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L’ITINERARIO SPIRITUALE DI PAOLO E DELLA SUA SCUOLA

http://www.gliscritti.it/approf/2006/saggi/epistolario/epistolario3.htm

25 GENNAIO CONVERSIONE DI SAN PAOLO

L’ITINERARIO SPIRITUALE DI PAOLO E DELLA SUA SCUOLA

Indice

a. L’itinerario spirituale di Paolo
b. Raggruppamento delle lettere paoline in sei gruppi tematici

a. L’itinerario spirituale di Paolo
J. A. Fitzmyer ha usato l’espressione: «Spiritual journey of the Apostle Paul» per il titolo del capitolo introduttivo di According to Paul. Studies in the Theology of the Apostle (New York – Mahwah, NJ, 1993), 1. Con quell’espressione Fitzmyer intende parlare del viaggio spirituale che Paolo ha compiuto per passare dal farisaismo alla fede in Gesù e al servizio di lui come apostolo. Invece L. Cerfaux († 1968), richiesto di riassumere in forma divulgativa la sua trilogia paolina sul Cristo (Paris 1954, Roma 1969), sul cristiano (Paris 1962, Roma 1969), sulla Chiesa (Paris 1965, Roma 1968), ha dato a quel libro riassuntivo lo stesso titolo: «L’itinéraire spirituel de Saint Paul». Ma con la stessa espressione Cerfaux ha inteso dire una cosa diversa. Nell’introduzione, egli spiega quel titolo: «Itinerario perché ci sforziamo (…) di accompagnare Paolo lungo le vie romane o per le rotte marittime che dall’oriente portavano verso la capitale dell’impero di Augusto (…) in funzione delle esperienze apostoliche di Paolo in Macedonia, a Corinto, in Asia Minore e poi a Roma. Spirituale è preso nel senso più estensivo, che abbraccia cioè tutta l’attività umana fino al pensiero, teologia compresa, azione e pensiero vivificati da una profonda unione con Dio» (traduzione italiana, Torino 1976, p. 7). La vera spiegazione di “itinerario spirituale” però è data da Cerfaux quando precisa che, invece di riassumere davvero i suoi tre libri, ha preferito presentare “lo sviluppo del pensiero paolino” (p. 7). Il pensiero e la teologia di Paolo infatti sono stati in continua evoluzione perché, nella necessità di adattarsi ai suoi interlocutori, egli ha esplicitato conseguenze sempre nuove dal mistero del Cristo che gli è stato rivelato a Damasco.
Il senso dato da L. Cerfaux a “itinerario spirituale” è utile per mettere in successione le lettere di Paolo: non secondo l’ordine (= ordine di importanza e di lunghezza) che esse hanno nella lista canonica di Trento (Enchiridion Biblicum n. 59) e nelle nostre bibbie, ma secondo l’evoluzione teologico-pastorale di Paolo. Seguendo dunque lo sviluppo del pensiero di Paolo e della sua scuola -a scopo didattico e non senza approssimazioni -, si possono organizzare le lettere dell’epistolario paolino in sei blocchi, in base ai temi in esse dominanti.

b. Raggruppamento delle lettere paoline in sei gruppi tematici
Le lettere più antiche, quelle ai Tessalonicesi, sono dominate dal tema dell’escatologia (primo gruppo). La comunità di Corinto ha poi però costretto Paolo a fare i conti con il desiderio diffuso anche a livello popolare di quella sapienza che egli chiama “sapienza umana”, “sapienza di questo mondo”. Si trattava probabilmente di un platonismo popolare che portava ad accogliere entusiasticamente la resurrezione del Cristo, ma a respingere la sua croce: nelle lettere ai Corinzi, Paolo sviluppa allora il tema della “sapienza della croce” annunciando il Cristo crocefisso e parlando della debolezza dell’apostolo come condizione della sua vera forza (secondo gruppo). Dopo avere confrontato la morte e resurrezione del Cristo con la sapienza greca, Paolo ha poi dovuto confrontarla con la legge mosaica. Così nelle lettere ai Galati, ai Romani e ai Filippesi ha approfondito nel suo annuncio evangelico il tema della giustificazione e della salvezza che Dio dona gratuitamente non in base alle opere delle Legge ma in base alla fede nel Cristo e nella sua Pasqua (terzo gruppo). La lettera ai Colossesi (alla quale per altri motivi dev’essere unita anche quella a Filemone) e soprattutto la lettera agli Efesini sviluppano il tema della chiesa come corpo del Cristo suo capo (quarto gruppo). Della chiesa parlano anche le lettere chiamate “pastorali”, ma più dal punto di vista istituzionale che non da quello del mistero cristologico, essendo dettate dal bisogno di equipaggiare il cristianesimo e la chiesa in vista di un lungo cammino nella storia attraverso l’organizzazione ministeriale e la difesa del depositum fidei (quinto gruppo). Anche se non contiene il nome di Paolo e anche se è solo vagamente paolina, la lettera agli Ebrei è stata tradizionalmente collegata con l’epistolario paolino: il suo tema, che non ha sviluppi paralleli in nessuno degli altri documenti neotestamentari, è quello del sacerdozio e del sacrificio del Cristo (sesto gruppo).
Paolo ha dunque cominciato «sotto l’impronta dominante della tradizione arcaica della chiesa di Gerusalemme e della visione di Damasco, annunciando l’intervento escatologico di Dio anticipato nella resurrezione del Cristo» (CERFAUX, L’itinerario, 8). Alla fine del suo epistolario invece, nelle Pastorali, è come se a lasciare il segno ci sia il diritto romano: c’è «una teologia [che] si è semplificata ed ha preso un tono più pratico, adatto ai bisogni di una chiesa di cui è necessario consolidare l’organizzazione e prevedere la stabilità, rafforzandone la fedeltà alla tradizione» (CERFAUX, L’itinerario, 136). Creativo e capace di rispondere a ogni esigenza e provocazione, prima personalmente e poi attraverso la sua scuola di pensiero, Paolo ha spaziato dall’escatologia, alla soteriologia, all’ecclesiologia, alla chiesa nella storia, al sacerdozio di Cristo.

