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LA DOMENICA-EUCARISTIA E IL PRIMATO DELLA CARITA’

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LA DOMENICA-EUCARISTIA E IL PRIMATO DELLA CARITA’

S.E. Mons. Yoannis Spiteris

Introduzione

 In una delle chiese della mia diocesi del Nord della Grecia, ogni anno ci sono più di 40 battesimi di adulti stranieri, essi si aggiungano ai cosiddetti « tradizionali » cattolici presenti nel territorio. Ormai, nella celebrazione domenicale dell’eucaristia, la chiesa per tre quarti è riempita di cattolici « stranieri ».
 I fedeli provenienti dalle tradizionali famiglie cattoliche del luogo, invece di sentire la gioia di trovarsi insieme a nuovi fratelli, si sentono minoranza nella propria chiesa e minacciati dagli « stranieri ». Risultano, alcuni la domenica non vengono più in chiesa, altri non frequentano più quella chiesa, e quelli che vengono si lamentano o sono scortesi con i cattolici stranieri emigrati.
 Ancora non sono riuscito a convincerli che per i cristiani non ci sono « stranieri », ma tutti sono veri fratelli in Cristo, che l’Eucaristia domenicale non è un rito, ma un evento in cui si diventa Corpo di Cristo, in cui tutti i membri di questo Corpo comunicano profondamente nella stessa Agape che unisce il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ancora non sono riuscito a fare capire loro che non ha senso ottemperare al « precetto » domenicale senza la carità e la solidarietà con i fratelli. Alla fine forse il difficile in tutta la nostra pastorale « eucaristica » non consiste tanto nel persuadere i nostri fedeli a frequentare la messa domenicale e a comunicarsi con Cristo nell’Eucaristia, ma a comunicare con Cristo totale nella carità. Credo che questo discorso, dottrinalmente così ovvio, sia anche il più arduo a recepirlo nella vita, ma se lo ignoriamo nella vita allora il nostro cristianesimo sarà apparente e ingannevole.
 -Sono del parere che, sebbene il tema propostomi, sia il più biblico, il più patristico e il più teologico e quindi il più centrale di tutta la dottrina eucaristica, tuttavia rimane quello più ignorato e il meno recepito almeno nella prassi. Si ha l’impressione che, nella visione eucaristica dei nostri fedeli, sia prevalsa una pratica individualista, pietista ed intimista dell’Eucaristia a scapito del suo aspetto prevalentemente comunionale ed ecclesiale. Nella prassi esiste la tendenza inconscia di dividere Cristo Capo dal suo Corpo, si vuole comunicare con Cristo senza comunicare con le sue membra. Si cade così ancora una volta nel legalismo: la domenica diventa un « precetto » rituale da adempire e non una vera e propria vita da condividere nella comunione e nell’amore.
 Per poter evidenziare l’indissolubile legame tra eucaristia e carità è necessario esporre la sua dimensione più caratteristica, ma anche più spesso ignorato nella prassi, cioè quella ecclesiale e in seguito trame le conseguenze.
 E’ senza ombra di dubbio che la domenica esiste solo in funzione dell’eucaristia talmente da identificarsi con essa. Come le comunità degli Atti degli Apostoli, così le nostre comunità di oggi si radunano nel Giorno del Signore « per spezzare il pane » (cf. At. 2, 42, Gv 24, 30). Il raduno liturgico domenicale supera il suo aspetto di pure evento sociale e diventa corpo comunionale, icona della Trinità, solo diventando « comunità eucaristica », vero Corpo di Cristo totale. Si supererà l’individualismo che caratterizza spesso i nostri cristiani della domenica, anche quelli che si comunicano con « Gesù », nel momento in cui essi prenderanno coscienza, nel loro vissuto, non solo della presenza di Cristo nell’Eucaristia, ma del fatto che questa « presenza » si estende a tutti i cristiani radunati nella sinassi domenicale.
Come afferma Giovanni Paolo II nella Dies Domini « questa realtà della vita ecclesiale ha nell’Eucaristia non solo una particolare intensità espressiva, ma in certo senso il suo luogo « sorgivo ». L’Eucaristia nutre e plasma la Chiesa: « Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane » (1 Cor 10, 17). Per tale suo rapporto vitale con il sacramento del Corpo e del Sangue del Signore, il mistero della Chiesa è in modo supremo annunciato, gustato e vissuto nell’Eucaristia » (n. 32). Il tema ecclesiologo dell’eucaristia ormai domina i documenti del magistero con un punto culminate nella recente enciclica di Giovanni Paolo II Ecclesia de Eucaristia e credo che costituirà anche l’argomento più trattato nel prossimo Sinodo dei Vescovi. Non dimentichiamo che è anche il tema spesso toccato nel dialogo ecumenico con i fratelli ortodossi  come pure costituisce uno dei capitoli più originali della teologia ortodossa attuale.
 Sono convinto di dirvi delle cose talmente ovvie circa la dottrina eucaristica da sembra re ripetitivo e senza originalità. Tuttavia non è possibile esporre l’argomento propostomi – il primato della carità nella domenica – senza i presupposti biblico teologici.
 Come è noto, quello che oggi noi chiamiamo « Corpus Christi », fino al secolo XIII era la Chiesa costituita da Cristo Capo e dai fedeli suo corpo. Il segno sensibile ed efficace di questo « Corpus Cristi » è l’Eucaristia. H. De Lubac nella sua famosa opera « Corpus mysticum » ha dimostrato che presso i Padri e fino al Medioevo quando si parlava del « Corpus Christi » s’intendeva quello che noi oggi chiamiamo « Corpo Mistico di Cristo », cioè Cristo capo e le sue membra .

Nello Spirito si diventa una sola cosa in Cristo

 Uno dei temi comunioni della tradizione orientale e occidentale è la visione dell’eucaristia come segno « efficace » (sacramentale) di unità e vincolo di carità. E’ un insegnamento costante nel magistero e nei Padri della Chiesa. Il Concilio di Trento insegna: « II nostro Salvatore ha lasciato nella sua Chiesa l’Eucaristia come segno di unità e di amore, con cui volle che tutti i cristiani fossero congiunti e uniti fra loro » . Cosi il Vaticano II, facendo proprie le parole di Agostino, insegna che l’eucaristia è « sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità » . Nella Lumen Gentium (n.3) il concilio spiega il perché: « Col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata e prodotta l’unità dei fedeli che costituiscono un solo corpo in Cristo ». E più in là continua: Infatti « nella frazione del pane eucaristico partecipando noi realmente al corpo del Signore, siamo elevati alla comunione con lui e tra di noi: Perché c’è un solo pane, un solo corpo siamo noi, quantunque molti, noi che partecipiamo tutti a un unico pane » (1 Cor. 10, 17). Così noi tutti diventiamo membra di quel corpo (cf. 1 Cor. 12, 27) « e siamo, ciascuno per la sua parte, membra gli uni degli altri » (Rom. 12, 5) » (n. 7). Ecco perché, secondo San Tommaso, l’eucaristia s’identifica con la carità: « Il Sacramento dell’Eucaristia appartiene particolarmente alla carità, perché è il sacramento dell’unione della Chiesa (sacramentum ecclesiae unitatis) e contiene colui nel quale tutta la Chiesa si unisce e si consolida, cioè Cristo. Perciò l’Eucaristia è in certo modo origine e vincolo della carità » .
 Questa unità di noi tutti con Cristo e tra di noi è talmente grande che interviene lo stesso Spirito Santo per operarla.
 Infatti, già con il Battesimo lo Spirito Santo « incorpora » i fedeli a Cristo e li fa Chiesa, ma tale incorporazione con l’Eucaristia cresce, si nutre, si fa sempre più matura, interiorizzata e personale, per cui non si è uniti solo a Cristo capo, ma anche alle sue membra. Si tratta di una realtà profonda e ricca per la vita cristiana: non si può comunicare con Cristo Capo se nella vita si accantona il suo Corpo che è la Chiesa. Ovvero, si comunica con il Cristo Capo nella misura in cui si è anche in comunione con i fratelli, così come non si può comunicare con i fratelli se non si è in comunione con Cristo Capo. L’Eucaristia è il sacramento che crea questa comunione bidimensionale che, alla fine, si riduce ad un’unica realtà, il corpo di Cristo, cioè la Chiesa: ecco perché si usa dire che l’Eucaristia « fa la Chiesa ». Principio d’unità e di coesione in questa « comunione » è sempre lo Spirito, per questo nelle nuove preghiere eucaristiche, il sacerdote dopo aver pronunziato le parole dell’istituzione dell’Eucaristia, recita una seconda epìclesi: prega il Padre affinché mandi il suo Spirito e faccia di tutti « un solo corpo e un solo sangue con Cristo ». Dopo la risurrezione e la pentecoste Cristo esiste solo come Cristo totale, Cristo capo unito alle membra: « Se vuoi comprendere il corpo di Cristo – scrive S. Agostino – ascolta l’Apostolo che dice ai fedeli: Voi però siete il corpo di Cristo, le sue membra (1 Cor 12,27). Se voi dunque siete il corpo di Cristo e le sue membra, sulla mensa del Signore viene posto il vostro sacro mistero: voi ricevete il vostro sacro mistero. A ciò che voi siete, voi rispondete Amen, e rispondendo lo sottoscrivete. Odi infatti: « Il corpo di Cristo » e rispondi: « Amen ». Sii (veramente) corpo di Cristo, perché l’ »Amen » sia vero! Perché dunque nel pane? Qui non portiamo idee nostre, ma udiamo lo stesso Apostolo che, parlando di questo sacramento, dice: Un solo pane noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo (Cor 10,17). Comprendete e godete, unità, verità, pietà, carità. Un solo pane: chi è quest’unico pane? Pur molti… un solo corpo: riflettete che il pane non si fa con un grano solo, ma con molti. Quando riceveste l’esorcismo battesimale, veniste come macinati. Quando foste battezzati, veniste come intrisi. Quando riceveste il fuoco dello Spirito Santo, veniste come cotti. Siate quello che vedete e ricevete quello che voi siete! Questo ha detto l’Apostolo parlando del pane…  » (Discorsi, 227,1).
 L’Eucaristia come comunione dello Spirito Santo diventa, pertanto, « comunione dei santi » in un duplice senso: comunione nelle cose sante, e comunione di santi, cioè di persone santificate dallo Spirito. Così si può capire perché l’Eucaristia è il sacramento dell’amore. Essere santi significa per opera dello Spirito Santo comunicare con l’amore a Cristo e le sue membra.
 Questa dottrina cristiana, fin dal principio, è stata pressa sul serio nella catechesi degli Apostoli che giudicarono in maniera severa i cristiani che la ignoravano nelle loro assemblee eucaristiche. San Paolo è il più esplicito di tutti.

