciamo che dimora in noi: dallo Spirito che ci ha dato» (1Gv 3,24). Questo dunque il fondamento: l’essere destinatari dell’amore che il Padre dona al Figlio e che questi ci partecipa mediante il dono dello Spirito. È lo Spirito che ci rende «un corpo solo e un’anima sola» (cf. 1Cor 12,13; Ef 4,4). Solo in questo alveo di gratuita benevolenza, che è (ri)generazione, elezione e benedizione, si può parlare di cura e, in una parola sintetica, di tenerezza,
che non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro, capacità di amore[1].
Come, infatti, il Figlio riceve se stesso dal Padre di cui è l’immagine visibile (Col 1,15), così l’umanità riceve se stessa e la sua identità
alla scuola della parola di colui che lo ha creato, che gli ha predestinato la forma originaria, e quindi solo nell’affidamento, senza risentimento e diffidenza, a Dio che, consegnando il Figlio, ha inclusivamente creato e conferito senso all’uomo[2].
È il totale rovesciamento del cogito cartesiano: «riceviamo, dunque siamo», «siamo amati, dunque siamo». E, per metterlo in prospettiva d’azione, «amati, dunque amiamo». In effetti, l’uomo ha una struttura «concava», ricettiva, fatta per l’accoglienza prima ancora che per l’azione. Basti pensare ad Adamo: riceve se stesso dalla terra e dal soffio di Dio (cf. Gen 2,7), solo dopo impone i nomi ai viventi (Gen 2,19-20). Allo stesso modo anche Eva riceve da Adamo ciò che egli, a sua volta, aveva ricevuto (Gen 2,21-24).
La tenerezza dona. E che cosa dona? Se stessa. Colui che la riceve, riceve se stesso, viene donato a se stesso, è dono a se stesso [...]. Il dono che io ricevo sono io stesso, libero e potente. La tenerezza è questa nascita nella mia nascita che fa in modo che la tristezza non sia la mia immediata e totale verità [...]. Il dono che io ricevo è di essere io stesso dono e donazione, io sono donato a me stesso quale donazione per altri[3].
1. Il comandamento grande
Il Vangelo presenta questa verità in maniera potente e radicale attraverso la domanda dei farisei a Gesù su quale fosse il più grande comandamento della legge (Mt 22,34-40). La risposta di Gesù unisce il testo di Dt 6,4-5 con quello di Lv 19,18, dando luogo a una vera e propria magna charta:
Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso (Mt 22,37-39).
Da un lato Cristo lega, col filo doppio della somiglianza, il «dovere d’amore» scambievole fra gli uomini con il «dovere d’amore» totalizzante a Dio – non è forse questo il senso della dignità dell’uomo creato a immagine di Dio? Così facendo Cristo decreta l’unità delle Scritture che trovano il lui la più autentica chiave di lettura e il compimento: egli, Verbo fatto carne, a un tempo Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, «mostrò veramente l’immagine e ristabilì la somiglianza, rendendo l’uomo simile al Padre invisibile attraverso il Verbo visibile»[4].
Dall’altro lato, e ancor più profondamente, Cristo presenta la possibilità di una rivelazione sottesa all’unione dei due comandamenti simili. Se, infatti, accostiamo l’espressione di Matteo a quelle in qualche modo analoghe dell’evangelista Giovanni già citate (Gv 15,9.12), scopriamo che il comandamento dell’amore allude alla possibilità della rivelazione del volto del Padre al cuore degli uomini. Cosa peraltro confermata dallo stesso Cristo quando dice: «Se uno mi ama, osserverà la mia Parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui» (Gv 14,23). Non il comandamento genera la rivelazione, ma l’amore che fa scaturire la pratica e che a questa conduce. Quando, infatti, il cuore trattiene quella Parola che è il comandamento grande, quando cioè tutto è vissuto all’interno di un «ecosistema» presieduto dal rapporto con quella Parola, allora si compie la promessa: l’amore di Cristo sostiene la pratica della sua Parola e questo permette ai cuori di accedere al «mistero nascosto» (Ef 3,9) da sempre riservato agli uomini, cioè la comunione con Dio e lo splendore del suo amore per tutti, quando Dio sarà «tutto in tutti» e noi «saremo simili a lui» (cf. 1Cor 15,28; 1Gv 3,2).
