BUON ANNO A TUTTI

TE DEUM – ITALIANO – LATINO
Noi ti lodiamo, Dio *
ti proclamiamo Signore.
O eterno Padre, *
tutta la terra ti adora.
A te cantano gli angeli *
e tutte le potenze dei cieli:
Santo, Santo, Santo *
il Signore Dio dell’universo.
I cieli e la terra *
sono pieni della tua gloria.
Ti acclama il coro degli apostoli *
e la candida schiera dei martiri;
le voci dei profeti si uniscono nella tua lode; *
la santa Chiesa proclama la tua gloria,
adora il tuo unico figlio, *
e lo Spirito Santo Paraclito.
O Cristo, re della gloria, *
eterno Figlio del Padre,
tu nascesti dalla Vergine Madre *
per la salvezza dell’uomo.
Vincitore della morte, *
hai aperto ai credenti il regno dei cieli.
Tu siedi alla destra di Dio, nella gloria del Padre. *
Verrai a giudicare il mondo alla fine dei tempi.
Soccorri i tuoi figli, Signore, *
che hai redento col tuo sangue prezioso.
Accoglici nella tua gloria *
nell’assemblea dei santi.
Salva il tuo popolo, Signore, *
guida e proteggi i tuoi figli.
Ogni giorno ti benediciamo, *
lodiamo il tuo nome per sempre.
Degnati oggi, Signore, *
di custodirci senza peccato.
Sia sempre con noi la tua misericordia: *
in te abbiamo sperato.
Pietà di noi, Signore, *
pietà di noi.
Tu sei la nostra speranza, *
non saremo confusi in eterno.
TE DEUM
Te Deum laudámus: * te Dóminum confitémur.
Te ætérnum Patrem, * omnis terra venerátur.
Tibi omnes ángeli, *
tibi cæli et univérsæ potestátes:
tibi chérubim et séraphim *
incessábili voce proclamant:
Sanctus, * Sanctus, * Sanctus *
Dóminus Deus Sábaoth.
Pleni sunt cæli et terra * maiestátis glóriæ tuae.
Te gloriósus * Apostolórum chorus,
te prophetárum * laudábilis númerus,
te mártyrum candidátus * laudat exércitus.
Te per orbem terrárum *
sancta confitétur Ecclésia,
Patrem * imménsæ maiestátis;
venerándum tuum verum * et únicum Fílium;
Sanctum quoque * Paráclitum Spíritum.
Tu rex glóriæ, * Christe.
Tu Patris * sempitérnus es Filius.
Tu, ad liberándum susceptúrus hóminem, *
non horruísti Virginis úterum.
Tu, devícto mortis acúleo, *
aperuísti credéntibus regna cælórum.
Tu ad déxteram Dei sedes, * in glória Patris.
Iudex créderis * esse ventúrus.
Te ergo, quæsumus, tuis fámulis súbveni, *
quos pretióso sánguine redemísti.
ætérna fac cum sanctis tuis * in glória numerári.
Salvum fac pópulum tuum, Dómine, *
et bénedic hereditáti tuæ.
Et rege eos, * et extólle illos usque in ætérnum.
Per síngulos dies * benedícimus te;
et laudámus nomen tuum in sæculum, *
et in sæculum sæculi.
Dignáre, Dómine, die isto *
sine peccáto nos custodíre.
Miserére nostri, Dómine, * miserére nostri.
Fiat misericórdia tua, Dómine, super nos, *
quemádmodum sperávimus in te.
In te, Dómine, sperávi: *
non confúndar in ætérnum.
http://www.stpauls.it/madre06/0402md/0402md04.htm
LA « THEOTÓKOS » CRITERIO DI ORTODOSSIA E DI ORTOPRASSI
di STEFANO DE FIORES
Il nesso Eucaristia-Maria costituisce un singolare luogo di costruzione dell’unità della famiglia umana, rivelazione del mistero del Nuovo Adamo e della Nuova Eva. – La Chiesa è esistenzialmente eucaristica e mariana.
