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LA DANZA – SEGNO DI GIOIA E DI GRATITUDINE

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LA DANZA – SEGNO DI GIOIA E DI GRATITUDINE

La Danza, nella Bibbia è intesa soprattutto come lode, manifestazione di gioia spirituale ed espressione liturgica. Si danza per festeggiare una vittoria ottenuta con l’intervento divino; per il ritorno di una persona cara, e in occasione di nascite e matrimoni.
La profetessa Miriam, sorella d’Aronne, esterna la sua esultanza e ringrazia Dio, dopo il passaggio del Mar Rosso, “formando cori di danze” con le altre donne, suonando i timpani e cantando (Cf Es 15,20). Un’altra danza molto famosa è quella che fece Davide, in occasione del trasferimento dell’arca a Gerusalemme.
Danzando e saltellando agilmente, il re d’Israele manifesta con tutto il suo essere la gioia incontenibile che prova per il singolare avvenimento.
“Allora Davide andò e trasportò l’Arca di Dio dalla casa di Obed-Edom nella città di Davide, con gioia. (…) Davide danzava con tutte le forze davanti al Signore. Davide era cinto di un efod Così Davide e tutta la casa d’Israele trasportarono l’arca del Signore con tripudi e a suon di tromba” (2Sam 6,12; 6,14-15).
Per descrivere l’esultanza del re Davide di fronte all’arca dell’Alleanza, l’autore sacro usa le parole: “gioia” e “con tutte le forze”, rimarcando così il coinvolgimento totale della persona nel movimento ritmico della danza.

Simbologia rituale
Nell’Arca sono custodite le Tavole della Legge date da Dio a Mosè sul Monte Sinai. Danzando davanti all’arca, Davide indossa un costume sacerdotale succinto, una specie di perizoma adatto a compiere i sacrifici: l’efod di lino. Il testo sacro ci fa capire che la nudità del re e la sua danza sono in rapporto con gli “olocausti e i sacrifici di comunione” che egli si appresta ad offrire davanti al Signore.
Il modo in cui Davide esprime la sua gioia per la Legge (Torà), è ritenuto sconveniente dalla figlia di Saul che se ne scandalizza. “Mentre l’Arca del Signore entrava nella città di David, Mikal, figlia di Saul, guardò dalla finestra; vedendo il re Davide che saltava e danzava dinanzi al Signore, lo disprezzò in cuor suo” (2Sam 6,16). Più tardi il re chiarirà alla donna il senso rituale del suo gesto: “L’ho fatto dinanzi al Signore, (…) ho fatto festa davanti al Signore” (2Sam 6,21).
Gli ebrei di oggi, al termine della festa dei Tabernacoli (Sukkot), celebrano nelle sinagoghe la Simchat Torà – o gioia della Legge – danzando, a saltelli ritmati, con i rotoli della Torà e cantando inni in onore dell’Eterno. La danza è anche in questo caso un gesto liturgico che esprime il rapporto di tutto l’essere con Dio. È un’espressione di gioia e di “festa davanti al Signore”, per il dono della Torà. Ed è ancora con la danza che gli ebrei chassidici [i], dopo le preghiere quotidiane, esternano il loro entusiasmo religioso.

La Danza in cerchio: hag
Ai tempi biblici, le processioni danzanti di uomini e donne caratterizzavano le tre grandi feste di pellegrinaggio: Pasqua, Pentecoste e Tabernacoli. Sembra che tali danze ritmate avvenissero in modo circolare, ed è forse per questo motivo che nell’ebraismo, la danza in cerchio è chiamata hag: festa.
In cerchio si danza intorno ad un luogo sacro, o durante una cerimonia religiosa, esprimendo così il clima gioioso e comunitario della festa. La simbologia della danza in cerchio ci dice che nessuno può ritenersi più importante dell’altro, mentre tutti sono rivolti verso Colui che è al centro della vita di ognuno.

Rito Bizantino: la triplice danza
Ritroviamo il movimento circolare nella celebrazione del matrimonio cristiano nel Rito bizantino, la cui liturgia prevede una triplice danza in cerchio del sacerdote e degli sposi. Dopo essersi recati presso l’iconostasi, essi girano per tre volte intorno all’altare, mentre si cantano alcuni tropari.

Rito Romano
Col progredire dell’inculturazione, il Rito Romano si va arricchendo di gesti e simboli appartenenti ad altre culture. Sempre più frequentemente, anche grazie al mezzo televisivo, si possono vedere celebrazioni liturgiche in cui la danza, la musica e il canto di altri popoli, trovano uno spazio adeguato.
“I gesti e gli atteggiamenti dell’assemblea, in quanto segni di comunità e di unità, favoriscono la partecipazione attiva esprimendo e sviluppando l’intenzione e la sensibilità dei partecipanti. Nella cultura di un paese, si sceglieranno gesti e atteggiamenti del corpo che esprimano la situazione dell’uomo davanti a Dio, dando ad essi un significato cristiano, in corrispondenza, se possibile, con i gesti e gli atteggiamenti provenienti dalla Bibbia.
Presso alcuni popoli, il canto si accompagna istintivamente al battito delle mani, al movimento ritmico del corpo o a movimenti di danza dei partecipanti. Tali forme di espressione corporale possono avere il loro posto nell’azione liturgica di questi popoli, a condizione che esse siano sempre espressione di una vera preghiera comune di adorazione, di lode, di offerta o di supplica e non semplicemente spettacolo”.[ii]

[i] Chassidismo, da Chassid: pio, devoto. È un movimento ebraico sorto in Europa intorno al 1750. I suoi membri pongono l’accento sulla gioia del cuore e sulla retta intenzione.
[ii] Da: “ La Liturgia romana e l’inculturazione” (III, 41-42) – Istruzione della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 25 gennaio 1994.

 

LA BELLEZZA SALVERÀ IL MONDO – GIANFRANCO RAVASI

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LA BELLEZZA SALVERÀ IL MONDO.

LECTIO MAGISTRALIS DI MONS. GIANFRANCO RAVASI

Premessa

Desidero anch’io ricambiare il saluto che mi è stato rivolto. Questa sera mi trovo in un orizzonte che mi è particolarmente caro per ovvie ragioni: le mie origini sono adiacenti alle vostre, a questa città, che in un certo senso mi ha accompagnato fin da quando ero fanciullo. Bergamo è sempre stato per me un punto di riferimento.
Desidero riflettere insieme a voi sul tema dell’incontro, così complesso ed impegnativo per la vastità, la mutevolezza e l’iridescenza che lo caratterizzano, ma vorrei sviscerarlo in modo semplice, oserei dire spontaneo, tralasciando gli aspetti accademici per giungere a sintesi immediate e dirette. Anche io vorrei partire dalla considerazione che è stata fatta in apertura, anche se mettere un titolo come questo “La bellezza salverà il mondo?” può sembrare forse una scelta un po’ stereotipata. È una frase oramai troppe volte usata ed abusata, che appartiene tra l’altro ad un romanzo che ha una straordinaria carica metafisica oltre che estetica. Presente nel capitolo quinto della terza parte dell’“Idiota”, la traduzione del termine russo non rende giustizia alla carica emotiva voluta dall’autore al fine di riuscire a comprendere pienamente il significato di queste parole: “la bellezza salverà il mondo”. Questa sera vorrei proporvi un modo nuovo per affrontare ed analizzare l’argomento in esame e vorrei avvalermi dell’estetica per proporvi un trittico di “quadri” al fine di dipingere nei vostri occhi delle immagini, iniziando però da una premessa che tenti di esplicitare la difficoltà nel parlare della bellezza. Una difficoltà prima di tutto di natura contingente perché, dobbiamo confessarlo senza paura, mai come in questo tempo siamo consapevoli di essere immersi in un grembo che è fatto di bruttura e bruttezza. Questi termini in italiano non sono sinonimi: “bruttura” ha una dimensione etica, “bruttezza” una dimensione estetica. Eppure si intrecciano e convivono pienamente ai nostri giorni, camminano come sorelle e dominano nelle piazze delle nostre città, ma soprattutto nell’areopago della politica e della società. Un’ulteriore difficoltà di natura oggettiva, che rende peraltro arduo questo discorso, è che la bellezza per sua natura è ineffabile. Esiste una sublime espressione adottata da Thomas Manley nell’indicare in tedesco l’azione compiuta dalla bellezza, lui usa il verbo “durchstechen”: cioè “trafiggere”, colpisce anche quando non la si cerca o la si interpreta. Vorrei prendere a prestito le parole più chiare ed immediate di Esna Paund che scrisse: “Non ci si mette a discutere su un vento d’aprile quando lo si incontra, ci si sente spontaneamente rianimati, così come quando si incontra un pensiero folgorante di Platone, oppure si incontra il profilo affascinante di un volto femminile o di una statua.” Una bellezza non si spiega, la si intuisce, ed è per questo allora che è difficile parlarne, eppure è del tutto indispensabile, e lo si ricordava anche prima in quella bella introduzione, è indispensabile vivere, cibarsi di bellezza in un mondo di bruttura e di bruttezza.
Come Vescovo, come ecclesiastico, ma soprattutto come uomo vorrei lasciare la parola al messaggio che l’8 dicembre 1965 il Concilio Vaticano II ha lanciato a tutti gli artisti: “Il mondo in cui viviamo ha bisogno di bellezza per non oscurarsi nella disperazione. La bellezza come la verità è ciò che depone, che mette gioia nel cuore degli uomini, è il frutto prezioso che resiste all’usura del tempo, che unisce le generazioni e le congiunge nell’ammirazione”. La contemplazione, l’ammirazione, queste sono le uniche vie, non la parola, per comprendere la bellezza. La bellezza è inattesa, ti rende diverso, non tanto più bello e sorridente esteriormente, ma più bello dentro e quindi più buono.

