LA DOMENICA-EUCARISTIA E IL PRIMATO DELLA CARITA’
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LA DOMENICA-EUCARISTIA E IL PRIMATO DELLA CARITA’
S.E. Mons. Yoannis Spiteris
Introduzione
In una delle chiese della mia diocesi del Nord della Grecia, ogni anno ci sono più di 40 battesimi di adulti stranieri, essi si aggiungano ai cosiddetti « tradizionali » cattolici presenti nel territorio. Ormai, nella celebrazione domenicale dell’eucaristia, la chiesa per tre quarti è riempita di cattolici « stranieri ».
I fedeli provenienti dalle tradizionali famiglie cattoliche del luogo, invece di sentire la gioia di trovarsi insieme a nuovi fratelli, si sentono minoranza nella propria chiesa e minacciati dagli « stranieri ». Risultano, alcuni la domenica non vengono più in chiesa, altri non frequentano più quella chiesa, e quelli che vengono si lamentano o sono scortesi con i cattolici stranieri emigrati.
Ancora non sono riuscito a convincerli che per i cristiani non ci sono « stranieri », ma tutti sono veri fratelli in Cristo, che l’Eucaristia domenicale non è un rito, ma un evento in cui si diventa Corpo di Cristo, in cui tutti i membri di questo Corpo comunicano profondamente nella stessa Agape che unisce il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ancora non sono riuscito a fare capire loro che non ha senso ottemperare al « precetto » domenicale senza la carità e la solidarietà con i fratelli. Alla fine forse il difficile in tutta la nostra pastorale « eucaristica » non consiste tanto nel persuadere i nostri fedeli a frequentare la messa domenicale e a comunicarsi con Cristo nell’Eucaristia, ma a comunicare con Cristo totale nella carità. Credo che questo discorso, dottrinalmente così ovvio, sia anche il più arduo a recepirlo nella vita, ma se lo ignoriamo nella vita allora il nostro cristianesimo sarà apparente e ingannevole.
-Sono del parere che, sebbene il tema propostomi, sia il più biblico, il più patristico e il più teologico e quindi il più centrale di tutta la dottrina eucaristica, tuttavia rimane quello più ignorato e il meno recepito almeno nella prassi. Si ha l’impressione che, nella visione eucaristica dei nostri fedeli, sia prevalsa una pratica individualista, pietista ed intimista dell’Eucaristia a scapito del suo aspetto prevalentemente comunionale ed ecclesiale. Nella prassi esiste la tendenza inconscia di dividere Cristo Capo dal suo Corpo, si vuole comunicare con Cristo senza comunicare con le sue membra. Si cade così ancora una volta nel legalismo: la domenica diventa un « precetto » rituale da adempire e non una vera e propria vita da condividere nella comunione e nell’amore.
Per poter evidenziare l’indissolubile legame tra eucaristia e carità è necessario esporre la sua dimensione più caratteristica, ma anche più spesso ignorato nella prassi, cioè quella ecclesiale e in seguito trame le conseguenze.
E’ senza ombra di dubbio che la domenica esiste solo in funzione dell’eucaristia talmente da identificarsi con essa. Come le comunità degli Atti degli Apostoli, così le nostre comunità di oggi si radunano nel Giorno del Signore « per spezzare il pane » (cf. At. 2, 42, Gv 24, 30). Il raduno liturgico domenicale supera il suo aspetto di pure evento sociale e diventa corpo comunionale, icona della Trinità, solo diventando « comunità eucaristica », vero Corpo di Cristo totale. Si supererà l’individualismo che caratterizza spesso i nostri cristiani della domenica, anche quelli che si comunicano con « Gesù », nel momento in cui essi prenderanno coscienza, nel loro vissuto, non solo della presenza di Cristo nell’Eucaristia, ma del fatto che questa « presenza » si estende a tutti i cristiani radunati nella sinassi domenicale.