Questo amore è la fonte e il senso di tutti i comandamenti. E di questo amore gli uomini sono eredi in Cristo. Da qui, allora, si può cogliere anche il senso operativo dei comandamenti (la cura verso Dio e il prossimo): che gli uomini possano scoprire e cogliere l’amore del Padre per loro e così vivere in comunione fa di loro. Lo scopo e contenuto dell’amore al prossimo, dunque, è l’annuncio che l’amore del Padre è per lui; perciò se l’amore a Dio indica all’umanità la propria radice, l’amore al prossimo ne rivela la tensione e l’orizzonte, poiché l’amore del Padre è per il mondo intero (cf. Gv 3,16-17).
Si tratta, dunque, di riconoscere la radice dell’amore benefico ricevuto in Cristo, che diventa la piattaforma per ospitare il prossimo, il grembo in cui accoglierlo[5]. È l’amore fedele e premuroso di Dio nei confronti di tutti e ognuno degli uomini. Quello riconosciuto e cantato dalla Madre di Dio, «ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre» (Lc 1,55). Lo stesso che il profeta Isaia paragona a quello di una madre:
Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai (Is 49,15).
Si tratta, in definitiva, di ospitare l’altro nella propria vita come una madre col figlio nel proprio grembo, perché tempo, spazio, gesti siano plasmati a partire e a favore di questa comunione vitale.
2. Un’accoglienza radicale
Due sono i movimenti dell’accoglienza in vista della premura: riconoscere e ricordare. La dinamica di fondo, come già detto, converte il cogito in «amato, dunque amo». Che si può tradurre come segue: «Dio mi ha guardato, così anch’io comincio a guardare i miei fratelli». Infatti, la prima esperienza della cura – e conditio sine qua non – è il riconoscimento che gli altri ci sono e sono liberi, per spezzare quell’egocentrismo che trova la sua più tragica sintesi nelle parole possessive della «Madre di tutti i viventi»: «Mi sono acquistato un uomo presso Dio» (Gen 4,1)[6]. È interessante che, almeno in italiano, il linguaggio sia chiaro: riconoscere è conoscere di nuovo, quindi meglio, e dunque ammettere l’evidenza; non solo, riconoscimento ha al suo cuore la riconoscenza, gratitudine per il dono ricevuto. Essere riconoscente, allora, vuol dire sapere bene di aver ricevuto un dono, una benedizione. Con questo desiderio più o meno consapevole, o addirittura con fame di «essere visti», ci presentiamo gli uni agli altri, sperando che i nostri volti siano riscattati dall’anonimato con uno sguardo e diventiamo motivo di gratitudine[7].
Si tratta di preferire che l’altro sia piuttosto che non sia. È la meraviglia che egli sia, così com’è. È credere in lui più di quanto egli non creda in se stesso […]. La suprema tenerezza crede che dall’altro, chiunque egli sia, venga già verso di me il dono che egli stesso forse non conosce – ed è su questo oscuro presupposto che essa si appoggia […]. Non si tratta di una fede cieca. Non si tratta della confusa fiducia negli altri o di un procedimento pedagogico. È conoscenza, necessariamente oscura[8].
Perciò la cura è pazienza e attesa continuamente rinnovate. La sua benevolenza è provata nello spossessamento e nella gratuità, poiché ciò che conta è l’altro, che sia accolto come è, che sia «a casa» e porti frutto. Non ha doppi fini e non pretende un contraccambio, poiché è un riflesso della tenerezza libera e gratuita di Dio. Riconoscenza e riconoscimento, infatti, si rivelano nell’artigianato del far emergere l’altro e non se stessi. «La nostra gara non era a chi fosse il primo, ma a chi permettesse all’altro di esserlo», diceva s. Gregorio Nazianzeno raccontando l’amicizia con s. Basilio Magno[9].