Theotókos, il titolo mariano per eccellenza, è il criterio radicale della corretta fede, una spia e una sentinella, perché veglia sul titolo « Dio » dato a Gesù, affinché esso non venga svuotato. Non si giustifica, anzi diventa blasfemo, appena si cessa di riconoscere in Gesù il Dio fatto uomo. L’omooúsios (= stessa sostanza) è l’unico concetto capace di impedire, circa la divinità di Gesù, ogni ambiguità. Uno può chiamare Gesù Dio e intendere Dio in maniere diverse: Dio per adozione, per inabitazione, per modo di dire. Ma non può più, in questo caso, continuare a chiamare Maria « Madre di Dio ». Ella è Madre di Dio solo se Gesù è Dio al momento stesso di nascere da lei.
È criterio di ortodossia nella pietà popolare e nella fede dotta. Lo è stato nei secoli, fin dalle origini cristiane. Il titolo, infatti, è stato riconosciuto, non inventato ad Efeso, come Nicea non ha inventato l’omooúsios; esso vigila sulle due nature di Gesù Cristo, e, contemporaneamente, qualifica e definisce Maria nella storia della Salvezza contro ogni riduzione e retorica. Il titolo ci parla dell’unità profonda tra Dio e l’uomo realizzata in Gesù; di come Dio si è legato all’uomo e lo abbia unito a sé nell’unità più profonda che possa esistere al mondo: l’unità della persona.
Maria, ‘laboratorio della fede’
Il seno di Maria – dicevano i Padri – è stato il talamo in cui sono avvenute le nozze di Dio con l’umanità, il telaio in cui fu tessuta la tunica dell’unione, il laboratorio in cui si operò l’unione tra Dio e l’uomo[…].
« Chiamare Maria Theotókos è il modo più sicuro di proclamare l’unione ipostatica […]. Il titolo è una specie di baluardo che si oppone sia all’ideologizzazione di Gesù […] sia alla separazione, in lui, dell’umanità dalla divinità, che metterebbe in pericolo la nostra salvezza. Maria è colei che ha ancorato Dio alla terra ».
Ella presiede alla fede custodendo l’identità, l’ontologia di Gesù, il Figlio dell’Altissimo e Figlio suo, Rivelatore del Dio Amore paterno-materno. Ha svolto questa funzione soprattutto nei momenti difficili, come una specie di anticorpo contro i virus delle eresie.
In epoca antignostica la sua maternità fisica è chiamata in causa per insistere contro gli eretici sul vero corpo di Gesù, tratto dalla carne e sangue di lei, frutto del suo grembo, nato da lei e non attraverso di lei, quindi con la sua concretissima umanità, perché ella ha offerto l’attiva partecipazione al farsi carne dell’Unigenito.
Pertanto, custodendo la vera umanità di lui, ne indica l’identità di Figlio dell’Altissimo. Nella sua divina maternità sottolinea, così, la vera umanità di Gesù e la sua trascendenza. La Chiesa progressivamente scoprirà il senso della maternità di Maria che la conduce nel cuore della Trinità: Gesù, nato dal Padre dall’eternità, nella pienezza dei tempi è nato da Maria per opera dello Spirito Santo.
Calcedonia rappresenta un passo decisivo nell’approfondimento della fede proprio nella direzione della maternità di Maria e dell’ontologia di Gesù, elaborando un criterio generale di singolare chiarezza pure in teologia.
G. Lafont al riguardo sottolinea che questo Concilio fornisce alla teologia una chiave d’oro che garantisce alla Chiesa la permanenza nella verità e assicura l’equilibrio del suo messaggio evangelizzatore. « Senza divisione e confusione, senza separazione e mescolanza », è detto del mistero di Cristo, ma, essendo un principio universale, si dice di tutta la fede come pensiero e vita. Per questo la fecondità o la crisi della teologia si misura dalla fedeltà a questo assioma.
Le difficoltà più gravi vengono dalle seduzioni monofisite, più dannose dell’eccesso inverso che accentua la separazione. « Il pericolo monofisita può dare l’illusione di essere nella verità o, a breve termine, di difenderla; il che rende difficile la sua correzione. In altri termini, si potrebbe dire che ogni volta che la Chiesa ha avuto paura dell’umano, delle sue manifestazioni, del suo sviluppo o – il che è in fondo la stessa cosa – ogni volta che essa si è sottratta, per ragioni spirituali o di natura diversa, al dovere di pensare e ha impedito ai suoi fedeli di dedicarsi a tale compito, essa ha operato contro il Vangelo che doveva diffondere [...].