Come afferma Giovanni Paolo II nella Dies Domini « questa realtà della vita ecclesiale ha nell’Eucaristia non solo una particolare intensità espressiva, ma in certo senso il suo luogo « sorgivo ». L’Eucaristia nutre e plasma la Chiesa: « Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane » (1 Cor 10, 17). Per tale suo rapporto vitale con il sacramento del Corpo e del Sangue del Signore, il mistero della Chiesa è in modo supremo annunciato, gustato e vissuto nell’Eucaristia » (n. 32). Il tema ecclesiologo dell’eucaristia ormai domina i documenti del magistero con un punto culminate nella recente enciclica di Giovanni Paolo II Ecclesia de Eucaristia e credo che costituirà anche l’argomento più trattato nel prossimo Sinodo dei Vescovi. Non dimentichiamo che è anche il tema spesso toccato nel dialogo ecumenico con i fratelli ortodossi come pure costituisce uno dei capitoli più originali della teologia ortodossa attuale.
Sono convinto di dirvi delle cose talmente ovvie circa la dottrina eucaristica da sembra re ripetitivo e senza originalità. Tuttavia non è possibile esporre l’argomento propostomi – il primato della carità nella domenica – senza i presupposti biblico teologici.
Come è noto, quello che oggi noi chiamiamo « Corpus Christi », fino al secolo XIII era la Chiesa costituita da Cristo Capo e dai fedeli suo corpo. Il segno sensibile ed efficace di questo « Corpus Cristi » è l’Eucaristia. H. De Lubac nella sua famosa opera « Corpus mysticum » ha dimostrato che presso i Padri e fino al Medioevo quando si parlava del « Corpus Christi » s’intendeva quello che noi oggi chiamiamo « Corpo Mistico di Cristo », cioè Cristo capo e le sue membra .
Nello Spirito si diventa una sola cosa in Cristo
Uno dei temi comunioni della tradizione orientale e occidentale è la visione dell’eucaristia come segno « efficace » (sacramentale) di unità e vincolo di carità. E’ un insegnamento costante nel magistero e nei Padri della Chiesa. Il Concilio di Trento insegna: « II nostro Salvatore ha lasciato nella sua Chiesa l’Eucaristia come segno di unità e di amore, con cui volle che tutti i cristiani fossero congiunti e uniti fra loro » . Cosi il Vaticano II, facendo proprie le parole di Agostino, insegna che l’eucaristia è « sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità » . Nella Lumen Gentium (n.3) il concilio spiega il perché: « Col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata e prodotta l’unità dei fedeli che costituiscono un solo corpo in Cristo ». E più in là continua: Infatti « nella frazione del pane eucaristico partecipando noi realmente al corpo del Signore, siamo elevati alla comunione con lui e tra di noi: Perché c’è un solo pane, un solo corpo siamo noi, quantunque molti, noi che partecipiamo tutti a un unico pane » (1 Cor. 10, 17). Così noi tutti diventiamo membra di quel corpo (cf. 1 Cor. 12, 27) « e siamo, ciascuno per la sua parte, membra gli uni degli altri » (Rom. 12, 5) » (n. 7). Ecco perché, secondo San Tommaso, l’eucaristia s’identifica con la carità: « Il Sacramento dell’Eucaristia appartiene particolarmente alla carità, perché è il sacramento dell’unione della Chiesa (sacramentum ecclesiae unitatis) e contiene colui nel quale tutta la Chiesa si unisce e si consolida, cioè Cristo. Perciò l’Eucaristia è in certo modo origine e vincolo della carità » .
Questa unità di noi tutti con Cristo e tra di noi è talmente grande che interviene lo stesso Spirito Santo per operarla.
