Archive pour juin, 2014

3o giugno: Santi protomartiri della Chiesa di Roma

3o giugno: Santi protomartiri della Chiesa di Roma dans immagini sacre 1280px-Siemiradzki_Christian_Dirce

http://it.wikipedia.org/wiki/Primi_martiri_della_Chiesa_romana

Publié dans:immagini sacre |on 30 juin, 2014 |Pas de commentaires »

«GUARDATE ALLA ROCCIA DA CUI SIETE STATI TAGLIATI»

http://www.usminazionale.it/2013_03/ko.htm

«GUARDATE ALLA ROCCIA DA CUI SIETE STATI TAGLIATI»

MARIA KO HA FONG

In un momento di depressione e di smarrimento del popolo d’Israele, il profeta Isaia lancia con fierezza questo invito: «Guardate alla roccia da cui siete stati tagliati, alla cava da cui siete stati estratti. Guardate ad Abramo, vostro padre, …» (Is 51,1-2). Il padre Abramo è garanzia di buona qualità, è prova della «radice santa » (cf Rm 11,16), è segno di speranza per il futuro, è motivo di fiducia e di coraggio.
Nell’Anno della fede accogliamo l’invito del profeta e guardiamo a questa roccia da cui anche noi cristiani siamo stati tagliati. Fissiamo lo sguardo a questo «nostro padre nella fede» (Rm 4,12) vissuto quattromila anni fa. Molto si è detto della fede
esemplare di Abramo. Paolo ne ha parlato con grande ammirazione (cf Rm 4,3.11.18; Gal 3,6-9), l’autore della Lettera agli Ebrei, nel solenne elogio della fede degli antenati, insiste particolarmente sulla fede di Abramo (Eb 11,8.17). Il Catechismo della Chiesa Cattolica lo vede modello per eccellenza: obbediente nella fede (nn. 143-147). Noi qui, rileggendo le pagine bibliche su Abramo, piuttosto che
sottolineare la sua risposta di fede, focalizziamo l’attenzione su come Dio, in modo mirabile, suscita la fede in questo nostro grande «padre di tutti i credenti».

L’amore sovrabbonda sul peccato
Nella Genesi la storia di Abramo è situata su uno sfondo cupo. Il racconto della vocazione (Gen 12) segue immediatamente quello della costruzione della torre di Babele (Gen 11), che segna il punto culmine del susseguirsi di peccati. Nonostante il grande amore di Dio, l’uomo gli volta le spalle e si allontana da lui. Attraverso una serie di eventi il male cresce e dilaga fino a delinearsi in dimensione universale.
Dal peccato di Adamo ed Eva al fratricidio di Caino, alla violenza di Lamech, alla malvagità irrefrenabile della generazione di Noè e all’orgoglio sfacciato dei costruttori della torre di Babele, gli anelli della catena del male s’infittiscono e diventano sempre più robusti.
L’amore di Dio però è più forte del peccato. Egli, giusto e misericordioso, pur castigando, ha dei gesti di tenerezza sorprendente: le tuniche di pelli con cui riveste Adamo e Eva (Gen 3,21), il segno di protezione imposto a Caino (Gen 4,15), l’arca di Noè (Gen 6,14ss) e l’arcobaleno (Gen 9,12-17). Sono tutte espressioni di un amore sorprendente e sovrabbondante, garanzie sicure che il creato può ancora avere un futuro bello, testimonianze incontestabili che tra delitto e castigo non c’è pura e semplice simmetria. Paolo dirà: «Dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5,20).
Il Dio che ha creato la terra bella e buona e l’ha resa feconda per l’uomo non desiste dal suo progetto originario, nonostante la risposta «negativa dell’uomo al suo amore gratuito. Egli vuole ancora assicurare all’umanità felicità, dignità e libertà su questa terra. Egli è ancora amante della vita, ha ancora fiducia nell’uomo e nella sua potenzialità di bene. Per questo riprende il suo piano in termini nuovi con l’elezione di Abramo.
Con la costruzione della torre di Babele sembra che la rottura tra uomo e Dio e la perdita di unità dell’umanità siano ormai definitive, ma non è questa la fine della storia. Fra i gruppi dispersi c’è il clan di Terach, da cui Dio chiamerà Abramo come colui nel quale saranno benedette tutte le genti (Gen 12,3). Tra il racconto della torre di Babele e quello della chiamata di Abramo ci sono degli elementi in chiara contrapposizione. Gli uomini prendono l’iniziativa dicendo l’un l’altro: «Venite, facciamo mattoni…»; «Venite, costruiamo una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo» (Gen 11,3), mentre Dio dice ad Abramo: «Vattene … verso il paese che io ti indicherò» (Gen 12,1). Il motivo della costruzione della torre è: «Facciamoci un nome per non disperderci su tutta la terra» (Gen 11,3); quello che Dio presenta ad Abramo invece è: «Renderò grande il tuo nome, … in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,2-3). La conclusione dell’episodio di Babele è: «Il Signore disperse gli uomini su tutta la terra» (Gen 11,9), al contrario, quello della chiamata di Abramo: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3).

La promessa eccede i desideri
Il Signore disse ad Abramo: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò» (Gen 12,1). Il Signore si presenta senza tanti preamboli, così farà anche con Mosè, con Samuele, con Isaia, Geremia e tanti altri personaggi biblici. Egli non si impone con il suo essere Creatore e Signore potente, ma si fa percepire come una presenza misteriosa, una forza attraente, un’apertura affascinante, una sfida che risveglia le energie, le risorse e gli aneliti dentro l’uomo. Egli incontra l’uomo nel momento esatto in cui l’uomo si sforza di essere uomo, cioè quando coltiva dentro di sé ideali autentici e lotta per realizzarli.
Abramo parte. Questa risposta all’invito di Dio non lo trasforma automaticamente in un uomo santo; semplicemente la sua vita assume un nuovo spessore, un nuovo senso, una nuova determinazione e s’impregna di una nuova presenza. Da nomade vagante nel mondo egli diventa cittadino della terra promessa. È noto il paragone che il filosofo Emmanuel Lévinas fa tra Ulisse e Abramo. Ulisse, alla fine di un lungo viaggio si ritrova nella sua stessa casa, al punto di partenza; Abramo invece, si mette in cammino affidandosi completamente a quella presenza misteriosa che lo precede, e alla fine si trova in una terra nuova, spazio di vita designato a lui e alla sua discendenza.
In fondo, per un nomade come Abramo, conducendo un’esistenza precaria e instabile ai margini dei grandi imperi del secolo XX a.C., il sogno più grande era di avere una vita sicura, una terra fertile, pascoli tranquilli, figli numerosi. Dio gli viene incontro proprio qui. Avviene così un abbraccio fra promessa divina e speranza umana. Entrando nei desideri e nei sogni dell’uomo, Dio non li soffoca, non li blocca, ma li dilata, li eleva. Con le sue promesse egli incoraggia l’uomo a trascendersi, a mirare più in alto. «Farò di te un grande popolo e ti benedirò,… in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,2-3). La promessa di Dio eccede i desideri. Abramo intuisce che quello che lo attende va oltre la sua fragile vita, la sua breve storia, la sua piccola famiglia e i suoi timidi sogni di prosperità e sicurezza.