LA MISTICA DI SAN PAOLO CONTRO LA CULTURA DEL DIAVOLO (2Cor 12)

http://www.cesnur.org/2012/mistica.htm

LA MISTICA DI SAN PAOLO CONTRO LA CULTURA DEL DIAVOLO

DI MASSIMO INTROVIGNE

All’udienza generale del 13 giugno 2012, continuando nella sua «scuola della preghiera» dedicata a san Paolo, Benedetto XVI ha commentato l’esperienza narrata nel capitolo 12 della Seconda Lettera ai Corinzi, una delle due esperienze fondamentali che segnano tutta la vita dell’Apostolo insieme a quella del primo incontro con il Signore sulla via di Damasco.
Si tratta dell’esperienza sconvogemente del rapimento in Cielo. Nella Seconda Lettera ai Corinzi, «di fronte a chi contestava la legittimità del suo apostolato, egli non elenca tanto le comunità che ha fondato, i chilometri che ha percorso; non si limita a ricordare le difficoltà e le opposizioni che ha affrontato per annunciare il Vangelo, ma indica il suo rapporto con il Signore, un rapporto così intenso da essere caratterizzato anche da momenti di estasi». San Paolo dunque ricorda che, quattordici anni prima dall’invio della Lettera, «fu rapito – così dice – fino al terzo cielo» (v. 2), fino al «giardino» stesso di Dio.
«Con il linguaggio e i modi di chi racconta ciò che non si può raccontare», san Paolo afferma che l’evento è stato talmente sconvolgente che egli «non ricorda neppure i contenuti della rivelazione ricevuta, ma ha ben presenti la data e le circostanze in cui il Signore lo ha afferrato in modo così totale, lo ha attirato a sé, come aveva fatto sulla strada di Damasco al momento della sua conversione».
Il Papa ha dedicato la sua catechesi soprattutto a un dettaglio del racconto. San Paolo avrebbe potuto insuperbirsi dopo una tale esperienza. Perché questo non accada, egli porta nella sua carne una «spina» (2 Cor 12,7), e per tre volte ha supplicato il Signore di esserne liberato. Alla fine, in una contemplazione nella quale «udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare» (v. 4), il Signore si è manifestato e ha risposto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (v. 9).
Con un commento che, nota il Pontefice, «può lasciare stupiti», nel riferire questo episodio ai Corinzi l’Apostolo aggiunge: «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (vv. 9b-10).
Qui vi è qualcosa di «fondamentale anche per la nostra preghiera e per la nostra vita, per la nostra relazione a Dio e alle nostre debolezze». Benché si siano fatte varie speculazioni, che cosa fosse davvero questa «spina» nella carne noi «non lo sappiamo e [san Paolo] non lo dice». Quello che invece sappiamo con certezza è che «ogni difficoltà nella sequela di Cristo e nella testimonianza del suo Vangelo può essere superata aprendosi con fiducia all’azione del Signore». Non superata attraverso una nostra presunta forza. Al contrario, «nel momento in cui si sperimenta la propria debolezza, si manifesta la potenza di Dio, che non abbandona, non lascia soli, ma diventa sostegno e forza». Certo, «Paolo avrebbe preferito essere liberato da questa « spina », da questa sofferenza; ma Dio dice: « No, questo è necessario per te. Avrai sufficiente grazia per resistere e per fare quanto deve essere fatto »». E «questo vale anche per noi. Il Signore non ci libera dai mali, ma ci aiuta a maturare nelle sofferenze, nelle difficoltà, nelle persecuzioni». Come spiega lo stesso testo della Seconda Lettera ai Corinzi, quando ci affidiamo a Dio, «se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, ci sono tante difficoltà, quello interiore invece si rinnova, matura di giorno in giorno proprio nelle prove» (cfr v. 16). L’Apostolo ci assicura che «il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria» (v. 17).
Non dobbiamo però credere che si trattasse solo di piccole difficoltà: «umanamente parlando, non era leggero il peso delle difficoltà, era gravissimo; ma in confronto con l’amore di Dio, con la grandezza dell’essere amato da Dio, appare leggero». È l’umiltà la chiave di tutto: «non è la potenza dei nostri mezzi, delle nostre virtù, delle nostre capacità che realizza il Regno di Dio, ma è Dio che opera meraviglie proprio attraverso la nostra debolezza, la nostra inadeguatezza all’incarico. Dobbiamo, quindi, avere l’umiltà di non confidare semplicemente in noi stessi, ma di lavorare, con l’aiuto del Signore, nella vigna del Signore, affidandoci a Lui come fragili « vasi di creta »».
Questo episodio relativo a san Paolo sembra riguardare solo lui – chi infatti potrebbe essere rapito fino al Terzo Cielo? -, ma invece riguarda tutti noi e trova il suo posto logico in una «scuola della preghiera» come quella che il Papa sta proponendo. «Nella preghiera noi apriamo, quindi, il nostro animo al Signore affinché Egli venga ad abitare la nostra debolezza, trasformandola in forza per il Vangelo». San Paolo, per indicare la presenza di Dio in lui, usa il vero greco «episkenoo», letteralmente «porre la propria tenda». Sì, «il Signore continua a porre la sua tenda in noi, in mezzo a noi: è il Mistero dell’Incarnazione. Lo stesso Verbo divino, che è venuto a dimorare nella nostra umanità, vuole abitare in noi, piantare in noi la sua tenda, per illuminare e trasformare la nostra vita e il mondo».
L’esperienza di San Paolo, parallela a quella degli Apostoli nella Trasfigurazione, c mostra che «contemplare il Signore è, allo stesso tempo, affascinante e tremendo: affascinante perché Egli ci attira a sé e rapisce il nostro cuore verso l’alto, portandolo alla sua altezza dove sperimentiamo la pace, la bellezza del suo amore; tremendo perché mette a nudo la nostra debolezza umana, la nostra inadeguatezza, la fatica di vincere il Maligno che insidia la nostra vita, quella spina conficcata anche nella nostra carne».
Il richiamo del Pontefice alla presenza del Maligno richiama quello, parallelo, nella «lectio divina» sul Battesimo dello scorso 11 giugno in San Giovanni in Laterano, per il Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma. Qui il Papa aveva detto che i riferimenti nel rito del Battesimo a Satana non sono semplici metafore. Alludono a «una certa creatura che è dominante e si impone come se fosse questo il mondo, e come se fosse questo il modo di vivere che si impone». C’è una vera e propria cultura del Diavolo, una «cultura del male», spesso «dominante», una «cultura alla quale diciamo « no ». Essere battezzati significa proprio sostanzialmente un emanciparsi, un liberarsi da questa cultura. Conosciamo anche oggi un tipo di cultura in cui non conta la verità; anche se apparentemente si vuol fare apparire tutta la verità, conta solo la sensazione e lo spirito di calunnia e di distruzione. Una cultura che non cerca il bene, il cui moralismo è, in realtà, una maschera per confondere, creare confusione e distruzione. Contro questa cultura, in cui la menzogna si presenta nella veste della verità e dell’informazione, contro questa cultura che cerca solo il benessere materiale e nega Dio, diciamo « no »».
Ma nella preghiera, ha spiegato all’udienza del 13 giugno, sconfiggere questa «cultura del male» diventa possibile. «In un mondo in cui rischiamo di confidare solamente sull’efficienza e la potenza dei mezzi umani, in questo mondo siamo chiamati a riscoprire e testimoniare la potenza di Dio che si comunica nella preghiera».
Benedetto XVI ha voluto ricordare le parole del celebre teologo e missionario protestante Albert Schweitzer (1875-1965), secondo cui «Paolo è un mistico e nient’altro che un mistico». San Paolo è l’uomo che è stato rapito fino al giardino stesso di Dio. Ma nello stesso tempo «la mistica non lo ha allontanato dalla realtà, al contrario gli ha dato la forza di vivere ogni giorno per Cristo e di costruire la Chiesa fino alla fine del mondo di quel tempo. L’unione con Dio non allontana dal mondo, ma ci dà la forza di rimanere realmente nel modo, di fare quanto si deve fare nel mondo». Questo vale anche nei momenti di aridità spirituale, e qui il Papa ha richiamato la beata Madre Teresa di Calcutta (1910-1997), che «nella contemplazione di Gesù e proprio anche in tempi di lunga aridità trovava la ragione ultima e la forza incredibile per riconoscerlo nei poveri e negli abbandonati, nonostante la sua fragile figura. La contemplazione di Cristo nella nostra vita non ci estranea – come ho già detto – dalla realtà, bensì ci rende ancora più partecipi delle vicende umane, perché il Signore, attirandoci a sé nella preghiera, ci permette di farci presenti e prossimi ad ogni fratello nel suo amore».