Infatti, già con il Battesimo lo Spirito Santo « incorpora » i fedeli a Cristo e li fa Chiesa, ma tale incorporazione con l’Eucaristia cresce, si nutre, si fa sempre più matura, interiorizzata e personale, per cui non si è uniti solo a Cristo capo, ma anche alle sue membra. Si tratta di una realtà profonda e ricca per la vita cristiana: non si può comunicare con Cristo Capo se nella vita si accantona il suo Corpo che è la Chiesa. Ovvero, si comunica con il Cristo Capo nella misura in cui si è anche in comunione con i fratelli, così come non si può comunicare con i fratelli se non si è in comunione con Cristo Capo. L’Eucaristia è il sacramento che crea questa comunione bidimensionale che, alla fine, si riduce ad un’unica realtà, il corpo di Cristo, cioè la Chiesa: ecco perché si usa dire che l’Eucaristia « fa la Chiesa ». Principio d’unità e di coesione in questa « comunione » è sempre lo Spirito, per questo nelle nuove preghiere eucaristiche, il sacerdote dopo aver pronunziato le parole dell’istituzione dell’Eucaristia, recita una seconda epìclesi: prega il Padre affinché mandi il suo Spirito e faccia di tutti « un solo corpo e un solo sangue con Cristo ». Dopo la risurrezione e la pentecoste Cristo esiste solo come Cristo totale, Cristo capo unito alle membra: « Se vuoi comprendere il corpo di Cristo – scrive S. Agostino – ascolta l’Apostolo che dice ai fedeli: Voi però siete il corpo di Cristo, le sue membra (1 Cor 12,27). Se voi dunque siete il corpo di Cristo e le sue membra, sulla mensa del Signore viene posto il vostro sacro mistero: voi ricevete il vostro sacro mistero. A ciò che voi siete, voi rispondete Amen, e rispondendo lo sottoscrivete. Odi infatti: « Il corpo di Cristo » e rispondi: « Amen ». Sii (veramente) corpo di Cristo, perché l’ »Amen » sia vero! Perché dunque nel pane? Qui non portiamo idee nostre, ma udiamo lo stesso Apostolo che, parlando di questo sacramento, dice: Un solo pane noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo (Cor 10,17). Comprendete e godete, unità, verità, pietà, carità. Un solo pane: chi è quest’unico pane? Pur molti… un solo corpo: riflettete che il pane non si fa con un grano solo, ma con molti. Quando riceveste l’esorcismo battesimale, veniste come macinati. Quando foste battezzati, veniste come intrisi. Quando riceveste il fuoco dello Spirito Santo, veniste come cotti. Siate quello che vedete e ricevete quello che voi siete! Questo ha detto l’Apostolo parlando del pane… » (Discorsi, 227,1).
L’Eucaristia come comunione dello Spirito Santo diventa, pertanto, « comunione dei santi » in un duplice senso: comunione nelle cose sante, e comunione di santi, cioè di persone santificate dallo Spirito. Così si può capire perché l’Eucaristia è il sacramento dell’amore. Essere santi significa per opera dello Spirito Santo comunicare con l’amore a Cristo e le sue membra.
Questa dottrina cristiana, fin dal principio, è stata pressa sul serio nella catechesi degli Apostoli che giudicarono in maniera severa i cristiani che la ignoravano nelle loro assemblee eucaristiche. San Paolo è il più esplicito di tutti.
L’aspetto ecclesiale dell’eucaristia e la carità in San Paolo
Come si sa uno dei temi principali della teologia paolina è quello della « Koinonia ». A Corinto, come altrove, Paolo annunciò il Vangelo di Gesù crocifisso e resuscitato, che, continua, in quanto Signore, a essere presente nella Cena. Egli trasmise il racconto tradizionale, che figura attualmente nella sua lettera ai Corinzi (lCor 11,2325). Quelli che Paolo convertì presero a cuore la Cena e si sforzarono di concepirla in termini più familiari al loro mondo. In 1Cor 10,16 noi troviamo formulata da Paolo ciò che sembra essere un’affermazione cristiana ellenistica riguardo al pane e al calice, espressa ricorrendo all’idea di koinonia. t probabile che questa formulazione sia stata adottata con uno scopo catechetico, forse dai Corinzi stessi. Citandola nella sua argomentazione sottoforma di due frasi della medesima struttura, Paolo le dà la sua approvazione:
Il pane che spezziamo è una partecipazione (o condivisione, koinonia) al corpo del Cristo.
