“CHI TROVA UN AMICO, TROVA UN TESORO”…LO DICE LA BIBBIA! – CARD. GIANFRANCO RAVASI
“CHI TROVA UN AMICO, TROVA UN TESORO”…LO DICE LA BIBBIA!
L’AMICIZIA È UN GRADINO DELLA SCALA DELL’AMORE PER DIO
CARD. GIANFRANCO RAVASI
Una forma essenziale e vitalissima di questo amore che sfida la solitudine e sopravvive alle inclemenze del tempo e della storia è l’amicizia. Ne parleremo fondandoci, naturalmente, sulla concezione biblica dell’amicizia, ma non trascurando di allargare l’orizzonte verso altre visioni spirituali e umane di questa che è insieme una virtù e un dono.
“Di tutti quei beni che la sapienza procura per la felicità il più grande è l’acquisto dell’amicizia”. Questa, che è una delle Sentenze di Epicuro (n. 27), esprime in modo lapidario l’apprezzamento costante che l’amore amicale ha goduto in tutte le culture, al punto da costituire una vera e propria tipologia letteraria, filosofica e psicologica. La Bibbia celebra a più riprese questa relazione “assolutamente indispensabile alla vita, perché senza amici nessuno vorrebbe vivere, pur se ricco di tutti gli altri beni”: il Siracide intesse un vero e proprio elogio dell’amicia (6,5-17; cfr. 37,1-6), elaborando tra l’altro il detto proverbiale secondo il quale “chi trova un amico, trova un tesoro” (6,14).
Emblematica è la figura amicale incarnata da Davide e Gionata. Facile è anche evocare l’amicizia di Cristo nei confronti dei discepoli, chiamati “amici” e non “servi” (Gv 15,14-15). Potremmo allegare altri esempi storici di amicizia, a partire dal legame di Paolo con Timoteo, Tito, Filemone e con i Filippesi, per passare attraverso il rapporto tra san Francesco e santa Chiara, tra san Girolamo e Paola ed Eustochio, tra san Francesco di Sales e santa Giovanna Frémiot de Chantal, e giungere infine al sodalizio tra Hans Urs von Balthasar e Adrienne von Speyr, esempi nei quali è significativa anche la complementarietà dei due sessi.
L’amicizia, però, pur avendo una sua componente sentimentale, va oltre la sessualità e l’eros; supera l’utilitarismo e l’interesse e si insedia nel campo della libera donazione, della comunione e dell’intimità di vita e di esperienza. E’ per questo che Aristotele la collca soprattutto nella sfera personale e nella categoria della virtù. Cicerone nel suo Lelio o dell’amicizia (c. 3) dichiara, anzi, che “è la virtù che produce l’amicizia […]. E’ un’alleanza che offre agli uomini il mezzo migliore e più felice per camminare insieme verso il bene supremo”.
Questa qualità etica dell’amicizia è puntualizzata da Tommaso d’Aquino, che però riconduce il legame amicale a una dimensione più ampia di taglio sociale, confermando la tesi secondo cui l’amicizia “più che una virtù, è una conseguenza della virtù”. Emergono, così, sostanzialmente due volti dell’amicizia. Il primo è quello del dialogo e della comunione interpersonale generato dalla libertà, dalla simpatia anche dallo Spirito d’amore, dalla grazia “caritativa”. C’è, dunque, un aspetto di intimità e di “solitudine” tra i due, messo già in evidenza da Aristotele e da Cicerone e così esplicitato da Plutarco: “L’amicizia si compiace della compagnia, non della folla […]. Se si divide un fiume in diversi canali, il suo corso diventa debole e sfinito. Così è dell’amicizia: s’indebolisce a misura che si divide”. Agostino nelle Confessioni, parlando del legame con un amico carissimo morto, afferma: “Io percepii come l’anima mia è l’anima sua erano un’anima unica in due corpi; perciò avevo in orrore la vita poiché non volevo vivere dimezzato” (4, 6, 2).
E’ un vincolo che nel fedele si trasforma nella philadelphía, cioè nella fraternità cristiana. Pensiamo al rapporto intenso di sant’Ambrogio con i fratelli carnali Satiro e Marcellina. San Bernardo scrive al riguardo cose molto fini anche dal punto di vista psicologico non solo nei suoi Sermoni sul Cantico, ma anche nel suo epistolario. A Ermengarda, già contessa di Bretagna, confessa: “Il mio cuore è al colmo della gioia quando so che il vostro è in pace; la vostra soddisfazione genera la mia; quando il vostro animo sta bene, il mio si sente pieno di salute […]. Provo sempre gioia maggiore a venire da voi, perché preferisco vedervi anche solo di quando in quando piuttosto che non vedervi del tutto” (Lettera 117). Al contrario, il padre della Chiesa di Cappadocia, san Basilio (IV secolo), nelle sue Costituzioni monastiche sarà severo denunciando il rischio di amicizie particolari e del formarsi di gruppi, capaci di frazionare la vita comunitaria.
E’ necessario, in verità, conservare l’equilibrio tra le due esigenze. E’ legittimo il comporsi di un dialogo personale, di un collegamento più ristretto di ideali e di sintonie, purché non degeneri in esclusivismo e in grettezza e gelosia. Lo scrittore monastico Giovanni Cassiano (IV secolo) nelle sue Conferenze spirituali distingue tra l’agápe, l’amore sempre e a tutti necessario, anima dell’esistenza personale e comunitaria, e la diáthesis, che è l’amicizia (o “carità affettiva”) rivolta a coloro con i quali si ha un legame più diretto. L’elemeno capitale nell’amicizia cristiana è appunto il riconoscimento che è essa è un riflesso dell’amicizia di Dio per ogni sua creatura e del Cristo per i suoi discepoli. E’ per questo che lo scrittore spirituale medievale inglese Aelredo di Rievaulx (1109-1167) nel suo classico scritto L’amicizia spirituale è convinto che nella relazione amicale perfetta “l’uomo mediante l’amico diventa amico dell’Uomo-Dio”.