In alto e in avanti
Le promesse di Dio ad Abramo possono essere riassunte in queste parole: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» (Gen 15,5); «Alza gli occhi e dal luogo dove tu stai spingi lo sguardo verso il settentrione e il mezzogiorno, verso l’oriente e l’occidente» (Gen 13,14). Sono parole molto belle, simboliche, suggestive, poetiche; parole di amicizia e di fiducia. Il Signore invita il padre del suo popolo eletto ad uscire all’aperto, a guardare in alto e guardare in avanti. Dio dialoga con l’uomo nei larghi spazi dell’amore e della bellezza, non nell’angustia dei diritti e doveri. Egli vuole che i cittadini della sua terra abbiano uno guardo ampio e rivolto in alto, che siano capaci di affrontare l’infinito con il candore e la semplicità del bambino che si mette a contare le stelle.
I padri della Chiesa, riflettendo sulla dignità dell’uomo, fanno notare che a differenza degli animali, l’uomo ha il corpo eretto, lanciato verso l’alto e non strisciante per terra come il serpente, né curvo o piegato con la testa e lo sguardo verso il basso. Siamo creature fatte per guardare in alto, ma purtroppo non sviluppiamo a sufficienza questo dono. Assomigliamo più agli animali se non sappiamo guardare in cielo. Nel libro del profeta Osea il Signore dice con rammarico: «Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo» (Os 11,7). Nella liturgia eucaristica il celebrante, all’inizio della preghiera eucaristica, invita l’assemblea: «Sursum corda – In alto il vostro cuore!», perché è necessario avvicinarsi al mistero con il cuore in alto. Noi rispondiamo con tanta tranquillità e ovvietà: «Sono rivolti al Signore». È una risposta che non sempre corrisponde alla realtà. E sappiamo contare le stelle? La nostra vita è segnata da tanti numeri e codici e dobbiamo fare sempre dei conti. Cosa contiamo? Molti nostri contemporanei non sanno contare altro che il denaro. Il contare le stelle dice stupore, innocenza e semplicità, fantasia e bellezza, ampiezza di orizzonte, grandezza di cuore, speranza e gioia, senso ludico e poetico della vita.

Dio si compromette
La fiducia di Dio nell’uomo suscita la fiducia dell’uomo in Dio e in se stesso. La promessa di Dio all’uomo gli infonde gioia e gratitudine, coraggio e ottimismo, e lo spinge a donarsi con generosità agli altri. Così vediamo Abramo che abbandona tutto e parte secondo le indicazioni di Dio, innalza un altare in ringraziamento a Dio, tratta con generosità Lot, accoglie con amore gli ospiti, riceve il dono inatteso del figlio Isacco ed è pronto ad offrirlo in sacrificio, pur con immenso dolore. La promessa di Dio ha fatto grandi cose nel padre del popolo d’Israele.
C’è ancora di più. Dio non solo promette dei beni, ma si compromette personalmente, entra in una relazione più profonda, stabilisce legami di prossimità e di comunione, stringe un’alleanza con l’uomo. Egli dichiara: «Sarò il vostro Dio» (Gen 17,8). «Renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione» (Gen 12,1), promette ancora Dio ad Abramo. Ciò non significa che Dio, oltre ai beni materiali, garantisce gloria e fama al patriarca. Il nome di Abramo sarà reso grande e fonte di benedizione perché assunto da Dio stesso nel momento della sua autopresentazione. Dio ha voluto qualificarsi con il nome di Abramo, si è compiaciuto d’essere proclamato ed invocato «il Dio di Abramo» (Es 3,15). Qui sta la grandezza del nome di Abramo: è entrato a far parte del biglietto da visita di Dio. E qui sta soprattutto la grandezza di Dio, un Dio che non si vergogna di legarsi al nome, al volto, alla vita e alla storia delle sue creature, un Dio che si fida, si compromette, pur conoscendo la fragilità umana. L’autore della lettera agli Ebrei dice bene: «Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio: ha preparato infatti per loro una città» (Eb 11,16).

Maria Ko Ha Fomg fma
Biblista
Via Cremolino, 141 – 00166 Roma

LA DOTTRINA DELLA CREAZIONE COSTITUISCE…

http://www.opusdei.it/it-it/article/tema-6-la-creazione/

LA DOTTRINA DELLA CREAZIONE COSTITUISCE LA PRIMA RISPOSTA AGLI INTERROGATIVI FONDAMENTALI SULLA NOSTRA ORIGINE E IL NOSTRO FINE.

OPUS DEI – TEMA 6. LA CREAZIONE

Introduzione
L’importanza della verità della creazione è dovuta al fatto che è «il fondamento di tutti i divini progetti di salvezza; è l’inizio della storia della salvezza culminante in Cristo» (Compendio, 51). Sia la Bibbia (Gn 1, 1) che il Credo hanno inizio con la confessione di fede nel Dio Creatore.
A differenza degli altri grandi misteri della nostra fede (la Trinità e l’Incarnazione), la creazione «è una prima risposta agli interrogativi fondamentali dell’uomo circa la propria origine e il proprio fine» (Compendio, 51), che lo spirito umano si pone e ai quali, in parte, può anche rispondere, come dimostra la riflessione filosofica. Nonostante i racconti delle origini che fanno parte della cultura religiosa di tanti popoli (cfr. Catechismo, 285), la specificità della nozione di creazione in realtà è stata colta solo con la rivelazione giudaico-cristiana.
La creazione, dunque, è un mistero di fede e allo stesso tempo è una verità accessibile alla ragione naturale (cfr. Catechismo, 286). Questa posizione peculiare tra fede e ragione fa della creazione un buon punto di partenza per il compito di evangelizzazione e di dialogo che i cristiani sono sempre chiamati a realizzare – in modo particolare ai nostri giorni[1] – così come aveva fatto San Paolo nell’Aeropago di Atene (At 17, 16-34).
Si è soliti distinguere l’atto creatore di Dio (la creazione active sumpta) e la realtà creata, che è effetto di tale azione divina (la creazione passive sumpta)[2]. Seguendo questo schema, si espongono di seguito i principali aspetti dogmatici della creazione.

1. L’atto creatore 1.1. «La creazione è l’opera comune della Santissima Trinità» (Catechismo, 292)
La Rivelazione presenta l’azione creativa di Dio come frutto della sua onnipotenza, della sua sapienza e del suo amore. Di solito si attribuisce la creazione in modo particolare al Padre (cfr. Compendio, 52), così come la redenzione al Figlio e la santificazione allo Spirito Santo. Nello stesso tempo le opere ad extra della Trinità (la prima di esse, la creazione) sono comuni alle tre Persone, ci si può pertanto interrogare sul ruolo specifico di ognuna delle tre Persone nella creazione, in quanto «ogni Persona divina compie l’operazione comune secondo la sua personale proprietà» (Catechismo, 258). Si tratta della “appropriazione” degli attributi essenziali: onnipotenza, sapienza e amore, rispettivamente, all’operare creativo del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Nel Simbolo niceno-costantinopolitano confessiamo la nostra fede «in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra»; «in un solo Signore, Gesù Cristo […]; per mezzo di lui tutte le cose sono state create»; e nello Spirito Santo «che è Signore e dà la vita» (DS 150). La fede cristiana, pertanto, parla non solo di una creazione ex nihilo, dal nulla, che indica l’onnipotenza di Dio Padre, ma anche di una creazione fatta con intelligenza, con la sapienza di Dio – il Logos per mezzo del quale tutto è stato fatto (Gv 1, 3) – e di una creazione ex amore (GS 19), frutto della libertà e dell’amore che è Dio stesso, lo Spirito che procede dal Padre e dal Figlio. Di conseguenza, le processioni eterne delle Persone stanno alla base del loro operare creativo[3].
Poiché non c’è contraddizione tra l’unicità di Dio e le sue tre Persone, analogamente l’unicità del principio creativo non si contrappone alla diversità dei modi di operare di ognuna delle Persone.