L’ESPERIENZA DI SAN PAOLO COME MODELLO DI ‘ESISTENZA-IN’ CRISTO

http://lacasadimiriam.altervista.org/romano-guardini/lesperienza-di-san-paolo-come-modello-di-esistenza-in-cristo/

L’ESPERIENZA DI SAN PAOLO COME MODELLO DI ‘ESISTENZA-IN’ CRISTO

A.1) L’ESPERIENZA SOGGETTIVA DI SAN PAOLO COME MODELLO DI ‘ESISTENZA-IN’ CRISTO

Le basi teologiche offerte dal paragrafo precedente permettono ora un avvicinamento esistenzialistico alla straordinaria figura di san Paolo, secondo quella che è la “funzione modellare”[1] che Guardini riconosce all’apostolo di Tarso, ovvero il fatto di costituire un’esemplificazione concreta, un modello storico della relazione sussistente fra la dimensione essenziale del Cristianesimo, cioè Gesù Cristo nella sua persona, e quella esperienziale-esistenziale, cioè la vita cristiana. Si tratta di due prospettive strettamente correlate nella misura in cui ambedue risultano connesse all’istanza cristiana nella sua totalità di significato; come lo stesso Guardini mette in evidenza, dopo aver a lungo interrogato teologicamente il Cristianesimo dal punto di vista della sua essenza, il passo successivo è un’ulteriore domanda: “In che cosa consiste quella realtà, alla quale fa riferimento in maniera essenziale l’esistenza cristiana? Il valore che provoca alla decisione?”[2].
Il pensiero di Guardini può così inquadrarsi entro due grandi momenti teologici. Il primo è segnato dall’interrogativo essenziale circa l’oggetto del credo cristiano, il quale si è dimostrato essere, in termini assoluti, un “soggetto” personale, una singolarità categoriale, un’identità precisa e peculiare, cioè Gesù Cristo, il concreto vivente. Ora, nel secondo momento e mantenendo vivo questo presupposto, l’autore guarda a tale soggetto come ulteriore “oggetto” dell’esistenza cristiana, cioè colui che “nel soggetto” cristiano esiste personalmente plasmando sostanzialmente la stessa esistenza dell’uomo, facendo di essa una coesistenza o, più teologicamente, un’esistenza-in. Come si domanda l’autore, infatti: “Possono l’uomo singolo, tutti gli uomini, l’insieme dell’umanità, l’universo, entrare-in Lui? Non finiscono in una strettoia? Non perde l’universo il suo carattere di libera totalità?”[3].
In tale doppio momento teologico è tuttavia sotteso un fondamento di matrice filosofica, ovvero il concetto guardiniano di opposizione polare, che lo conduce all’individuazione di una dimensione “inabitativa” ed una “sovrabitativa” entro l’esistenza umana di un medesimo soggetto[4]. Tale fondamento, che sarà oggetto del successivo capitolo, viene qui considerato unicamente nella prospettiva di evidenziare il terreno filosofico nel quale  Guardini raccoglie le proprie considerazioni teologiche in merito alla figura di san Paolo e più in generale a quella di ogni soggetto cristiano. La figura paolina rappresenta pertanto un momento “peak” nel quadro argomentativo di Guardini, poiché gli offre la possibilità empirica di porre un soggetto concreto e non un’ideale ed astratta istanza umana quale strumento esemplificativo delle proprie riflessioni.
San Paolo certamente rappresenta un “caso emblematico” di esperienza di tensione degli opposti: “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma ciò che detesto” (Rm 7,15). Questa però non è certamente una ragione sufficiente per assumere la figura di Paolo quale modello referenziale, anzi, per come è stata proposta qui sopra l’asserzione stessa potrebbe apparire equivoca e teologicamente fallace, entrando in una dimensione opinabile di giudizio della stessa figura paolina. Piuttosto Guardini si prodiga nella sua ricerca attorno all’apostolo di Tarso per una ragione che a lui stesso appare inconfutabile: “Chi ci schiude la via per penetrare nel mondo del Nuovo Testamento non sono né i Sinottici, né Giovanni, ma Paolo, e appunto per essersi trovato nell’identica situazione in cui ci troviamo noi stessi”[5]. L’opposizione polare è perciò un metro sotteso all’indagine di Guardini, che in termini espliciti, invece, rivendica delle giustificazioni teologiche, ponendo cioè l’esistenza cristiana di Paolo, così come testimoniata dalle Scritture, al vertice di un processo di incontro-con Cristo che per l’uomo di ogni tempo risulta emblematico; e questo a parere di Guardini proprio perché Paolo “è uno di noi”. Cosa significa, tuttavia, che Paolo “è uno di noi”?
Guardini offre una serie di ragioni a riguardo. Ad esempio, Paolo fu l’unico apostolo a non vedere Gesù con i propri occhi nella sua vita terrena e di Lui ha avuto notizia soltanto come la possiamo avere noi, cioè dall’esterno, ad opera di quelli che riferiscono di Lui e per gli effetti che da Lui si ripercossero nella storia; in un secondo momento anche dall’interno, allorché il Signore lo chiamò e gli si rivelò nel cuore. Ancora, quando Paolo delinea la propria figura di Cristo, lo fa attingendo fondamentalmente alle fonti alle quali pure noi facciamo ricorso, ovvero il messaggio tramandato e la propria esperienza. Inoltre, ciò che a noi manca, e che invece ebbe un’influenza enorme nei riguardi dei primi apostoli, cioè l’essere stati testimoni oculari, mancava anche a lui[6]. Tutto ciò porta Guardini a concludere che “proprio per questo, Paolo è l’uomo che fa al caso nostro: e se qualcuno afferma di comprendere il Nuovo Testamento senza far ricorso a Paolo, è da temere che non sia riuscito a comprendere molto della figura di Cristo”[7].
L’orizzonte che qui si dischiude, pertanto, è quello di analizzare l’esistenza di Paolo onde poter tratteggiare, utilizzando essa come guida, l’identità concreta di una vera esistenza-in Cristo che sia esemplare per ogni soggetto cristiano. Attraverso questo procedimento, infatti, risulta parafrasata concretamente, cioè resa esplicita, la volontà “pura” di Guardini, cioè la sua intenzione teologica originaria: “Ora diremo come l’essere di Cristo si attua nella personalità del cristiano, diremo cioè dell’immagine dell’uomo, che accoglie il messaggio con fede e fiducia, e si sforza di vivere in esso; cioè di compiere quella metànoia che è richiesta da Gesù con le prime parole. La risposta più profondamente urgente implica ciò che si può definire come una teologia dell’esistenza cristiana”[8].