L’aspetto ecclesiale dell’eucaristia e la carità in San Paolo

 Come si sa uno dei temi principali della teologia paolina è quello della « Koinonia ». A Corinto, come altrove, Paolo annunciò il Vangelo di Gesù crocifisso e resuscitato, che, continua, in quanto Signore, a essere presente nella Cena. Egli trasmise il racconto tradizionale, che figura attualmente nella sua lettera ai Corinzi (lCor 11,2325). Quelli che Paolo convertì presero a cuore la Cena e si sforzarono di concepirla in termini più familiari al loro mondo. In 1Cor 10,16 noi troviamo formulata da Paolo ciò che sembra essere un’affermazione cristiana ellenistica riguardo al pane e al calice, espressa ricorrendo all’idea di koinonia. t probabile che questa formulazione sia stata adottata con uno scopo catechetico, forse dai Corinzi stessi. Citandola nella sua argomentazione sottoforma di due frasi della medesima struttura, Paolo le dà la sua approvazione:
 Il pane che spezziamo è una partecipazione (o condivisione, koinonia) al corpo del Cristo.
 Il calice di benedizione che noi benediciamo è una partecipazione (o condivisione, koinonia), al sangue del Cristo.
 Per Paolo koinonia o comunione non si realizza solo con Gesù risorto, ma con tutto il suo Corpo concreto che è la comunità di Corinto radunata per celebrare la Cena del Signore. Per l’Apostolo delle genti l’Eucaristia per natura propria ha una portata ecclesíale. Egli, infatti, in maniera catechetica spiega che « il corpo di Cristo » non è soltanto il corpo di Gesù sacrificato sulla croce (1 6b), ma anche la comunità di Corinto, che fa parte di questo corpo: « Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane » (17b-18). In tal modo Paolo passa dalla cristologia, dalla soteriologia e dal « sacramento » all’ecclesiologia. Ma se, al versetto 17, mette l’accento sulla chiesa, è per incoraggiare all’unità i cristiani di Corinto, lacerati da divisioni fra e nelle assemblee domestiche (11,17-22). Qui sta l’apporto teologico originale della riflessione paolina. La partecipazione eucaristica fonda la solidarietà dei credenti. Mangiare insieme lo stesso pane è gesto creativo di vincoli così profondi da formulare un’unità strettissima, addirittura « un unico corpo ».
 Non era un compito facile mantenere la comunione fra i cristiani che componevano le primitive comunità, fra i deboli e i forti, fra i cristiani ebrei e i cristiani gentili, ciò era necessario per la « giusta » celebrazione eucaristica.
 Questa difficoltà appare in maniera in modo drammatica nel capitolo 11, 17-33 della stessa lettera.
 Paolo era stato informato a voce (v. 17) che a Corinto non solo si verificavano abusi pratici, ma si arrivava a compromettere gravemente l’autentico significato della celebrazione eucaristica. I cristiani di Corinto, nelle assemblee celebrative della Cena del Signore, tradivano il significato comunitario e caritativo dell’Eucaristia con un comportamento egoistico e privativo. Infatti, in occasione della Cena del Signore (kyriakòn deipnon), un gruppo di cristiani, quelli benestanti, si faceva la « propria cena » (ìdion deipnon) a parte (v. 21) e i poveri, letteralmente « i nulla tenenti come dice il testo (v. 22), erano esclusi.
 Va ricordato che l’Eucaristia dei primi cristiani si celebrava all’interno di una cena comune che vedeva riuniti i credenti in modo fraterno. Più tardi essa sarà chiamata agape, appunto perché esprimeva l’amore vicendevole dei cristiani.
 Collegata con il pasto comune, l’eucaristia era per eccellenza il sacramento in cui la chiesa poteva esprimersi quale comunità unita al suo Signore e solidale tra sue membra. A Corinto invece essa si privatizzò. Si pensava che valesse per se stessa al di fuori di ogni contesto di amore reciproco, che creasse ed esprimesse un rapporto soltanto verticale con Cristo risorto. Anche se celebrata materialmente insieme, essa era diventa sacramento dei singoli credenti e non della e nella chiesa in quanto tale. Degenerò in rito sacro, avulso dai rapporti esistenziali che legano quelli che lo celebrano. Si avvicinava ai riti d’iniziazione misterica, operanti magicamente al di fuori di ogni impegno etico degli iniziati.
 Paolo non rimprovera ai cristiani di Corinto la loro razionalistica negazione della presenza di Cristo nell’eucaristia, né perché l’avessero ridotta una cena pura e semplice, ma perché l’avevano sciolta da ogni contestualizzazione ecclesiale e agapica, l’avevano ridotto ad un affare di salvezza privata.
 I termini usati da Paolo indicano l’ecclesialità di quest’atto: Il termine synérchesthai (trovarsi insieme, riunirsi) ricorre come ritornello (cf vv. 17.18.20.33.34) ed è rinforzato da espressioni chiaramente ecclesiologiche: « quando vi riunite in assemblea (en ekklésia) (v. 18), « quando vi riunite insieme, nello stesso luogo (epì to autò) . Queste espressioni indicano che quando i cristiani si riuniscono per celebrare la cena, diventano chiesa eucaristica e questa chiesa celebra la sua verità profonda di comunione fraterna e solidale di tutti i credenti.
 I cristiani di Corinto, però, in realtà non consumano la Cena del Signore (kyriakòn deipnon), bensì una loro privatistica cena, la « propria cena » (ìdion deìpnon). E’ chiara l’antitesi: resta esclusa la convivialità con Cristo, perché si escludono i poveri dalla propria convivialità. Le divisioni sono una spaccatura scandalosa tra chi è sazio e chi soffre la fame, incontriamo una situazione in cui appare la disuguaglianza tra i fedeli e la chiusura gli altri. Dove non c’è chiesa, intesa quale comunità solidale, non può esserci la cena del Signore. Del resto la cena non è una semplice incontro conviviale, è un’ »anamnesi » della « morte del Signore » cioè dell’atto supremo di amore verso gli uomini (cf. v. 26).
 Per Paolo chi si dissocia dai fratelli, si separa anche da Cristo stesso. t per questo che il giudizio contro coloro che « si nutrono indegnamente del corpo e del sangue del Signore » è oltremodo severo:  » Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna » (vv. 27-29).
 È interessante per il nostro tema evidenziare che cosa intenda Paolo per partecipazione indegna alla cena del Signore. A Corinto sappiamo che non mancava la fede nel sacramento della cena del Signore. Ciò che causa la condanna è lo scindere il Corpo di Cristo dal suo Corpo ecclesiale. « Non distinguere il corpo » vuol dire non riconoscere come tale il corpo ecclesiale che si costruisce nella cena del Signore: Si pecca contro il corpo del Signore peccando contro i fratelli, mostrando con il loro comportamento mancanza di amore.
 In conclusione possiamo affermare che nel capitolo 11 della prima lettera ai Corinzi, Paolo ha voluto escludere l’isolamento della Cena del Signore e la sua conseguente degenerazione a rito sacro, valido per se stesso, avulso da ogni contesto storico. Positivamente, egli ha voluto raccordare in maniera indissolubile eucaristia, comunità ecclesiale e solidarietà fraterna. La collocazione essenziale del sacramento è all’interno della, chiesa, che si qualifica come costruzione edificata sulla base della carità.

Nell’eucaristia diventiamo vero corpo di Cristo ecclesiale.