«Creatore del cielo e della terra»
«“In principio, Dio creò il cielo e la terra”. Queste prime parole della Scrittura contengono tre affermazioni: il Dio eterno ha dato un inizio a tutto ciò che esiste fuori di lui. Egli solo è Creatore (il verbo “creare” – in ebraico “bara” – ha sempre come soggetto Dio). La totalità di ciò che esiste (espressa nella formula “il cielo e la terra”) dipende da colui che gli dà di essere» (Catechismo, 290).
Solo Dio può creare in senso proprio[4], e questo significa dare origine alle cose dal nulla (ex nihilo) e non a partire da qualcosa di preesistente; perciò si richiede una potenza attiva infinita che solo Dio possiede (cfr. Catechismo, 296-298). È, dunque, coerente attribuire l’onnipotenza creativa al Padre, perché Egli è nella Trinità – secondo un’espressione classica – fons et origo, vale a dire, la Persona da cui procedono le altre due, principio senza principio.
La fede cristiana afferma che la distinzione fondamentale, in realtà, è quella che c’è tra Dio e le sue creature. Questo costituì una novità nei primi secoli, nei quali la polarità fra materia e spirito dava adito a visioni inconciliabili tra loro (materialismo e spiritualismo, dualismo e monismo). Il cristianesimo infranse questi modelli, soprattutto con l’affermare che anche la materia (così come lo spirito) è creata dall’unico Dio trascendente. Più avanti San Tommaso sviluppò una metafisica della creazione che descrive Dio come lo stesso Essere sussistente (Ipsum Esse Subsistens). In quanto causa prima, è assolutamente trascendente al mondo; e, allo stesso tempo, in virtù della partecipazione del suo essere alle creature, è presente intimamente in esse, che dipendono in tutto da Colui che è la sorgente dell’essere. Dio è superior summo meo e, allo stesso tempo, intimior intimo meo (Sant’Agostino, Le confessioni, 3, 6, 11; cfr. Catechismo, 300).
«Tutto è stato fatto per mezzo di Lui»
L’Antico Testamento presenta il mondo come frutto della sapienza di Dio (cfr. Sap 9, 9). «Non è il prodotto di una qualsivoglia necessità, di un destino cieco o del caso» (Catechismo, 295), ma ha una intelligibilità che la ragione umana, partecipando della luce dell’Intelletto divino, può cogliere, non senza sforzo e con spirito di umiltà e di rispetto davanti al Creatore e alla sua opera (cfr. Gb 42, 3; cfr. Catechismo, 299). Questo sviluppo raggiunge la sua espressione piena nel NT: nell’identificare il Figlio, Gesù Cristo, con il Logos (cfr. Gv 1, 1ss), afferma che la sapienza di Dio è una Persona, il Verbo incarnato, per mezzo del quale tutto è stato fatto (cfr. Gv 1, 3). San Paolo formula questa relazione del creato con Cristo, spiegando che tutte le cose sono state create in Lui, per mezzo di Lui e in vista di Lui (cfr. Col 1, 16-17).
C’è, dunque, una ragione creatrice all’origine del cosmo (cfr. Catechismo, 284)[5]. Il cristianesimo ha sin dall’inizio una grande fiducia nella capacità della ragione umana di conoscere e la straordinaria certezza che mai la ragione (scientifica, filosofica, ecc.) potrà arrivare a conclusioni contrarie alla fede, perché entrambe provengono da una stessa origine.
Non è raro imbattersi in alcuni che pongono falsi dilemmi; per esempio, fra creazione ed evoluzione. In realtà, un’adeguata epistemologia non solo distingue gli ambiti propri delle scienze naturali e della fede, ma inoltre riconosce nella filosofia un necessario elemento di mediazione, perché le scienze, con i loro metodi e con gli obiettivi che le sono propri, non coprono tutto l’ambito della ragione umana; e la fede, che si riferisce allo stesso mondo di cui parlano le scienze, ha bisogno per esprimersi di entrare in dialogo con la razionalità umana delle categorie filosofiche[6].
È logico, dunque, che la Chiesa fin dall’inizio abbia cercato il dialogo con la ragione: una ragione cosciente del suo carattere creato, perché non ha dato a se stessa l’esistenza, né dispone in modo completo del proprio futuro; una ragione aperta a ciò che la trascende, vale a dire, alla Ragione originaria. Paradossalmente, una ragione ripiegata su se stessa, che crede di poter trovare in sé la risposta ai suoi quesiti più profondi, finisce con l’affermare l’assurdità dell’esistenza e col non riconoscere l’intelligibilità di ciò che è reale (nichilismo, irrazionalismo, ecc.).

«È Signore e dà la vita»
«Noi crediamo che il mondo trae origine dalla libera volontà di Dio, il quale ha voluto far partecipare le creature al suo essere, alla sua saggezza e alla sua bontà: “Tu hai creato tutte le cose, e per la tua volontà furono create e sussistono” (Ap 4, 11). […] “Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature” (Sal 145, 9)» (Catechismo, 295). Di conseguenza, «scaturita dalla bontà divina, la creazione partecipa di questa bontà (“E Dio vide che era cosa buona… cosa molto buona”: Gn 1, 4.10.12.18.21.31). La creazione, infatti, è voluta da Dio come un dono» (Catechismo, 299).
Questo carattere di bontà e di dono libero permette di scoprire nella creazione l’azione dello Spirito – che «aleggiava sulle acque» (Gn 1, 2) -, la Persona-Dono nella Trinità, Amore sussistente tra il Padre e il Figlio. La Chiesa confessa la sua fede nell’opera creatrice dello Spirito Santo, datore di vita e sorgente di ogni bene[7].
L’affermazione cristiana della libertà divina di creare permette di superare le ristrettezze di altre visioni che, ponendo in Dio una necessità, finiscono con il sostenere il fatalismo o il determinismo. Non c’è nulla, né “dentro” né “fuori” di Dio, che lo obblighi a creare. Qual è allora il fine che lo muove? Che cosa si è proposto nel crearci?

1.2. «Il mondo è stato creato per la gloria di Dio» (Concilio Vaticano I)
Dio ha creato tutto «non per aumentare la sua gloria, ma per manifestarla e comunicarla» (San Bonaventura, Sent. 2, 1, 2, 2, 1). Il Concilio Vaticano I (1870) insegna che «nella sua bontà e con la sua onnipotente virtù, non per aumentare la sua beatitudine, né per acquistare perfezione, ma per manifestarla attraverso i beni che concede alle sue creature, questo solo vero Dio ha, con la più libera delle decisioni, insieme, dall’inizio dei tempi, creato dal nulla l’una e l’altra creatura, la spirituale e la corporale» (DS 3002; cfr. Catechismo, 293).
«La gloria di Dio è che si realizzi la manifestazione e la comunicazione della sua bontà, in vista delle quali il mondo è stato creato. Fare di noi i suoi “figli adottivi per opera di Gesù Cristo” è il benevolo disegno “della sua volontà… a lode e gloria della sua grazia” (Ef 1, 5-6). Infatti la gloria di Dio è l’uomo vivente e la vita dell’uomo è la visione di Dio” (Sant’Ireneo, Adversus haereses,4, 20, 7)» (Catechismo, 294).
Lungi da una dialettica di principi contrapposti (come accade nel dualismo di tipo manicheo e nell’idealismo monista hegeliano), affermare la gloria di Dio come fine della creazione non comporta una negazione dell’uomo, ma un presupposto indispensabile per la sua realizzazione. L’ottimismo cristiano affonda le sue radici nella esaltazione di Dio e dell’uomo insieme: «l’uomo è grande solo se Dio è grande»[8]. Si tratta di un ottimismo e di una logica che affermano l’assoluta priorità del bene, ma che non per questo sono ciechi davanti alla presenza del male nel mondo e nella storia.