La ragione più profonda, ma evidentemente non la sola, della scristianizzazione risiede probabilmente qui. Ciò sottolinea l’importanza del rischio di pensare in ogni processo di nuova evangelizzazione.[…] Infine, la comunione come scambio simbolico di dono e risposta, è il paradigma cristiano per eccellenza; esso non esclude gli altri, li riorienta piuttosto in una direzione che è sconosciuta alla ragione umana lasciata a se stessa, ma che la trasfigura quando le viene rivelata: la centralità del mistero pasquale di Gesù Cristo nella storia degli uomini, l’essenza di Dio, Essere in pienezza all’interno di un Amore trinitario in cui tutto è di tutti e nulla è di nessuno. Questa è anche la vocazione ultima dell’umanità creata e chiamata da questo Amore ».
‘Caro Christi caro Mariae’
Dio si rivela nella carne del Cristo, proclamandosi il Dio per e di tutti in quanto nella sua carne assume ogni creatura salvandola a partire dalla carne. Maria entra in questo evento liberamente con il suo ‘sì’ a nome dell’umanità.
La spiritualità educativa mariana di don Bosco è tutta radicata nell’Eucaristia. La mariologia, come la cristologia, non è un’isola nel pensare teologico, è un « aeroporto internazionale ».
« Solo dall’Eucaristia profondamente conosciuta, amata e vissuta, si può attendere quell’unità nella verità e nella carità voluta da Cristo e propugnata dal Concilio Vaticano II ».
Giovanni Paolo II con una certa insistenza richiama l’intimo nesso tra spiritualità eucaristica e spiritualità mariana, specie quando considera il percorso dell’umanità verso il Terzo Millennio, bisognosa del Salvatore e della sollecitudine della Madre: « Questa sua maternità è particolarmente avvertita e vissuta dal popolo cristiano nel sacro convito – celebrazione liturgica del mistero della Redenzione -, nel quale si fa presente Cristo, il suo vero corpo nato da Maria Vergine.
Ben a ragione la pietà del popolo cristiano ha sempre ravvisato un profondo legame tra la devozione alla Vergine santa e il culto dell’Eucaristia: è, questo, un fatto rilevabile nella liturgia sia occidentale che orientale, nella tradizione delle Famiglie religiose, nella spiritualità dei Movimenti contemporanei anche giovanili, nella pastorale dei Santuari mariani. Maria guida i fedeli all’Eucaristia ».
Il ‘Caro Christi caro Mariae’ rimanda, in maniera immediata, all’evento dell’Incarnazione, inteso in modo inclusivo della vicenda di Gesù, specie della sua Pasqua, il cui memoriale si celebra nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue assunti da Maria. È questo il motivo fondamentale del rapporto, un rapporto tra quelli intuitivamente più familiari nella tradizione, soprattutto nei Movimenti di spiritualità, nella pietà e nella devozione popolare, sebbene meno tematizzato nella ricerca teologica.
Lo Spirito trasforma il pane e il vino in Corpo e Sangue di Cristo, analogamente alla sua opera nell’Incarnazione nel seno della Vergine, analogamente alla sua azione nell’universo, specie nell’umanità che consente a lasciarsi conformare al Figlio Unigenito; una rigenerazione alla quale collabora la Madre. Ella ha offerto il suo consenso – il consentire a Dio è l’opera più divina possibile per la creatura umana – nella prima generazione del Figlio Unigenito fatto carne e nella seconda generazione della Comunità nuova, guidando alla fede i credenti soprattutto nel memoriale dell’Eucaristia.
Una Chiesa esistenzialmente eucaristica e mariana
La Chiesa nello stesso mistero trova la Madre intimamente congiunta al Figlio, e matura nella consapevolezza di essere essenzialmente ed esistenzialmente eucaristica e mariana.
Come per Gesù e per la Madre, così per la Chiesa e per ogni credente, l’Eucaristia è luogo di sintesi, quindi di discernimento nell’agape – memoriale dell’Ora –, luogo ove il Signore coniuga la sua vita con quella dei discepoli; sposa la sua Chiesa, facendola progressivamente partecipe del senso salvifico delle sue opere e parole proposte misticamente nella celebrazione. Qui si attua la Nuova Alleanza; quindi nasce il nuovo popolo di Dio nel suo essere e nella sua missione. Di qui parte ogni vocazione perché essa è cibo, fonte e culmine dell’esistenza cristiana, una vita secondo la logica di Cristo, nella radicale obbedienza della fede e nella solidarietà incondizionata che abbraccia tutta la creazione e ogni singola creatura. Maria vi partecipa in maniera singolare e unica come Nuova Eva.