La tenerezza è il lavoro incessante affinché ogni figlio dell’uomo, maschio o femmina, abbia la sua misura e la sua grazia. A ciascuno secondo i suoi bisogni! A ciascuno secondo il dono che è in lui, che dispieghi allegramente tutta la sua potenza! La tenerezza è grazia: non forza niente, non si indurisce per dovere e volontà, non si impone, non invade la vita degli altri, non piagnucola, non disserta, non spiega. Essa semplicemente c’è, ferma e attiva, un bello spazio libero in cui respirare, primo nutrimento per il cuore dei viventi[10].
Ma riconoscere che gli altri ci sono non basta. Bisogna che il pensiero non lasci cadere nel vuoto ciò che gli occhi hanno accolto e, in qualche modo, riscattato. La cura, infatti, si nutre anche di memoria, di ricordo. Non tanto il ricordo nostalgico di un incontro passato, ma il costante ravvivare la presenza dei volti allo sguardo interiore[11]. Mantenere vivi i tratti del volto, lo sguardo, il tono di voce, le necessità, la sensibilità, i gusti, il profumo, i traguardi, le debolezze, i passaggi… perché chi è ricordato sia avvolto in quella tenerezza che è «non-rassegnazione, non-scandalo, non-giudizio»[12], viscere di madre e bontà ferma e premurosa di padre.
Le Scritture raccontano di Dio che mantiene vivo il ricordo degli uomini non dimenticando la sua alleanza con loro (cf. Gen 9,15). Quando Dio si ricorda di Israele è per salvargli la vita e garantirgli l’esistenza, per ristabilire e rinsaldare l’alleanza, la comunione (cf. Lv 26,42.45). Nel racconto della crocifissione, il ladrone pentito chiede di essere ricordato da Gesù il quale, esaudendo il suo desiderio, risponde: «In verità ti dico: oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,42-43). Essere ricordati da Dio, dunque, significa essere vivi.
«Essere ricordati» dal Signore è lo stesso che «essere in paradiso» e ciò significa essere nella memoria eterna e di conseguenza avere esistenza eterna e quindi ricordo eterno in Dio. Se non ricordiamo Dio, moriamo, ma lo stesso nostro ricordo di Dio è possibile solo perché Dio si ricorda di noi[13].
Ora, «essere in paradiso» altro non vuol dire che essere nella pienezza della comunione, quando Dio sarà «tutto in tutti» (1Cor 15,28). E colui che opera la comunione è lo Spirito santo, che ha anche il compito di ricordare ai discepoli tutto ciò che il Maestro ha detto (cf. Gv 14,26). È, questo, il senso della liturgia della chiesa: la premura dell’intero corpo che ricorda al Padre tutte le membra, nella comunione che supera tempo e spazio operata dallo Spirito:
Ricordati, o Padre, della tua chiesa diffusa su tutta la terra […]. Ricordati dei nostri fratelli che si sono addormentati nella speranza della risurrezione […]. Di noi tuti abbi misericordia: donaci di aver parte alla vita eterna[14].
La memoria, dunque, è riconoscimento e ospitalità dell’altro che tengo in vita dentro di me, così che perfino la riflessione su me stesso coinvolge e avviene attraverso l’altro, il suo volto, le sue parole, la sua storia. Al punto che «sarei meno me stesso se lo trascurassi, se umiliassi o dimenticassi i suoi bisogni»[15]; siamo, appunto, «membra gli uni degli altri» (Rm 12,5).
Possiamo esprimere questo atteggiamento così: ricordati che qualcuno ha avuto per te gesti di premura; non svendere, non tradire questi doni di giustizia; raccontali ancora e incarnali nella tua vita. Tu stesso abbi cura dei tuoi fratelli. Diventa loro alleato nel bisogno, anche se non sai dove ti porterà questa promessa di fedeltà[16].
Di questa alleanza facciamo memoria, un continuo rinnovare la consapevolezza del ricevere-e-dare che struttura la nostra verità. Sulla base di questa radicale accoglienza – che suppone un lungo, continuo e accurato lavorio di purificazione del cuore – si sviluppa l’incontro e la relazione.
3. L’immaginazione