Il calice di benedizione che noi benediciamo è una partecipazione (o condivisione, koinonia), al sangue del Cristo.
Per Paolo koinonia o comunione non si realizza solo con Gesù risorto, ma con tutto il suo Corpo concreto che è la comunità di Corinto radunata per celebrare la Cena del Signore. Per l’Apostolo delle genti l’Eucaristia per natura propria ha una portata ecclesíale. Egli, infatti, in maniera catechetica spiega che « il corpo di Cristo » non è soltanto il corpo di Gesù sacrificato sulla croce (1 6b), ma anche la comunità di Corinto, che fa parte di questo corpo: « Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane » (17b-18). In tal modo Paolo passa dalla cristologia, dalla soteriologia e dal « sacramento » all’ecclesiologia. Ma se, al versetto 17, mette l’accento sulla chiesa, è per incoraggiare all’unità i cristiani di Corinto, lacerati da divisioni fra e nelle assemblee domestiche (11,17-22). Qui sta l’apporto teologico originale della riflessione paolina. La partecipazione eucaristica fonda la solidarietà dei credenti. Mangiare insieme lo stesso pane è gesto creativo di vincoli così profondi da formulare un’unità strettissima, addirittura « un unico corpo ».
Non era un compito facile mantenere la comunione fra i cristiani che componevano le primitive comunità, fra i deboli e i forti, fra i cristiani ebrei e i cristiani gentili, ciò era necessario per la « giusta » celebrazione eucaristica.
Questa difficoltà appare in maniera in modo drammatica nel capitolo 11, 17-33 della stessa lettera.
Paolo era stato informato a voce (v. 17) che a Corinto non solo si verificavano abusi pratici, ma si arrivava a compromettere gravemente l’autentico significato della celebrazione eucaristica. I cristiani di Corinto, nelle assemblee celebrative della Cena del Signore, tradivano il significato comunitario e caritativo dell’Eucaristia con un comportamento egoistico e privativo. Infatti, in occasione della Cena del Signore (kyriakòn deipnon), un gruppo di cristiani, quelli benestanti, si faceva la « propria cena » (ìdion deipnon) a parte (v. 21) e i poveri, letteralmente « i nulla tenenti come dice il testo (v. 22), erano esclusi.
Va ricordato che l’Eucaristia dei primi cristiani si celebrava all’interno di una cena comune che vedeva riuniti i credenti in modo fraterno. Più tardi essa sarà chiamata agape, appunto perché esprimeva l’amore vicendevole dei cristiani.
Collegata con il pasto comune, l’eucaristia era per eccellenza il sacramento in cui la chiesa poteva esprimersi quale comunità unita al suo Signore e solidale tra sue membra. A Corinto invece essa si privatizzò. Si pensava che valesse per se stessa al di fuori di ogni contesto di amore reciproco, che creasse ed esprimesse un rapporto soltanto verticale con Cristo risorto. Anche se celebrata materialmente insieme, essa era diventa sacramento dei singoli credenti e non della e nella chiesa in quanto tale. Degenerò in rito sacro, avulso dai rapporti esistenziali che legano quelli che lo celebrano. Si avvicinava ai riti d’iniziazione misterica, operanti magicamente al di fuori di ogni impegno etico degli iniziati.
Paolo non rimprovera ai cristiani di Corinto la loro razionalistica negazione della presenza di Cristo nell’eucaristia, né perché l’avessero ridotta una cena pura e semplice, ma perché l’avevano sciolta da ogni contestualizzazione ecclesiale e agapica, l’avevano ridotto ad un affare di salvezza privata.