Viene così da porsi con una certa inquietudine l’interrogativo che lo stesso autore pone a sé medesimo, ovvero, in termini esistenziali, chi fosse san Paolo. Se Guardini osserva a tutto tondo la figura paolina, scrutando con profonda attenzione quanto i testi biblici, e in particolare le stesse lettere paoline, rivelano direttamente o indirettamente di lui, non si getta, tuttavia, in un cieco inseguimento di un’ideale figura umana che si è riconosciuta primariamente come esemplare. Si intende dire, cioè, che Guardini, nel suo procedere teologico entro l’essenziale cristiano, cioè la persona di Cristo, segue sempre le linee strutturali della propria fede cristiana, senza mai dimenticare, quindi, il proprio concetto di esistenza cristiana e di opposizione polare nel soggetto umano. In termini pratici, se per Guardini, primariamente, “esistere significa che questo essere vivente critichi se stesso, sia dunque capace di prendere coscienza della differenza fra attività vera e falsa… determinare quel che si dice norma e valore”[9]; ancora, se “interiore a sé può essere solo ciò che ha almeno una possibilità di essere anche fuori di sé”[10], proprio perché, come indica la Iannascoli, “solo quando l’uomo si sa osservare come oggetto, si vede e si sa soggetto”[11], così che “contemplante e contemplato, soggetto e oggetto affiorano nella coscienza distinti l’uno dall’altro”[12], ebbene, attraverso questa prospettiva di pensiero sua personale Guardini incontra san Paolo e ne tratteggia la figura, riconoscendo in essa, come si è detto, un’esperienza archetipica dell’Io cristiano. L’autore, tuttavia, non cade nella trappola del superficialismo teologico, che vorrebbe dividere in due tronconi netti l’esistenza di Paolo, uno relativo al tempo prima della sua conversione, l’altro ad essa successivo, ma con la sua solita prudenza che tende a salvaguardare l’insieme, Guardini osserva ciò che di strutturante vi è nell’esistenza paolina nella sua interezza, senza tralasciare il radicale cambiamento operato dall’incontro con Cristo. Taluni aspetti esistenziali paolini, infatti, permangono anche dopo il noto avvenimento sulla via di Damasco, seppur nella nuova luce di quel Signore “che è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del Signore, ivi c’è libertà” (2Cor 3,17).
Ora, rispondendo alla domanda esplicita “che uomo era, dunque, san Paolo?”, Guardini utilizza i parametri sopra accennati per offrire un quadro antropologico ed esistenziale dell’apostolo di Tarso. La personalità paolina, secondo l’autore italo-tedesco, “era tormentata da due forti passioni: una sensualità potente ed una grande ambizione; egli è il solo che parla di collette”[13]. La citazione di Rm 7,15, con cui sopra si è introdotta la figura di Paolo in questo paragrafo, si fa adesso quanto mai impellente. Essa, tuttavia, non è che un momento importante di tutto un quadro esistenziale; infatti, se lungo tutta la sua esistenza precristiana, “in se stesso, nelle sue membra, Paolo sente il contrasto di due potenze, una buona ed una cattiva, ma non riesce a dar libero passaggio a quella buona e a soggiogare la cattiva, ma piuttosto odia se stesso, si fa violenza, e finisce per sentirsi sempre più disperatamente misero”[14], anche dopo l’esperienza sulla via di Damasco la “tensione esistenziale” da Guardini individuata nel santo di Tarso appare talora un’istanza invalicabile: “Paolo non sembra né perfettamente sano, né completamente sicuro di sé. Egli sembra essere stato uno di quegli uomini che attirano le calamità, che predispongono contro di sé la loro sorte, un uomo tormentato”[15]. Le stesse Scritture sembrano confermare la visione guardiniana di san Paolo, traslando però quella che psicologicamente appare come una forte angoscia interiore in una più teologica inquietudine dello spirito. Per esempio, in At 9,16 il Signore dice di lui ad Anania. “Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome”; di fronte alle incomprensioni dei Corinzi, Paolo afferma di se stesso: “Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi, tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde” (2 Cor 11,24-25), premettendo come tutto ciò sia avvenuto nonostante la sua apparente dualità: “Io davanti a voi così meschino, ma di lontano così animoso con voi” (2 Cor 10,1). La stessa immagine fisica di Paolo, così come deducibile dalle Scritture, testimonia per Guardini una sua ulteriore difficoltà sociale, questa volta legata alla dimensione estetica dell’apparire. Infatti, ciò che ad esempio si deduce dal passo di Atti 14,12, in cui si dice che dopo una guarigione operata a Listra i presenti “chiamavano Barnaba ‘Zeus’ e Paolo ‘Mercurio’, perché era lui il più eloquente”, secondo Guardini “sta a significare come Barnaba dovesse avere una figura più imponente, mentre Paolo fosse piccolo di statura e non appariscente”[16]. Tuttavia vi è soprattutto un momento biblico che Guardini riconosce come particolarmente emblematico per quella tensione paolina che, seppur non esplicitamente, rimanda alla struttura degli opposti polari così preponderante nel pensiero di Guardini. Si tratta del brano contenuto in 2Cor 12,7-9, dove Paolo afferma: “Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed Egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia’. Mi vanterò dunque ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo”. Il racconto è un ulteriore suggello al brano già citato di Rm 7,15 e testimonia ancora di più quanto “Paolo ha dovuto soffrire molto, continuamente e per tutto”[17], e come nonostante l’avvenuta conversione, “nella sua nuova realtà di cristiano egli ha preteso da sé molto di più di quanto pretendesse prima”[18].
Perché, dunque, verrebbe da chiedersi, un tale attaccamento alla figura di Paolo da parte di Guardini, al punto da erigerlo a riferimento primario per un’esistenza-in Cristo? Quale fascino può destare, nel credente, una tal figura di cristiano zelante che, per come sinora è stata descritta, potrebbe suggerire un concetto semmai ombroso e tormentato di esistenza?