L’estetica simbolica. La bellezza come armonia.
Il primo di questo trittico di “quadri” che desidero dipingere, tra i mille e più possibili, nei vostri occhi, ha un titolo particolarmente solenne: l’estetica simbolica, la bellezza esteriore del simbolo. Riprendendo il concetto espresso dal dott. Rocchetti nella sua introduzione, egli cita una pagina della Bibbia dove si dichiara che al termine di ogni opera, e quindi per sette volte, “Dio vide che era cosa tov”. Questo aggettivo della lingua ebraica è presente per ben settecentoquarantadue volte nell’Antico Testamento e viene tradotto in greco con tre aggettivi diversi, fatto questo che sottolinea ancora una volta che il termine bellezza non può essere ricondotto al solo significato di bello. Il primo aggettivo greco utilizzato è “kalos” il cui significato è “bello”, ma alcune volte troviamo l’aggettivo “agafos” cioè “buono”, ed in altri casi riscontriamo il termine “krestos” il cui significato è “utile, prezioso, significativo”. Nel momento in cui Dio contempla il frutto della sua opera, immagine questa in cui è rappresentato come l’artista che modella, plasma la sua creazione – in dottrina in senso figurato appare spesso descritto come un vasaio – “vide che era cosa buona”. Questo primo termine, “buona”, ha la forza di riassumere in sè anche gli altri termini: il creato non è solo “buono”, ma anche “bello” ed “utile”. È significativo osservare come il primo termine discenda dalla visione che Dio ha della sua opera: la percezione del “buono” avviene tramite la visione, “Dio vide che era cosa bella”. Ecco quindi lo stupore, l’ammirazione verso la bellezza che ciascun uomo nutre dentro di sè. Dio stesso, contemplando il suo operato, avverte il senso mirabile della sua opera: perché il creato non è solo bello, ma anche utile, ma, fatto fondamentale ed unico, è l’intreccio delle diverse dimensioni che si fondono e confluiscono armonicamente nel creato. Tutta la grande arte ha la capacità di far convivere insieme il bello, il buono ed il vero. Lo stesso Platone in uno dei dialoghi meno noti, il “Fileto”, afferma che la potenza del bene si è rifugiata nella natura del bello e lo raffigura in continua ricerca della sua patria, del suo orizzonte, cioè nel bello. Kant, per avvicinarci ai nostri giorni, dichiara nella “Critica del Giudizio” che “il bello è il simbolo del bene morale”. Ecco le ragioni che mi hanno indotto a parlare nel primo quadro dell’estetica simbolica.
Soffermiamoci un attimo sulla parola “simbolo”, in greco “symbolon”: letteralmente significa “mettere insieme”, “tenere insieme”. Come potete osservare, nel nostro mondo ed anche nell’arte e nella cultura quasi mai si è operato simbolicamente, ma anzi “diabolicamente”. Sempre in greco il termine “diabolos” si riferisce al diavolo, cioè a colui che separa, divide, scinde, frantuma l’armonia dell’insieme. Questa è la ragione per cui il bello ha una propria direzione che gli fa perdere il suo senso compiuto: quello di custodire dentro di sè il bene. Anche quest’ultimo disgiunto dal bello si muove in modo pedante, mentre il vero si isola in asserti che non raggiungono il cuore ma si limitano ad interessare il cervello, la ragione. Ecco quindi l’importanza di ritrovare l’estetica simbolica, peraltro testimoniata in modo estremamente illuminante dal testo capitale della nostra fede, della nostra cultura: il Nuovo Testamento. Ma desidero affrontare questo esame rivolgendomi al testo originale che è stato redatto in greco, confrontandolo con la traduzione in italiano, per meglio evidenziare le differenti sfumature. “Cosi risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e diano gloria al padre che è nei cieli”, questa frase, tratta dal discorso della montagna di Gesù, letteralmente in greco è: “Cosi risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere belle e diano gloria al padre che è nei cieli”. Certo sono opere buone ma sono anche belle, perché hanno un’armonia in sé, che unisce le dimensioni diverse della realtà e non le scinde e le disperde rendendo pedante il bene e il bello del tutto indifferente a qualsiasi valore. Oppure nella seconda lettera che San Paolo scrive ai cristiani di Tessalonica – capitolo 3, versetto 13 – parla dell’agire bene come norma fondamentale di vita, facendo quindi appello ad agire bene, a fare il bene.
Ecco quindi in questa prima immagine proposta, la necessità di riuscire a trovare nella bellezza una pienezza, un’armonia d’insieme, che ci consenta, superati i nostri limiti e fragilità, di raggiungere alla fine la trascendenza. Per questo l’arte tendenzialmente si volge all’infinito, all’eterno, al divino e tenta di intrecciare dentro di sé tutte le dimensioni della verità, della bellezza e della bontà. Un poeta francese, La Forg, affermava che l’arte è l’ignoto, mentre un grande pittore catalano, Mirò, quando descriveva la sua opera diceva che l’arte non rappresenta mai il visibile, cioè il mondo reale, ma si avvale di questo per rappresentare l’invisibile nascosto nel visibile.

La parola estetica deriva dal greco “aistetikos” che vuol dire “percezione”, ma non la percezione della superficie esteriore, ma la percezione di quel “nodo d’oro” che coniuga insieme mistero e realtà. La bellezza allora, non è la sola conoscenza piena, intesa in senso orizzontale, ma assume valore verticale, congiungendo lo zenit celeste con il nadir della tenebra, del mistero oscuro, bene e male, gioia e dolore, riso e lacrime, mistero della grandezza e mistero della miseria dell’uomo, tutto in sé riunito, in un’armonia che è bellezza, per cui persino il male e il dolore in armonia con il bene diventano sorgente di bellezza.

L’estetica della parola. La parola come fonte di bellezza.
Passiamo ora al secondo dei tre quadri annunciati, abbiamo osservato con un rigore teorico un aspetto della bellezza: l’essere simbolica. Vorrei ora dissertare con una diversa visuale su un ulteriore aspetto estetico: l’estetica della parola. Siamo in presenza di un argomento per alcuni versi problematico, ma ci avvarremo nell’analisi del supporto del nostro grande codice culturale, cioè la Bibbia, che rappresenta la piattaforma della cultura ebraico-cristiana, dove si evidenzia l’esaltazione della Parola, fatto quest’ultimo presente anche in altre culture vicine alla nostra, come ad esempio quella islamica. Nella ricerca del bello all’interno della parola, vale rammentare l’inizio della Bibbia. Non si introduce una immagine visiva: “Dio che vede”, ma l’esperienza di “Dio che crea”, di “come Dio crea”. E questo atto non discende da un’azione di fatica, ma semplicemente dalla parola, dal Verbo o parola di Dio: «Dio disse “Sia luce” e luce fu». Assistiamo ad una Parola che crea, che rende mirabile il Nuovo Testamento: in principio c’era la Parola, tutto è stato fatto a mezzo di essa, nulla esisteva di ciò che è.
Quando Mosè deve rappresentare l’esperienza fatta nel Sinai, usa una frase bellissima – capitolo 4 del Deuteronomio, quinto libro della bibbia, versetto 12 – “Ricorda Israele, Dio vi parlò dal fuoco. Voi udivate il suono delle parole ma non vedevate alcuna figura. Vi era soltanto una voce”. Via gli occhi dal vitello d’oro che è un idolo e che appare arte a prima vista. La prima grande bellezza è quindi nella Parola. Tu non ti fari ancora immagine di ciò che è nel cielo né di ciò che è sulla terra né sotto terra. Ecco quindi questa grande, vera, sorpresa: noi abbiamo uno strumento fondamentale, il linguaggio, che ai nostri giorni sta degenerando; osservate il linguaggio imbarbarito, involgarito, talmente semplificato e astratto da essere ricondotto semplicemente a dei segni: il linguaggio tipico dei cellulari. Così facendo perdiamo una dimensione della bellezza che è fondamentale all’interno non solo dell’uomo, ma della nostra grande cultura occidentale. Tentazione talmente forte da avere lentamente anche cambiato il modo di dire Dio: mi riferisco anche ad una certa teologia che a partire dal Settecento, cioè dall’Illuminismo, ha spazzato via tutta la bellezza della parola e dei simboli contenuti nella Bibbia. La tesi allora dominante era che il pensiero puro deve spazzare via come vento cristallino la nebula dei simboli, dei miti e delle immagini. Un primo tentativo era stato effettuato già nel Seicento da parte di un filosofo francese, Malbrunsh, che aveva coniato una frase veramente curiosa per la sua paradossalità: affermava che “l’immaginazione è la pazza dell’appartamento”, intendendo dire che nell’appartamento del nostro cranio risiedeva una pazza, cioè l’immaginazione. Come potete osservare, si cercava di ridurre, di parlare di Dio utilizzando tesi astratte, il più possibile “pure”, cioè lontane dalla ricchezza delle immagini affidate dalla Bibbia alla Parola, alla forza dei simboli propri della Bibbia. Questo grande codice della cultura occidentale ha creato un arsenale iconografico straordinario, sebbene abbia sempre proibito l’immagine, abbia sempre evitato la rappresentazione attraverso statue, eppure osservate cosa sia riuscito a creare dal punto di vista della rappresentazione artistica.