 Essendo questa mia conferenza situata nel contesto degli incontri ecumenici, permettetemi di presentarvi brevemente la cosiddetta ecclesiologia eucaristica che si rifà ad alcuni grandi teologi ortodossi di oggi. I due teologi ortodossi che meglio rappresentano oggi la teologia eucaristica in relazione alla Chiesa sono il russo N. Afanassieff  (1893 -1966), e il greco J. Zizioulas
 N. Afanassieff parte dal presupposto che la Chiesa è un mistero, un sacramento di cui si può avere l’esperienza solo nella celebrazione eucaristica. Egli, come molti altri teologi ortodossi, si ispira al testo degli Atti 2, 44 « tutti i credenti erano riuniti in uno stesso luogo »(epi to autò) . Basandosi anche su testi patristici, afferma che l’essere riuniti in uno stesso luogo indica contemporaneamente l’Eucaristia (« sinassi ») e la Chiesa (popolo di Dio radunato nell’unita): « L’Eucaristia in quanto assemblea liturgica « epi to autò », in un certo senso, si identica con la « Chiesa »: è per questo che i due termini sono facilmente intercambiabili » . L’Eucaristia è più che un sacramento della presenza del Signore, essa è il sacramento di un organismo vivo, essa è il « sacramento dell’assemblea », cioè della Chiesa, popolo di Dio Padre adunato per diventare sempre di più tempio dello Spirito e Corpo di Cristo risorto. In questo senso la Chiesa in quanto assemblea viene istituita dal Signore insieme all’Eucaristia . Infatti: « è proprio durante la prima Eucaristia, quella degli Apostoli, e durante tutte le altre che noi diventiamo, attraverso il pane e il vino, Corpo di Cristo. La comunione crea la « koinonia » che consiste in una « co-unione » reale con il corpo e il sangue di Cristo. La realtà del pane manifesta la realtà integrale del Corpo di Cristo, l’unità del pane (eis àrtos) manifesta l’unità del corpo (eis soma). Ora sappiamo che il Suo corpo è la Chiesa di Dio, la Chiesa che è veramente e realmente « en Christo ». E’ per questo che radunarsi per l’Eucaristia significa radunarsi m quanto Chiesa, e radunarsi in quanto Chiesa significa radunarsi in quanto Eucaristia » .
 Evidentemente Afanassieff non vuole affermare un legame di causalità tra Chiesa ed Eucaristia; egli parla di un lega me esistenziale ed esperienziale. L’Eucaristia non è fatta dalla Chiesa in senso cronologico e logico perché essa è dono assoluto dell’azione congiunta di Cristo e dello Spirito che realizzano la volontà del Padre. Semplicemente l’Eucaristia permette alla Chiesa di esistere in quanto Corpo di Cristo. Il teologo greco Joannis Zizioulas esprimerà questa verità in modo drastico e forte: « L’Eucaristia non è un atto di una Chiesa preesistente; è un atto costitutivo dell’essere della Chiesa, un atto che permette alla Chiesa di essere. L’Eucaristia costituisce l’essere ecclesiale »  o, come afferma P. Evdokimov discepolo di N. Afanassieff,, »La Chiesa è la koinonia eucaristica nella sua continuazione e perpetuazione »
 Afanassieff, come pure altri teologi ortodossi, per spiegare questa identificazione tra Chiesa ed Eucaristia parte dall’annunzio paolino: « La Chiesa è il Corpo di Cristo  » ed esso è l’Eucaristia. L’attenzione è posta in particolare su questo verbo essere. L’Eucaristia s’identifica pienamente con Cristo, ma in che senso la Chiesa s’identifica con l’Eucaristia e quindi con Cristo? La Chiesa e l’Eucaristia s’identificano con Cristo in quanto ambedue sono « Corpo di Cristo « , anzi la Chiesa diventa « Corpo di Cristo  » appunto con l’Eucaristia. Ma che significa « Corpo di Cristo 0 Innanzitutto esso è inseparabile da lui perché costituisce con lui un’unità organica. La Chiesa non esiste senza il capo e così pure Cristo non esiste senza il suo corpo. Cristo, dopo la sua risurrezione, esiste solo come Cristo totale. Ontologicamente l’unità dei cristiani con Cristo incomincia con il battesimo-cresima, ma esso è solo l’inizio: questa unione vitale a e con Cristo diventa sempre più intima, interiorizzata ed esperienziale con l’Eucaristia; con essa i cristiani diventano veramente « Corpo di Cristo « , unità inscindibile con la persona del Cristo storico e risorto, realizzando così, fin da questa terra, il disegno del Padre di « ricapitolare tutto in Cristo ». È in questo senso che la Chiesa esiste in quanto « Corpo di Cristo « , in quanto Cristo è in lei e la Chiesa è in lui, diventando « carne una » . Così, afferma il teologo russo, « la Chiesa è identica a Cristo, perché è il suo corpo inseparabile da lui, ma non è egli stesso. Cristo, unito alla Chiesa, rimane sempre un Cristo personale e non diventa un Cristo collettivo e panteista » . La Chiesa, nell’Eucaristia, va vista come unità intima e profondissima con Cristo, senza separazione, ma anche senza confusione.
 Quest’unità tra Chiesa ed Eucaristia è talmente grande che, essendo la Chiesa eucaristicamente Corpo di Cristo, essa diventa anche il tempio nel quale Dio raduna il suo popolo e nel quale si rende a Dio il debito culto in spirito e verità.

Conseguenze pratiche

 I presupposti biblico teologici dell’eucaristia con la quale è strettamente collegata la domenica, ci portano in modo del tutto spontaneo a tirare le debite conseguenze. A questo scopo crediamo che non posiamo fare a meno riferirci al più autorevole documento sull’argomento, la Dies Domini di Giovanni Paolo II nel cap. IV, nn. 69-73.
 La prima osservazione pratica se deduce dal fato che la gioia pasquale che il cristiano vive nella domenica non è completa se non si condivide con i fratelli più bisognosi:
  »La domenica – insegna il papa – deve anche dare ai fedeli l’occasione di dedicarsi alle attività di misericordia, di carità e di apostolato. La partecipazione interiore alla gioia di Cristo risorto implica la condivisione piena dell’amore che pulsa nel suo cuore: non c’è gioia senza amore »
 La domenica – afferma il papa – non consiste in un’evasione dalla realtà, una chiusura individualista nel proprio intimo:
  »L’Eucaristia domenicale, dunque, non solo non distoglie dai doveri di carità, ma al contrario impegna maggiormente i fedeli « a tutte le opere di carità, di pietà, di apostolato, attraverso le quali divenga manifesto che i fedeli di Cristo non sono di questo mondo e tuttavia sono luce del mondo e rendono gloria al Padre dinanzi agli uomini ». Di fatto, fin dai tempi apostolici, la riunione domenicale è stata per i cristiani un momento di condivisione fraterna nei confronti dei più poveri. « Ogni primo giorno della settimana ciascuno metta da parte ciò che gli è riuscito di risparmiare  » (1 Cor 16, 2). Qui si tratta della colletta organizzata da Paolo per le Chiese povere della Giudea: nell’Eucaristia domenicale il cuore credente si allarga alle dimensioni della Chiesa. Ma occorre cogliere in profondità l’invito dell’Apostolo, che lungi dal promuovere un’angusta mentalità dell’ »obolo », fa piuttosto appello a una esigente cultura della condivisione, attuata sia tra i membri stessi della comunità che in rapporto all’intera società ».
 Il documento papale riporta il testo di 1 Cor 11, 20-22 che abbiamo esaminato aggiungendo quello di Giacomo: « Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito splendidamente, e entri anche un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite « Tu siediti qui comodamente » e al povero dite: « Tu mettiti in piedi lì », oppure « Siediti qui ai piedi del mio sgabello », non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi? » (2, 2-4).
 Alcune citazioni patristiche del documento sono oltremodo a proposito: « Le indicazioni degli Apostoli trovarono pronta eco fin dai primi secoli e suscitarono vibrati accenti nella predicazione dei Padri della Chiesa. Parole di fuoco rivolgeva sant’Ambrogio ai ricchi che presumevano di assolvere ai loro obblighi religiosi frequentando la chiesa senza condividere i loro beni con i poveri e magari opprimendoli: « Ascolti, o ricco, cosa dice il Signore? E tu vieni in chiesa non per dare qualcosa a chi è povero ma per prendere « . (115) Non meno esigente san Giovanni Crisostomo: « Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurarlo quando si trova nudo. Non rendergli onore qui nel tempio con stoffe di seta, per poi trascurarlo fuori, dove patisce freddo e nudità. Colui che ha detto: « Questo è il mio corpo », è il medesimo che ha detto: « Voi mi avete visto affamato e non mi avete nutrito », e « Quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me » [...]. A che serve che la tavola eucaristica sia sovraccarica di calici d’oro, quando lui muore di fame?  Comincia a saziare lui affamato, poi con quello che resterà potrai ornare anche l’altare ».
 Sono parole che ricordano efficacemente alla comunità cristiana il dovere di fare dell’Eucaristia il luogo dove la fraternità diventi concreta solidarietà, dove gli ultimi siano i primi nella considerazione e nell’affetto dei fratelli, dove Cristo stesso, attraverso il dono generoso fatto dai ricchi al più poveri, possa in qualche modo continuare nel tempo il miracolo della moltiplicazione dei pani.
Poi suggerisse alcune indicazioni molto pratiche:
  »L’Eucaristia è evento e progetto di fraternità. Dalla Messa domenicale parte un’onda di carità, destinata ad espandersi in tutta la vita dei fedeli, iniziando ad animare il modo stesso di vivere il resto della domenica. Se essa è giorno di gioia, occorre che il cristiano dica con i suoi concreti atteggiamenti che non si può essere felici  » da soli « . Egli si guarda attorno, per individuare le persone che possono aver bisogno della sua solidarietà. Può accadere che nel suo vicinato o nel suo raggio di conoscenze vi siano ammalati, anziani, bambini, immigrati che proprio di domenica avvertono in modo ancora più cocente la loro solitudine, le loro necessità, la loro condizione di sofferenza. Certamente l’impegno per loro non può limitarsi ad una sporadica iniziativa domenicale. Ma posto un atteggiamento di impegno più globale, perché non dare al giorno del Signore un maggior tono di condivisione, attivando tutta l’inventiva di cui è capace la carità cristiana? Invitare a tavola con sé qualche persona sola, fare visita a degli ammalati, procurare da mangiare a qualche famiglia bisognosa, dedicare qualche ora a specifiche iniziative di volontariato e di solidarietà, sarebbe certamente un modo per portare nella vita la carità di Cristo attinta alla Mensa eucaristica ».
E conclude:
  »Vissuta così, non solo l’Eucaristia domenicale, ma l’intera domenica diventa una grande scuola di carità, di giustizia e di pace. La presenza del Risorto in mezzo ai suoi sì fa progetto di solidarietà, urgenza di rinnovamento interiore, spinta a cambiare le strutture di peccato in cui i singoli, le comunità, talvolta i popoli interi sono irretiti. Lungi dall’essere evasione, la domenica cristiana è piuttosto  » profezia  » inscritta nel tempo, profezia che obbliga i credenti a seguire le orine di Colui che è venuto  » per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri, la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore  » (Lc 4, 18-19). Mettendosi alla sua scuola, nella memoria domenicale della Pasqua, e ricordando la sua promessa:  » Vi lascio la pace, vi dò la mia pace  » (Gv 14, 27), il credente diventa a sua volta operatore di pace ».
 Terminando questo mio intervento vorrei fare anche un riferimento ecumenico. Noi cristiani come possiamo celebrare l’eucaristia, sacramento dell’unità e dell’amore, quando siamo divisi fra di noi? Anzi, tra i cristiani non in piena comunione, l’eucaristia diventa appunto ’11 segno più evidente di disunione.
 Ogni volta che celebriamo l’eucaristia bisogno compiere un passo avanti verso la riconciliazione anche con i fratelli con i quali non siamo in piena comunione, perché, come afferma Giovanni Crisostomo, l’eucaristia: « toglie di mezzo anche l’inimicizia, respinge l’orgoglio, elimina l’invidia, introduce nelle anime la carità, madre di tutti i beni; distrugge, inoltre, tutte le disuguaglianze umane, di stato e di condizione, e dimostra l’uguale dignità del re e del povero, dal momento che noi ci ritroviamo tutti uniti nelle cose più importanti e necessarie, in quelle cioè che concernono la nostra comune salvezza » .