1.3. Conservazione e provvidenza. Il male
La creazione non è terminata con quella all’inizio dei tempi; «dopo averla creata, Dio non abbandona a se stessa la sua creatura. Non le dona soltanto di essere e di esistere: la conserva in ogni istante nell’essere, le dà la facoltà di agire e la conduce al suo termine» (Catechismo, 301). La Sacra Scrittura paragona questa azione di Dio nella storia all’azione creatrice (cfr. Is 44, 24; 45, 8; 51, 13). La letteratura sapienziale esplicita l’azione di Dio che mantiene nell’esistenza le sue creature. «Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi? O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza?» (Sap 11, 25). San Paolo va oltre ed attribuisce questa azione di conservazione a Cristo: «Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui» (Col 1, 17).
Il Dio cristiano non è un orologiaio o un architetto che, dopo aver compiuto la sua opera, se ne disinteressa. Queste immagini sono proprie di una concezione deista, secondo la quale Dio non si intromette nelle faccende di questo mondo. Ma questa sarebbe una falsa visione dell’autentico Dio creatore, perché separa drasticamente la creazione dalla conservazione e dal governo divino del mondo[9].
La nozione di conservazione “fa da ponte” tra l’azione creativa e il governo divino del mondo (provvidenza). Dio non solo crea il mondo e lo mantiene nell’esistenza, ma inoltre «conduce le sue creature verso la perfezione ultima, alla quale Egli le ha chiamate» (Compendio, 55). La Sacra Scrittura presenta la sovranità assoluta di Dio e testimonia continuamente la sua cura paterna, sia nelle cose più piccole sia nei grandi eventi della storia (cfr. Catechismo, 303). In un tale contesto Gesù si rivela come la provvidenza “incarnata” di Dio, che soddisfa come Buon Pastore le necessità materiali e spirituali degli uomini (Gv 10, 11.14-15; Mt 14, 13-14, ecc.) e ci insegna ad abbandonarci alla sua sollecitudine (Mt 6, 31-33).
Se Dio crea, sostiene e dirige tutto con bontà, da dove proviene il male? «A questo interrogativo tanto pressante quanto inevitabile, tanto doloroso quanto misterioso, nessuna rapida risposta potrà bastare. È l’insieme della fede cristiana che costituisce la risposta a tale questione […]. Non c’è un punto del messaggio cristiano che non sia, per un certo aspetto, una risposta al problema del male» (Catechismo, 309).
La creazione non si è conclusa all’inizio, ma Dio l’ha fatta in statu viae, vale a dire, in vista di una meta ultima ancora da raggiungere. Per la realizzare i suoi disegni, Dio si serve del concorso delle sue creature e concede agli uomini una partecipazione alla sua provvidenza, rispettando la loro libertà anche quando agiscono male (cfr. Catechismo, 302, 307, 311). È davvero sorprendente che Dio «nella sua Provvidenza onnipotente può trarre un bene dalle conseguenze di un male» (Catechismo, 312). È una misteriosa ma grandissima verità che «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8, 28)[10].
L’esperienza del male sembra manifestare una tensione fra l’onnipotenza e la bontà di Dio nel suo intervenire nella storia. Quella riceve risposta, certamente misteriosa, nell’evento della Croce di Cristo, che rivela il “modo di essere” di Dio, e pertanto è per l’uomo sorgente di sapienza (sapientia crucis).

1.4. Creazione e salvezza
La creazione è «il primo passo verso l’Alleanza dell’unico Dio con il suo popolo» (Compendio, 51). Nella Bibbia la creazione è aperta all’azione salvifica di Dio nella storia, che raggiunge la pienezza nel mistero pasquale di Cristo e che raggiungerà la sua perfezione finale alla fine dei tempi. La creazione è fatta in vista del sabato, il settimo giorno in cui il Signore riposò, giorno in cui culmina la prima creazione e che si apre all’ottavo giorno in cui comincia un’opera ancora più meravigliosa: la Redenzione, la nuova creazione in Cristo (2 Cor 5, 7; cfr. Catechismo, 345-349).
Appare così evidente la continuità e l’unità del disegno divino di creazione e di redenzione. Fra le due non c’è nessuno iato, perché il peccato degli uomini non ha corrotto totalmente l’opera di Dio, ma un vincolo. La relazione fra le due – creazione e salvezza – può essere espressa dicendo che, da una parte, la creazione è il primo avvenimento salvifico e, d’altra parte, la salvezza redentrice ha le caratteristiche di una nuova creazione. Questa relazione illumina importanti aspetti della fede cristiana, come l’ordinamento della natura alla grazia o l’esistenza di un unico fine soprannaturale dell’uomo.

2. La realtà creata
L’effetto dell’azione creatrice di Dio è la totalità del mondo creato, “cielo e terra” (Gn 1, 1). Dio è «creatore di tutte le cose visibili e invisibili, spirituali e materiali; che con la sua forza onnipotente fin dal principio del tempo creò dal nulla l’uno e l’altro ordine di creature: quello spirituale e quello materiale, cioè gli angeli e il mondo terrestre, e poi l’uomo, quasi partecipe dell’uno e dell’altro, composto di anima e di corpo»[11].
Il cristianesimo supera sia il monismo (che afferma che la materia e lo spirito si confondono e che la realtà di Dio e del mondo si identificano) che il dualismo (secondo il quale materia e spirito sono principi originari opposti).
L’azione creatrice appartiene all’eternità di Dio, ma l’effetto di tale azione è marcato dalla temporalità. La Rivelazione afferma che il mondo è stato creato come mondo con un inizio temporale[12], vale a dire, che il mondo è stato creato insieme con il tempo, cosa che si mostra assai coerente con l’unità del disegno divino di rivelarsi nella storia della salvezza.

2.1. Il mondo spirituale: gli angeli
«L’esistenza degli esseri spirituali, incorporei, che la Sacra Scrittura chiama abitualmente angeli, è una verità di fede. La testimonianza della Scrittura è tanto chiara quanto l’unanimità della Tradizione» (Catechismo, 328). Entrambi li mostrano nella loro duplice funzione di dare lode a Dio e di essere messaggeri del suo disegno salvifico. Il Nuovo Testamento presenta gli angeli in relazione con Cristo: “creati per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1, 16), sono presenti nella vita di Cristo dalla nascita fino all’Ascensione, annunciatori della sua seconda venuta gloriosa (cfr. Catechismo, 333).
Nello stesso modo, essi sono presenti anche all’inizio della vita della Chiesa, la quale trae beneficio dal loro aiuto potente, e nella liturgia si unisce a loro nell’adorazione a Dio. La vita di ogni uomo è accompagnata sin dalla nascita da un angelo che lo protegge e lo guida verso la Vita (cfr. Catechismo, 334-336).
La teologia (e specialmente San Tommaso d’Aquino, il Dottore Angelico) e il magistero della Chiesa hanno approfondito la natura di questi esseri puramente spirituali, dotati di intelligenza e volontà, affermando che sono creature personali e immortali, che superano in perfezione tutte le creature visibili (cfr. Catechismo, 330).
Gli angeli furono creati e sottoposti a una prova. Alcuni si opposero irrevocabilmente a Dio. Caduti nel peccato, Satana e gli altri demoni – che, creati buoni, da se stessi si erano fatti cattivi – istigarono i nostri progenitori a peccare (cfr. Catechismo, 391-395).

2.2. Il mondo materiale
Dio «ha creato il mondo visibile in tutta la sua ricchezza, la sua varietà e il suo ordine. La Sacra Scrittura presenta simbolicamente l’opera del Creatore come un susseguirsi di sei giorni di “lavoro” divino, che termina nel “riposo” del settimo giorno (Gn 1, 1-2,4)» (Catechismo, 337). «La Chiesa, a più riprese, ha dovuto difendere la bontà della creazione, compresa quella del mondo materiale (cfr. DS 286; 455-463; 800; 1333; 3002)» Catechismo, 299).
«È dalla stessa loro condizione di creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine» (GS 36, 2). La verità e bontà del creato procedono dall’unico Dio Creatore, che allo stesso tempo è Trino. Così il mondo creato è un certo riflesso dell’azione delle Persone divine: «in tutte le creature si trova una rappresentazione della Trinità a mo’ di vestigio»[13].
Il cosmo possiede bellezza e dignità in quanto è opera di Dio. C’è una solidarietà e una gerarchia tra gli esseri, e questo deve indurre ad un atteggiamento contemplativo di rispetto verso il creato e le leggi naturali che lo reggono (cfr. Catechismo, 339, 340, 342, 354). Certamente il cosmo è stato creato per l’uomo, che ha ricevuto da Dio il mandato di dominare la terra (cfr. Gn 1, 28). Questo mandato non è un invito allo sfruttamento dispotico della natura, ma a partecipare al potere creatore di Dio: mediante il suo lavoro, l’uomo collabora al perfezionamento della creazione.
Il cristiano condivide le esigenze di rispettare l’ambiente naturale, che la sensibilità ecologica ha messo in evidenza negli ultimi decenni, ma senza cadere in una vaga divinizzazione del mondo, e affermando la superiorità dell’uomo sul resto degli esseri come «vertice dell’opera della Creazione » (Catechismo, 343).