L’esperienza religiosa di Gesù nella sua singolarità e normatività è partecipata ai credenti grazie al dono pasquale dello Spirito. Questa partecipazione si attua in maniera speciale nell’Eucaristia attraverso il memoriale dei fatti salvifici: qui si adora Dio in Spirito e Verità nel nuovo santuario che è Gesù, il Figlio di Dio e il Figlio di Maria. Lo Spirito in questo mistero fa penetrare nei cuori la Verità (cfr. Gv 4, 23; 19, 30), semina la Parola, come ha operato in Maria.
Le realtà materiali del pane e vino-acqua diventano trasparenza, segni che proclamano i misteri della Salvezza. Al posto di Gerusalemme, della figlia di Sion, vi è la Madre dei dispersi che viene a radunarli insieme a Cristo nell’unica famiglia di Dio. Maria, presente nella storia dell’umanità con il Figlio, prolunga nei secoli, specie nella Chiesa, la sua dinamica meditazione (cfr. Lc 2, 19.51).
Sotto la sua guida, la Comunità cristiana e ogni discepolo possono continuamente accogliere e custodire il mistero di Gesù per annunciarlo al mondo. Ella ci introduce alla vita eterna anticipata quaggiù nell’Eucaristia. Cristo risorto presente nell’Eucaristia è pegno della nostra risurrezione, Maria assunta in anima e corpo ci fa assaporare questo dono in anticipo: guidandoci all’Eucaristia, ci mostra « dopo questo esilio Gesù, il frutto benedetto del suo seno ». È un dono offerto a tutti: Gesù è Nuovo Adamo, figlio di Adamo e figlio di Maria; Maria è Nuova Eva, nostra sorella in Adamo, Madre del Cristo totale: inaugurano nella loro carne glorificata la salvezza universale.
In una società caratterizzata sempre più dal pluralismo etnico, culturale, socio-politico e religioso, questa proposta che scaturisce dall’amore per gli ultimi si presenta come la più universale possibilità di intesa. Così, si comprende come l’Eucaristia, il Sacramento dell’amore, e il nesso Eucaristia-Maria costituiscano un singolare luogo di costruzione dell’unità della famiglia umana, rivelazione del mistero del Nuovo Adamo e della Nuova Eva.
A. Triacca bene sintetizza tale riflessione con delle incisive annotazioni vicine al nostro tema, considerando l’esemplare presenza di Maria nella celebrazione del mistero di Cristo. Si introduce con tre aforismi.
Il primo è: di Maria non si dirà mai abbastanza per il principio che di Gesù non si dirà mai a sufficienza; il secondo: di Maria si deve parlare in modo delicato perché dello Spirito Santo, di cui Ella è tempio, si deve dire in modo soave; il terzo: di Maria e della Chiesa si dirà ottimamente se di ambedue si dirà simultaneamente.
Maria ha vissuto l’intima comunione col Figlio e i suoi misteri con intensa cooperazione personale ed esemplare vita teologale; perciò, ovunque è in atto la celebrazione dei misteri del Figlio, la presenza della Madre è efficacemente riattualizzata.
Stefano De Fiores
(meditazione su Paolo per Natale)
BENEDETTO XVI – IL MARTIRIO E L’EREDITÀ DI SAN PAOLO
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 4 febbraio 2009
San Paolo (20)
Il martirio e l’eredità di San Paolo
Cari fratelli e sorelle,
la serie delle nostre catechesi sulla figura di san Paolo è arrivata alla sua conclusione: vogliamo parlare oggi del termine della sua vita terrena. L’antica tradizione cristiana testimonia unanimemente che la morte di Paolo avvenne in conseguenza del martirio subito qui a Roma. Gli scritti del Nuovo Testamento non ci riportano il fatto. Gli Atti degli Apostoli terminano il loro racconto accennando alla condizione di prigionia dell’Apostolo, che poteva tuttavia accogliere tutti quelli che andavano da lui (cfr At 28,30-31). Solo nella seconda Lettera a Timoteo troviamo queste sue parole premonitrici: “Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele” (2 Tm 4,6; cfr Fil 2,17). Si usano qui due immagini, quella cultuale del sacrificio, che Paolo aveva usato già nella Lettera ai Filippesi interpretando il martirio come parte del sacrificio di Cristo, e quella marinaresca del mollare gli ormeggi: due immagini che insieme alludono discretamente all’evento della morte e di una morte cruenta.