Ioannis Spiteris
Arcivescovo di Corfù, Zante e Cefallonia

dai lavori del Sinodo : La liturgia per S. Paolo: mettersi al servizio del progetto di Dio

dai lavori del Sinodo, dal sito: 

http://www.zenit.org/article-15744?l=italian

La liturgia per S. Paolo: mettersi al servizio del progetto di Dio

Afferma padre Carlos Gustavo Haas

di Alexandre Ribeiro

SAN PAOLO, lunedì, 13 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Per San Paolo, la liturgia che è realmente gradita a Dio è porci interamente al servizio del progetto divino, vissuto da Gesù, il Figlio di Dio, ha spiegato il responsabile per la liturgia della Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile (CNBB). In una conferenza durante la Settimana Teologica dell’Istituto di Teologia e Filosofia Santa Teresina della Diocesi di São José dos Campos (Brasile), due settimane fa, padre Carlos Gustavo Haas ha parlato dell’influenza della teologia paolina nella liturgia.

All’inizio del suo intervento, il sacerdote ha ricordato l’epistemologia del termine liturgia, derivante dal greco leitourgía, che può essere inteso come servizio pubblico, citando poi la definizione della costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II Sacrosanctum Concilium, che afferma che la liturgia è considerata l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo.

Paolo usa la parola ‘liturgia’ per parlare di prestazione di servizio. Per questo, per lui, la parola liturgia implica impegno sociale, impegno con la vita, con la carità. In Gesù Cristo, ciò che vale è la fede che agisce per amore, ha spiegato il sacerdote.

Paolo afferma che Dio gli ha dato la grazia di essere liturgo o ministro di Gesù Cristo presso i pagani, prestando un servizio sacerdotale al Vangelo di Dio.Secondo padre Haas, oltre alle considerazioni sul significato della liturgia come servizio, San Paolo apporta un grande contributo a ci

ò che si intende per culto spirituale.

In Romani 12, egli afferma: Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale.

Per Paolo, la liturgia che è realmente gradita a Dio è porci interamente al servizio del progetto divino, vissuto da Gesù, il Figlio di Dio, sottolinea.

E’ molto facile vivere una liturgia del tempio, una liturgia della Chiesa solo come tempio. Ma è molto difficile fare della nostra vita un’ostia viva, santa, gradita a Dio, ha ammesso.

Il responsabile della CNBB ha spiegato che il termine culto ha una radice latina che significa coltivare. Cosa significa dare culto a Dio?, ha chiesto. Significa coltivare quotidianamente, nella celebrazione e nella vita, ciò che Dio è Il culto spirituale come impegno, su esempio di Gesù”.

Molte Messe, battesimi e matrimoni sono stati e ancora sono opportunità più per giustificare gli schemi di questo mondo che per coltivare la volontà di Dio.

A volte si coltiva ciò che vogliamo, ciò che desideriamo, ciò che pensiamo, e non coltiviamo, non prestiamo il culto a Dio. Anziché servire Dio, ci serviamo di Dio. E’ questo l’avvertimento che San Paolo ci può lasciare, ha osservato. Per padre Haas, la liturgia deve portarci a fare proprio ciò che Paolo ha detto in Galati 4: far sì che Cristo si formi in noi, in me, in te, in noi.

L’Anno Liturgico è questo, un modo fantastico perché la gente coltivi i sentimenti di Gesù Cristo che vengono celebrati durante questo periodo.

La Chiesa non ha un calendario liturgico, ha l’Anno Liturgico, che è un itinerario che la gente segue domenica dopo domenica, settimana dopo settimana coltivando quella Parola, e questa penetra, trasforma la vita della gente.

Non è devozione; è coltivare, perché possiamo diventare ostie vive, sante, gradite a Dio; questo è la liturgia, non è ritualismo. C’è bisogno di rito, di una ritualità, ma non di ritualismo. Non è devozione, è celebrazione, ha sottolineato. Nel contesto del Sinodo sulla Parola di Dio, padre Haas ha affermato che è necessario ascoltare la Parola con il cuore.

Per questo, sostiene, abbiamo bisogno di silenzio. Non solo il silenzio della bocca, ma il silenzio degli occhi, delle orecchie, del cuore, del nostro corpo. Viviamo in un mondo molto rumoroso. Abbiamo Messe così rumorose….

Questa esperienza umana di accogliere, ascoltare, comprendere, obbedire alla Parola è fondamentale per tutti noi.

Padre Haas ha quindi sottolineato che la Parola non è un semplice messaggio. Ho sentito tante persone dire: ‘il messaggio del Vangelo di oggi…’. La Parola non è un messaggio, è la verità, è la vita, è Cristo. La Parola è un avvenimento.

[Traduzione dal portoghese di Roberta Sciamplicotti]

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XXVIII SETTIMANA DEL T.O. – LUNEDÌ 13 OTTOBRE 2008

XXVIII SETTIMANA DEL T.O. – LUNEDÌ 13 OTTOBRE 2008

 

MESSA DEL GIORNO

Prima Lettura Gal 4,22-24. 26-27.31 – 5, 1
Fratelli, sta scritto che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma quello dalla schiava è nato secondo la carne; quello dalla donna libera, in virtù della promessa. Ora, tali cose sono dette per allegoria: le due donne infatti rappresentano le due Alleanze; una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, rappresentata da Agar. Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la nostra madre. Sta scritto infatti: « Rallégrati, sterile, che non partorisci, grida nell’allegria tu che non conosci i dolori del parto, perché molti sono i figli dell’abbandonata, più di quelli della donna che ha marito ». Così, fratelli, noi non siamo figli di una schiava, ma di una donna libera. Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù.