Guardini introduce, a questo proposito, un primo momento di forte “spaccatura” esistenziale nell’esperienza personale di Paolo, che molte volte viene tralasciato o comunque messo ai margini dall’episodio avvenuto sulla via di Damasco: l’incontro di Paolo con la giovane Chiesa rappresentata in particolare dal martire Stefano. Questo incontro per Guardini è assai significativo per lo zelante “Saulo”, soprattutto nella misura in cui quella tensione polare entro se stesso, che in ultima istanza non è mai stata davvero sopita in lui, è venuta alla luce per lo meno in termini di autocoscienza di sé, mostrandogli cioè la dimensione di se stesso, facendo emergere in lui il guardiniano “punto intimo dove sto”: “Di fronte all’eroica e sublime figura di Stefano, egli ha per la prima volta la percezione della potenza di Cristo, ma, naturalmente, ciò non fa altro che eccitarlo ancor più nella sua furia devastatrice”[19].
Un’esperienza forte, pertanto, ma non ancora debellante quel senso di autosufficienza, quella volontà tirannica rinchiusa entro le barriere del proprio Io e così fortemente legata alla metodicità, alla prassi legale, allo zelo religioso. Su questo terreno esistenziale, che se non altro ora appare “cosciente” allo stesso Paolo, irrompe l’azione trasformatrice della grazia, l’unica via, come si vedrà nel seguente paragrafo, di conciliazione degli opposti: l’apparizione di Cristo sulla via di Damasco. E tale esperienza, per come la interpreta Guardini, è proprio la risposta alla domanda posta qui sopra, cioè la ragione del fascino che la figura di Paolo esercita sul soggetto cristiano: “Quando Paolo è sulla via di Damasco, vede una luce, e non il volto di Cristo. In chi legge le sue lettere, si forma la convinzione che il Gesù Cristo di cui esse trattano è più potenza in atto, energia creativa, luce illuminante, vita irradiante e creante, che non una figura fisica sulla quale si possa fissare lo sguardo, un volto da poter rimirare. Nei Sinottici, invece, abbiamo un Gesù che guarda verso di noi, che ci rivolge la parola, che agisce. Ciò certamente è un privilegio prezioso che gli evangelisti ci offrono, ma al contempo un elemento che ci dà l’impressione di essere tanto lontani dalla loro narrazione in quanto non abbiamo mai visto con gli stessi nostri occhi il Signore”[20].
Con Paolo, quindi, il credente di ogni tempo si sente, secondo Guardini, maggiormente “condividente” l’esperienza dell’apostolo di Tarso, percependo come lui non la fisicità concreta di un volto, non dei tratti somatici esclusivi di un soggetto umano, non una carne o degli occhi, né uno sguardo o un’espressione del volto storici, bensì la presenza di una potenza esclusiva, l’irrompere di un’energia liberante, trasformatrice, un Qualcuno dalla luce inaccessibile che tuttavia si fa incontro all’uomo, permettendogli di scoprire come “in Lui viviamo, ci muoviamo e siamo” (At 17,28). In virtù di tale potenza Paolo riesce a superare le proprie tensioni esistenziali non, come si vorrebbe, eliminandole da se stesso, ma vivendo con esse nella nuova dimensione del battezzato, proprio in virtù di quel battesimo “a lui tanto caro che non è qualcosa di psicologico o etico, ma di pneumatico-reale”[21], affermando “che nell’uomo avviene qualcosa di singolare. Egli viene a trovarsi in comunione di esistenza con Cristo, proprio come se questi penetrasse in lui e vi permanesse come figura fino a dominarlo, come forza ad agire in lui. E quando Gesù si è stabilito in noi, vuole rivelarsi nell’esistenza umana”[22].
Qui si entra nuovamente nel cuore del Cristianesimo, attestando perciò il legame inscindibile tra l’essenza del Cristianesimo e l’esistere-in Cristo. Colui in cui si crede, infatti, che è persona viva e concreta, è pure Colui che nell’atto di fede da parte del credente penetra in lui realizzando una coabitazione esistenziale. Una coabitazione, però, che non va intesa secondo il senso comune del termine, intendendo cioè la reciproca presenza di due soggetti entro la stessa abitazione. Nel Cristianesimo colui che realmente vive è il Cristo, il quale plasma il soggetto credente nella sua particolarità di essere e di vita, nei suoi doveri e nei suoi destini, e ancor più non lo fa “individualmente”, cioè relativamente ad un singolo individuo, ma vive nella Chiesa, trasporta l’esistenza dell’uno nell’esistenza del complesso della cristianità, dove realmente “circola una stessa linfa, palpita una stessa vita, impera la stessa figura umana e divina”[23].
Ecco allora di nuovo “la differenza di ciò che è cristiano” (Unterscheidung des Christlichen)[24], presentata sotto una nuova veste, ovvero quella dell’esistenza umana, “che per essere salvata deve dunque essere incorporata nella realtà di Cristo”[25]. Tale differenza è proprio l’in-existenz, l’esistere-in Cristo, a partire dallo stesso Cristo che interpella l’uomo con una pretesa non astratta ma concreta[26], a partire dalla quale i fedeli devono camminare in Lui, “ben radicati e fondati in Lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, abbondando nell’azione di grazie” (Col 2,7). In questo senso risulta per Guardini quanto mai pregnante la testimonianza di Paolo, nelle cui lettere “ritorna di continuo una espressione caratteristica: ‘in-Cristo”[27]. Fede cristiana, infatti,  significa essere in Cristo, cioè il continuo “essere spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni” (Col 3,9) per rivestirsi dell’uomo nuovo, per poter “partecipare alla sorte dei santi nella luce” (Col 2,12). Questo perché, come afferma ancora Paolo, “se uno è in Cristo, è una nuova creatura. Le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17), per cui al credente è richiesto di effettuare con Cristo, nella propria esistenza, l’azione redentiva mediante una vittoria sempre nuova, affinché Cristo si formi in Lui (Gal 4,19)[28], e quindi “credere, venir battezzato, essere cristiano, insieme con tutto l’agire cristiano, significa inserirsi in questo permanente avvenimento; venirne afferrato ed esserne reso partecipe, in esso stare innanzi a Dio”[29]. Tutto questo avviene, come sottolinea Guardini, sempre nella bilatitudine dell’esistere in Cristo: la dimensione individuale, certamente, ma sempre nella prospettiva del Noi ecclesiale, cioè “l’unione della comunità credente come tale, un qualcosa che trascende la mera somma dei singoli credenti, ciò che è, insomma, la Chiesa”[30]. In ultima istanza, pertanto, l’esperienza soggettiva del cristiano è sempre una esperienza comunitaria del Cristo che vive nella Chiesa.