2.3. L’uomo
Le persone umane godono di una posizione particolare nell’opera creatrice di Dio, perché partecipano allo stesso tempo della realtà materiale e di quella spirituale. Solo di lui la Scrittura dice che Dio lo creò «a sua immagine e somiglianza» (Gn 1, 26). È stato messo da Dio a capo della realtà visibile e gode di una dignità speciale perché «di tutte le creature visibili, solo l’uomo è capace di conoscere e di amare il proprio Creatore; è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa; soltanto l’uomo è chiamato a condividere, nella conoscenza e nell’amore, la vita di Dio. A questo fine è stato creato ed è questa la ragione fondamentale della sua dignità» (Catechismo, 356; ibidem, 1701-1703).
Uomo e donna, nello loro diversità e complementarietà, volute da Dio, godono della stessa dignità di persone (cfr. Catechismo, 357, 369, 372). In entrambi c’è un’unione sostanziale di corpo e anima, essendo questa la forma del corpo. Dato che è spirituale, l’anima umana è creata direttamente da Dio (non è “prodotta” dai genitori, e neppure è preesistente), ed è immortale (cfr. (Catechismo, 366). I due punti (spiritualità e immortalità) possono essere dimostrati filosoficamente. Pertanto, è un riduzionismo affermare che l’uomo procede esclusivamente dall’evoluzione biologica (evoluzionismo assoluto). Nella realtà esistono salti ontologici che non si possono spiegare solo con l’evoluzione. La coscienza morale e la libertà dell’uomo, per esempio, manifestano la sua superiorità sul mondo materiale e dimostrano la sua particolare dignità.
La verità della creazione aiuta a superare sia la negazione della libertà (determinismo) che il suo opposto della sopravvalutazione della stessa: la libertà umana è creata, non assoluta, ed esiste in rapporto con la verità e con il bene. Il sogno della libertà come puro potere ed arbitrarietà corrisponde a un’immagine deformata non solo dell’uomo, ma anche di Dio.
Mediante la sua attività e il suo lavoro, l’uomo partecipa del potere creatore di Dio[14]. Inoltre, la sua intelligenza e la sua volontà sono una partecipazione, una briciola, della sapienza e dell’amore di Dio. Mentre il resto del mondo visibile è una semplice impronta della Trinità, l’essere umano costituisce un’autentica imago Trinitatis.

3. Alcune conseguenze pratiche della verità sulla creazione
La radicalità dell’azione creatrice e salvifica divina esige dall’uomo una risposta che abbia lo stesso carattere di totalità: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6, 5; cfr. Mt 22, 37; Mc 12, 30; Lc 10, 27). In questa corrispondenza si trova la vera felicità, l’unica cosa capace di perfezionare la sua libertà.
Nello stesso tempo, l’universalità dell’azione divina ha un significato sia intensivo che estensivo: Dio crea e salva ogni uomo e tutti gli uomini. Corrispondere alla chiamata di Dio e amarlo con tutto il nostro essere va inseparabilmente unito al compito di portare il suo amore a tutto il mondo[15].
La conoscenza e l’ammirazione del potere, della sapienza e dell’amore di Dio conducono l’uomo a una disposizione di riverenza, adorazione e umiltà, a vivere alla presenza di Dio sapendo di essere suoi figli. Allo stesso tempo, la fede nella Provvidenza porta il cristiano ad un atteggiamento di fiducia filiale in Dio in tutte le circostanze: con gratitudine per i beni ricevuti e con abbandono davanti a ciò che può sembrare cattivo, perché Dio sa trarre dai mali beni più grandi.
Cosciente che tutto è stato creato per la gloria di Dio, il cristiano si adopera per comportarsi in tutte le sue azioni cercando il fine autentico che riempia la sua vita di felicità: la gloria di Dio, non la vanagloria personale. Si sforza di rettificare l’intenzione delle proprie azioni, in modo che si possa dire che l’unico fine della sua vita è questo: Deo omnis gloria[16].
Dio ha voluto mettere l’uomo al vertice della sua creazione dandogli il dominio sul mondo, in modo che lo perfezioni con il suo lavoro. L’attività umana, dunque, può essere considerata come una partecipazione all’opera creatrice di Dio.
La grandezza e la bellezza delle creature suscita nell’uomo ammirazione, risveglia in lui l’interrogativo circa l’origine e il fine suo e del mondo, e gli fa intravedere la realtà del loro Creatore. Il cristiano, nel suo dialogo con i non credenti, può suscitare questi interrogativi in modo che le intelligenze e i cuori si aprano alla luce del Creatore. Nello stesso modo, nel suo dialogo con i seguaci di altre religioni, il cristiano trova nella verità della creazione un eccellente punto di partenza, in quanto si tratta di una verità condivisa da molti e che costituisce la base per il consolidamento di alcuni valori morali fondamentali della persona.

Santiago Sanz

Saint Peter and Saint Paul

Saint Peter and Saint Paul dans immagini sacre sts-peter-and-paul

http://tomperna.org/2012/06/29/saints-peter-and-paul-apostles-and-pillars-of-the-christian-church/

Publié dans:immagini sacre |on 27 juin, 2014 |Pas de commentaires »