UFFICIO DELLE LETTURE

(tema liturgico)

Seconda Lettura
Dal trattato «Contro Fabiano» di san Fulgenzio di Ruspe, vescovo
(Cap. 28, 16-19; CCL 91 A, 813-814)

La partecipazione al corpo e al sangue di Cristo ci santifica
Nell’offerta del sacrificio si compie ciò che prescrisse lo stesso Salvatore, come è testimoniato anche da Paolo. Ecco quanto dice l’Apostolo: «Il Signore Gesù nella notte in cui veniva tradito prese il pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: Questo è il mio corpo che è per voi; fate questo in memoria di me. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo ogni volta che ne bevete in memoria di me. Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga» (1 Cor 11, 23-26). Perciò il sacrificio viene offerto perché sia annunziata la morte del Signore e si faccia memoria di lui, che per noi ha dato la sua vita. Egli stesso poi dice: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13). Cristo è morto per noi. Perciò quando facciamo memoria della sua morte, durante il sacrificio, invochiamo la venuta dello Spirito Santo quale dono di amore. La nostra preghiera chiede quello stesso amore per cui Cristo si è degnato di essere crocifisso per noi. Anche noi, mediante la grazia dello Spirito Santo, possiamo essere crocifissi al mondo e il mondo a noi. Siamo invitati ad imitare Cristo. Egli per quanto riguarda la sua morte, morì al peccato una volta per tutte; ora invece, per il fatto che vive, vive per Dio. Così anche noi consideriamoci morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù (cfr. Rm 6, 10-11). «Camminiamo in una vita nuova» (Rm 6, 4) mediante il dono dell’amore. «Infatti l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5). Noi partecipiamo al corpo e al sangue del Signore, noi mangiamo il suo pane e ne beviamo il calice. Perciò dobbiamo morire al mondo e condurre una vita nascosta con Cristo in Dio e crocifiggere la nostra carne con i suoi vizi e le sue concupiscenze (cfr. Col 3, 3; Gal 5, 24). Tutti i fedeli che amano Dio e il prossimo, anche se non bevono il calice della passione corporale, bevono tuttavia il calice dell’amore del Signore. Inebriati da esso, mortificano le loro membra e, avendo rivestito il Signore Gesù Cristo, non si danno pensiero dei desideri della carne e non fissano lo sguardo sulle cose che si vedono, ma su quelle che non si vedono. Così che beve al calice del Signore custodisce la santa carità, senza la quale nulla giova, neppure il dare il proprio corpo alle fiamme. Per il dono della carità poi ci viene dato di essere veramente quello che misticamente celebriamo in modo sacramentale nel sacrificio.

VESPRI

Lettura breve 1 Ts 3, 12-13
Il Signore vi faccia crescere e abbondare nell’amore vicendevole e verso tutti, come
è
il nostro amore verso di voi, per rendere saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità, davanti a Dio Padre nostro, al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi.

La liturgia della vita in san Paolo

dal sito: 

http://www.pddm.it/vita/vita_08/index_08.htm

LA VITA IN CRISTO E NELLA CHIESA

Mensile di formazione liturgica e Informazione

Mensile di formazione liturgica e Informazione

La liturgia della vita in san Paolo

San Paolo è ancora vivo oggi e continua a formare le generazioni cristiane, specialmente quando nella liturgia della Chiesa si leggono le sue lettere o i brani degli Atti degli Apostoli che lo riguardano. Dio infatti ha preparato l’apostolo per una missione speciale che ha oltrepassato la propria vicenda personale. Quando il giovane Saulo di Tarso, terminata la prima formazione, giungeva a Gerusalemme per seguire le lezioni di Gamaliele (cf At 22,3), il più dotto scriba fariseo del momento, si è trovato di fronte alla spianata del tempio consacrato a Dio dai suoi padri. Le lezioni dei rabbi erano infatti impartite sotto i portici o nelle sale degli edifici che occupavano la parte centrale della spianata. Il tempio, posto a oriente, era il cuore della città santa verso cui si volgeva il desiderio di ogni israelita. Saulo lo avrà certamente ammirato nell’imponenza della costruzione, delimitata da un duplice portico e suddivisa con un quadruplice ordine di cortili; il santuario, il cui tetto era ricoperto d’oro, occupava la parte centrale. Per le grandi feste annuali, i pellegrini, venuti da ogni direzione, coprivano le strade della Palestina e salivano al tempio cantando i salmi delle ascensioni (Salmi 120-134). Saulo vibrava a questo ritmo e partecipava alle splendide liturgie nel tempio. Egli imparava il valore delle pratiche cultuali del suo popolo, il riposo sabbatico, l’ufficio sinagogale, il digiuno del giorno dell’espiazione, le preghiere che accompagnavano gli atti quotidiani, l’uso dei filattèri e delle frange, i digiuni spontanei, le offerte e i voti. La fede in Dio e lo studio della Torah impregnano tutti i momenti e tutte le azioni della sua esistenza, seguendo lo schema rituale della separazione dalla realtà profana. Il Signore lo preparava, attraverso la pratica minuziosa di tutte le prescrizioni rituali, nella lunga esperienza di contatto con la liturgia del tempio di Gerusalemme, a incontrare Gesù Cristo, che è «più grande del tempio» e a interiorizzare la sua passione per Dio in una continua liturgia della vita. Con il Nuovo Testamento la funzione del tempio viene infatti trasferita alla persona di Gesù Cristo, morto e risorto. Il «nuovo tempio» è il suo corpo (cf Gv 2,21). Nella rivelazione della via di Damasco, Saulo ne resterà folgorato.

«Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
Statua marmorea dell’apostolo Paolo situata in Piazza San Pietro (Roma).

La «separazione» di Paolo I molti dettagli della conversione trasfigurante di Saulo, raccontata per tre volte nel libro degli Atti degli Apostoli (cf At 9; 22; 26), vengono confermati nelle lettere dell’apostolo ma con più sobrietà. Egli comprende che la sua vocazione è opera di Dio, una pura e immeritata grazia donata a un uomo che si autogiustificava con la pratica delle prescrizioni ma che in realtà era un «bestemmiatore, persecutore e violento» (1 Tm 1,13). Dio ha scelto e chiamato un persecutore per farne un apostolo. Questa chiamata è una libera decisione del Signore, per suo puro beneplacito. Non è un’improvvisazione perché l’amore di Dio per noi viene sempre da molto lontano (cf Rm 8,28-30). Nelle lettere paoline l’azione del «chiamare», in greco kalein, ha sempre come soggetto Dio stesso. Paolo parla della sua vocazione in termini teologici e cultuali: «Quando Colui che mi mise a parte fin dal seno di mia madre e mi chiamò per mezzo della sua grazia si compiacque (eudokésen) di rivelare suo Figlio in me affinché lo annunziassi in mezzo alle nazioni, subito non consultai carne e sangue…» (Gal 1,15-16). Il verbo usato dall’apostolo «mettere a parte- separare» è significativo nella vocazione particolare di Paolo. Allo stesso modo si pre- senta all’inizio della lettera ai Romani: «Paolo, apostolo per vocazione, messo a parte per il Vangelo di Dio» (Rm 1,1). Dio si è riservato Paolo come nella liturgia del tempio si riservavano per lui le offerte e le primizie. Nell’Antico Testamento questo verbo ha spesso un senso cultuale e viene applicato sia alle vittime scelte per i sacrifici (cf Es 29,26-27) sia ai leviti, messi a parte per il servizio liturgico (cf Nm 8- 11), sia per tutto il popolo eletto: «Mi sarete consacrati perché io sono Santo, il Signore vostro Dio che vi ho messi a parte da tutte le nazioni per appartenere a me» (Lv 20,26). Paolo è stato sottratto a un modo comune di vivere per essere introdotto in una speciale relazione con Dio. Il contesto però fa comprendere che non si tratta di una segregazione perché l’elezione dell’apostolo porta con sé la missione di introdurre altri, specialmente tra i pagani, nella stessa relazione di alleanza con Dio, in Cristo Gesù. La vocazione di Paolo non si deve però concepire in chiave «amministrativa», come se Dio gli assegnasse una funzione per il bene di altri, ma si deve comprendere come una grazia personale, interna, la quale poi rende possibile una missione rivolta ad altre persone. È una testimonianza, una liturgia della vita che richiede l’impegno di tutta la persona e che scaturisce da un’esperienza di relazione personale e profonda con Cristo. Paolo ha ricevuto «in se stesso» la rivelazione del Figlio di Dio ed è stato introdotto in un rapporto intimo con lui, fino alla completa conformazione al suo mistero. Infatti egli afferma: «Dio che disse: dalle tenebre rifulga la luce, rifulse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria divina che brilla sul volto di Cristo» (2 Cor 4,6). Dio fece brillare la luce di Cristo nel cuore di Paolo, cioè in quel luogo che nell’antropologia biblica indica la sede dell’interiorità, della libertà e della scelta cosciente. Per questo vi è un rapporto profondo tra la rivelazione interna e la missione apostolica. La rivelazione del Figlio di Dio gli fu data, dice, «affinché lo evangelizzassi fra le nazioni » (Gal 1,16), cioè ne porti il lieto annunzio a tutti, in modo che tutti possano entrare nell’economia della nuova e definitiva alleanza e «partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo, a essere partecipi della promessa» (Ef 3,6). Il rapporto vivo e dinamico con la persona del Figlio di Dio inaugura la liturgia della vita. Non si tratta più soltanto di una relazione «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Statua marmorea dell’apostolo Paolo situata in Piazza San Pietro (Roma). cultuale, come nel tempio di Gerusalemme, ma esistenziale che trasforma tutti i momenti della quotidianità. Si capovolge lo schema della sacralità tipica del tempio. Il contatto con Dio non avviene più per separazioni ma, in forza dell’Incarnazione, per immersione nel mistero di Cristo. Paolo si è sentito afferrato da Cristo Gesù (cf Fil 3,12) e la sua scala di valori, anche nell’ambito religioso, si è capovolta. «Le cose che per me erano vantaggi personali, le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della relazione con Cristo Gesù mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura al fine di guadagnare Cristo…» (Fil 3,7-8). Per mantenersi unito a Cristo, Paolo si mette con tutte le sue forze al servizio del prossimo, nell’evangelizzazione. La carità di Cristo sperimentata lo sospinge a dare la vita per il Vangelo. Spostamento della terminologia cultuale