 - La Casa di Miriam –

LA MISTICA DI SAN PAOLO CONTRO LA CULTURA DEL DIAVOLO

http://www.zenit.org/article-31190?l=italian

LA MISTICA DI SAN PAOLO CONTRO LA CULTURA DEL DIAVOLO

Un commento all’ultima Udienza Generale di Benedetto XVI

di Massimo Introvigne
ROMA, mercoledì, 13 giugno 2012 (ZENIT.org) – All’Udienza Generale del 13 giugno 2012, continuando nella sua «scuola della preghiera» dedicata a san Paolo, Benedetto XVI ha commentato l’esperienza narrata nel capitolo 12 della Seconda Lettera ai Corinzi, una delle due esperienze fondamentali che segnano tutta la vita dell’Apostolo insieme a quella del primo incontro con il Signore sulla via di Damasco.
Si tratta dell’esperienza sconvolgente del rapimento in Cielo. Nella Seconda Lettera ai Corinzi, «di fronte a chi contestava la legittimità del suo apostolato, egli non elenca tanto le comunità che ha fondato, i chilometri che ha percorso; non si limita a ricordare le difficoltà e le opposizioni che ha affrontato per annunciare il Vangelo, ma indica il suo rapporto con il Signore, un rapporto così intenso da essere caratterizzato anche da momenti di estasi». San Paolo dunque ricorda che, quattordici anni prima dall’invio della Lettera, «fu rapito – così dice – fino al terzo cielo» (v. 2), fino al «giardino» stesso di Dio.
«Con il linguaggio e i modi di chi racconta ciò che non si può raccontare», san Paolo afferma che l’evento è stato talmente sconvolgente che egli «non ricorda neppure i contenuti della
rivelazione ricevuta, ma ha ben presenti la data e le circostanze in cui il Signore lo ha afferrato in modo così totale, lo ha attirato a sé, come aveva fatto sulla strada di Damasco al momento della sua conversione».
Il Papa ha dedicato la sua catechesi soprattutto a un dettaglio del racconto. San Paolo avrebbe potuto insuperbirsi dopo una tale esperienza. Perché questo non accada, egli porta nella sua carne una «spina» (2Cor 12,7), e per tre volte ha supplicato il Signore di esserne liberato. Alla fine, in una contemplazione nella quale «udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare» (v.4), il Signore si è manifestato e ha risposto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (v.9).
Con un commento che, nota il Pontefice, «può lasciare stupiti», nel riferire questo episodio ai Corinzi l’Apostolo aggiunge: «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (vv. 9b-10).
Qui vi è qualcosa di «fondamentale anche per la nostra preghiera e per la nostra vita, per la nostra relazione a Dio e alle nostre debolezze». Benché si siano fatte varie speculazioni, che cosa fosse davvero questa «spina» nella carne noi «non lo sappiamo e [San Paolo] non lo dice». Quello che invece sappiamo con certezza è che «ogni difficoltà nella sequela di Cristo e nella testimonianza del suo Vangelo può essere superata aprendosi con fiducia all’azione del Signore».
Non superata attraverso una nostra presunta forza. Al contrario, «nel momento in cui si sperimenta la propria debolezza, si manifesta la potenza di Dio, che non abbandona, non lascia soli, ma diventa sostegno e forza». Certo, «Paolo avrebbe preferito essere liberato da questa “spina”, da questa sofferenza; ma Dio dice: “No, questo è necessario per te. Avrai sufficiente grazia per resistere e per fare quanto deve essere fatto”».
E «questo vale anche per noi. Il Signore non ci libera dai mali, ma ci aiuta a maturare nelle sofferenze, nelle difficoltà, nelle persecuzioni». Come spiega lo stesso testo della Seconda Lettera ai Corinzi, quando ci affidiamo a Dio, «se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, ci sono tante difficoltà, quello interiore invece si rinnova, matura di giorno in giorno proprio nelle prove» (cfr v. 16).
L’Apostolo ci assicura che «il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria» (v. 17). Non dobbiamo però credere che si trattasse solo di piccole difficoltà: «umanamente parlando, non era leggero il peso delle difficoltà, era gravissimo; ma in confronto con l’amore di Dio, con la grandezza dell’essere amato da Dio, appare leggero».
È l’umiltà la chiave di tutto: «non è la potenza dei nostri mezzi, delle nostre virtù, delle nostre capacità che realizza il Regno di Dio, ma è Dio che opera meraviglie proprio attraverso la nostra debolezza, la nostra inadeguatezza all’incarico. Dobbiamo, quindi, avere l’umiltà di non confidare semplicemente in noi stessi, ma di lavorare, con l’aiuto del