I termini usati da Paolo indicano l’ecclesialità di quest’atto: Il termine synérchesthai (trovarsi insieme, riunirsi) ricorre come ritornello (cf vv. 17.18.20.33.34) ed è rinforzato da espressioni chiaramente ecclesiologiche: « quando vi riunite in assemblea (en ekklésia) (v. 18), « quando vi riunite insieme, nello stesso luogo (epì to autò) . Queste espressioni indicano che quando i cristiani si riuniscono per celebrare la cena, diventano chiesa eucaristica e questa chiesa celebra la sua verità profonda di comunione fraterna e solidale di tutti i credenti.
I cristiani di Corinto, però, in realtà non consumano la Cena del Signore (kyriakòn deipnon), bensì una loro privatistica cena, la « propria cena » (ìdion deìpnon). E’ chiara l’antitesi: resta esclusa la convivialità con Cristo, perché si escludono i poveri dalla propria convivialità. Le divisioni sono una spaccatura scandalosa tra chi è sazio e chi soffre la fame, incontriamo una situazione in cui appare la disuguaglianza tra i fedeli e la chiusura gli altri. Dove non c’è chiesa, intesa quale comunità solidale, non può esserci la cena del Signore. Del resto la cena non è una semplice incontro conviviale, è un’ »anamnesi » della « morte del Signore » cioè dell’atto supremo di amore verso gli uomini (cf. v. 26).
Per Paolo chi si dissocia dai fratelli, si separa anche da Cristo stesso. t per questo che il giudizio contro coloro che « si nutrono indegnamente del corpo e del sangue del Signore » è oltremodo severo: » Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna » (vv. 27-29).
È interessante per il nostro tema evidenziare che cosa intenda Paolo per partecipazione indegna alla cena del Signore. A Corinto sappiamo che non mancava la fede nel sacramento della cena del Signore. Ciò che causa la condanna è lo scindere il Corpo di Cristo dal suo Corpo ecclesiale. « Non distinguere il corpo » vuol dire non riconoscere come tale il corpo ecclesiale che si costruisce nella cena del Signore: Si pecca contro il corpo del Signore peccando contro i fratelli, mostrando con il loro comportamento mancanza di amore.
In conclusione possiamo affermare che nel capitolo 11 della prima lettera ai Corinzi, Paolo ha voluto escludere l’isolamento della Cena del Signore e la sua conseguente degenerazione a rito sacro, valido per se stesso, avulso da ogni contesto storico. Positivamente, egli ha voluto raccordare in maniera indissolubile eucaristia, comunità ecclesiale e solidarietà fraterna. La collocazione essenziale del sacramento è all’interno della, chiesa, che si qualifica come costruzione edificata sulla base della carità.
Nell’eucaristia diventiamo vero corpo di Cristo ecclesiale.