Attingendo dalla sua prolungata esperienza nel tempio, l’apostolo, divenuto cristiano, opera un radicale cambiamento di prospettiva. Egli usa la terminologia tipica, propria del culto, e la applica all’esperienza della vita cristiana. Paolo, per esempio, riferendosi forse al rituale dell’agnello sacrificato per l’espiazione dei peccati (cf Lv 4,24; Is 53,10) indica Cristo come «oblazione e sacrificio di soave odore» (Ef 5,2). La fragranza delle vittime sacrificali significava l’accoglienza dei sacrifici da parte di Dio. Cristo è la «nostra Pasqua» cioè «l’agnello pasquale» che offre una novità di vita per quanti sono chiamati a «celebrare» la Pasqua con «azzimi nuovi» e non con «lievito vecchio » (cf 1 Cor 5,7-8; Gal 5,9). Tutto ciò che è salvifico per il popolo, nella prima alleanza, si compie ora, nella persona di Gesù. Anche se Paolo scrive le sue lettere quando il tempio di Gerusalemme non era ancora stato distrutto (70 d.C.) egli definisce il corpo dei cristiani come «tempio di Dio» (cf 1 Cor 3,16-17; 6,18-20; 2 Cor 6,16; Ef 2,21). Il processo di personalizzazione del tempio si verifica, da una prospettiva cristologica, anche nella teologia giovannea (cf Gv 2,19-21). Per esprimere questa realtà l’apostolo opera uno spostamento di terminologia a volte sorprendente e molto ardito. Anche la prima lettera di Pietro è sulla stessa linea. Per Paolo la liturgia diventa il quadro «naturale » in cui si svolge la vita cristiana in tutta la sua sacralità. Egli applica questa prospettiva anzitutto a se stesso e descrive il suo apostolato con un linguaggio cultuale. A volte il verbo «servire» (douleuein), in determinati contesti, sembra richiamare il servizio liturgico (cf 1 Ts 1,9-10; Gal 4,8-11). Paolo liturgo di Cristo

Nell’evangelizzazione Paolo è «liturgo di Cristo» (cf Rm 15,16) che rende culto a Dio con la propria esistenza (cf Rm 1,9-10; 2 Tm 1,3). Anche se né Gesù Cristo, né Paolo hanno personalmente compiuto dei sacrifici nel tempio di Gerusalemme, la loro stessa esistenza viene descritta, nell’epistolario paolino, con linguaggio cultuale. L’apostolo ha caricato di senso liturgico la vita cristiana. Senza far distinzione tra azioni ministeriali e comuni, paragona la stessa conclusione della propria vita alla libagione sacrificale: il suo sangue «sta per esser offerto in libagione » (Fil 2,17; 2 Tm 4,6). Il suo ministero apostolico è un culto (latreuo) che egli presta «a Dio nello Spirito» (cf Rm 1,9). Egli si qualifica «protagonista di un’attività liturgica» (leitourgon: Rm 15,16) nel suo ministero tra i Gentili. La raccolta di fondi praticata nelle comunità greche a favore della Chiesa di Gerusalemme è chiamata «attività liturgica» (leitourgia: 2 Cor 9,12) ed Epafrodito, inviato dai Filippesi per assistere Paolo nei disagi della prigionia, prestandogli quegli umili servizi di cui l’apostolo in carcere aveva bisogno, viene designato come «protagonista di un’azione liturgica » (leitourgon: Fil 2,25). Il punto di partenza di tutta la vita cristiana, sia per quanto riguarda Paolo personalmente come i destinatari delle sue lettere, è il battesimo come immersione nella morte e nella risurrezione di Gesù (cf Rm 6,1-11).La vita cristiana come liturgia

La realtà battesimale pone il cristiano in una situazione completamente nuova che permette all’apostolo di trasferire tutti i termini propri del culto nel tempio di Gerusalemme alla vita cristiana. Questo spostamento di terminologia cultuale è evidente in Rm 12,1-2: «Vi esorto, dunque, fratelli, per la bontà di Dio, a presentare i vostri corpi come un’offerta sacrificale (thysian) vivente in continuazione, santa, gradita a Dio: è il vostro culto (latreian) logico. Non conformatevi al mondo presente, ma trasformatevi in continuazione mediante un rinnovamento attivo della vostra mente, in modo da poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, gradito [a Dio] e perfetto». Dopo aver spiegato nella prima parte della lettera ai Romani la situazione nuova della vita cristiana, Paolo conclude invitando i credenti, in nome di tutta la misericordia sperimentata, a presentare a Dio la loro vita, cioè i propri corpi (somata) nella concretezza relazionale della persona, in riferimento al tempo e allo spazio. Quest’offerta dovrà essere irreversibile, come la vittima sacrificale che veniva uccisa nel tempio, ma nello stesso tempo essere una vittima che vive, come l’agnello immolato e risorto dell’Apocalisse. Nel caso dei cristiani la radicalità dell’offerta costituisce, secondo Paolo, un culto vero e proprio (latreian) che dà senso alla vita. Questa spinta oblativa, vissuta nei particolari concreti della vita quotidiana, è una liturgia, secondo l’insegnamento dell’apostolo. Per attuare questa «liturgia della vita» è necessario però prendere le distanze dalla mentalità del mondo nei suoi aspetti inquinanti e peccaminosi. La partecipazione alla vitalità del Cristo risorto, con il dono dello Spirito, frutto del battesimo, spingerà il cristiano a una trasformazione continuata e progressiva nella linea dei valori di Cristo e a un rinnovamento costante dei suoi sistemi mentali per renderlo capace di un discernimento aperto alla volontà di Dio, nel dettaglio della vita quotidiana, senza seguire lo schema di questo mondo. Paolo attribuisce questa qualità liturgica a tutto quello che è, e a tutto quello che fa, ma trova anche momenti e spazi qualificanti di preghiera per se stesso e per le comunità cristiane, culminanti nell’Eucaristia (cf 1 Cor 11,23-34). L’epistolario paolino è disseminato di inni, dossologie, formule di fede, benedizioni e acclamazioni che evocano il contesto ecclesiale delle comunità a cui sono destinate le lettere e la loro vitalità liturgica. I frammenti liturgici sono usati da san Paolo in modo creativo e vivace e ogni lettera inizia con una benedizione introduttoria, adattata alle specifiche necessità delle comunità cristiane. La sacralità stupenda che era espressa nel rapporto con Dio nel tempio, le preghiere della sinagoga, il canto dei salmi, le feste del giudaismo e tutto il complesso rituale della prima alleanza, trova ora il suo compimento in Cristo Gesù. Per mezzo di lui e nella forza dello Spirito sale a Dio Padre il nostro amen, in una continua liturgia della vita. Regina Cesarato

Publié dans:temi - la liturgia |on 10 octobre, 2008 |2 Commentaires »

Omelia del Papa per la messa conclusiva del Congresso in Québec (liturgia)

dal sito: 

http://www.zenit.org/article-14792?l=italian

Omelia del Papa per la messa conclusiva del Congresso in Québec

CITTA’ DEL VATICANO, lunedì, 23 giugno 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell’omelia pronunciata da Benedetto XVI in collegamento diretto televisivo via satellite con la spianata di Abraham, a Québec (Canada), dove domenica si è celebrata la messa conclusiva del 49° Congresso eucaristico internazionale presieduta dal Cardinale Jozef Tomko.

* * *

Signori cardinali,
Eccellenze,
Cari fratelli e sorelle,

Mentre siete riuniti per il quarantanovesimo Congresso eucaristico internazionale, sono lieto di raggiungervi attraverso la televisione e di unirmi così alla vostra preghiera. Desidero prima di tutto salutare il signor cardinale Marc Ouellet, arcivescovo di Québec, e il signor cardinale Josef Tomko, inviato speciale per il Congresso, e tutti i cardinali e i vescovi presenti. Rivolgo altresì i miei saluti cordiali alle personalità della società civile che hanno tenuto a prendere parte alla liturgia. Il mio pensiero affettuoso va ai sacerdoti, ai diacono e a tutti i fedeli presenti, come pure a tutti i cattolici del Québec, dell’intero Canada e degli altri continenti. Non dimentico che il vostro Paese celebra quest’anno il quattrocentesimo anniversario della sua fondazione. È un’occasione perché ognuno ricordi i valori che hanno animato i pionieri e i missionari nel vostro Paese.