Ecco quindi l’importanza di considerare la parola come un mezzo epifanico, rivelatore della bellezza, parola che giustifica, “rende pura”, “libera da colpa” tutta la poesia, parola che ugualmente giustifica tutta la rappresentazione letteraria, tutta la musica, che in molti casi, in virtù della bellezza, diventa suono supremo. Pensiamo, ad esempio, alla purezza assoluta di un testo musicale di Bach: la sua felice architettura in cui riescono a coesistere sia tutta la verità del pensiero, in virtù del rigore matematico, sia lo splendore del suono, diventando così armonia suprema, confessione di fede o di amore, senza la necessità di ulteriori parole; se poi queste ci saranno, bibliche o liturgiche, daranno un ulteriore sapore e colore. Desidero soffermarmi su due esempi che celebrano la parola come fonte di bellezza, come luogo epifanico della bellezza, della parola utilizzata all’interno di tutte le grandi culture, privilegiando quelle della nostra matrice ebraico-cristiana. Il primo esempio, quello più facile, è relativo alla parola di Cristo. Come vi parla? Sappiamo tutti che Cristo predilige il linguaggio figurato. La bellezza del suo racconto riesce a conquistare letteralmente il suo uditorio, non assomiglia a quella immensa distesa di prediche che sono state rivolte all’intera umanità, anche se questa si meritava il giudizio, lo sberleffo cattivo, ma non sempre immotivato, di Voltaire che soleva affermare: “l’eloquenza sacra delle prediche è come la spada di Carlo Magno, lunga e piatta, perché i predicatori quello che non sanno dare in profondità te lo danno in lunghezza”. Ebbene, Cristo è l’esatto contrario, le sue trentacinque parabole con il supporto dei simboli e delle metafore allargate diventano settantadue. Ma Cristo come vi parla? Coinvolge i vostri occhi e le vostre orecchie; la bellezza, il messaggio, vengono comunicati attraverso un’esperienza globale: gli occhi riescono a vedere ciò che le parole dicono, e questo perché il suo è un discorso che parte dal basso, dai piedi dei suoi ascoltatori e non da un vago orizzonte mentale. Le Sue parabole parlano dei segni, dei pesci, della donna che ha perso la moneta nel terreno, delle case, dei quartieri di notte, dei figli difficili, di tutto quello che accade nella quotidianità, ma Egli le trasfigura, le fa diventare il Regno dei Cieli. Non so se ricordate il capitolo 7 di Giovanni: c’è una scena molto significativa che a volte nella sola lettura può passare inosservata. Un giorno, siamo ancora agli inizi della predicazione di Cristo, i capi dei sommi sacerdoti danno ordine alla loro polizia del tempio, di arrestare Gesù. Costoro vanno per portarlo di fronte ai sommi sacerdoti, ma tornano a mani vuote. Viene loro domandato come mai non lo avessero preso e portato lì e la loro risposta, anche se appare come la risposta di una persona semplice, dimostra però la forza creatrice della parola, la forza estetica: mai nessuno ha parlato come questo uomo, e le loro mani sono cadute lungo i fianchi, non sono state capaci di stringere i ceppi addosso a lui. Osserviamo un altro esempio: Cristo, nelle parabole, vede, camminando nel deserto, una specie di piccolo oggetto, sembra biancastro. È in realtà un particolare animale che esiste nel deserto, velenoso, che assomiglia ad un uovo di piccione. Riuscite a capire allora il significato di quella frase? Se un figlio chiede ad un padre un uovo, quest’ultimo gli darà forse uno scorpione? Vedete come Gesù riesca a lasciare una profonda traccia sulla mente dei suoi ascoltatori attraverso un’ immagine povera, elementare, ma assolutamente determinante.
Contrariamente ad alcuni che affermano la morte immediata di una parola una volta che questa è stata detta, io, come anche una poetessa americana, dico che proprio allora la parola inizia a vivere. Quando noi nella nostra vita abbiamo sbagliato una parola, abbiamo detto una parola cattiva contro una persona, quanto è durato il momento? Due o tre secondi? Sappiamo, invece, di odi tra fratelli, dopo una parola cattiva, che durano vent’anni. La fecondità e la forza della bellezza di una parola è anche nel male – esiste infatti l’estetica della perversione, della crudeltà – ecco perché dobbiamo cercare di custodire la parola ed impedire, evitare che questa diventi chiacchiera.
Desidero parlavi anche della musica, in un tempio così, in una città come questa dove ad un musicista è stato dedicato questo teatro non posso esimermi dal farvi riferimento. Io direi che come nella parola e nella comunicazione, esiste anche un estetica del suono, dell’armonia. La sguaiataggine imperante nei nostri giorni, è indubbiamente disarmonia, non è quella raffinata della musica colta che segna un dramma, ma è semplice volgarità. La sguaiataggine cancella invece la bellezza e il fascino della parola. Vorrei portarvi un esempio, forse un po’ sorprendente, che qualche volta faccio quando sono in presenza di un ambiente più ristretto di questo, peraltro è un ragionamento breve. Mi avvarrò di alcuni suoni ebraici, non ve li spiegherò, basterà solo che li ascoltiate. Li traggo dal Cantico dei Cantici, capitolo 2 e capitolo 16. Ascoltate con attenzione come suona la parola, anche se non sapete l’ebraico riuscirete a comprendere ciò che vuol dire il poeta, che usa la parola in modo sonoro, continuo, musicale, aiutato dal fatto che la metrica ebraica è qualitativa e non quantitativa. Siamo in presenza di una donna che deve dire che ama e che è tutta se stessa con il suo amato, l’uno non esiste senza l’altro, vera donazione d’amore, che tiene insieme e che dà significato all’eros e al sesso: la donazione reciproca. Il poeta, allora, usa il pronome della prima e della terza persona perché io/lui siamo una cosa sola. Voi provate ad ascoltare questa frase e sentirete che in ebraico ci sono due suoni che vibrano continuamente: «dodî lî wa’anî lô… ‘anî ledôdî wedôdî lî, « il mio amato è mio e io sono sua… io sono del mio amato e il mio amato è mio » (2, 16; 6, 3). Basta il suono a far capire che sono insieme, è un unico impasto, un suono unico. “Il mio amato è mio e io sono sua”, e la traduzione già dilaga, dapprima era solo un suono, poi diventa un armonia sottile; ecco perché dico che c’è anche un’estetica del suono, ed è per questo che Mosè dice “voi la ascoltaste solo un suono di parole”.

L’estetica della carne. La bellezza come manifestazione della trascendenza.
Esaminiamo ora il terzo e ultimo dei quadri preannunciati: l’estetica della “sarx”, della carne, il logos verbo, versetto primo “In principio c’era il verbo”, versetto 14 “Il verbo divenne “sarx”, carne, cioè storia, e quindi se diventa storia diventa visibile, diventa immagine concreta e non più solo parola. Per questo l’arte cristiana spezzerà il rigido precetto aniconico del decalogo che non voleva immagini, lo spezza perché il Verbo, la parola, è diventata volto, è diventata uomo, è diventata persona: Gesù Cristo. Nella lettera di San Paolo ai Colossesi, capitolo 1 versetto 15, si ha questa definizione di Cristo: è l’icona del padre, il quadro, l’immagine, ed è per questo che l’arte diventa teofania; la bellezza, l’estetica della storia, diventa un estetica concreta e bisognerà combattere contro la tentazione puritana, come affermavo prima per la cancellazione dei simboli, di parlare solo con la logica formale, non con il linguaggio della Bibbia, non con il linguaggio di Gesù, creando testi aridi, freddi. Allo stesso modo, anche per l’arte si è tentati di cedere alla bella tentazione dell’iconoclastia. Se siete stati in Cappadocia, nelle Chiese rupestri erette per ognuno dei 365 giorni dell’anno, ve ne sono alcune che rappresentano il momento iconoclasta: sono visibili gli sfregi dei volti già dipinti o le deturpazioni anche di modelli geometrici per impedire che Dio non potesse essere rappresentato da una icona. Ecco la grande battaglia che farà santo, un Dottore della Chiesa di origine siriana di Damasco, Giovanni Damasceno, il quale si batterà per le immagini, proprio in virtù di Cristo icona: “e Lui ti dirà: se viene da te un pagano e ti chiede che cosa è la vostra fede, tu non rispondergli, prendilo per mano e conducilo nello splendore del tempio e mostragli tutte le sacre icone ed i quadri”. Adesso sarebbe meglio che in molte Chiese non conducessimo l’ateo perché diventerebbe più ateo ancora. Ma vedete il significato profondo che aveva l’arte: arte teofania, arte epifania di Dio, la bellezza come manifestazione della trascendenza. Nel 1300 gli artisti Senesi, avevano deciso di darsi sull’arte, uno statuto. Questo contemplava nel primo articolo, che vi leggo nell’italiano di allora, “ Noi” dicevano gli artisti di Siena, “siamo manifestatori agli uomini che non sanno lettura delle cose miracolose operate per virtù della fede” (“Noi manifestiamo agli uomini che non sano leggere le meraviglie della fede”). Ecco allora che nasce veramente quella grande arte che attinge per secoli ininterrottamente al grande codice della Bibbia, ai grandi simboli, alle grandi narrazioni, alle grandi figure, ai grandi temi, alla figura soprattutto di Cristo e di Maria. Ed è a questo punto che prende corpo quella frase divenuta famosa di un pittore ebreo del Novecento, Chagal, che descrisse quello che è avvenuto per secoli ed ora non più. Egli diceva, non potendo prescindere quasi da quella matrice: “I pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia, lì trovavano il loro lessico iconografico, il loro albo di immagini e la stessa cultura letteraria”.
Pensate a Nietzsche, uno che combatterà con tutta la sua opera il cristianesimo, considerandolo come una degenerazione, come una maledizione, un sudario di morte piombato sull’Europa. Egli dovette però riconoscere, suo malgrado, in una sua opera minore, che “tra ciò che si prova alla lettura di Pindaro o di Petrarca ed alla lettura dei Salmi, esiste la stessa differenza tra la terra straniera e la patria”. Lui era protestante, quindi a maggior ragione se sente Pindaro o Petrarca va bene, sono mirabili, però quando sente i Salmi, sente la sua terra, la sua patria. Per secoli è stato così, ecco perché esiste una bellezza del passato che noi dobbiamo custodire, una bellezza che ci deve ancora alimentare, nutrire, una bellezza capace di manifestarsi in tante forme e modi. Voglio sottolinearvi tre esempi, tre modelli di bellezza discendenti dall’eredità biblica che possono diventare per noi ancora motivo di riflessione, di bellezza e di contemplazione. È proprio per questo che vorrei proporvi di rifare un’esperienza: la prossima settimana avrete nella vostra città l’occasione straordinaria di visitare una mostra, per la quale vi chiederei di non avvalervi di una visita guidata. Purtroppo, quando ero direttore della Pinacoteca Ambrosiana di Milano, situata accanto alla Biblioteca, ho avuto modo di osservare troppe volte visite di studenti accompagnati dai professori, i quali approssimativamente e stancamente insegnavano alcune cose, peraltro banali, sulle opere esposte. Pensiamo alla “Canestra di frutta” di Caravaggio, che io custodivo all’Ambrosiana. Questa pittura di esclusivo contenuto metafisico, è una meditazione sulla nozione del tempo che passa e che scava, corrode dal profondo lo splendore dell’essere. Si è in presenza del contrasto tra vitalità e disfacimento, tra floridezza e morte; osservate la ramificazione gelida della morte espressa dalla foglia che si raggrinzisce, oppure osservate la mela che inizia a bacarsi. Qui non siamo in presenza di una attività di studio del passato, del Seicento, ma veniamo interrogati, interpellati sulla caducità della vita.
Come primo esempio, desidero farvi osservare che l’arte tenta di attualizzare la Bibbia, di renderla presente a noi, vicina a noi, all’interno del gioco dell’oggi. Vi propongo un dipinto di Gauguin che forse non conoscete: è intitolato “Dopo il sermone”, dopo la predica. Questo dipinto si trova ad Edimburgo, nella National Gallery of Scotland; lì,in questo piccolo quadro, in primo piano si vedono le tipiche cuffie bretoni e vengono raffigurate tre donne che sono uscite dalla Chiesa, appunto dopo il sermone. Di che cosa ha parlato il prete? In questo caso deve essere stata una buona predica che ha impressionato i fedeli. Ha parlato di una delle pagine più belle, misteriosa ed affascinante, della Genesi capitolo 34: la lotta di Giacobbe con l’essere misterioso che nella tradizione diventa l’angelo. Ma questo essere misterioso non è altri che Dio: Giacobbe lotta con Dio e non ne esce indenne! Noi possiamo anche lottare con Dio, Dio ci ascolta ma nello stesso tempo ci trasfigura. L’indomani, quando risorge il sole, Giacobbe, che zoppica all’anca, ha oramai un altro nome, è diventato un’altra persona dopo l’incontro con Dio. Così queste donne escono e vedono la piazza del paese diventata color sangue, dove l’angelo e Giacobbe continuano a lottare tra di loro. In altri termini: quello che tu ha sentito è nella piazza, devi solo ritrascriverlo nella vita. Ecco perché affermavo che l’arte attualizza la Bibbia. È necessario ritrovare ancora tutte quelle pagine attraverso l’arte, attraverso la bellezza dell’arte, ritrovare il messaggio antico che è nella piazza, nel crocevia, nella famiglia.
Nel secondo modello desidero parlare di quando l’arte, certe volte, ha sfregiato, è stata un po’ blasfema, ma non di un’accezione di blasfemia come nell’arte contemporanea, che è quasi un gioco di società, come questi atei che considerano l’interlocutore della fede un reperto del paleolitico culturale, peraltro ostinato. I veri grandi atei rappresentavano con veemenza il confronto con il mistero che negavano e vivevano nella solitudine assoluta, sotto un cielo che non ha nessun Dio, che non ha nessuna stella spirituale: un’esistenza la loro davvero drammatica. Prendo ad esame un libro biblico che è un capolavoro assoluto, l’estetica della parola, che narra di Giobbe. Però non intendo presentarlo in tutte le immagini che sono state fatte, a volte sbagliate, di un Giobbe paziente: sappiamo infatti che non lo era. Esaminiamolo solo all’inizio ed alla fine, perché è un antico racconto spesso citato. Giobbe è per eccellenza impaziente, grida, urla: “Tu Dio sei come un leopardo che affila gli occhi su di me, sei come un arciere sadico che cerca di trapassarmi il cuore, il fegato e reni, sei come un generale trionfatore che mi sfonda il cranio”: è quasi blasfemo. La rappresentazione non è autentica, ma degenerata. Voglio ricordarvi invece un libro particolare, la risposta a Giobbe di Jung, uno dei padri della psicanalisi. Egli infatti immagina che Dio nella sua onnipotenza decida lui ciò che è bene e ciò che male e tutti gli uomini, dovendo temere il suo giudizio, si dovranno adeguare. Ebbene, cosa fa l’autore? Rende diverso Giobbe, lo fa diventare tutta un’altra cosa, e sebbene questa sia una degenerazione, diventa sorgente di estetica. Dio scopre che c’è un uomo che si erge ritto contro di lui: “Tu Dio devi spiegarmi perché questo è bene e questo è male, perché c’è la gioia e il dolore”. E questo uomo è Giobbe. Dio vorrebbe annientare questo unico ribelle, però si incuriosisce, e che cosa fa? Manda suo figlio, il quale essendo uomo è pari a Giobbe, riesce a sentire le ragioni dell’uomo che si interroga sul mistero del male, che non capisce il perché del dolore, che ha dentro tutte quelle nostre domande. Ed allora, anche se io ho semplificato molto il significato di questo libro, quando Dio è pronto a scatenare la sua ira perché ci sono uomini che si ribellano come Giobbe, accanto a lui c’è sempre suo figlio che ferma l’ira ventura. Vedete che Giobbe è tutt’altra cosa rispetto al testo originale, che probabilmente è una grande riflessione sul mistero dell’io, più che del dolore.
Concludo con l’ultimo esempio: quello che chiamerei trasfigurativo. L’arte può prendere i grandi valori, i grandi temi e renderli presenti all’oggi, ma può anche girarli, torcerli e renderli ancora più importanti, più significativi, nonostante una lettura blasfema. Ma esiste anche la grande trasfigurazione: noi riusciamo a vivere la bellezza proprio perché ereditiamo una grande tradizione e questa continua a parlarci. Desidero offrirvi l’esempio della musica: è la musica, infatti, ad essere uno degli emblemi più alti che riappacifica la quiete e la tormenta. La musica non è soltanto pace, c’è anche lo spirito dionisiaco della musica. Pensate per esempio a Bach. Nella maggior parte delle sue partiture egli scriveva in alto “s. d. g.” ed in basso “J. J.”, che voleva dire “sono deo gloria” e sotto “Jesus juvat” “suono la gloria di Dio” e in basso diceva, “Gesù aiutami”. Lui impastava la fede con la musica, la faceva diventare epifania mirabile di verità, di bellezza e di bontà. Se volete posso fare un esempio di arte che ci permette di vedere come la trasfigurazione avvenga tramite l’arte, che ci fa capire, che ci spiega e ci squadra davanti agli occhi ciò che noi dovremmo spiegare. Siete stati qualche volta a Roma nella chiesa dedicata a San Luigi dei Francesi? Siete andati a vedere la “Vocazione di San Matteo” del Caravaggio? La “Vocazione di San Matteo” non è solo una storia di vocazione, ma è una storia di creazione e di ricreazione. Avete in mente la scena di Cristo che appare all’improvviso mentre Matteo è seduto al tavolo davanti alle sue monete? Cristo entra in scena e punta l’indice su di lui e Matteo mette la sua mano sul petto per rispondere alla chiamata. Ma quale è l’elemento più significativo? Caravaggio riprende l’indice di Michelangelo della Cappella Sistina: l’indice della creazione di Adamo. Ed allora in quel momento il Dio Creatore diviene il Dio Redentore che trasforma e ricrea la storia di un nuovo creato. In ultima analisi è come un messaggio, il messaggio della redenzione che viene trasfigurato attraverso l’arte, attraverso la bellezza.