Essendo questa mia conferenza situata nel contesto degli incontri ecumenici, permettetemi di presentarvi brevemente la cosiddetta ecclesiologia eucaristica che si rifà ad alcuni grandi teologi ortodossi di oggi. I due teologi ortodossi che meglio rappresentano oggi la teologia eucaristica in relazione alla Chiesa sono il russo N. Afanassieff (1893 -1966), e il greco J. Zizioulas
N. Afanassieff parte dal presupposto che la Chiesa è un mistero, un sacramento di cui si può avere l’esperienza solo nella celebrazione eucaristica. Egli, come molti altri teologi ortodossi, si ispira al testo degli Atti 2, 44 « tutti i credenti erano riuniti in uno stesso luogo »(epi to autò) . Basandosi anche su testi patristici, afferma che l’essere riuniti in uno stesso luogo indica contemporaneamente l’Eucaristia (« sinassi ») e la Chiesa (popolo di Dio radunato nell’unita): « L’Eucaristia in quanto assemblea liturgica « epi to autò », in un certo senso, si identica con la « Chiesa »: è per questo che i due termini sono facilmente intercambiabili » . L’Eucaristia è più che un sacramento della presenza del Signore, essa è il sacramento di un organismo vivo, essa è il « sacramento dell’assemblea », cioè della Chiesa, popolo di Dio Padre adunato per diventare sempre di più tempio dello Spirito e Corpo di Cristo risorto. In questo senso la Chiesa in quanto assemblea viene istituita dal Signore insieme all’Eucaristia . Infatti: « è proprio durante la prima Eucaristia, quella degli Apostoli, e durante tutte le altre che noi diventiamo, attraverso il pane e il vino, Corpo di Cristo. La comunione crea la « koinonia » che consiste in una « co-unione » reale con il corpo e il sangue di Cristo. La realtà del pane manifesta la realtà integrale del Corpo di Cristo, l’unità del pane (eis àrtos) manifesta l’unità del corpo (eis soma). Ora sappiamo che il Suo corpo è la Chiesa di Dio, la Chiesa che è veramente e realmente « en Christo ». E’ per questo che radunarsi per l’Eucaristia significa radunarsi m quanto Chiesa, e radunarsi in quanto Chiesa significa radunarsi in quanto Eucaristia » .
Evidentemente Afanassieff non vuole affermare un legame di causalità tra Chiesa ed Eucaristia; egli parla di un lega me esistenziale ed esperienziale. L’Eucaristia non è fatta dalla Chiesa in senso cronologico e logico perché essa è dono assoluto dell’azione congiunta di Cristo e dello Spirito che realizzano la volontà del Padre. Semplicemente l’Eucaristia permette alla Chiesa di esistere in quanto Corpo di Cristo. Il teologo greco Joannis Zizioulas esprimerà questa verità in modo drastico e forte: « L’Eucaristia non è un atto di una Chiesa preesistente; è un atto costitutivo dell’essere della Chiesa, un atto che permette alla Chiesa di essere. L’Eucaristia costituisce l’essere ecclesiale » o, come afferma P. Evdokimov discepolo di N. Afanassieff,, »La Chiesa è la koinonia eucaristica nella sua continuazione e perpetuazione »
Afanassieff, come pure altri teologi ortodossi, per spiegare questa identificazione tra Chiesa ed Eucaristia parte dall’annunzio paolino: « La Chiesa è il Corpo di Cristo » ed esso è l’Eucaristia. L’attenzione è posta in particolare su questo verbo essere. L’Eucaristia s’identifica pienamente con Cristo, ma in che senso la Chiesa s’identifica con l’Eucaristia e quindi con Cristo? La Chiesa e l’Eucaristia s’identificano con Cristo in quanto ambedue sono « Corpo di Cristo « , anzi la Chiesa diventa « Corpo di Cristo » appunto con l’Eucaristia. Ma che significa « Corpo di Cristo 0 Innanzitutto esso è inseparabile da lui perché costituisce con lui un’unità organica. La Chiesa non esiste senza il capo e così pure Cristo non esiste senza il suo corpo. Cristo, dopo la sua risurrezione, esiste solo come Cristo totale. Ontologicamente l’unità dei cristiani con Cristo incomincia con il battesimo-cresima, ma esso è solo l’inizio: questa unione vitale a e con Cristo diventa sempre più intima, interiorizzata ed esperienziale con l’Eucaristia; con essa i cristiani diventano veramente « Corpo di Cristo « , unità inscindibile con la persona del Cristo storico e risorto, realizzando così, fin da questa terra, il disegno del Padre di « ricapitolare tutto in Cristo ». È in questo senso che la Chiesa esiste in quanto « Corpo di Cristo « , in quanto Cristo è in lei e la Chiesa è in lui, diventando « carne una » . Così, afferma il teologo russo, « la Chiesa è identica a Cristo, perché è il suo corpo inseparabile da lui, ma non è egli stesso. Cristo, unito alla Chiesa, rimane sempre un Cristo personale e non diventa un Cristo collettivo e panteista » . La Chiesa, nell’Eucaristia, va vista come unità intima e profondissima con Cristo, senza separazione, ma anche senza confusione.