La prima testimonianza esplicita sulla fine di san Paolo ci viene dalla metà degli anni 90 del secolo I, quindi poco più di tre decenni dopo la sua morte effettiva. Si tratta precisamente della Lettera che la Chiesa di Roma, con il suo Vescovo Clemente I, scrisse alla Chiesa di Corinto. In quel testo epistolare si invita a tenere davanti agli occhi l’esempio degli Apostoli, e, subito dopo aver menzionato il martirio di Pietro, si legge così: “Per la gelosia e la discordia Paolo fu obbligato a mostrarci come si consegue il premio della pazienza. Arrestato sette volte, esiliato, lapidato, fu l’araldo di Cristo nell’Oriente e nell’Occidente, e per la sua fede si acquistò una gloria pura. Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, e dopo essere giunto fino all’estremità dell’occidente, sostenne il martirio davanti ai governanti; così partì da questo mondo e raggiunse il luogo santo, divenuto con ciò il più grande modello di pazienza” (1 Clem 5,2). La pazienza di cui il testo parla è espressione della comunione di Paolo alla passione di Cristo, della generosità e costanza con la quale ha accettato un lungo cammino di sofferenza, così da poter dire: «Io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo» (Gal 6,17). Abbiamo sentito nel testo di san Clemente che Paolo sarebbe arrivato fino all’«estremità dell’occidente». Si discute se questo sia un accenno a un viaggio in Spagna che san Paolo avrebbe fatto. Non esiste certezza su questo, ma è vero che san Paolo nella sua Lettera ai Romani esprime la sua intenzione di andare in Spagna (cfr Rm 15,24).
Molto interessante invece è nella lettera di Clemente il succedersi dei due nomi di Pietro e di Paolo, anche se essi verranno invertiti nella testimonianza di Eusebio di Cesarea del secolo IV, che parlando dell’imperatore Nerone scriverà: “Durante il suo regno Paolo fu decapitato proprio a Roma e Pietro vi fu crocifisso. Il racconto è confermato dal nome di Pietro e di Paolo, che è ancor oggi conservato sui loro sepolcri in quella città” (Hist. eccl. 2,25,5). Eusebio poi continua riportando l’antecedente dichiarazione di un presbitero romano di nome Gaio, risalente agli inizi del secolo II: “Io ti posso mostrare i trofei degli apostoli: se andrai al Vaticano o sulla Via Ostiense, vi troverai i trofei dei fondatori della Chiesa” (ibid. 2,25,6-7). I “trofei” sono i monumenti sepolcrali, e si tratta delle stesse sepolture di Pietro e di Paolo, che ancora oggi noi veneriamo dopo due millenni negli stessi luoghi: sia qui in Vaticano per quanto riguarda san Pietro, sia nella Basilica di San Paolo fuori le Mura sulla Via Ostiense per quanto riguarda l’Apostolo delle genti.
È interessante rilevare che i due grandi Apostoli sono menzionati insieme. Anche se nessuna fonte antica parla di un loro contemporaneo ministero a Roma, la successiva coscienza cristiana, sulla base del loro comune seppellimento nella capitale dell’impero, li assocerà anche come fondatori della Chiesa di Roma. Così infatti si legge in Ireneo di Lione, verso la fine del II secolo, a proposito della successione apostolica nelle varie Chiese: “Poiché sarebbe troppo lungo enumerare le successioni di tutte le Chiese, prenderemo la Chiesa grandissima e antichissima e a tutti nota, la Chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo” (Adv. haer. 3,3,2).