Suggestioni.
Ai nostri giorni purtroppo noi assistiamo ad un divorzio che speriamo di poter ricomporre. Da un lato in alcune Chiese si ricalcano moduli del passato, dall’altro si usano moduli artigianali privi di significato, come affermava Padre Maria Turoldo quando diceva: “ Purtroppo abbiamo tante delle nostre Chiese che sono architettura, non sono oggetti, sono architetture ma sono dei garage sacrali, dove è parcheggiato Dio, mentre i fedeli sono allineati davanti a Lui”. La fede se ne è andata per un percorso solitario e dall’altra parte l’arte si è rinchiusa in ricerche stilistiche, di elaborazioni del tutto autoreferenziali che hanno cercato la provocazione, che si è rinchiusa, o meglio diretta, anche in forme esoteriche, stravaganti, incomprensibili. Abbiamo parlato di estetica simbolica, estetica della parola, di estetica della carne e cioè dell’immagine e allora, lasciamo in finale la parola a loro, ai grandi, alcuni tra i mille che si potrebbero citare. Ne ho scelti tre, l’ultimo obbligatoriamente, perché era il punto di partenza: Dostoevskij. Cerchiamo qualche altra voce un po’ strana. Conoscete tutti Herman Hesse? Secondo lui, arte significa: “dentro ogni cosa mostrare Dio”. Questa è arte. Non diranno mai la parola di Dio ma mostreranno la trascendenza, l’invisibile. Un altro scrittore americano , lontano e ostile al cristianesimo, Henry Miller, diceva che la croce di Cristo è segno di umiliazione. Noi dobbiamo combattere tali asserzioni. Egli, in un suo saggio, affermava che l’arte non insegna niente, tranne il senso della vita. E allora “la bellezza salverà il mondo”: abbiamo bisogno dell’arte perché ci insegna il senso, la vita. L’arte appare inutile da un punto di vista pratico, è come la poesia, ma non si può vivere senza, come l’amore. Ci fa diventare apparentemente stupidi davanti agli occhi degli altri, ci fa scialare sia sui sentimenti, sia sugli aspetti economici. Ma si può vivere senza amore? Può anche capitare, ma in tal caso è una vita disgraziata. L’ultima parola la lasciamo a Dostoevskij, che ci dice una verità; lasciamoci con le sue parole, con i due volti, i due tagli della bellezza: gioia ed angoscia, quella bellezza che taglia il cuore, che trafigge, ma anche la bellezza tremenda e orribile, la bellezza simbolica, dove gli opposti si toccano, là vivono tutte insieme le condizioni, là si muovono le tenebre, là risplende la luce.

LUTERO E LA MUSICA

http://www.parodos.it/musica/musica/lutero_e_la_musica.htm

LUTERO E LA MUSICA    

RIFORMA

« Ho sempre amato la musica [...]. La musica è un dono sublime che Dio ci ha dato, ed è simile alla teologia. Non darei per nessun tesoro quel poco che so di musica » (Luterò, Dal lettera a Ludwig Sentì, 4 ottobre 1530).

Certamente è l’enorme passione dell’uomo Luterò (1483-1546) nei confronti della musica che giustifica la sua straordinaria considerazione pel quest’arte, al di là delle possibili spiegazioni ideologiche. Né l’appartenenza all’ordine ( sant’Agostino (che scrisse sì di musica, ma in termini che spesso hanno poco da spartire con la concezione di Lutero) né la nuova esegesi biblica protestante, che porta Calvino e Zwingli a provvedimenti talora radicalmente anti musicali, sono sufficienti a rendere conto d un atteggiamento che avrà conseguena straordinarie per la civiltà musicale religiosa e civile della Germania e di parte dell’Europa. Questa passione trova nutrimento nelle competenze musicali di cui è dotato Lutero: da fanciullo impara a cantare, in seguito a suonare il liuto e il flauto e acquisisce nozioni di teoria musicale. Durante il suo viaggio a Roma (1510-1511) ha modo di conoscere la superba vita musicale della capitale dell cristianità; apprezza le composizioni polifoniche dei fiamminghi, di Heinrich Isaac, Ludwig Senfl (con cui è in rapporto epistolare): e soprattutto Josquin Desprez.
Punto centrale della filosofia musicale luterana è la natura divina della musica. Eqli capovolge la concezione cattolica e moralista (condivisa peraltro da Calvino e altri riformatori) secondo cui sono la funzione religiosa e testi di natura spirituale che nobilitano, redimono, o almeno rendono tollerabile la musica. Per Lutero, invece, la musica possiede un valore religioso intrinseco, che solo il suo utilizzo in contesti funzionali e verbali di carattere lascivo può distorcere. La musica deve accompagnarsi alla parola di Dio non per utilitarismo o per esserne redenta, ma perché la loro natura è affine. La musica, unita alla parola, è il mezzo naturale per pregare e lodare Dio e per diffonderne il verbo, ma è anche, per il fedele, esperienza del divino. Lutero non ignora la capacità della musica di agire sulla sfera affetiva, ma ne esalta soprattutto le potenzialità positive di moderazione delle passioni violente, conforto per gli afflitti e incitamento alle buone imprese. Lutero insiste particolarmente sulla funzione edificante ed educativa (ma anche terapeutica e catartica) della musica, che si esplica, più che nell’ascolto, nella pratica musicale attiva, cioè nel canto. La musica glorificata nella concezione di Lutero è la musica vocale: è nel canto infatti che si concretizza la naturale unione della musica con il verbo divino e la voce è lo strumento musicale per eccellenza, attraverso cui ogni uomo beneficia del dono della musicalità che Dio gli ha concesso.
L’affermazione del valore primario del canto nel contatto con Dio, insieme alla concezione del « sacerdozio di tutti i fedeli », avvalorano la musica come pratica comune prima che come attività specialistica. Nel rito l’esercizio musicale attivo si sposta dunque, in tutto o in parte, dal coro alla comunità. Contemporaneamente, attraverso un deciso intervento in ambito pedagogico, viene incentivata la preparazione musicale di base, favorendo una tradizione che ancora oggi segna una differenza sensibile nella cultura musicale tra paesi cattolici e paesi protestanti.
Sebbene la teologia luterana si basi sulle scritture piuttosto che sulla tradizione della Chiesa, il problema di Lutero nella sua opera di riforma musicale non è quello di opporsi al canto gregoriano o alla polifonia, allo stesso modo in cui il latino viene progressivamente sostituito con il tedesco. I nuovi presupposti teologici portano certo a sensibili interventi sul repertorio liturgico romano, come l’eliminazione dell’offertorio, la decisa riduzione del proprium missae, e quindi dell’uso di graduali e sequenze.
Ma al di là dei contenuti del testo liturgico, la preoccupazione di Luterò è che il contatto tra il fedele e Dio sia diretto e non mediato da una ritualità monopolizzata dal celebrante e dai suoi agenti (tra cui la cappella dei musicisti professionali) e contemplata dall’esterno, o subita, dalla comunità.
Il canto comunitario quale canale privilegiato del contatto tra uomo e Dio va salvaguardato e incentivato, ed è indispensabile che il fedele comprenda il senso della parola sacra in esso veicolata e della preghiera che egli innalza al Signore. Questo è il motivo per cui, al di fuori delle cattedrali e dei templi frequentati dalle comunità universitarie, il tedesco deve sostituirsi al latino, così nella liturgia in prosa come nel canto.
La spiccata sensibilità musicale con cui Luterò dimostra di cogliere l’intimo connubio tra parola e intonazione musicale lo porta tuttavia a riconoscere come le versioni tedesche, letterali o « teologicamente perfezionate », dei testi latini spesso non si adattino facilmente alla struttura musicale del gregoriano: « testo e note, accento, melodia e modo di esecuzione dovrebbero trovare origine nella vera lingua materna e dalle sue inflessioni » (Lutero, 1525).
Anche le melodie sacre vengono dunque rielaborate e adattate, altre si attingono dal già ricco repertorio del Lied sacro tedesco preriformistico, o si prendono a prestito dal repertorio popolare, dalle melodie d’arte dei Lieder tedeschi più conosciuti, altre vengono create (spesso attraverso elaborazione e centonizzazione di materiale esistente) parallelamente alla produzione di nuovi testi. Si crea dunque il repertorio di un canto religioso comunitario, monodico e di facile cantabilità che i fedeli sentono come proprio sia dal punto di vista testuale che musicale.
Lutero stesso è estensore di numerosi testi originali (ce ne sono pervenuti 36), nonché di adattamenti o travestimenti spirituali di testi latini o tedeschi che riceveranno svariate intonazioni come canti monodici comunitari e come elaborazioni polifoniche, e andranno a formare la base di tutti i Gesangbùcher evangelici. È inoltre del tutto probabile, in virtù della sua più volte attestata competenza musicale, che Lutero stesso fornisca di intonazione alcuni dei suoi testi. In ogni :caso nel suo lavoro di riforma si giova della consulenza di diversi musicisti tra i quali Georg Rhau, Conrad Rupsch e, soprattutto, Johann Walter.