Quest’unità tra Chiesa ed Eucaristia è talmente grande che, essendo la Chiesa eucaristicamente Corpo di Cristo, essa diventa anche il tempio nel quale Dio raduna il suo popolo e nel quale si rende a Dio il debito culto in spirito e verità.
Conseguenze pratiche
I presupposti biblico teologici dell’eucaristia con la quale è strettamente collegata la domenica, ci portano in modo del tutto spontaneo a tirare le debite conseguenze. A questo scopo crediamo che non posiamo fare a meno riferirci al più autorevole documento sull’argomento, la Dies Domini di Giovanni Paolo II nel cap. IV, nn. 69-73.
La prima osservazione pratica se deduce dal fato che la gioia pasquale che il cristiano vive nella domenica non è completa se non si condivide con i fratelli più bisognosi:
»La domenica – insegna il papa – deve anche dare ai fedeli l’occasione di dedicarsi alle attività di misericordia, di carità e di apostolato. La partecipazione interiore alla gioia di Cristo risorto implica la condivisione piena dell’amore che pulsa nel suo cuore: non c’è gioia senza amore »
La domenica – afferma il papa – non consiste in un’evasione dalla realtà, una chiusura individualista nel proprio intimo:
»L’Eucaristia domenicale, dunque, non solo non distoglie dai doveri di carità, ma al contrario impegna maggiormente i fedeli « a tutte le opere di carità, di pietà, di apostolato, attraverso le quali divenga manifesto che i fedeli di Cristo non sono di questo mondo e tuttavia sono luce del mondo e rendono gloria al Padre dinanzi agli uomini ». Di fatto, fin dai tempi apostolici, la riunione domenicale è stata per i cristiani un momento di condivisione fraterna nei confronti dei più poveri. « Ogni primo giorno della settimana ciascuno metta da parte ciò che gli è riuscito di risparmiare » (1 Cor 16, 2). Qui si tratta della colletta organizzata da Paolo per le Chiese povere della Giudea: nell’Eucaristia domenicale il cuore credente si allarga alle dimensioni della Chiesa. Ma occorre cogliere in profondità l’invito dell’Apostolo, che lungi dal promuovere un’angusta mentalità dell’ »obolo », fa piuttosto appello a una esigente cultura della condivisione, attuata sia tra i membri stessi della comunità che in rapporto all’intera società ».
Il documento papale riporta il testo di 1 Cor 11, 20-22 che abbiamo esaminato aggiungendo quello di Giacomo: « Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito splendidamente, e entri anche un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite « Tu siediti qui comodamente » e al povero dite: « Tu mettiti in piedi lì », oppure « Siediti qui ai piedi del mio sgabello », non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi? » (2, 2-4).
Alcune citazioni patristiche del documento sono oltremodo a proposito: « Le indicazioni degli Apostoli trovarono pronta eco fin dai primi secoli e suscitarono vibrati accenti nella predicazione dei Padri della Chiesa. Parole di fuoco rivolgeva sant’Ambrogio ai ricchi che presumevano di assolvere ai loro obblighi religiosi frequentando la chiesa senza condividere i loro beni con i poveri e magari opprimendoli: « Ascolti, o ricco, cosa dice il Signore? E tu vieni in chiesa non per dare qualcosa a chi è povero ma per prendere « . (115) Non meno esigente san Giovanni Crisostomo: « Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurarlo quando si trova nudo. Non rendergli onore qui nel tempio con stoffe di seta, per poi trascurarlo fuori, dove patisce freddo e nudità. Colui che ha detto: « Questo è il mio corpo », è il medesimo che ha detto: « Voi mi avete visto affamato e non mi avete nutrito », e « Quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me » [...]. A che serve che la tavola eucaristica sia sovraccarica di calici d’oro, quando lui muore di fame? Comincia a saziare lui affamato, poi con quello che resterà potrai ornare anche l’altare ».