« L’Eucaristia, dono di Dio per la vita del mondo », questo è il tema scelto per questo nuovo Congresso eucaristico internazionale. L’Eucaristia è il nostro tesoro più bello. È il sacramento per eccellenza; essa ci introduce maggiormente nella vita eterna, contiene tutti i misteri della nostra salvezza, è la fonte e il culmine dell’azione e della vita della Chiesa, come ricorda il Concilio Vaticano II (Sacrosanctum Concilium, n. 8). È dunque particolarmente importante che i pastori e i fedeli s’impegnino costantemente ad approfondire questo grande sacramento. Ognuno potrà così consolidare la propria fede e compiere sempre meglio la propria missione nella Chiesa e nel mondo, ricordandosi che vi è una fecondità dell’Eucaristia nella sua vita personale, nella vita della Chiesa e del mondo. Lo Spirito di verità testimonia nei vostri cuori; testimoniate, anche voi, Cristo dinanzi agli uomini, come dice l’antifona dell’alleluia di questa messa. La partecipazione all’Eucaristia non allontana dunque dai nostri contemporanei, al contrario, poiché essa è l’espressione per eccellenza dell’amore di Dio, ci invita a impegnarci con tutti i nostri fratelli per affrontare le sfide presenti e per fare della terra un luogo in cui si vive bene. Per questo dobbiamo lottare incessantemente affinché ogni persona sia rispettata dal suo concepimento fino alla sua morte naturale, le nostre società ricche accolgano i più poveri e riconferiscano loro tutta la loro dignità, ogni persona possa alimentarsi e far vivere la propria famiglia e la pace e la giustizia risplendano in tutti i continenti. Queste sono le sfide che devono mobilitare tutti i nostri contemporanei e per le quali i cristiani devono attingere la loro forza dal mistero eucaristico. « Il mistero della fede »: è questo che proclamiamo in ogni messa. Desidero che tutti si impegnino a studiare questo grande mistero, specialmente rivisitando ed esplorando, individualmente e in gruppo, il testo del Concilio sulla Liturgia, la Sacrosanctum Concilium, al fine di testimoniare con coraggio il mistero. In questo modo, ciascuna persona giungerà a capire meglio il significato di ogni aspetto dell’Eucaristia, comprendendone la profondità e vivendola con maggiore intensità. Ogni frase, ogni gesto ha un proprio significato e nasconde un mistero. Auspico sinceramente che questo Congresso serva da appello a tutti i fedeli affinché si impegnino allo stesso modo per un rinnovamento della catechesi eucaristica, di modo che acquisiscano essi stessi un’autentica consapevolezza eucaristica e a loro volta insegnino ai bambini e ai giovani a riconoscere il mistero centrale della fede e costruiscano la loro vita intorno a esso. Esorto specialmente i sacerdoti a rendere il dovuto onore al rito eucaristico e chiedo a tutti i fedeli di rispettare il ruolo di ogni individuo, sia sacerdote sia laico, nell’azione eucaristica. La liturgia non appartiene a noi: è il tesoro della Chiesa.

La ricezione dell’Eucaristia, l’adorazione del Santissimo Sacramento – con ciò intendiamo approfondire la nostra comunione, prepararci a essa e prolungarla – significa consentire a noi stessi di entrare in comunione con Cristo, e attraverso di lui con tutta la Trinità, per diventare ciò che riceviamo e per vivere in comunione con la Chiesa. È ricevendo il Corpo di Cristo che riceviamo la forza « dell’unità con Dio e con gli altri » (cfr san Cirillo d’Alessandria, In Ioannis Evangelium, 11, 11; cfr. sant’Agostino, Sermo 577). Non dobbiamo mai dimenticare che la Chiesa è costruita intorno a Cristo e che, come hanno detto sant’Agostino, san Tommaso d’Aquino e sant’Alberto Magno, seguendo san Paolo (cfr 1 Cor, 10, 17), l’Eucaristia è il sacramento dell’unità della Chiesa perché tutti noi formiamo un solo corpo di cui il Signore è il capo. Dobbiamo ritornare continuamente indietro all’ultima cena del giovedì santo, dove abbiamo ricevuto un pegno del mistero della nostra redenzione sulla croce. L’ultima cena è il luogo della Chiesa nascente, il grembo che contiene la Chiesa di ogni tempo. Nell’Eucaristia il sacrificio di Cristo viene costantemente rinnovato, la Pentecoste viene costantemente rinnovata. Possiate tutti voi diventare sempre più consapevoli dell’importanza dell’Eucaristia domenicale, perché la domenica, il primo giorno della settimana, è il giorno in cui onoriamo Cristo, il giorno in cui riceviamo la forza per vivere quotidianamente il dono di Dio!

Desidero anche invitare i pastori e i fedeli a un’attenzione rinnovata per la loro preparazione alla ricezione dell’Eucaristia. Nonostante la nostra debolezza e il nostro peccato, Cristo vuole dimorare in noi. Per questo, dobbiamo fare tutto il possibile per riceverlo in un cuore puro, ritrovando costantemente, mediante il sacramento del perdono, quella purezza che il peccato ha macchiato, « armonizzando la nostra anima con la nostra voce », secondo l’invito del Concilio (cfr Sacrosanctum Concilium, n. 11). Di fatto, il peccato, soprattutto quello grave, si oppone all’azione della grazia eucaristica in noi. D’altro canto, coloro che non possono comunicarsi per la loro situazione troveranno comunque in una comunione di desiderio e nella partecipazione all’Eucaristia una forza e un’efficacia salvatrice.

L’Eucaristia ha un posto molto speciale nella vita dei santi. Rendiamo grazie a Dio per la storia di santità del Québec e del Canada, che ha contribuito alla vita missionaria della Chiesa. Il vostro paese onora in modo particolare i suoi martiri canadesi, Jean de Brébeuf, Isaac Jogues e i loro compagni, che hanno saputo donare la propria vita per Cristo, unendosi così al suo sacrificio sulla Croce. Appartengono alla generazione degli uomini e delle donne che hanno fondato e sviluppato la Chiesa in Canada, con Marguerite Bourgeoys, Marguerite d’Younville, Marie de l’Incarnation, Marie-Catherine de Saint-Augustin, monsignor François de Laval, fondatore della prima diocesi in America del Nord, Dina Bélanger e Kateri Tekakwitha. Imparate da loro, e come loro, siate senza paura; Dio vi accompagna e vi protegge; fate di ogni giorno un’offerta alla gloria di Dio Padre e prendete parte alla costruzione del mondo, ricordandovi con orgoglio della vostra eredità religiosa e del suo irradiamento sociale e culturale, e preoccupandovi di diffondere attorno a voi i valori morali e spirituali che giungono a noi dal Signore.

L’Eucaristia non è solo un pasto fra amici. È mistero di alleanza. « Le preghiere e i riti del sacrificio eucaristico fanno continuamente rivivere davanti agli occhi della nostra anima, nel corso del ciclo liturgico, tutta la storia della salvezza, e ci fanno penetrare sempre più il suo significato » (Santa Thérèse-Bénédicte de la Croix, [Edith Stein], Wege zur inneren Stille, Aschaffenburg, 1987, p. 67). Siamo chiamati a entrare in questo mistero di alleanza conformando ogni giorno di più la nostra vita al dono ricevuto nell’Eucaristia. Questa ha un carattere sacro, come ricorda il Concilio Vaticano ii: « ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado » (Sacrosanctum Concilium, n. 7). In un certo senso, essa è « liturgia celeste », anticipazione del banchetto nel Regno eterno, annunciando la morte e la resurrezione di Cristo, « finché Egli venga » (1 Cor, 11, 26).

Affinché il popolo di Dio non manchi mai di ministri per donargli il Corpo di Cristo, dobbiamo chiedere al Signore di fare alla sua Chiesa il dono di nuovi sacerdoti. Vi invito anche a trasmettere la chiamata al sacerdozio ai giovani, affinché accettino con gioia e senza paura di rispondere a Cristo. Non saranno delusi. Che le famiglie siano il luogo primordiale e la culla delle vocazioni!
Prima di terminare, è con gioia che vi annuncio il prossimo Congresso eucaristico internazionale. Si terrà a Dublino, in Irlanda, nel 2012. Chiedo al Signore di fare scoprire a ognuno di voi la profondità e la grandezza del mistero della fede. Che Cristo, presente nell’Eucaristia, e lo Spirito Santo, invocato sul pane e sul vino, vi accompagnino nel vostro cammino quotidiano e nella vostra missione! Che, sull’esempio della Vergine Maria, siate disponibili all’opera di Dio in voi! Affidandovi all’intercessione di Nostra Signora, di sant’Anna, patrona del Québec, e di tutti i santi della vostra terra, imparto a tutti voi un’affettuosa Benedizione Apostolica, e anche a tutte le persone presenti, venute da diversi Paesi del mondo.

Cari amici, mentre questo importante evento nella vita della Chiesa sta giungendo al termine, invito tutti voi a unirvi a me nel pregare per il buon esito del prossimo Congresso eucaristico internazionale, che si terrà nel 2012 nella città di Dublino! Colgo l’opportunità per salutare cordialmente il popolo d’Irlanda mentre si prepara a ospitare questo incontro ecclesiale. Sono fiducioso che, insieme a tutti i partecipanti al prossimo Congresso, vi troverà una fonte di rinnovamento spirituale duraturo.

Publié dans:temi - la liturgia |on 24 juin, 2008 |Pas de commentaires »

San Josemaria Éscriva – Anno liturgico, Cristo nel tempo

dal sito:

http://www.it.josemariaescriva.info/index.php?id_cat=776&id_scat=773

Anno liturgico, Cristo nel tempo

« Nel regalarti quella “Storia di Gesù”, scrissi come dedica: “Cerca Cristo, trova Cristo, ama Cristo”. — Sono tre tappe chiarissime. Hai tentato di vivere, almeno, la prima?» (San Josemaría, Cammino, 382).

La storia umana è e sarà sempre la « storia della salvezza »: ciò che la Chiesa celebra nel corso dell’anno liturgico. Le feste e i tempi non sono « anniversari », una mera ripetizione di alcuni momenti storici della vita del Signore; sono la celebrazione della sua presenza, rendono attuale la salvezza che il Padre, attraverso Gesù
, ci comunica nello Spirito Santo.

La Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II presenta l’anno liturgico con queste parole: «La santa madre Chiesa considera suo dovere celebrare l’opera salvifica del suo sposo divino mediante una commemorazione sacra, in giorni determinati nel corso dell’anno» (Sacrosanctum Concilium, 102). Ogni anno liturgico è, quindi, una nuova opportunità di grazia e di presenza del Signore della storia nella nostra personale storia quotidiana, negli avvenimenti – anche i più insignificanti – di ogni giornata. Colui che era, è e sarà, ci viene incontro nel tempo, qui e ora, per vivere il presente, quello di ciascuno, con noi, gli uomini suoi fratelli.L’anno liturgico è ripieno della presenza salvifica del Signore perché in ogni tempo liturgico – con le sue caratteristiche specifiche – noi cristiani possiamo identificarci sempre di più con Lui, non solo nel senso morale di imitarlo, di cambiare i costumi e di migliorare la nostra condotta, ma di vera e immediata identificazione sacramentale con la vita di Cristo. Così

, la nostra vita quotidiana diventa un culto gradito al Padre per mezzo dello Spirito (cfr. Rm 12, 1-2).

Fin dai primi secoli, la Chiesa ha unito alla celebrazione dei misteri di Cristo, la festività della Madonna e i giorni del transito alla casa del Padre dei martiri e dei santi. Con la loro vita hanno saputo dare testimonianza della vita di Cristo, e in modo eminente della Passione, Morte, Risurrezione e dell’Ascensione gloriosa al cielo. Per questo durante l’anno liturgico sono proposti ai fedeli cristiani come esempio di amore a Dio.

“Spesso il Signore ci parla del premio che ci ha guadagnato con la sua Morte e la sua Risurrezione. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io (Gv 14, 2-3). Il cielo è la meta del nostro cammino terreno. Gesù ci ha preceduti e là, in compagnia della Vergine e di san Giuseppe — che io tanto venero —, degli Angeli e dei Santi, è in attesa del nostro arrivo.” (San Josemaría, Amici di Dio, 220).

Publié dans:temi - la liturgia |on 26 mai, 2008 |Pas de commentaires »

CANTICI DEL NUOVO TESTAMENTO NELLA LITURGIA DELLE ORE

sto cercando di presentare San Paolo nella liturgia e mi rendo conto con quanta inadeguatezza lo faccio, con questo stralcio cerco di presentare meglio – e soprattutto di capirla meglio io – la liturgia delle ore, i passi biblici; credo che sarà possibile trovare una sorta di presentazione del « corpo paolino » nella liturgia, per il momento ho trovato un sito francese, molto interessante, che presenterà San Paolo nella liturgia, hanno messo l’avviso che lo apriranno il 15 di giugno, io mi sono iscritta, spero di imparare qualcosa di più, per il momento presento questo stralcio sul cantici e le letture;

 

CANTICI DEL NUOVO TESTAMENTO NELLA LITURGIA DELLE ORE

 

stralcio da: Paternoster M., « Erano assidui nella preghiera », Riflessioni sulla liturgia delle ore, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1990, Capitolo IV: La Celebrazione della LH: struttura e articolazione, 4. Gli elementi costitutivi della LH, PAG 244-:

 

« 4 GLI ELEMENTI COSTITUTIVI DELLA LITURGIA DELLE ORE

4.B. CANTICI DEL NUOVO TESTAMENTO

b. In riferimento ai cantici del Nuovo Testamento, presenti nella celebrazione dei Vespri, l’IGLH (Istitutio Generalis Liturgia Horarum, link al testo italiano) fa rilevare quanto segue:

Dom. Ap 19,1b.2a.4b.5b.7.8a

Lun. Ef 1,3-10

Mar. Ap 4,11.5,9-10.12

Mer. Col 1,12-20

Gio. Ap 11, 17-18.12,10b.12a

Ven. Ap. 15,3-4

Sab. Fil 2,6-11

c. A proposito degli altri cantici del Nuovo Testamento, che si trovano dopo il responsorio che segue la lettura biblica delle Lodi, dei Vespri e di Compieta, L’IGLH si esprime in questi termini: Benedictus, Magnificat, Nunc dimittis abbiano il medesimo onore, la medesima dignità e solennità di cui si è soliti circondare il vangelo, quando si ascolta (IGLH 138). Pur essendo anch’essi cantici del Nuovo Testamento, si pongono però su un piano teologico e celebrativo diverso da quelli che concludono la salmodia dei Vespri, perché sono tratti dal vangelo. Rappresentano infatti una vera e propria proclamazione gioiosa del vangelo che è lo strumento di salvezza di tutti i popoli. Perciò la LH li ha sempre circondati di una particolare venerazione. Naturalmente la presenza di tanti cantici dell’Antico e del Nuovo Testamento non deve passare inosservata nella LH, ma deve trovare una precisa traduzione celebrativa. Essi, infatti, costituiscono delle vere e proprie : rappresentano quindi un genere letterario poetico ed epico nelle stesso tempo. Non si adattano bene alla recitazione. Bisognerebbe pensare un ritmo celebrativo diverso, perché il loro genere letterario sia maggiormente rispettato; nemmeno l’IGLH offre delle indicazioni di ordine celebrativo per favorire la comprensione di un elemento così originale della LH.

4.C. LE LETTURE BIBLICHE

Per quanto riguarda le letture bibliche, che caratterizza in modo particolare l’Ufficio delle letture della preghiera liturgica della Chiesa, la SC aveva già offerto delle interessanti indicazioni di riforma. Il merito della IGLH sta nell’aver esteso la sua attuazione anche alle letture bibliche brevi delle altre parti della LH. Bisogna però riconoscere che l’attenzione della Riforma si è concentrata soprattutto sulle letture bibliche dell’Ufficio delle letture che avevano maggiormente bisogno di revisione e di rinnovamento: (IGLH 140). Nei primi tempi della Chiesa, la lettura della Paola di Dio occupava un posto di assoluto rilievo nell’ambito della preghiera liturgica della comunità cristiana. Successivamente nei monasteri era norma comune che la Bibbia fosse letta interamente nel corso dell’anno. Simile usanza si mantenne a lungo specialmente nei monasteri cluniacensi. Fu solo nei secoli XII-XIII, quando la preghiera personale dei monaci andò progressivamente separandosi dalla recita corale della LH, che le letture bibliche furono notevolmente accorciate e ridotte di numero per dare la possibilità ai monaci di attendere alle loro devozioni private. Una simile lacuna fu già avvertita dai riformatori del Rinascimento, tanto che il cardinale Quiñonez, nella sua riforma del Breviario, aveva concesso uno spazio maggiore alle letture della Sacra Scrittura e specialmente a quelle del Nuovo Testamento. In tale senso si incamminò anche la riforma tridentina di San Pio V, che ridusse le letture agiografiche, spesso leggendarie ed apocrife, a tutto vantaggio di quelle bibliche. Ma la sua riforma non portò i frutti sperati, perché le letture agiografiche presero nuovamente il sopravvento sulla Parola di Dio. Prima della riforma liturgica del concilio Vaticano II, le pericopi bibliche apparivano a tutti troppo brevi e non sempre di facile comprensione. Perciò il Concilio, nello stabilire una lettura più ampia della Parola di Dio, non ha fatto altro che riprendere un’esigenza avvertita da tutta la Chiesa.

a. La nuova LH, oltre che presentare una più ampia serie di testi biblici, si è preoccupata di approfondire le motivazioni teologiche che hanno determinato una simile realtà. La ricchezza biblica della attuale preghiera liturgica della Chiesa è, in gran parte, riconducibile alla necessità di approfondire il mistero di Cristo, vertice sia della fede che della celebrazione cristiana, alla luce della Parola di Dio. La Sacra Scrittura, infatti,

b. L?IGLH, inoltre, si dimostra particolarmente attenta anche a sottolineare il rapporto di dipendenza che deve esserci fra la Parola di Dio e la preghiera cristiana: (IGLH 140). È un aspetto fortemente sentito dalla spiritualità della Chiesa d’oggi, che ha riscoperto la preghiera e la Parola di Dio come elementi fondamentali del profondo dinamismo che caratterizza il vivere nello Spirito l’intera esistenza umana, diversamente esposta a tutte le contaminazioni di un tipo di vita che non affonda le sue radici in Dio.

c. C’è poi da rilevare anche una altro importante aspetto: le letture bibliche della LH non devono essere considerate come un fatto a sé stante. Esse infatti sono state elaborate in stretta relazione con le letture che si fanno durante la celebrazione dell’eucarestia: (IGLH 146). Da ciò si deduce la necessità di utilizzare i due cicli di letture bibliche senza cadere in sterili ripetizioni. Infatti, anche l’attuale LH consta di un duplice ciclo di letture bibliche:

d. Quando si parla di letture bibliche nell’ambito della preghiera liturgica della Chiesa, non si deve fare riferimento solo a quelle presenti nell’Ufficio delle letture. Nelle LH, infatti, ci sono anche le letture bibliche brevi alle quali non si può riservare un ruolo marginale. Hanno la loro importanza e la loro dignità liturgica e costituiscono un prezioso elemento della LH. Il loro valore liturgico è chiaramente affermato dalla IGLH: (IGLH 45). Sono precisazioni molto importanti, perché restituiscono piena dignità liturgica e teologica a brani biblici molto brevi, ma non per questo meno efficaci ai fini di una vera proclamazione della Parola di Dio, dato che servono a porre in rilievo una sentenza o un’esortazione biblica di particolare efficacia spirituale. »

Publié dans:temi - la liturgia |on 26 mai, 2008 |Pas de commentaires »
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