BENEDETTO XVI E LA MUSICA

http://www.korazym.org/index.php/musica/25-ascolti/3066-benedetto-xvi-e-la-musica.html

BENEDETTO XVI E LA MUSICA   

SCRITTO DA LUCIO COCO *   

DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012

E’ a tutti nota la passione di papa Benedetto XVI per la musica. Il pianoforte lo accompagna nelle ore di relax e nel tempo libero. Ed egli stesso non ha mancato di fare accenni autobiografici che testimoniano e confermano questo suo interesse fin dalla giovinezza quando, insieme al fratello Georg, che in seguito lo avrebbe diretto per trent’anni, ha potuto partecipare all’attività del coro di chiesa più antico del mondo, quello dei “Passeri del Duomo di Ratisbona” (i «Regensburger Domspatzen»). Sempre indulgendo ai ricordi, egli può riandare a un lontano 1941 allorché, ancora con il fratello, poté assistere ad alcuni concerti del Festival di Salisburgo e ascoltare, nella Basilica abbaziale di San Pietro, una indimenticabile esecuzione della Messa in do minore di Mozart (cfr Discorso, 17.1.09). Un autore questo che lo fa andare con la memoria a tempi più remoti quando, da ragazzo, nella sua chiesa parrocchiale, ascoltando una sua Messa, poteva fare un’esperienza sublime della musica che gli faceva sentire che «un raggio della bellezza del Cielo lo aveva raggiunto» (Discorso, 7.9.10).
Il discorso sulla musica di papa Benedetto è sempre attraversato da una lettura spirituale di essa per cui, attraverso i suoni dell’orchestra, il canto del coro o anche l’esecuzione di un solista, noi possiamo arrivare ad avere uno sguardo più puro sulla nostra realtà interiore per scrutare in essa, nel riflesso della trama musicale, le passioni che la agitano e la scuotono oppure le gioie e le speranze che la animano e la destano (cfr Discorso, 18.11.06). Accanto a questo sguardo introspettivo, che armonizza il nostro intimo, la musica suscita risonanze che rimandano continuamente al di là di se stessa, «al Creatore di ogni armonia» (Discorso, 4.9.07). Proprio “giocando” su questa differenza, su questo scarto (non a caso in tedesco “suonare” è “spielen”, in inglese è “play” e in francese è “jouer”), essa ha il potere di «aprire le menti e i cuori alla dimensione dello spirito e condurre le persone ad alzare lo sguardo verso l’Alto, ad aprirsi al Bene e al Bello assoluti, che hanno la sorgente ultima in Dio» (Discorso, 29.4.10).
Attraverso la musica, forse in una maniera privilegiata rispetto ad altre arti, si può arrivare, mediante l’esperienza del vero, del buono e del bello che essa sollecita, a un contatto più diretto con Dio. In questo senso la musica può condurci alla preghiera: «Non è un caso – dice il papa – che spesso la musica accompagni la nostra preghiera. Essa fa risuonare i nostri sensi e il nostro animo quando, nella preghiera, incontriamo Dio» (Discorso, 11.8.12). Tuttavia come alla preghiera non può mai corrispondere un sentimento narcisistico e appagante, ma dal rinnovato e ritrovato contatto con Dio dobbiamo attingere nuove energie spirituali per incidere positivamente sulla realtà, così anche la musica può diventare preghiera se «possiamo insieme costruire un mondo nel quale risuoni la melodia consolante di una trascendente sinfonia d’amore» (Discorso, 18.11.06).
La musica ci rivela che c’è una parte indistrutta del mondo, capace di resistere alla “hýbris” e alla superbia di Babele, dove la bontà e la bellezza della creazione non sono rovinate e ci ricorda che non siamo continuamente richiamati a mantenere e ripristinare, in una parola, «a lavorare per il bene e per il bello» (Discorso, 2.8.09). Non è questo l’unico messaggio della musica. Esso è certamente il più alto, per l’armonia e la sintonia che scopre con la Trascendenza, alla quale ci impone di adeguarci, aderendo alla bontà, alla bellezza e alla verità, per non rendere le nostre esistenze “stonate” e prive di significato. Tuttavia papa Benedetto si serve anche di altre immagini per spiegare, attraverso la musica, quelli che sono i nostri compiti. Egli immagina infatti la storia «come una meravigliosa sinfonia che Dio ha composto e la cui esecuzione Egli stesso, da saggio maestro d’orchestra, dirige» (Discorso, 18.11.06).
E’ vero, in certi momenti non è sempre facile leggerla e il suo disegno ci sembra discutibile oppure incomprensibile: la realtà del male e la sua azione nella storia degli uomini, lasciano talvolta pensare che «la Sua bontà non arriva giù fino a noi» (Discorso, 1.6.12). Nondimeno, continua il Santo Padre, sviluppando la similitudine dell’orchestra, non tocca a noi salire sul podio del direttore per dirigere e tanto meno possiamo cambiare la melodia che non ci piace, piuttosto «siamo chiamati, ciascuno di noi al suo posto e con le proprie capacità, a collaborare con il grande Maestro nell’eseguire il suo stupendo capolavoro. Nel corso dell’esecuzione ci sarà poi anche dato di comprendere man mano il grandioso disegno della partitura divina» (Discorso, 18.11.06).
Da questa osservazione, di natura prettamente teologica, ne discendono altre, di carattere più pratico, che possono fornire importanti istruzioni sulle regole vita della Chiesa in generale. Infatti l’esperienza del suonare insieme dell’orchestra, il rito stesso dell’accordatura e la pazienza delle prove, che impegnano i musicisti a «non suonare « da soli », ma di far sì che i diversi « colori orchestrali » – pur mantenendo le proprie caratteristiche – si fondano insieme» (Discorso, 29.4.10), ci forniscono un’immagine appropriata per le relazioni che si costruiscono in ambito ecclesiale ed invitano a rinunciare a ogni forma di protagonismo al fine di diventare « »strumenti » per comunicare agli uomini il pensiero del grande « Compositore », la cui opera è l’armonia dell’universo» (Discorso, 18.11.06).
Negli interventi che il Santo Padre dedica alla musica un posto importante è quello accordato alla musica sacra. Anche in tal caso Benedetto XVI vuole sgombrare il campo da alcuni equivoci che hanno fatto considerare il patrimonio della musica sacra o la tradizione del canto gregoriano come l’espressione «di una concezione rispondente ad un passato da superare e da trascurare, perché limitativo della libertà e della creatività del singolo e delle comunità» (Discorso, 13.5.11). Come risposta a queste posizioni il papa ribadisce la centralità di una Liturgia in cui il vero soggetto è la Chiesa: «Non è il singolo o il gruppo che celebra la Liturgia, ma essa è primariamente azione di Dio attraverso la Chiesa, che ha la sua storia, la sua ricca tradizione e la sua creatività» (ib.). Occorre perciò – afferma il Santo Padre – tener presente il patrimonio storico-liturgico per mantenere «un corretto e costante rapporto tra “sana traditio e legitima progressio”» (Discorso, 6.5.11) nel quale, come reso esplicito dalla Sacrosanctum Concilium (n.23), questi due aspetti si integrano dal momento che «la tradizione è una realtà viva e include perciò in se stessa il principio dello sviluppo e del progresso» (Discorso, 6.5.11).
Dal discorso che Benedetto XVI tesse sulla musica, anche attraverso i giudizi che di volta in volta formula sui diversi compositori (Vivaldi, Händel, Bach, Mozart, Beethoven, Rossini, Schubert, Mendelssohn, Liszt, Verdi, Bruckner), emergono non solo una grande competenza ma anche una notevole finezza interpretativa, segno di una particolare sensibilità per questa universale forma di espressione artistica e per gli ideali di verità, bontà e bellezza che la musica comunica e modula. Perciò è ancora il papa a sottolineare il suo debito di gratitudine verso quest’arte e verso tutti coloro che ad essa, fin da bambino, lo hanno accostato: «Nel guardare indietro alla mia vita, – egli ha modo di dire con parole davvero toccanti – ringrazio Iddio per avermi posto accanto la musica quasi come una compagna di viaggio, che sempre mi ha offerto conforto e gioia. Ringrazio anche le persone che, fin dai primi anni della mia infanzia, mi hanno avvicinato a questa fonte di ispirazione e di serenità» (Discorso, 16.4.07).
E l’augurio che egli esprime, a conclusione di un concerto, fa capire molto bene l’alto valore e il posto davvero centrale che egli assegna alla musica non solo nella sua vita ma in quella di tutti: «Ecco il mio auspicio: che la grandezza e la bellezza della musica possano donare anche a voi, cari amici, nuova e continua ispirazione per costruire un mondo di amore, di solidarietà e di pace» (ib.).