Sono parole che ricordano efficacemente alla comunità cristiana il dovere di fare dell’Eucaristia il luogo dove la fraternità diventi concreta solidarietà, dove gli ultimi siano i primi nella considerazione e nell’affetto dei fratelli, dove Cristo stesso, attraverso il dono generoso fatto dai ricchi al più poveri, possa in qualche modo continuare nel tempo il miracolo della moltiplicazione dei pani.
Poi suggerisse alcune indicazioni molto pratiche:
»L’Eucaristia è evento e progetto di fraternità. Dalla Messa domenicale parte un’onda di carità, destinata ad espandersi in tutta la vita dei fedeli, iniziando ad animare il modo stesso di vivere il resto della domenica. Se essa è giorno di gioia, occorre che il cristiano dica con i suoi concreti atteggiamenti che non si può essere felici » da soli « . Egli si guarda attorno, per individuare le persone che possono aver bisogno della sua solidarietà. Può accadere che nel suo vicinato o nel suo raggio di conoscenze vi siano ammalati, anziani, bambini, immigrati che proprio di domenica avvertono in modo ancora più cocente la loro solitudine, le loro necessità, la loro condizione di sofferenza. Certamente l’impegno per loro non può limitarsi ad una sporadica iniziativa domenicale. Ma posto un atteggiamento di impegno più globale, perché non dare al giorno del Signore un maggior tono di condivisione, attivando tutta l’inventiva di cui è capace la carità cristiana? Invitare a tavola con sé qualche persona sola, fare visita a degli ammalati, procurare da mangiare a qualche famiglia bisognosa, dedicare qualche ora a specifiche iniziative di volontariato e di solidarietà, sarebbe certamente un modo per portare nella vita la carità di Cristo attinta alla Mensa eucaristica ».
E conclude:
»Vissuta così, non solo l’Eucaristia domenicale, ma l’intera domenica diventa una grande scuola di carità, di giustizia e di pace. La presenza del Risorto in mezzo ai suoi sì fa progetto di solidarietà, urgenza di rinnovamento interiore, spinta a cambiare le strutture di peccato in cui i singoli, le comunità, talvolta i popoli interi sono irretiti. Lungi dall’essere evasione, la domenica cristiana è piuttosto » profezia » inscritta nel tempo, profezia che obbliga i credenti a seguire le orine di Colui che è venuto » per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri, la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore » (Lc 4, 18-19). Mettendosi alla sua scuola, nella memoria domenicale della Pasqua, e ricordando la sua promessa: » Vi lascio la pace, vi dò la mia pace » (Gv 14, 27), il credente diventa a sua volta operatore di pace ».
Terminando questo mio intervento vorrei fare anche un riferimento ecumenico. Noi cristiani come possiamo celebrare l’eucaristia, sacramento dell’unità e dell’amore, quando siamo divisi fra di noi? Anzi, tra i cristiani non in piena comunione, l’eucaristia diventa appunto ’11 segno più evidente di disunione.
Ogni volta che celebriamo l’eucaristia bisogno compiere un passo avanti verso la riconciliazione anche con i fratelli con i quali non siamo in piena comunione, perché, come afferma Giovanni Crisostomo, l’eucaristia: « toglie di mezzo anche l’inimicizia, respinge l’orgoglio, elimina l’invidia, introduce nelle anime la carità, madre di tutti i beni; distrugge, inoltre, tutte le disuguaglianze umane, di stato e di condizione, e dimostra l’uguale dignità del re e del povero, dal momento che noi ci ritroviamo tutti uniti nelle cose più importanti e necessarie, in quelle cioè che concernono la nostra comune salvezza » .
Ioannis Spiteris
Arcivescovo di Corfù, Zante e Cefallonia