Lasciamo però da parte adesso la figura di Pietro e concentriamoci su quella di Paolo. Il suo martirio viene raccontato per la prima volta dagli Atti di Paolo, scritti verso la fine del II secolo. Essi riferiscono che Nerone lo condannò a morte per decapitazione, eseguita subito dopo (cfr 9,5). La data della morte varia già nelle fonti antiche, che la pongono tra la persecuzione scatenata da Nerone stesso dopo l’incendio di Roma nel luglio del 64 e l’ultimo anno del suo regno, cioè il 68 (cfr Gerolamo, De viris ill. 5,8). Il calcolo dipende molto dalla cronologia dell’arrivo di Paolo a Roma, una discussione nella quale non possiamo qui entrare. Tradizioni successive preciseranno due altri elementi. L’uno, il più leggendario, è che il martirio avvenne alle Aquae Salviae, sulla Via Laurentina, con un triplice rimbalzo della testa, ognuno dei quali causò l’uscita di un fiotto d’acqua, per cui il luogo fu detto fino ad oggi “Tre Fontane” (Atti di Pietro e Paolo dello Pseudo Marcello, del secolo V). L’altro, in consonanza con l’antica testimonianza, già menzionata, del presbitero Gaio, è che la sua sepoltura avvenne non solo “fuori della città… al secondo miglio sulla Via Ostiense”, ma più precisamente “nel podere di Lucina”, che era una matrona cristiana (Passione di Paolo dello Pseudo Abdia, del secolo VI). Qui, nel secolo IV, l’imperatore Costantino eresse una prima chiesa, poi grandemente ampliata tra il secolo IV e V dagli imperatori Valentiniano II, Teodosio e Arcadio. Dopo l’incendio del luglio 1823, fu qui eretta l’attuale basilica di San Paolo fuori le Mura.
In ogni caso, la figura di san Paolo grandeggia ben al di là della sua vita terrena e della sua morte; egli infatti ha lasciato una straordinaria eredità spirituale. Anch’egli, come vero discepolo di Gesù, divenne segno di contraddizione. Mentre tra i cosiddetti “ebioniti” – una corrente giudeo-cristiana – era considerato come apostata dalla legge mosaica, già nel libro degli Atti degli Apostoli appare una grande venerazione verso l’Apostolo Paolo. Vorrei prescindere ora dalla letteratura apocrifa, come gli Atti di Paolo e Tecla e un epistolario apocrifo tra l’Apostolo Paolo e il filosofo Seneca. Importante è constatare soprattutto che ben presto le Lettere di san Paolo entrano nella liturgia, dove la struttura profeta-apostolo-Vangelo è determinante per la forma della liturgia della Parola. Così, grazie a questa “presenza” nelle celebrazioni liturgiche della Chiesa, il pensiero dell’Apostolo diventa da subito nutrimento spirituale dei fedeli di tutti i tempi.
E’ ovvio che i Padri della Chiesa e poi tutti i teologi si siano nutriti delle Lettere di san Paolo e della sua spiritualità. Egli è così rimasto nei secoli, fino ad oggi, il vero maestro e apostolo delle genti. Il primo commento patristico, a noi pervenuto, su uno scritto del Nuovo Testamento è quello del grande teologo alessandrino Origene, che commenta la Lettera di Paolo ai Romani. Tale commento purtroppo è conservato solo in parte. San Giovanni Crisostomo, oltre a commentare le sue Lettere, ha scritto di lui sette Panegirici memorabili. Sant’Agostino dovrà a lui il passo decisivo della propria conversione, e a Paolo egli ritornerà durante tutta la sua vita. Da questo dialogo permanente con l’Apostolo deriva la sua grande teologia della grazia, che è rimasta fondamentale per la teologia cattolica e anche per quella protestante di tutti i tempi. San Tommaso d’Aquino ci ha lasciato un bel commento alle Lettere paoline, che rappresenta il frutto più maturo dell’esegesi medioevale. Una vera svolta si verificò nel secolo XVI con la Riforma protestante. Il momento decisivo nella vita di Lutero, fu il cosiddetto «Turmerlebnis» (forse 1517), nel quale in un attimo egli trovò una nuova interpretazione della dottrina paolina della giustificazione. Una interpretazione che lo liberò dagli scrupoli e dalle ansie della sua vita precedente e gli diede una nuova, radicale fiducia nella bontà di Dio che perdona tutto senza condizione. Da quel momento Lutero identificò il legalismo giudeo-cristiano, condannato dall’Apostolo, con l’ordine di vita della Chiesa cattolica. E la Chiesa gli apparve quindi come espressione della schiavitù della legge alla quale oppose la libertà del Vangelo. Il Concilio di Trento (1545 – 1563) interpretò in modo profondo la questione della giustificazione e trovò nella linea di tutta la tradizione cattolica la vera sintesi tra Legge e Vangelo, in conformità col messaggio della Sacra Scrittura letta nella sua totalità e unità.