*Lucio Coco, studioso di letteratura classica antica è curatore dei volumi della collana Pensieri di Papa Benedetto XVI, editi dalla Libreria Editrice Vaticana

LA DANZA NELLA BIBBIA

http://www.nostreradici.it/titoli.htm#top

LA DANZA NELLA BIBBIA

(il titolo l’ho dato io, ma il sito  – ebraico in dialogo con il cristianesimo – lo conosco bene, forse la pagina non si visualizza perfettamente)

Segno di gioia e di gratitudine
  La Danza, nella Bibbia è intesa soprattutto come lode, manifestazione di gioia spirituale ed espressione liturgica. Si danza per festeggiare una vittoria ottenuta con l’intervento divino; per il ritorno di una persona cara, e in occasione di nascite e matrimoni.
  La profetessa Miriam, sorella d’Aronne, esterna la sua esultanza e ringrazia Dio, dopo il passaggio del Mar Rosso, “formando cori di danze” con le altre donne, suonando i timpani e cantando (Cf Es 15,20). Un’altra danza molto famosa è quella che fece Davide, in occasione del trasferimento dell’arca a Gerusalemme.
  Danzando e saltellando agilmente, il re d’Israele manifesta con tutto il suo essere la gioia incontenibile che prova per il singolare avvenimento.
  “Allora Davide andò e trasportò  l’Arca di Dio  dalla casa di  Obed-Edom  nella città  di Davide, con gioia. (…)  Davide danzava con tutte le forze davanti al Signore.  Davide era cinto di un efod Così Davide e tutta la casa d’Israele trasportarono l’arca del Signore con tripudi e a suon di tromba” (2Sam 6,12; 6,14-15).
  Per descrivere l’esultanza del re Davide di fronte all’arca dell’Alleanza, l’autore sacro usa le parole: “gioia” e “con tutte le forze”, rimarcando così il coinvolgimento  totale della persona nel movimento ritmico della danza.

   Simbologia rituale
  Nell’Arca sono custodite le Tavole della Legge date da Dio a Mosè sul Monte Sinai. Danzando davanti all’arca, Davide indossa un costume sacerdotale succinto, una specie di perizoma adatto a compiere i sacrifici: l’efod di lino. Il testo sacro ci fa capire che la nudità del re e la sua danza sono in rapporto con gli “olocausti e i sacrifici di comunione” che egli si appresta ad offrire davanti al Signore.
  Il modo in cui Davide esprime la sua gioia per la  Legge (Torà),  è ritenuto sconveniente dalla figlia di Saul che se ne scandalizza. “Mentre l’Arca del Signore entrava nella città di David,  Mikal,  figlia di Saul, guardò dalla finestra; vedendo il  re Davide  che  saltava  e danzava dinanzi al Signore, lo disprezzò in cuor suo” (2Sam 6,16). Più tardi il re chiarirà alla donna il senso rituale del suo gesto: “L’ho fatto dinanzi al Signore, (…) ho fatto festa davanti al Signore” (2Sam 6,21).
  Gli ebrei di oggi, al termine della festa dei Tabernacoli (Sukkot), celebrano nelle sinagoghe la Simchat Torà – o gioia della Legge – danzando, a saltelli ritmati, con i rotoli della Torà e cantando inni in onore dell’Eterno. La danza è anche in questo caso un gesto liturgico che esprime il rapporto di tutto l’essere con Dio. È un’espressione di gioia e di “festa davanti al Signore”, per il dono della Torà. Ed è ancora con la danza che gli ebrei chassidici [i], dopo le preghiere quotidiane, esternano il loro entusiasmo religioso. 

La Danza in cerchio: hag
 Ai tempi biblici, le processioni danzanti di uomini e donne caratterizzavano le tre grandi feste di pellegrinaggio: Pasqua, Pentecoste e Tabernacoli. Sembra che tali danze ritmate avvenissero in modo circolare, ed è forse per questo motivo che nell’ebraismo, la danza in cerchio è chiamata hag: festa.
 In cerchio si danza intorno ad un luogo sacro, o durante una cerimonia religiosa, esprimendo così il clima gioioso e comunitario della festa. La simbologia della danza in cerchio ci dice che nessuno può ritenersi più importante dell’altro, mentre tutti sono rivolti verso Colui che è al centro della vita di ognuno.

Rito Bizantino: la triplice danza
 Ritroviamo il movimento circolare nella celebrazione del matrimonio cristiano nel Rito bizantino, la cui liturgia prevede una triplice danza in cerchio del sacerdote e degli sposi. Dopo essersi recati presso l’iconostasi, essi girano per tre volte intorno all’altare, mentre si cantano alcuni tropari. 

 Rito Romano
 Col progredire dell’inculturazione, il Rito Romano si va arricchendo di gesti e simboli appartenenti ad altre culture. Sempre più frequentemente, anche grazie al mezzo televisivo, si possono vedere celebrazioni liturgiche in cui la danza, la musica e il canto di altri popoli, trovano uno spazio adeguato.
  “I gesti e gli atteggiamenti dell’assemblea, in quanto segni di comunità e di unità, favoriscono la partecipazione attiva esprimendo e sviluppando l’intenzione e la sensibilità dei partecipanti. Nella cultura di un paese, si sceglieranno gesti e atteggiamenti del corpo che esprimano la situazione dell’uomo davanti a Dio, dando ad essi un significato cristiano, in corrispondenza, se possibile, con i gesti e gli atteggiamenti provenienti dalla Bibbia.
  Presso alcuni popoli, il canto si accompagna istintivamente al battito delle mani, al movimento ritmico del corpo o a movimenti di danza dei partecipanti. Tali forme di espressione corporale possono avere il loro posto nell’azione liturgica di questi popoli, a condizione che esse siano sempre espressione di una vera preghiera comune di adorazione, di lode, di offerta o di supplica e non semplicemente spettacolo”.[ii]

[i] Chassidismo, da Chassid: pio, devoto.  È un movimento ebraico sorto in Europa intorno al 1750. I suoi membri pongono l’accento sulla gioia del cuore e sulla retta intenzione.
[ii] Da: “ La Liturgia romana e l’inculturazione” (III, 41-42) – Istruzione della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 25 gennaio 1994.

LA MUSICA SACRA NELL’EBRAISMO: LA LETTURA DELLA TORAH

http://www.eclettico.org/israele/ebraico/musica.htm

LA MUSICA SACRA NELL’EBRAISMO: LA LETTURA DELLA TORAH

Introduzione alla lettura ed ai diversi « modi » La religiosità ebraica è strettamente collegata all’espressione musicale. Lo si riscontra immediatamente entrando in una sinagoga, durante un servizio, in cui si scopre che i versi sacri della Torah (la Bibbia ebraica) e delle preghiere non vengono semplicemente letti in ebraico, ma vengono « cantillenati », cioè cantati secondo una determinata melodia.
Ai tempi del Tempio di Gerusalemme era uso normale impiegare la musica durante il culto; ora questa abitudine si è persa, anche in ricordo del lutto sempre presente per la distruzione del Tempio stesso. Nell’antichità la musica è sempre stata associata al divino e spesso le erano attribuiti poteri divini (presso gli egiziani, fenici, assiri e babilonesi). L’impiego della musica ha anche avuto forti avversatori per la sua carica di sensualità (Talmud, Trattato Berachot) e quindi per i culti venivano usati solo strumenti particolari. All’epoca del Tempio di Gerusalemme venivano impiegati vari strumenti a fiato, per richiamo (lo shofar – il corno di ariete – e la chatzotzera – una tromba) o per fare musica (a fiato: ugabh – piccola zampogna o flauto – halil – grande zampogna – alamoth – flauto doppio – magrepha – siringa. A percussione: tof – tamburello – metziltayim o tziltzal – cimbalo).
Nel Tempio di Gerusalemme erano impiegati il nebhel (arpa grande), il kinnor (arpa piccola), il tziltzal ed il halil; era presente anche un coro composto da uomini. La danza era considerata parte integrante delle cerimonie religiose. Il canto era in forma responsoriale (più cori che si alternano), unisono, a solo, e, raramente, antifonale (canto alternato fra gruppi equivalenti). Le fonti – la Torah e gli altri testi dell’ebraismo – attestano l’uso di cantare e suonare nei momenti di gioia come espressione di lode al Signore (vedi le varie cantiche: di Mosè, di Miriam, etc.). Purtroppo non ci sono arrivate testimonianze scritte delle melodie e quindi molto di questo patrimonio è andato perso. Sappiamo però come leggere la Torah, grazie alla tradizione orale ed a valenti maestri come Aaron ben Asher di Tiberiade del IX sec. – che fu il primo a dare alla Torah un sistema compiuto di accenti – ed i Masoreti (in ebr. « coloro che trasmettono la tradizione ») del X sec.
Il primo sistema di notazione conosciuto (segni mnemonici, con accenti particolari detti « te’amim », e chironomici, dal termine greco « chironomia », cioè segni fatti con la mano per indicare la melodia, tecnica attestata dal Talmud) descriveva, con il movimento di un dito, l’andamento della melodia ascendente (« kadma »), discendente (« tifha ») o prolungato (« zakef »): è possibile vedere l’impiego di questi segni da parte di colui che assiste il Chazzan, cioè il cantore – necessario in quanto non è permessa la lettura da un testo con scritti gli accenti – andando in una sinagoga durante la lettura della Torah. Qualsiasi ebreo può officiare il culto nella sinagoga, ma deve saper leggere la Torah e le preghiere, pratica che richiede ovviamente uno studio. Solo alcuni libri della Torah, la cui lettura pubblica è obbligatoria, sono provvisti di melodia: Pentateuco, Profeti, Ester, Lamentazioni, Ruth, Ecclesiaste, Cantico dei Cantici, Salmi, Giobbe (Proverbi, Esdra, Neemia e Cronache non hanno melodie perché non erano letti durante il servizio).
La musica ebraica sacra è fondata sul sistema modale, composto da un numero di « motivi » (breve figure musicali o gruppi di note) all’interno di una determinata scala. Il modo di leggere la Torah è segnalato fin dal I secolo. Il modo del Pentateuco è influenzato dalla musica greca ed orientale ed esprime dignità ed innalzamento dello spirito. Vi sono vari modi di leggere la Torah, a seconda dell’area geografica. Quello askenazita (Europa dell’Est) – fortemente influenzato dalla musica tedesca ed espressione di sentimenti struggenti e melanconici – è simile a quello in uso nelle comunità ebraiche del sud della Francia – Carpentras, Avignone – e dell’Italia. Il modo sefardita (Spagna ed Africa del nord) ha invece varie somiglianze con il canto gregoriano – che fece propri parecchi elementi dei canti ebraici – ed ovviamente ha molte affinità con le melodie arabe. In Italia, nel XVII secolo, Salomone Rossi – famoso musicista ebreo alla corte di Mantova – introdusse l’armonia e la polifonia nella musica sinagogale ed influenzò anche i paesi di lingua tedesca.
Il modo di cantare la Torah viene effettuato su una base stabilita, che sono appunto i « te’amim », ma il suo svolgimento è diverso non solo tra comunità askenazite, sefardite, italiane, ma anche tra le varie città della stessa nazione. Motivo per cui, per esempio, se si andrà in sinagoga a Roma, Venezia o Torino, non si ascolterà la stessa identica lettura. Ogni comunità ebraica, su una base di regole comuni, ha i propri usi e costumi e ciò è valido anche per il modo della lettura della Torah.