GREGORIO PALAMAS – OMELIA 28: PIETRO E PAOLO

http://www.gregoriopalamas.it/omelia_28.htm

GREGORIO PALAMAS – OMELIA 28: PIETRO E PAOLO

La memoria di ciascuno dei santi, che si celebra in questo giorno di festa, è portatrice di comune gioia per popoli e città, sudditi e principi e offre grandissimo giovamento a tutti coloro che di questa festa sono partecipi. La memoria del giusto è unita alle lodi, dice Salomone, il sapiente. Quando un giusto è lodato si rallegrano i popoli. Come infatti nella notte, quando si accende una lucerna, la luce appare per il vantaggio e il godimento di tutti i presenti, così avviene per la vita di ciascuno dei santi, vita cara a Dio, per la loro morte beata e per la grazia donata da Dio a ciascuno per la purezza della sua vita. Quando è celebrata la memoria del santo, avviene come se una fiaccola splendente offrisse a tutti coloro che sono insieme adunati letizia spirituale e giovamento. E come, quando viene sulla terra un tempo di fecondità, si rallegrano non solo i contadini, ma tutti gli uomini il godimento dei frutti della terra, infatti, è comune a tutti così anche i frutti prodotti dalla virtù dei santi rallegrano non solo colui che coltiva i1 campo delle anime, ma tutti noi, come frutti offerti a comune delizia e vantaggio delle nostre anime; poiché anche in questa vita tutti i santi, con la loro presenza, sono incitamento alla virtù per tutti coloro che li ascoltano e rivolgono ad essi il loro sguardo con intelligenza. I santi, infatti, sono immagini viventi della virtù; colonne di ogni bellezza, muovono di loro slancio verso di noi; libri viventi e parlanti che ci guidano al bene e che ci allontanano dalla vita di quaggiù attraverso la memoria delle loro virtù, immortale preservano per noi il frutto che da essi proviene. Memoria della loro santità è la lode, che noi ad essi dobbiamo per il bene arrecato con la loro vita, utile a noi e ora presente attraverso i frutti che dalla loro santità giungono a noi.
Nulla aggiungiamo alla loro felicità, quando facciamo memoria delle loro opere. Come infatti potremmo, noi che non siamo neppure capaci di farci un’idea di tutta la loro virtù? Essi furono premiati con le indicibili ricompense promesse loro da Dio, per quanto la natura permetteva di dimostrare il loro degno modo di vivere, cioè in tutto vincitore. Con le nostre lodi non accresceremo, dunque, la loro felicità, ma accresceremo il bene che da quelli giunge a noi, se tenderemo verso di loro come a lucerne accese di luce divina e se cercheremo di comprendere e di accogliere sempre più il dono di bellezza che da loro giunge a noi. E se la memoria di ciascuno dei santi è compiuta da noi con inni e lodi convenienti, quanto più non sarà celebrata la memoria dei santi Pietro e Paolo, la vetta più alta del sublime coro degli apostoli? Essi sono padri comuni e guide di tutti coloro che sono chiamati da Cristo, degli apostoli, dei martiri, dei santi, dei sacerdoti, dei sommi sacerdoti, dei pastori e dei maestri; sono come sommi pastori di chi è condotto al pascolo e di chi è ammaestrato, costruttori della pietà e della virtù di tutti quanti e, come astri nel mondo, tengono alta la parola di vita e di tanto superano nel loro fulgore coloro che brillano per vita di fede e virtù, quanto il sole supera le altre stelle o come i cieli dei cieli che narrano la gloria dell’altissimo Dio; e di tanto superano l’immensità dei cieli, la bellezza degli astri, la velocità di entrambi, e il loro ordine e la loro potenza, quanto fanno luce sulle cose sensibili indirizzandole alle verità che sovrastano il cielo e il cosmo. Essi emanano una luce in cui non è variazione né ombra di cambiamento, e non solo ci conducono dalla tenebra a questa mirabile luce 6, ma anche ci fanno partecipi della luce, figli di quella luce perfetta; ciascuno di essi, quando sarà il tempo della venuta e della manifestazione del principe della luce, il Verbo uomo-Dio, brillerà come il sole. Tali astri, sorti insieme oggi per noi, illuminano la chiesa; la loro unione produce non eclissi, ma sovrabbondanza di luce. Non accade che l’uno si muova nelle altezze, mentre l’altro sta sotto, in modo che chi sta sotto oscura l’altro; né che l’uno compia la sua orbita di giorno, l’altro di notte, in modo che, muovendo all’inverso, si inabissi nell’ombra; e neppure che l’uno emetta la luce e l’altro la riceva dal primo, in modo da essere soggetto a mutamento per effetto di quello, ricevendo ora l’uno ora l’altro l’illuminazione a seconda della distanza; ma entrambi partecipano in egual misura di Cristo, fonte perenne della perenne luce, uguale possiedono l’altezza, la gloria, lo splendore. Reciproca è quindi l’unione di queste luci, e duplice chiarore fornisce alle anime dei credenti.
Ma colui che primo si ribellò e fece ribellare a Dio il primo uomo, vedendo che colui che aveva plasmato Adamo, padre del genere umano, stava plasmando Pietro, padre della stirpe dei veri adoratori di Dio, e non solo vedendo, ma anche udendo che Dio gli diceva: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa il principe del male, con la sua invidiosa perversità, tendeva insidie anche a Pietro, il capo della stirpe dei fedeli a Dio, come aveva fatto un tempo con Adamo, il capo della stirpe degli uomini. Sapeva che Pietro era dotato di intelletto e infiammato d’amore per Cristo e non osò attaccarlo di fronte, ma come di traverso, dal fianco destro, con inganno furtivo si apprestava a scatenarlo contro il suo dovere. E, al tempo della passione che fu nostra salvezza, quando il Signore disse ai discepoli: Voi tutti in questa notte vi scandalizzerete di me, egli non credette e si oppose a queste parole, dicendo: Anche se tutti si scandalizzeranno, io non mi scandalizzerò. Egli prese le distanze dagli altri, tratto in inganno dalla presunzione; e così, umiliato più degli altri, quando venne il tempo, apparve più luminoso degli altri, e non avvenne a lui come ad Adamo che, tentato, fu vinto e trascinato in basso fino alla fine, ma tentato, fu trascinato per un poco e alla fine vinse il tentatore. Come? Col suo immediato rimorso, col suo grande dolore e pentimento, e con le lacrime, rimedio efficace per placare Dio. Sta scritto: Dio non disprezzerà un cuore contrito e umiliato. La tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile, che è fonte di salvezza, e: Chi semina nelle lacrime, nella letizia mieterà il perdono.
Riflettendo si potrebbe vedere che Pietro non solo pose un rimedio adeguato al rinnegamento, nel quale era stato trascinato, convertendosi e dando prova di un profondo dolore, ma anche sradicò dal suo cuore quella passione da cui, più degli altri, era stato vinto. Il Signore, volendo mostrare questo a tutti, dopo aver sofferto nel suo corpo la passione per noi e dopo essere risuscitato al terzo giorno, rivolse a Pietro le parole che oggi abbiamo letto nell’evangelo: « Simone figlio di Giovanni, mi ami più di costoro, cioè, dei miei discepoli? ». Osserva la sua conversione a un’umiltà più grande del suo peccato; prima, anche senza essere interrogato, anteponendosi agli altri, aveva detto: Anche se tutti si scandalizzeranno, io non mi scandalizzerò »; ora, interrogato se amasse il Signore più degli altri, ammetteva di amarlo, ma non diceva di amarlo di più: Sì, Signore, tu sai che ti voglio bene ». E allora il Signore, dopo aver dimostrato che Pietro non si era allontanato dall’amore per lui e si era umiliato, adempie palesemente la promessa che da molto tempo gli aveva fatto, e gli dice: Pasci i miei agnelli. E quando definisce « edificazione » l’adunanza di coloro che credono in lui, promette che stabilirà Pietro come fondamento, dicendo: Tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia chiesa. E quando il discorso passa alla pesca, lo fa pescatore di uomini, dicendo: D’ora in poi sarai pescatore di uomini. E quando chiama « gregge » i suoi, ne fa pastore Pietro, dicendo: Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore.