Così intesa, la relazione genera un’esperienza di rivelazione. È data, cioè, la terribile possibilità di accedere alle profondità dell’altro e intuire e vedere, per grazia di Dio, chi si nasconde sotto la superficie. Credo sia questo il segreto dell’esperienza di Francesco di Assisi quando raccontava che la compassione verso i lebbrosi gli trasformò l’amaro in dolcezza[17].
È la dinamica analoga all’innamoramento: s’intuisce, attraverso l’amore, una bellezza non visibile a tutti. E sono quell’amore e quella bellezza a non lasciare spazio alla rassegnazione e a far attraversare con speranza la fatica, l’incomprensione, l’attesa.
Certamente la cura e la premura non sono «esplosive» come un innamoramento ma si nutrono, allo stesso modo, di una profonda immaginazione.
Inventare, questa è la legge della suprema tenerezza. Inventare, questo è il suo combattimento. Dato che la tenerezza non ha le armi di morte della crudeltà, non ha forse bisogno di essere più abile, più intelligente, creativa, inventiva, traboccante d’immaginazione, forte e sottile? Sì, le è necessario! Altrimenti la tenerezza non è altro che l’eterna buona volontà del cuore, il balsamo impotente sulle ferite atroci della disperazione[18].
A immagine dello sguardo trasfigurante di Dio che lo porta a vedere «in stranieri e pagani degli uomini e delle donne con una dignità personale piena, dei figli di Dio destinati al regno»[19], così il premuroso è capace di inventare e utilizzare ogni «trucco» pur di conquistare alla vita chi gli sta di fronte. Così, infatti, diceva Annalena Tonelli: «Inventiamo! Non aspettiamo di esser istruiti. Dobbiamo inventare. L’amore è una questione di immaginazione»[20].
Il premuroso, infatti, ama «anticipatamente», a fondo perduto, prima ancora di vedere o, addirittura, cercare i risultati della sua premura. Trasfigura ciò che vede, intende e tocca, senza cessare di percepire l’altro in tutta la sua letterale concretezza. Ma sempre confidando in un oltre, nella speranza di non limitarlo alla sua sola, mera letteralità[21]. Perciò non si arrende ad alcuna bruttezza, rifiuto o cinismo, ma lotta instancabile contro ciò che deturpa e avvilisce l’uomo. E sempre tramite mezzi reali, concreti e personalizzati, con intelligenza e umiltà. Così, infatti, insegnava Isacco di Ninive:
L’amore costringe a compartecipare; la conoscenza, invece, forza a resistere anche a questo. Insieme alla diversità di elezioni vi sono anche varie forme di amore sapiente adatte a coloro che ne sono i destinatari. Non cercare da un amante sapiente un amore insipido. Chi uccide suo figlio nutrendolo di miele, non è diverso da chi lo uccide con il coltello. Alla sapienza di Dio non sembra infatti bene nutrire il suo amato allo stesso modo, nei tempi di salute come in quelli di malattia[22].
Se con l’intelligenza probabilmente si conosce l’uomo, con l’immaginazione è invece possibile partecipare con meraviglia al cammino di crescita e maturazione dell’altro, accompagnandolo nelle sue più profonde traversate; è la meraviglia che presiede alla gioia mite dell’agricoltore, alla dedizione di un artigiano per la sua opera[23].
In questo processo una delle mediazioni fondamentali è certamente la parola, autentica e apportatrice di vita, che evoca, promuove e custodisce. Capace di rendere giustizia senza giudicare. Una «parola profetica», suggerisce Luciano Manicardi, che interviene disarmata nella storia e nelle relazioni con mitezza e profondità, dando voce a desideri e speranze, sanando la disillusione e il cinismo[24]. Una parola capace di avvolgere la miseria, la colpa e perfino l’angoscia, per dare riconoscimento e giustificazione all’esistenza e far cadere ogni condanna.
Quando una parola mi dice ciò che sono, la riconosco perché sgorga in me la gioia: mi chiama (kaleo) ed è bello (kalos) esser chiamati per nome[25].