La riscoperta della lingua ebraica in Israele
Eliezer ben Yehuda (1858-1922) è noto come colui che ha « resuscitato » la lingua ebraica rendendola lingua di uno Stato, parlata da milioni di persone.
L’ebraico, un tempo usato correntemente nella terra di Israele, dopo la diaspora (dispersione degli ebrei) avvenuta con la conquista romana di Gerusalemme (70 d.C.), era sopravvissuto come lingua sacra per la lettura della Torah e le preghiere.
Eliezer ben Yehuda, nato come Eliezer Perlman in un villaggio della Lituania, aveva appreso la grammatica ebraica da un maestro di Jeshivah (scuola superiore ebraica) che segretamente condivideva le idee della Haskalah (l’Illuminismo ebraico del XIX sec.) la quale aveva ripreso l’ebraico per farne una lingua scritta correntemente. Eliezer all’università si era appassionato alla storia dei bulgari e turchi, popolazioni oppresse, e fu allora che nacque in lui l’idea che anche il popolo ebraico doveva ritornare nella propria terra. A Parigi, dove studiò medicina, cominciò a parlare ebraico e quando si sposò, nel 1881, decise che anche la sua famiglia doveva parlare ebraico.
Lentamente, ma con costanza, Eliezer diffuse le sue convinzioni tra i suoi amici creando circoli che si proponevano come scopo di rendere l’ebraico di nuovo una lingua comunemente parlata. Cominciò a pubblicare sui giornali in ebraico e redasse un vocabolario di ebraico dopo aver consultato tutti i libri e i manoscritti che poté trovare nella biblioteca del convento di Saint-Etienne o negli istituti archeologici di Gerusalemme e nelle biblioteche di Londra, Oxford, Cambridge, Parigi, Berlino, Pietroburgo, Parma, Livorno e del Vaticano.
Nel 1910, dopo circa quindici anni di lavoro, fu pubblicato il primo volume del Thesaurus della lingua ebraica antica e moderna; i successivi uscirono dal 1912 al 1922, data della morte di Eliezer. L’opera fu portata a termine, postuma, nel 1959 (16 volumi). Nel 1890 venne fondato il primo Comitato per la lingua ebraica (che nel 1954 fu sostituito dall’Accademia ebraica) che aveva il compito di definire le regole di pronuncia (fissata – più vicina a quella sefardita – nel 1913), dell’ortografia e di supplire a tutte le lacune del vocabolario, « creando » i termini moderni. In Israele, nell’ambito scolastico, un gran lavoro per la diffusione della lingua ebraica fu svolto dal gruppo gli « Amanti di Sion » con il sostegno finanziario del barone Edmond de Rothschild.
Già dal 1900 i bambini nelle scuole si esprimevano correntemente in ebraico. Nel 1908, al primo Congresso internazionale sul ruolo dello Yiddish nella vita ebraica a Czernowitz, iniziò la lotta tra i sostenitori dello Yiddish e quelli dell’ebraico come lingua nazionale ebraica. Nel 1919 fu fondato in terra di Israele il primo quotidiano in ebraico: Hadashot ha-Aretz (divenuto in seguito Ha’aretz); tra il 1924 ed il 1934 furono inaugurati il Technion di Haifa, l’Università ebraica di Gerusalemme ed il futuro Istituto Weizmann; nel 1934 iniziarono trasmissioni radio in ebraico; dal 1925 vennero creati teatri dove si rappresentavano opere in ebraico.
Nel 1922, l’art. 22 del Mandato britannico stabilì che l’inglese, l’arabo e l’ebraico erano le lingue ufficiali del paese e dal 1948 l’ebraico divenne di nuovo la lingua ufficiale di uno Stato sovrano, lo Stato di Israele.

Silvia Haia Antonucci

Associazione di Amicizia Marche Israele – Pagina attiva dal 1995 – E mail: aami@eclettico.org
Ultimo aggiornamento: 16/01/10

Danzare la Parola

http://www.caritas-ticino.ch/media/rivista/archivio/riv_0102/03%20-%20Danzare%20la%20Parola.htm

Danzare la Parola

Di Marco Dania

Assistente diocesano della pastorale giovanile

Nella società attuale, sempre più, si ravvisa il bisogno di riscopertine/coprire appieno la dimensione spirituale, poiché lo sviluppo del materialismo e del consumismo hanno fatto perdere il senso più vero della vita. L’uomo postindustriale, affetto da una profonda crisi d’identità, avverte l’urgenza di ritrovare la propria unità interiore e riscopertine/coprire la corporeità come luogo delle relazioni col mondo e con Dio. A tale proposito la danza sacra può rivestire un ruolo determinante, perché attraverso di essa l’uomo cerca la comunione con il divino ed esprime corporalmente la sua spiritualità.
Ma può esistere una forma di danza sacra cristiana che sia coerente con la nostra cultura occidentale? Per dare una risposta è necessario ricorrere ad un’indagine biblica e storica e verificare poi l’attendibilità delle esperienze attuali. Non è possibile, infatti, prescindere, nell’intento di ricercare una forma di danza sacra valida per l’oggi, da un’analisi di questo tipo, attraverso la quale poter scopertine/coprire le radici culturali e religiose di tale fenomeno.

Irradiare la Bellezza
«Nel contesto del nostro mondo occidentale, caratterizzato da demotivazioni e stanchezze – afferma il cardinal Martini -… che cosa ci può dare un colpo d’ala, un cambiamento di marcia, un orizzonte di gioia e di speranza? Non basta deplorare e denunciare le brutture del nostro mondo. Non basta neppure per la nostra epoca disincantata parlare di giustizia, di doveri, di bene comune, di programmi pastorali, di esigenze evangeliche… Bisogna irradiare la bellezza di ciò che è vero e giusto nella vita, perché solo questa bellezza rapisce veramente i cuori e li rivolge a Dio».
Spesso la vita di fede è stata concepita come l’osservanza di alcuni obblighi, mentre è dono dello Spirito, rappresentato biblicamente con immagini vive: fuoco, acqua, vento, dono che gratuitamente si riceve e solo gratuitamente si offre. La Chiesa, attraverso l’arte, può rendere non solo percepibile, ma anche affascinante il mondo dell’invisibile. La bellezza, infatti, come sostiene Giovanni Paolo II: «è richiamo al trascendente. È invito a gustare la vita e a sognare il futuro. Per questo la bellezza delle cose create non può appagare, e suscita quell’arcana nostalgia di Dio che un innamorato del bello come sant’Agostino ha saputo interpretare con accenti ineguagliabili: “Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato!” ».
Nell’ambito di questa ricerca del Bello con la B maiuscola, nel tentativo di rendere in qualche modo visibile la realtà futura del paradiso, la sua armonia e la sua gioia, anche la danza sacra riveste un ruolo determinante, come autentica forma di trasfigurazione dell’uomo, come apertura al trascendente, come proposta di preghiera contemplativa.

La danza sacra nel mondo biblico
Presso gli Ebrei la danza è una viva manifestazione della vitalità, dell’esultanza e della festa di un popolo, che vive i rapporti in modo naturale, in cui tutte le dimensioni umane sono perfettamente integrate: istinti, mente, cuore, spirito. Nelle feste più importanti d’Israele la danza riveste un ruolo determinante. Pur se non codificata, fa parte delle cerimonie ufficiali con cui tutto il popolo esprime la propria lode ed il riferimento al ruolo delle danzatrici nelle processioni, in alcuni passi,  è molto esplicito.
Le danze ebraiche trovano la loro origine nelle danze orientali tipiche d’altri popoli che ne fanno anche un uso espressamente rituale, idolatrico e propiziatorio. Ma quando gli Ebrei se ne appropriano lo fanno con profondo senso del sacro e con l’intento di rivolgersi unicamente a Jhwh. La danza di ringraziamento di Maria per l’attraversata del mar Rosso, le altre danze con le quali si celebrava la vittoria, ritenendone Jhwh l’artefice, ed in particolare la danza di lode di Davide sono una manifestazione del culto vitale del popolo verso Dio. Davide danzando, non solo esprime gioiosamente col suo talento artistico la lode al Signore, ma esercita anche la sua funzione regale, sacerdotale e profetica.  La sua danza è una danza processionale per l’intronizzazione dell’Arca e quindi un’autentica danza sacra, cultuale, religiosa e rituale. Anche nel libro dei Salmi, i diversi riferimenti alla danza, ci fanno supporre l’uso processionale liturgico.
L’immagine della danza, infine, è usata anche in senso metaforico per designare sia la gioia dei tempi messianici (cfr. Ger 31, 13), sia il rapporto trinitario che intercorre nella creazione (cfr. Pr 8, 27-31). La Bibbia, quindi, ci conferisce diverse informazioni sull’effettivo utilizzo della danza in senso sacro da parte del popolo ebraico e dei suoi maggiori esponenti, ed esprime, simbolicamente con essa, anche la profondità delle relazioni tra le persone divine.     

Nella storia della Chiesa
Non abbiamo documenti che attestino, nei primi secoli, la presenza della danza nelle celebrazioni liturgiche, sappiamo, però, che era utilizzata nei riti di alcune sette ed in occasione di determinate feste, in onore dei santi martiri.
I Padri della Chiesa esprimono, attraverso l’immagine della danza celeste ed il ricorso al commento di alcuni brani biblici, la realtà del paradiso ed invitano i fedeli a tendere verso  la  loro destinazione futura, danzando nello Spirito. Tra essi Ambrogio afferma che il vero cristiano può danzare di fronte a Dio, come Davide, senza temere di vergognarsi, ma con l’attiva partecipazione dell’anima e del corpo.
Nel medioevo e nei secoli successivi si sviluppa un’ostilità dell’autorità della Chiesa nei confronti della danza, dovuta da un lato agli abusi del popolo e dall’altro alla progressiva diffidenza della Chiesa nei confronti della corporeità. Si riscontrano alcune influenze pagane per via di usi derivati dal mondo romano e germanico, che raggiungono il culmine col fenomeno della danza dei folli. Parallelamente si diffondono anche la pratica delle danze macabre e della danza, come preghiera individuale. Diversi, inoltre, sono in quest’epoca gli inni sacri che invitano i cristiani alla danza.
Nel periodo che va dal rinascimento al XIX sec. si sviluppano da un lato il fenomeno delle danze frenetiche di gruppo, dovute secondo alcuni autori all’estasi, per altri a malattie, dall’altro quello delle danze del clero, che rivestono carattere paraliturgico ed hanno un grande valore simbolico. Sono eseguite nei chiostri in occasione delle feste più importanti, senza regole coreografiche ed accompagnate da canti sacri. Nell’opera dei gesuiti, e dei francescani, inoltre, la danza riveste una funzione educativa o didattica, come forma di rappresentazione della fede.
Quasi tutte le manifestazioni, però, si sono perse nell’arco dei secoli, per via del giudizio negativo da parte dell’autorità ecclesiastica, tranne la processione dei santi danzanti di Echternach in Lussemburgo, in occasione della festa di S. Willebrod e il Baile de los seises nella cattedrale di Siviglia in Spagna, per la festa del Corpus Domini. Possiamo ritenere, infine, il fenomeno della danza spirituale, che si manifesta in persone ispirate come unione mistica, quello più interessante. Il suo carattere è spontaneo e spesso le persone che assistono sono anch’esse coinvolte nella preghiera.  Lungo la storia della Chiesa, perciò, anche se non esiste una vera e propria danza liturgica, la pratica della danza sacra è diffusa e complessa.