È tempo di considerare, fratelli, quanto il Signore desideri la nostra salvezza: a un punto tale da richiedere a coloro che lo amano null’altro se non di guidarli al pascolo e all’ovile della salvezza. Cerchiamo di provare anche noi desiderio della nostra salvezza, e prestiamo ascolto a coloro che, con i fatti e le parole, ci guidano ad essa. È necessario che ciascuno di noi bussi alla porta che conduce alla salvezza, ed è subito presente la guida, preparata dal Salvatore di tutti, colui che ci conduce alla salvezza, prontissimo per la sovrabbondanza del suo amore per gli uomini, spontaneamente venuto, o, meglio, spontaneamente invitatosi. Tre volte lo interroga il Signore, perché, con la triplice risposta, Pietro faccia la sua bella confessione e attraverso la triplice confessione guarisca il triplice rinnegamento; e per tre volte lo pone a capo dei suoi agnelli e delle sue pecore, affidando a Pietro i tre ordini di coloro che devono essere salvati, i servi, i mercenari, i figli, ovvero la verginità, la vedovanza casta, il matrimonio secondo la legge.
Ma Pietro, più e più volte interrogato se amasse Cristo, si addolorò per le numerose domande, pensando di non essere creduto. Sapeva infatti di amare Cristo, e neppure ignorava che colui che lo interrogava lo conosceva più di quanto egli stesso si conoscesse; stretto da ogni parte, non solo dichiarava di volergli bene, ma proclamò che quello a cui voleva bene era il Dio di tutte le cose, dicendo: Tu, Signore, sai tutto, tu sai che ti voglio bene; il sapere ogni cosa, infatti, appartiene soltanto al Dio dell’universo. E il Signore, non solo elegge pastore, e pastore sommo di tutta la sua chiesa colui che dal profondo del suo cuore aveva fatto questa confessione, ma gli promette che lo cingerà di tanta forza da renderlo capace di resistere fino alla morte, e alla morte di croce; e sì che prima dell’infusione di questa forza Pietro non era stato in grado di reggere alla domanda e alla chiacchiera di una giovinetta . Così disse a Pietro il Signore: In verità, in verità ti dico: quando eri giovane, ti cingevi della giovinezza del corpo e dello spirito, cioè ti potevi valere della tua forza, e andavi dove volevi, ti muovevi da te e vivevi secondo le scelte della tua natura, ma quando sarai vecchio, giunto all’estremo dell’età fisica e spirituale, stenderai le tue mani – e con queste parole voleva sottintendere la morte di croce e testimoniava che non contro il suo volere Pietro avrebbe accettato di essere steso sulla croce stenderai le tue mani, e un altro ti cingerà, cioè ti darà forza, e ti condurrà dove tu non vuoi, allontanandoti dalla vita degli uomini. La natura infatti non vuole dissolversi nella morte; con queste parole dimostra la disposizione della nostra natura verso la vita e insieme la capacità di Pietro di sottoporsi a un martirio che supera le forze della natura. Dice il Signore: « Sopporterai volentieri quelle sofferenze per me, da me rafforzato a darmi testimonianza, poiché la natura non è fatta per sopportare con le sue forze quanto è superiore ad essa ».
Tale dunque è Pietro, ed è conosciuto da pochi. E che dire di Paolo? Quale, o piuttosto, quali e quante lingue saranno in grado di mostrare, anche in misura modesta, la sua perseveranza per Cristo fino alla morte? Lui che ogni giorno moriva, o, meglio, come morto viveva, non più vivo, come egli stesso dice, ma avendo in sé il Cristo vivente . Per l’amore di Cristo non solo riteneva tutto una perdita , ma anche la vita futura egli poneva al secondo posto confrontandola con Cristo. Dice: Sono convinto che né morte, né vita, né il presente, né il futuro, né altezza, né abisso potranno separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù. Aveva per Dio una passione tale da appassionare anche noi dell’amore di Dio. E a chi sarà inferiore, se non a Pietro solo, di tutti i suoi pari? Quale fu nell’umiltà, ascoltalo quando dice di sé: lo sono il minimo fra gli apostoli, non sono neppure degno di essere chiamato apostolo. E dal momento che Paolo è uguale a Pietro nella confessione, nella passione, nell’umiltà, nell’amore, non ottenne forse i medesimi premi da parte di colui che tutto pesa e misura con somma giustizia? E come può essere questo? A Pietro Cristo dice: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa ; e di Paolo così parla ad Anania: Questi è il mio vaso di elezione, che porterà il mio nome davanti alle genti e ai re. Quale nome? Certamente quello che per noi è stato chiamato « chiesa di Cristo », che Pietro sostiene come fondamento. Vedete dunque quanto grande sia l’uguale splendore e onore di Pietro e di Paolo, e come da entrambi sia sostenuta la chiesa di Cristo? Per questo anche la chiesa ora tributa ad essi un solo e identico onore, celebrandoli entrambi con reciproca lode nella festa di oggi.
Ma noi, che abbiamo visto il loro sviamento, cerchiamo di imitare il loro ritorno, se non nel resto, almeno nella loro correzione attraverso l’umiltà e la penitenza. Infatti le loro altre opere, grandi e sublimi, si addicono ai grandi e dai grandi possono essere imitate, e ve ne sono alcune che non possono essere imitate da tutti; ma la correzione attraverso la penitenza si addice a noi più che a quelli, a noi, con le nostre cadute quotidiane, che da null’altro abbiamo speranza di salvezza, se non la conseguiamo mediante un’ininterrotta penitenza. Alla penitenza ci guida il riconoscimento delle nostre cadute, punto di partenza per ottenere la misericordia. Dice a Dio il salmista profeta: Pietà di me, poiché io riconosco il mio peccato e, riconoscendo il proprio peccato, attirò a sé la misericordia e, confessando e biasimando se stesso, ottenne la completa remissione dei peccati. Ho detto dice il profeta confesserò al Signore contro di me il mio peccato, e tu hai perdonato l’empietà del mio cuore. A1 riconoscimento dei propri peccati consegue la condanna di sé; a questa il dolore per i peccati, che Paolo definì secondo Dio. E a questo dolore secondo Dio naturalmente consegue la confessione a Dio con cuore contrito, la supplica e la promessa di tenersi per l’avvenire lontani dal male: questo è la penitenza.
Per questo Manasse fu liberato dalla condanna per i suoi peccati, sebbene fosse caduto nell’abisso di numerose e gravi cadute, e in esse fosse stato sballottato per una lunga serie di anni. E a David il Signore non solo condonò il peccato, per la sua penitenza, ma non gli tolse il dono della profezia. Con la penitenza anche Pietro non solo si risollevò dalla caduta e ottenne il perdono, ma gli fu assegnato il principato nella chiesa di Cristo. E anche Paolo troverai che si adoperò per questa, egli che, dopo la conversione e l’avanzamento, raggiunse una familiarità con Dio superiore agli altri; la penitenza infatti, se nasce sincera dal cuore, convince il penitente a non commettere più peccati, a non attaccarsi agli uomini corrotti, a non rimanere incantato di fronte ai piaceri non buoni, ma a disprezzare i beni presenti, aspettare i futuri, lottare contro le passioni, tendere alle virtù, conservare il dominio su tutto, vegliare nelle preghiere rivolte a Dio, astenersi dal guadagno ingiusto, essere misericordioso con quelli che peccano contro di lui, clemente verso chi lo supplica, prontissimo ad aiutare come può, con parole, opere, denaro chi ha bisogno del suo aiuto; egli si piega col cuore verso tutti, per acquistare amore con l’amore, ottenere da Dio la ricompensa per il suo amore verso il prossimo, attirare su di sé la divina benevolenza, e conseguire l’eterna misericordia, la benedizione e la grazia di Dio che attraversa i secoli. A tutti noi sia dato di ottenere questi doni per l’amore dell’unigenito Figlio di Dio, al quale si addice gloria, potenza, onore e adorazione insieme con il Padre senza principio e allo Spirito santissimo, buono e datore di vita, ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen.