Signore, nella vigna del Signore, affidandoci a Lui come fragili “vasi di creta”».
Questo episodio relativo a san Paolo sembra riguardare solo lui – chi infatti potrebbe essere rapito fino al Terzo Cielo? – ma invece riguarda tutti noi e trova il suo posto logico in una «scuola della preghiera» come quella che il Papa sta proponendo. «Nella preghiera noi apriamo, quindi, il nostro animo al Signore affinché Egli venga ad abitare la nostra debolezza, trasformandola in forza per il Vangelo».
San Paolo, per indicare la presenza di Dio in lui, usa il vero greco «episkenoo», letteralmente «porre la propria tenda». Sì, «il Signore continua a porre la sua tenda in noi, in mezzo a noi: è il Mistero dell’Incarnazione. Lo stesso Verbo divino, che è venuto a dimorare nella nostra umanità, vuole abitare in noi, piantare in noi la sua tenda, per illuminare e trasformare la nostra vita e il mondo».
L’esperienza di San Paolo, parallela a quella degli Apostoli nella Trasfigurazione, c mostra che «contemplare il Signore è, allo stesso tempo, affascinante e tremendo: affascinante perché Egli ci attira a sé e rapisce il nostro cuore verso l’alto, portandolo alla sua altezza dove sperimentiamo la pace, la bellezza del suo amore; tremendo perché mette a nudo la nostra debolezza umana, la nostra inadeguatezza, la fatica di vincere il Maligno che insidia la nostra vita, quella spina conficcata anche nella nostra carne».
Il richiamo del Pontefice alla presenza del Maligno richiama quello, parallelo, nella «lectio divina» sul Battesimo dello scorso 11 giugno in San Giovanni in Laterano, per il Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma. Qui il Papa aveva detto che i riferimenti nel rito del
Battesimo a Satana non sono semplici metafore.
Alludono a «una certa creatura che è dominante e si impone come se fosse questo il mondo, e come se fosse questo il modo di vivere che si impone». C’è una vera e propria cultura del Diavolo, una «cultura del male», spesso «dominante», una «cultura alla quale diciamo “no”. Essere battezzati significa proprio sostanzialmente un emanciparsi, un liberarsi da questa cultura.
Conosciamo anche oggi un tipo di cultura in cui non conta la verità; anche se apparentemente si vuol fare apparire tutta la verità, conta solo la sensazione e lo spirito di calunnia e di distruzione. Una cultura che non cerca il bene, il cui moralismo è, in realtà, una maschera per confondere, creare confusione e distruzione. Contro questa cultura, in cui la menzogna si presenta nella veste della verità e dell’informazione, contro questa cultura che cerca solo il benessere materiale e nega Dio, diciamo “no”».
Ma nella preghiera, ha spiegato all’udienza del 13 giugno, sconfiggere questa «cultura del male» diventa possibile. «In un mondo in cui rischiamo di confidare solamente sull’efficienza e la potenza dei mezzi umani, in questo mondo siamo chiamati a riscoprire e testimoniare la potenza di Dio che si comunica nella preghiera».
Benedetto XVI ha voluto ricordare le parole del celebre teologo e missionario protestante Albert Schweitzer (1875-1965), secondo cui «Paolo è un mistico e nient’altro che un mistico». San Paolo è l’uomo che è stato rapito fino al giardino stesso di Dio. Ma nello stesso tempo «la mistica non lo ha allontanato dalla realtà, al contrario gli ha dato la forza di vivere ogni giorno per Cristo e di costruire la Chiesa fino alla fine del mondo di quel tempo.
L’unione con Dio non allontana dal mondo, ma ci dà la forza di rimanere realmente nel modo, di fare quanto si deve fare nel mondo». Questo vale anche nei momenti di aridità spirituale, e qui il Papa ha richiamato la beata Madre Teresa di Calcutta (1910-1997), che «nella contemplazione di Gesù e proprio anche in tempi di lunga aridità trovava la ragione ultima e la forza incredibile per riconoscerlo nei poveri e negli abbandonati, nonostante la sua fragile figura.
La contemplazione di Cristo nella nostra vita non ci estranea – come ho già detto – dalla realtà, bensì ci rende ancora più partecipi delle vicende umane, perché il Signore, attirandoci a sé nella preghiera, ci permette di farci presenti e prossimi ad ogni fratello nel suo amore».