Il secolo XIX, raccogliendo l’eredità migliore dell’Illuminismo, conobbe una nuova reviviscenza del paolinismo soprattutto sul piano del lavoro scientifico sviluppato dall’interpretazione storico-critica della Sacra Scrittura. Prescindiamo qui dal fatto che anche in quel secolo, come poi nel secolo ventesimo, emerse una vera e propria denigrazione di san Paolo. Penso soprattutto a Nietzsche che derideva la teologia dell’umiltà di san Paolo, opponendo ad essa la sua filosofia dell’uomo forte e potente: il superuomo. Prescindiamo da questo e vediamo la corrente essenziale della nuova interpretazione scientifica della Sacra Scrittura e del nuovo paolinismo del secolo XX. Qui è stato sottolineato soprattutto come centrale nel pensiero paolino il concetto di libertà: in esso è stato visto il cuore del pensiero paolino, come del resto aveva già intuito Lutero. Ora però il concetto di libertà veniva reinterpretato nel contesto del liberalismo moderno. E poi è sottolineata fortemente la differenziazione tra l’annuncio di san Paolo e l’annuncio di Gesù. E san Paolo appare quasi come un nuovo fondatore del cristianesimo. Vero è che in san Paolo la centralità del Regno di Dio, determinante per l’annuncio di Gesù, viene trasformata nella centralità della cristologia, il cui punto determinante è il mistero pasquale. E dal mistero pasquale risultano i Sacramenti del Battesimo e dell’Eucaristia, come presenza permanente di questo mistero, dal quale cresce il Corpo di Cristo, si costruisce la Chiesa. Ma direi, senza entrare adesso in dettagli, che proprio nella nuova centralità della cristologia e del mistero pasquale si realizza il Regno di Dio, diventa concreto, presente, operante l’annuncio autentico di Gesù. Abbiamo visto nelle catechesi precedenti che proprio questa novità paolina è la fedeltà più profonda all’annuncio di Gesù. Nel progresso dell’esegesi, soprattutto negli ultimi duecento anni, crescono anche le convergenze tra esegesi cattolica ed esegesi protestante realizzando così un notevole consenso proprio nel punto che fu all’origine del massimo dissenso storico: la giustificazione. Emerge così una grande speranza per la causa dell’ecumenismo, così centrale per il Concilio Vaticano II.
Brevemente vorrei alla fine ancora accennare ai vari movimenti religiosi, sorti in età moderna all’interno della Chiesa cattolica, che si rifanno al nome di san Paolo. Così è avvenuto nel secolo XVI con la “Congregazione di san Paolo” detta dei Barnabiti, nel secolo XIX con i “Missionari di san Paolo” o Paulisti, e nel secolo XX con la poliedrica “Famiglia Paolina” fondata dal Beato Giacomo Alberione, per non dire dell’Istituto Secolare della “Compagnia di san Paolo”. In buona sostanza, resta luminosa davanti a noi la figura di un apostolo e di un pensatore cristiano estremamente fecondo e profondo, dal cui accostamento ciascuno può trarre giovamento. In uno dei suoi panegirici, San Giovanni Crisostomo instaura un originale paragone tra Paolo e Noè, esprimendosi così: Paolo “non mise insieme delle assi per fabbricare un’arca; piuttosto, invece di unire delle tavole di legno, compose delle lettere e così strappò di mezzo ai flutti, non due, tre o cinque membri della propria famiglia, ma l’intera ecumene che era sul punto di perire” (Paneg. 1,5). Proprio questo può ancora e sempre fare l’apostolo Paolo. Attingere a lui, tanto al suo esempio apostolico quanto alla sua dottrina, sarà quindi uno stimolo, se non una garanzia, per il consolidamento dell’identità cristiana di ciascuno di noi e per il ringiovanimento dell’intera Chiesa.