4. Conclusione
Il percorso proposto si è sviluppato attorno a due poli strettamente interconnessi. Da un lato l’accoglienza radicale che rivela la natura «concava» dell’uomo, soprattutto nel riconoscimento e nella memoria dell’altro. Dall’altro l’immaginazione, lo sguardo gratuito e purificato che non inchioda l’altro alla sua mera evidenza letterale, ma ne promuove pazientemente l’autentica rivelazione accompagnando e custodendone i processi. Entrambi i poli trovano la loro ragion d’essere nel duplice comandamento «ama Dio, ama il prossimo», via preferenziale per accedere all’eredità dei figli: la piena comunione con il Padre e fra gli uomini.
Essendo, pertanto, in gioco il personale e personalizzato lavorio artigianale sulla qualità delle relazioni, s’impone necessariamente una conclusione aperta che chiamerei invito alla disponibilità. Ossia a quell’apertura radicale nello Spirito che è promotrice di comunione. Invito alla larghezza e spaziosità dell’umano rinnovato in Cristo, per cui l’altro si possa sentire «a casa» senza il timore di vedersi «presentare il conto» (cf. Mc 9,5). La cura e l’attenzione all’altro, infatti, sono parte di quel «ministero della riconciliazione» di cui parla san Paolo (2Cor 5,8): la fedele e paziente dedizione nel rimettere ciò che ostacola la comunione sotto lo sguardo amorevole di Dio (cf. Mc 10,21), nel rifluire abbondante dell’amore fedele e sempre nuovo della Trinità (cf. Ap 22). Un invito che sorge da una parola solennemente proclamata dal Padre: «Tu in me non morirai»[26], e affidata in Cristo a tutti i figli adottivi. È questo – commenterebbe Bellet – che contrapponiamo all’indifferenza, alla dimenticanza, all’angoscia e, in fin dei conti, alla morte (cf. 1Gv 3,11-16)[27].