Alcune nuove esperienze
All’inizio del ‘900, è avvenuta una vera e propria rivoluzione nel mondo della danza che ha influenzato in modo determinante quasi tutte le esperienze di danza sacra sorte negli anni successivi,  in particolare negli Stati Uniti. I maggiori esponenti di questa corrente sono: I. Duncan, R. Saint Denis e T. Shawn, D. Humphrey e M. Graham, R. Laban e M. Bejart, ciascuno dei quali o si è occupato direttamente di tematiche religiose, o ha inteso recuperare una dimensione più ricca e profonda della danza come autentica forma di comunicazione col divino.
Tra i diversi pensatori americani che si sono occupati di danza sacra H. Cox è sicuramente il più conosciuto. Egli sottolinea l’importanza del recupero della dimensione festiva della fede, considera la danza un modo di pensare col corpo e ritiene necessario valorizzare la dimensione della corporeità nel culto. In questa direzione procede il Movimento Pentecostale che nei propri incontri di preghiera favorisce l’espressione spontanea, ricorrendo all’uso di gesti e di danze improvvisate, che manifestano la presenza del dono dello Spirito. Molteplici sono inoltre le esperienze in atto negli Stati Uniti, che mirano ad utilizzare principalmente i modelli gestuali provenienti dalla danza contemporanea e da quella terapeutica. Queste esperienze comportano, però, il rischio di perdere di vista la dimensione sacramentale della fede e denotano un certo narcisismo.
In India esiste una tradizione millenaria di danza sacra che in antichità era parte integrante del rituale del tempio. Attualmente nel mondo cattolico si sta cercando di conservare il patrimonio della danza sacra classica, come forma d’evangelizzazione e di recuperare l’esperienza più vivace delle danze d’origine tribale. Non si è trovato, però, il giusto rapporto tra le due forme. Risulta molto interessante l’esperienza del sacerdote verbita F. Barboza che ha fondato a Bombay una scuola di danza sacra all’interno della quale forma alcuni professionisti coll’intento di rappresentare i misteri della fede attraverso la danza tradizionale e giungere ad una sintesi tra vita interiore e gestualità.
La cultura africana considera la corporeità il luogo che consente di entrare in comunione col mondo circostante e col soprannaturale, attraverso la danza, perciò, l’africano manifesta la propria appartenenza alla comunità ed il proprio senso religioso. La danza, pertanto è entrata a far parte anche della liturgia, come compare ufficialmente dal Messale romano per le diocesi del Congo. Lo scopertine/copo è creare un ambiente caloroso che favorisca l’incontro con l’altro. Secondo la struttura della liturgia eucaristica la danza è ammessa al Gloria e alla presentazione dei doni. I fedeli possono, inoltre, accompagnare con movimenti ritmici anche il canto d’ingresso e quello finale.
In Europa sorgono le prime esperienze a partire dalla Francia, dove negli anni ‘50 le sorelle Foatelli, costituiscono a Parigi la loro école de danse religieuse dans l’église de rite catholique utilizzando la tecnica del balletto classico. Anche C. Golovine, la più affermata delle praticanti di danza sacra, che ha ricevuto, fra l’altro, il mandato dal vescovo di Avignone di annunciare Cristo attraverso la danza, si basa sulla tecnica del balletto classico, mentre Michaëlle si ispira alla tecnica yoga e realizza delle sequenze gestuali, piuttosto che danze vere e proprie.
In Germania, R. Guardini già negli anni ‘20 prende in considerazione la liturgia come gioco evidenziandone, quindi, l’intensità, la creatività e la dimensione contemplativa. H. Rahner e S. Sequeira, approfondiscono successivamente le sue intuizioni e trattano in modo più specifico l’argomento danza sacra. T. Berger prende in considerazione la danza liturgica che considera come l’espressione corporea dell’esercizio della fede e ritiene che sia possibile danzare in diversi momenti della celebrazione eucaristica, ma le sue proposte sembrano più che altro successioni di movimenti. Particolarmente interessante è il contributo offerto da E. Kohlhaas col suo studio sulla danza nel monastero, dove presenta la propria esperienza, considera la liturgia un evento ricco di movimento e ritiene che possa essere danzato. Ella si domanda, infine, quale possa essere la forma più idonea, sobria e distinta, per realizzare danze sacre rispettose della cultura e della tradizione europea.

La danza meditativa
La danza meditativa ideata da Gazelle all’interno della comunità dell’Arca di Lanza del Vasto e realizzata su canto gregoriano, può rispondere a questa esigenza. Gazelle, infatti, approfondisce la dimensione sacrale delle danze popolari e, attraverso l’ascolto orante del canto gregoriano, realizza una forma totalmente nuova di danza sacra dallo stile sobrio, che consiste nell’imprimere la Parola su di sé, e nel conservare uno stato di autentica preghiera, come riposo sul canto ed abbandono fiducioso nel Signore. La sua danza meditativa rappresenta, perciò, una valida sintesi culturale tra la spiritualità del gregoriano ed il patrimonio gestuale delle danze europee e mediterranee, purificato secondo criteri universali di tecnica di danza sacra.
Essa, infatti, è autenticamente danza, vale a dire movimento ritmico, secondo una sequenza musicale, non semplice espressione corporea. È arte perché corrisponde a delle leggi di stile e d’equilibrio. È popolare, cioè viva e ricca di significati esistenziali, non prettamente tecnica ed artificiale come può essere la danza classica. È sacra perché si svolge nello spazio e nel tempo sacro, in modo simbolico, e perché è concepita esclusivamente come forma di preghiera sul canto sacro. È ecclesiale perché nasce da un’autentica esperienza di fede e d’ubbidienza all’interno di una comunità con una regola ben precisa. È spirituale perché idonea ad esprimere liberamente la lode a Dio attraverso il corpo. Ed infine è liturgica perché, rispettando la spiritualità del canto gregoriano, canto proprio della Chiesa, può essere utilizzata in un contesto liturgico.

L’esperienza della nostra diocesi
Nella nostra diocesi, da alcuni anni e precisamente dal 1997, è in atto una sperimentazione, attraverso la quale, un gruppo di ragazze svolge un servizio di animazione spirituale e liturgica nell’ambito della Pastorale Giovanile. L’iniziativa è nata in occasione della giornata mondiale della gioventù di Parigi; in quella circostanza, è stata realizzata la prima danza sul canto “le mani alzate” che è stata eseguita alla Messa conclusiva dell’incontro di preparazione avvenuto alla Salette. La stessa danza, poi, è stata realizzata alla celebrazione eucaristica presieduta da Mons. Amedeo Grab al Monte Tamaro, durante il primo incontro nazionale dei giovani cattolici svizzeri nel settembre del 1998.
Da allora il gruppo si è allargato e si incontra regolarmente. Sono state create altre danze, rappresentate in varie circostanze, in particolare lo scorso anno a Roma, durante una delle diverse Messe organizzate per gruppi linguistici prima dell’incontro di Tor Vergata, dove è stata eseguita anche una danza realizzata sull’inno della GMG. Di recente, il 5 gennaio a Bellinzona il gruppo ha dato vita ad un incontro di preghiera, rappresentando quasi tutte le danze che sono state create ed ha animato la presentazione del tema del Sacrifico Quaresimale svoltasi l’11 marzo a Lugano.
L’aspetto più interessante della nostra esperienza è che si ispira a quella di Gazelle, e ne conserva la stessa dignità, pur se le danze sono realizzate su musica usuale e non su canto gregoriano. Evidentemente sono meno complesse, ma lo stile è il medesimo, molto sobrio ed estremamente interiore, non ha, quindi nulla a che fare, per esempio, con quello della danza classica. Infatti quando la gestualità della  danza classica viene utilizzata per la danza sacra risulta eccessivamente aggraziata e quasi artificiosa.
Il linguaggio gestuale delle danze sacre del gruppo della nostra diocesi è piuttosto semplice  basato sulla combinazione armonica di alcuni gesti universali di preghiera e sulla rappresentazione mimica stilizzata del testo sacro, proposto dal canto. Non si ricorre a nessun artificio, ma ci si lascia condurre in modo armonico dalla melodia e soprattutto dal testo. Chi danza non esprime tanto se stesso, quanto piuttosto cerca di imprimere su di sé il testo sacro. Le danzatrici, perciò, sotto l’azione dello Spirito, diventano icone viventi della Parola, dimenticano se stesse e si abbandonano con fiducia nel Signore che, teneramente, plasma la loro vita. Si comprende, allora, che la danza sacra non è uno spettacolo, ma una disciplina spirituale, un mezzo per trasfigurare se stessi, e rendere visibile la gioia e la pace del paradiso.

Io danzavo
Una preghiera scritta da Sydnei Carter, che è un vero e proprio inno a Cristo danzatore, in conclusione, può aiutarci a comprendere ancora meglio l’autentico spirito della danza sacra.

Io danzavo il mattino in cui nacque il mondo,
danzavo circondato dalla luna, dalle stelle e dal sole.
E discesi dal cielo a danzare sulla terra quando venni al mondo a Betlemme.
Io danzavo per lo scriba e per il fariseo,
ma essi non hanno voluto né danzare, né seguirmi;
danzavo per i pescatori, per Giacomo e per Giovanni,
essi mi hanno seguito e sono entrati nella danza.
Io danzavo il giorno di sabato, ho guarito il paralitico,
la gente per bene diceva che era un onta.
Mi hanno frustato, mi hanno lasciato nudo,
mi hanno appeso ben in alto su una croce per morire…
Io danzavo il venerdì santo quando il cielo divenne tenebra
(è difficile danzare con il demonio alle spalle).
Hanno seppellito il mio corpo ed hanno creduto che fossi finito,
ma io sono la danza e conduco sempre io il ballo.
Hanno voluto seppellirmi, ma sono rimbalzato ancora più in alto,
perché io sono la vita, la vita che non può morire:
io vivo in voi e voi vivete in me, perché io sono il Signore, il Signore della danza.
Danzate, ovunque voi siate,
perché io sono il Signore, il Signore della danza
e io conduco la vostra danza, ovunque voi siate,
io condurrò la vostra danza.

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