PAOLO MISTICO

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano8/ghidelli_annopaolino2.htm

Carlo Ghidelli
Arcivescovo di Lanciano – Orlona
UN ANNO CON SAN PAOLO
Lettera dell’Arcivescovo per l’anno dedicato a san Paolo (28 giugno 2008 – 29 giugno 2009)

CAPITOLO OTTAVO

PAOLO MISTICO

Ci sono, nelle Lettere di Paolo, alcune pagine che descrivono le sue esperienze mistiche: quelle attraverso le quali egli ha potuto penetrare più a fondo nel mistero di Cristo Signore. Certo, di sua natura una esperienza mistica è unica e irripetibile, è qualcosa di personale e inimitabile: eppure ciò che Paolo dice di se stesso, sotto un certo profilo ci coinvolge come credenti e come amici di Cristo. La più importante di queste pagine la troviamo certamente in 2 Corinzi 12,1-10 e una lettura attenta non potrà non provocare in noi un forte stupore e una grande ammirazione.
Al di là di quello che di straordinario Paolo dice di se stesso (si tratta di visioni e di rivelazioni che sfuggono alla normale esperienza religiosa del credente), ci impressiona il modo con il quale egli riferisce queste sue esperienze mistiche. Comincia col dire che egli potrebbe anche vantarsi di quello che ha visto e udito, ma poi termina accennando a una spina che gli è stata messa nella carne, perché non montasse in superbia. Come si vede, il discorso è tutt’altro che autoelogiativo; al contrario, Paolo dimostra di voler inserire le sue esperienze mistiche nel vissuto quotidiano ed elevare la sua vita feriale alle somme altezze della grazia. Si tratta, direi, di una mistica ordinaria, nel senso che essa può essere appannaggio di tutti i credenti, a condizione che essi si lascino attrarre dalla forza irresistibile della grazia e si lascino introdurre nel talamo dell’intimità divina. Cosa non affatto difficile perché lo Spirito del Signore risorto agisce efficacemente e affettivamente nel cuore di ogni credente.
Una cosa è certa: a Paolo è stata donata una meravigliosa opportunità, quella di sondare il mistero della Trinità passando attraverso il mistero di Cristo nella potenza dello Spirito Santo. Ed è questo, non altro, il cammino di perfezione attraverso il quale deve passare ogni autentico discepolo di Cristo Signore: vivere nell’intimità dello Spirito Santo, pienamente sottomesso all’insegnamento di Gesù, per approdare alla comunione di Dio Padre (vedi 2 Corinzi 13,13). L’impronta trinitaria del nostro cammino di fede dovrebbe essere talmente evidente da trasformare ogni nostra azione, ogni nostra preghiera, in un inno di lode alla Trinità.
Per questo san Giovanni Crisostomo ha potuto affermare: «Cor Pauli cor Christi». Come per dire: se vuoi conoscere il cuore di Cristo cerca di conoscere il cuore di Paolo. E noi sappiamo che il termine « cuore » comprende tutto il segreto della personalità, tutte le ricchezze della persona. Certamente Paolo non è l’unica via per arrivare a Cristo, ma non c’è alcun dubbio che, per molti di coloro che tendono seriamente alla perfezione, egli ha aperto, una volta per sempre, una via maestra. Lo avvertiamo in queste sue parole che contengono un invito a seguirlo sulla via della piena assimilazione a Cristo: «lo piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei eieli e sulla terra prende nome, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito nell’uomo interiore. Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,14-19).
Chi scrive in questo modo dimostra chiaramente di vivere ciò che dice: è certamente il caso di Paolo che, con grande discrezione ma con altrettanta immediatezza, si propone come esempio di vita cristiana, vissuta alle massime altezze: «Vi esorto, dunque, fatevi miei imitatori!» (1Cor 4,16). Da lui noi tutti impariamo qualcosa di eccezionalmente importante: che nella vita quello che conta non è eiò che si fa, ma il grado d’amore con il quale accogliamo l’amore di Dio per noi e svolgiamo i nostri doveri di cittadini e di cristiani.
Ma forse il vertice della mistica paolina sta nel rapporto paterno-filiale di Dio con noi e di noi con Dio. Anche solo il pensare che noi possiamo rivolgerei a Dio chiamandolo con il dolce nome di « Padre » ei riempie il cuore di commozione e di gioia. Se poi, come ci insegna san Paolo, a noi è offerta la possibilità di intessere con Dio un rapporto di profonda intimità filiale, arrivando a trattarlo con quella libertà con la quale un bambino tratta il suo babbo, allora comprendiamo che in questo modo ei si apre l’accesso al mistero trinitario. Noi come Gesù possiamo invocare Dio con il dolce nome di « Abbà » che corrisponde al nostro « papi » (cfr. Gal 4,6: Rm 8,15): niente di più bello, niente di più alto, niente di più profondo.

Publié dans:Paolo - mistico |on 2 mars, 2009 |Pas de commentaires »

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