OMELIA PER LA SOLENNITÀ DEI SS. PIETRO E PAOLO – Ignazio Sanna (2008)

http://www.ignaziosanna.com/files/Omelia-Solennita-SS-Pietro-e-Paolo-29-06-08.pdf

OMELIA PER LA SOLENNITÀ DEI SS. PIETRO E PAOLO

Ignazio Sanna

(Cattedrale di Oristano, 29 giugno 2008)

0. La solennità odierna fa memoria di Pietro e Paolo, due personalità differenti, due itinerari di vita e di predicazione distanti, un’unica passione per Cristo e un unico martirio nella città del potere imperiale. Le letture della memoria dei due apostoli ci offrono diversi spunti di riflessione per iniziare con vero profitto la celebrazione dell’anno paolino. Questa sera vorrei riflettere con voi sul comportamento della Chiesa primitiva di fronte all’arresto di S. Pietro, sulla domanda di Gesù ai suoi discepoli circa la sua identità, sulla conservazione della fede da parte di S. Paolo.
1. Per quanto riguarda la reazione di fronte all’arresto di S. Pietro, gli Atti degli Apostoli ci descrivono la comunità che prega incessantemente per il proprio pastore. Per un verso, questo fatto rivela con quale mezzo la comunità cristiana affrontava la lotta contro i potenti del mondo. Per un altro verso, l’irruzione dell’angelo nel carcere per liberare S. Pietro mette in evidenza che la vita della Chiesa è sempre sotto la protezione divina. Da subito, infatti, si avvera la profezia di Gesù, secondo la quale le porte degli inferi non prevarranno contro la Chiesa. Le porte degli inferi
moderne, oggi come oggi, sono le centrali laiciste del pensiero unico, la quantità dei luoghi comuni, le ideologie anticlericali che gettano discredito sulla vita della Chiesa. Oggi come allora la Chiesa viene attaccata in diversi modi e con diversi intenti. Si scrivono molti libri contro di essa. La si accusa di ingerenza nel potere secolare, di favorire le guerre, di rovinare i bambini. Ma la promessa di Gesù di “non praevalebunt” ne preserva la durata nel tempo e la natura di mediatrice di salvezza. Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, che la Chiesa siamo noi e che “noi siamo la Chiesa”. Quando pensiamo alla Chiesa spesso la identifichiamo con la gerarchia, i preti, le suore. Eppure, Chiesa siamo tutti noi, popolo di Dio, chiamato a testimoniare la novità e originalità della fede cristiana. La Chiesa sono le nostre parrocchie, che nei singoli paesi sono come la fontana del villaggio alla quale attingono tutti, senza discriminazione di razza o di cultura. Sono gli oratori dove si sono formati tanti politici e tanti professionisti che hanno dato il meglio di sé nell’esercizio delle diverse professioni. La Chiesa sono anche le Caritas diocesane e parrocchiali che gestiscono le emergenze della povera gente, per lo più non conosciute dall’opinione pubblica. La Chiesa sono anche le suore
di Madre Teresa, che si prendono cura degli emarginati rifiutati dalla società civile, e non assistiti dalle istituzioni dello Stato. La Chiesa sono anche i fedeli delle nostre parrocchie, che hanno reso possibile l’acquisto di alcuni sintetizzatori vocali per i nostri malati di sla. Quanti eroismi segreti dei nostri fedeli che non si conoscono, perché gli alberi che crescono non fanno rumore mentre l’albero che cade fa molto rumore! Quanti esempi di altruismo e di generosità che non hanno né testimoni né sponsor, ma che alleviano dolori, curano ferite, creano speranza, accompagnano solitudini!
In tutte queste circostanze la Chiesa risana ed eleva la dignità umana non limitandosi solamente a chiedere che la dignità inalienabile di ogni uomo sia giuridicamente garantita, ma anche che sia concretamente rispettata e chenon venga mai messa a libera disposizione della società neppure nei casi conflittuali. Inoltre, la Chiesa promuove e difende la dignità di ogni persona, sostenendo che il non poter disporre della vita umana neppure in situazioni difficili dipende dalla convinzione di sentirsi sempre sorretti dalla potenza infinita di Dio, amante della vita e non della morte. Per la fede cristiana, infine, la verità definitiva dell’uomo è manifesta solo nella verità di Dio su di lui; l’uomo non è in grado di procurarsela da solo, ma la può percepire unicamente nella fede, facendo propria la verità di Dio. Se si dovesse sintetizzare la funzione della Chiesa nella difesa e promozione della dignità dell’uomo e nell’affermazione dei suoi diritti fondamentali, si può dire che essa svolge sostanzialmente il ruolo di « sentinella di umanità », in una posizione che non la colloca all’esterno, come dirimpettaia della storia, per intervenire solo con denunce e documenti, ma che la coinvolge con le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, non essendovi nulla di genuinamente umano che non trovi eco nel suo cuore (GS, 1).
La Chiesa svolge il ruolo di sentinella di umanità , in modo particolare, con l’offrire al mondo un’antropologia della persona, rispettosa dei valori umani e aperta alla trascendenza. La fede cristiana, con la sua particolare visione dell’uomo creato ad immagine di Dio, redento dal sangue di Cristo e destinato a vivere eternamente con Dio, contribuisce enormemente a dare un fondamento molto solido alla concezione dell’eminenza della persona e della inviolabilità della sua dignità. Non siamo lontani dal vero se affermiamo che in assenza di una visione religiosa dell’uomo, ogni difesa razionale della dignità assoluta e inalienabile della persona, per quanto sempre possibile, rimane
problematica e precaria. In realtà, solo chi ha un concetto alto di Dio ha anche un concetto alto dell’uomo, e chi ha un concetto alto dell’uomo non può non avere un concetto alto di Dio.
2. La domanda di Gesù ai discepoli circa la sua identità, riportata dall’evangelista Matteo, corrisponde ad un invito a compiere un esame di coscienza della nostra fede e della nostra spiritualità. Qual’ è la nostra fede in Gesù come il Cristo, Figlio del Dio vivente? Per l’islàm, Gesù
è solo un profeta, un messaggero di Dio. Egli è solo un uomo che ha portato un messaggio, ma non è Dio. La professione della divinità di Gesù è una bestemmia. Anche per gli ebrei, Gesù è solo un profeta che non ebbe alcunché da fare con il cristianesimo o la Chiesa. Sarebbero stati i seguaci di Gesù, di origine ellenistica, coloro che lo divinizzarono. Se, però, Gesù viene considerato solo come un profeta, o come un maestro di morale, non potrà
essere accettato come l’unico maestro di morale, perché la morale è un patrimonio comune dell’umanità ed i percorsi di maturazione etica sono tanti e differenziati. Se Gesù viene considerato, invece, come salvatore, come tale, è unico, e, perciò, può essere accettato, in quanto salvatore assoluto, come colui che non solo garantisce la salvezza parziale nella storia, ma soprattutto la salvezza escatologica nella vita eterna. La morale dei potenti, dei superuomini, non può accogliere la morale di un crocifisso. Ma il bisogno profondo di salvezza assoluta, radicato nel cuore di ogni
uomo, può accogliere un salvatore assoluto, che liberi in maniera definitiva da ogni forma di male e di sofferenza. Gesù ci ha portato Dio, ossia la salvezza dal male e dalla morte. Non si può scambiare questo Dio con un programma di promozione umana.
3. S. Paolo, scrivendo a Timoteo al termine della sua esistenza, guarda indietro agli anni della sua predicazione, dei suoi viaggi, del suo impegno missionario, e afferma di aver conservato la fede. In altri termini, egli afferma di essere rimasto un credente nonostante le avversità della vita, e, indirettamente, fa vedere che la perseveranza nella fede non è mai scontata per nessuno. Lo stesso Gesù, in un momento critico del proprio cammino esistenziale, pregò per Pietro, perché non venisse meno la sua fede (Lc 22, 31-32). Nessuno, infatti, è confermato nella grazia di Dio. Ogni santo è un
peccatore in potenza, così come ogni peccatore è un santo in potenza. La fede è un dono di Dio, prima ancora che una conquista umana. Pietro riconosce in Gesù il Figlio di Dio, perché glielo ha rivelato il Padre (Mt 16, 17). Paolo ha conosciuto l’evangelo e il Figlio Gesù Cristo, per rivelazione di Dio (Gal 1, 12.16). Tutti noi abbiamo ricevuto il dono della fede non per mezzo di una rivelazione particolare, ma con il sacramento del battesimo. Dobbiamo conservare questo dono scrupolosamente, memori sia della preghiera con la quale gli apostoli chiedevano che venisse aumentata la propria fede (Lc 17, 6), sia della terribile domanda di Gesù che, un giorno, ebbe a chiedere se il Figlio dell’Uomo al suo ritorno in terra avrebbe trovato ancora la fede (Lc 18, 8). Mi auguro che quest’anno pastorale dedicato alla Parola ci aiuti a capire l’importanza di questo dono e la necessità di custodirlo con la testimonianza della vita e la coerenza dei comportamenti. Ci accompagni e ci protegga sempre Maria, Madre della Chiesa e Vergine fedele. Amen.

Revelation of the Sacred Heart

Revelation of the Sacred Heart dans immagini sacre 17-85-3F2-134-R2

http://www.michiganstainedglass.org/collections/window.php?id=17-81-3B3

Publié dans:immagini sacre |on 26 juin, 2014 |Pas de commentaires »
12345...10

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01