NOTE SUL SITO (molte ed importanti)

Publié dans:BIBLICA (sugli studi di) |on 29 janvier, 2018 |Pas de commentaires »

Marco, 1.21-28

imm ciottoli e paolo - Copia

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 26 janvier, 2018 |Pas de commentaires »

IV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) (28/01/2018)

https://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=41808

Lo stupore e la sicurezza che suscita il divino Maestro Gesù, padre Antonio Rungi

IV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) (28/01/2018)

Il Vangelo di questa quarta domenica del tempo ordinario ci porta all’interno della Sinagoga di Cafarnao, dove Gesù si pone ad insegnare nel giorno di sabato.
Cosa abbia detto e quali insegnamenti abbia trasmesso non è detto nel brano del Vangelo di Marco.
Il contenuto del suo insegnamento non è esplicitato nel testo. Tuttavia, due aspetti importanti fa notare san Marco nel descrive questo momento. Era un maestro, Gesù, che affascinava quando parlava e nel trasmettere quello che affermava lo faceva con l’autorità che gli derivava dal fatto che era il Figlio di Dio.
Nel fare un tentativo di ricostruzione, a posteriore, di quanto diceva Gesù in quel contesto, possiamo con una certa attendibilità pensare che parlasse degli spiriti immondi, del male e del modo di comportarsi rettamente. Possiamo dire che tenne una lezione di sacra scrittura e di teologia morale.
Tanto è vero che di fronte alle sue parole toccanti e suscettibili di immediate risposte, tra il pubblico presente, in quel sabato, nella sinagoga di Carfanao, c’era un uomo posseduto da uno spirito impuro che cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!».
La professione di fede nella divinità del Cristo è fatta da un uomo posseduto da uno spirito impuro.
Una dichiarazione pubblica della natura divina del Maestro Gesù che in quel momento istruiva nella sinagoga di Carfanao. Ma Gesù prova a far stare zitto quell’uomo che alza la voce per proclamare la sua vera identità, imponendo allo spirito impuro di lasciare subito quell’uomo, e così successe: “Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui”.
Di fronte a questo ennesimo miracolo dimostrativo della potenza di Cristo, tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».
Il riconoscimento da parte dei presenti dalla singolare missione di Gesù è affermata tra la gente che aveva visto con i propri occhi ciò che era successo. Il miracolo era chiaro e non ammetteva false interpretazioni o possibili manipolazioni. Al punto tale, che dopo questo fatto straordinario, la notorietà di Gesù si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea. Gesù estende la conoscenza della sua missione a gente e luoghi diversi e nuovi. Un modo concreto per evangelizzare e proporre un cammino nuovo per coloro che volevano e vogliono seguire la strada di Cristo.
Di profezia e di annuncio si parla nella prima lettura di questa domenica. E il profeta, maestro che sale in cattedra in questo caso è Mosè che parlò al popolo dicendo: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto”.
Chiaro riferimento alla venuta del Salvatore, nostro Signore Gesù Cristo che è prefigurato in questo testo del Deuteronomio. E infatti, l’umanità, attraverso Gesù, unico mediatore tra Dio e l’uomo, otterrà quando chiederà al Signore. La conferma di questa esplicita volontà di Dio di inviare il profeta per eccellenza è espressa nei versetti successivi, nei quali leggiamo che il Signore susciterà loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e porrà sulla sua bocca le parole del cielo, comunicando al popolo i precetti del Signore. Il monito successivo, fa riflettere molto a quanti non sono attenti alla voce di Dio: “Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto”.
Quante volte questa parola è giunta ai nostri orecchi e pur avendola ascoltata bene e compresa perfettamente poi non l’abbiamo messa in pratica, non ha prodotto il frutto sperato? Parimenti bisogna fare attenzione ai falsi profeti, a quanti si illudono e presumono di essere Dio, quando in realtà sono fragili creature umane che hanno la presunzione di parlare nel nome di Dio, quando in realtà parlano in nome proprio o addirittura di comandare di fare cose non comandate dall’alto.
Questi profeti arroganti e presuntuosi, dovranno morire, nel senso che ne scomparirà la semente, perché fanno solo danni in tutti i tempi e in tutti gli ambienti.
Ascoltare, praticare, raggiungere la santità, mediante uno stile di vita conforme al vangelo di Cristo, che Paolo Apostolo sintetizza in alcune raccomandazioni che fa nella sua prima lettera ai Corinti. Infatti, l’Apostolo sottolinea che le cose che scrive e dice sono finalizzate al bene dei cristiani di Corinto.
E quali sono queste cose richiamate come etica persona e familiare? Esse sono indicate chiaramente. Vuole che i cristiani vivano senza preoccupazioni. In altri termini chi non è sposato si deve preoccupare delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si deve preoccupare delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si deve concentrare sulle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si deve preoccupare delle cose del mondo, come possa piacere al marito”.
Categorie di persone e soggetti diverse con vocazioni e modalità di vivere a secondo della propria condizione personale e sociale. Questo criterio operativo aiuta a crescere nella santità della vita, senza confusione del cuore, della mente e delle azioni che si pongono in essere, come sposato o non sposato e per tutte le altre condizioni di vita.
Concludiamo la nostra riflessione con la preghiera iniziale della santa messa di questa domenica: “O Padre, che nel Cristo tuo Figlio ci hai dato l’unico maestro di sapienza e il liberatore dalle potenze del male, rendici forti nella professione della fede, perché in parole e opere proclamiamo la verità e testimoniamo la beatitudine
di coloro che a te si affidano”. Amen.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 26 janvier, 2018 |Pas de commentaires »
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