L’amicizia è un gradino della scala dell’amore per Dio; nel viso dell’amico si riflette il volto di Cristo. E’ ciò che già san Pier Damiani (1007-1072), cardinale e celebrato autore di testi teologici, affermava scrivendo a un amico: “Portando gli occhi sul tuo viso, a te che mi sei caro, io elevo il mio sguardo a colui che io desidero di raggiungere unito a te” (Lettera 2,12). Si configura, così, quell’amicizia spirituale o mistica che di sua natura s’irradia nell’altra dimensione, quella ecclesiale e sociale. Anzi, l’amicizia deve diventare – come spesso si sottolinea nei documenti del Concilio Vaticano II – una modalità di apostolato; l’evangelizzazione dev’essere sostenuta da un simile atteggiamento; la comunità ecclesiale deve più spesso coltivare al suo interno relazioni d’amicizia; il celibato e la verginità del sacerdote e dei consacrati non vengono appannati, ma sostenuti da una corretta amicizia sia con i confratelli e le consorelle sia all’esterno, con il popolo di Dio; i gruppi e i movimenti ecclesiali hanno in questa linea un modo per esprimersi e per operare efficacemente, premurandosi però di evitare esclusivismo e integralismi.
Potremmo definire l’amicizia come un carisma personale, dato però – come tutti i carismi – per il bene comune e animato dall’amore. Come si legge nell’Imitazione di Cristo: “Non devi volere che qualcuno sia tutto preso nel suo cuore da te o che il tuo cuore sia tutto preso dall’amore di qualche persona; ma fa’ che, sia in te sia in ogni altra persona giusta, regni Gesù” (2, 8, 3). E’ proprio per questa natura “aperta” che l’amicizia deve avere anche un rilievo sociale e politico. E’ ciò che ha messo in luce in modo provocatorio il giurista e filosofo tedesco Carl Schmitt (1888-1985), attento anche alle questioni teologiche (Teologia politica del 1922 e Teologia politica II del 1970). Nella sua opera Il concetto del politico (1927) Schmitt ha individuato la componente strutturale della politica proprio nella relazione di opposizione “Freund-Feind”, “amico-nemico” (così come il rapporto “buono-cattivo” caratterizza l’etica e il “bello-brutto” l’estetica). La politica è una relazione che si instaura tra gli uomini nel momento in cui scatta la possibilità di un conflitto: il nesso politico originario è fondato sull’associazione e sulla dissociazione che si basano sull’amicizia e sull’inimicizia. Ma Schmitt va oltre e vuole precisare su base evangelica il suo presupposto, rimandando a Mt 5,44: “Amate i vostri nemici”.
Egli, però, fa notare che il testo greco usa il termine echtrós, in latino inimicus, l’avversario personale, e non polémios, cioè hostis, il nemico pubblico. La distinzione, a suo avviso, è rilevante. Il nemico politico (hostis) non è colui per il quale nutriamo odi privati (cioè l’inimicus), bensì colui con il quale combattiamo una guerra. Gesù si limiterebbe, perciò, a invitare all’amore che perdona il nemico personale, l’inimicus, come per certi versi suggerivano i precetti epicurei o aristotelici.
Ben diversa sarebbe la questione riguardante l’hostis, il nemico sociale, nei cui confronti – sempre secondo Schmitt – è legittimo intraprendere l’azione bellica che la politica e il diritto non possono e non devono escludere o giudicare, ma solo regolamentare. E’ su questa dialettica tra amici e nemici che le comunità nazionali regolano all’interno e all’esterno la loro storia politica.
Lasciando tra parentesi la discussione su questa visione, facciamo notare che l’interpretazione del passo evangelico non è fondata né filologicamente né ideologicamente. Da un lato, infatti, il greco biblico (e quello tardo) non conosce la distizione lessicale evocata da Schmitt e sotto il termine echtrós colloca sia l’avversario privato sia il nemico pubblico. D’altro lato, poi, la prospettiva del Discorso della Montagna è di taglio radicale e totale, proponendo un modello che spezza e supera proprio quel realismo politico caro a Schmitt sulla scia di Machiavelli. Nella proposta di Cristo la tensione è verso la pienezza dell’amore che va oltre la giustizia retributiva in ogni ambito, privato e comunitario, e si protende all’infinito amore di Dio, come si ribadisce nel prosieguo della frase sull’amore per i nemici: “affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il suo sole sui cattivi come sui buoni e fa piovere sui giusti come sugli empi” (Mt 5,45).
Concludiamo la nostra breve riflessione su questa realtà umana così preziosa (e fragile) con una battuta presente in un saggio sull’amicizia del filosofo americano Ralph Waldo Emerson (1803-1882): “L’unico modo per avere un amico è essere un amico”. Detto in altri termini, la vera amicizia è reciproca, essendo uno dei tanti volti dell’amore. E l’amore esige donazione e non solo possesso, è dono ricevuto ed è impegno verso l’altro. Non per nulla il poeta latino Orazio nelle sue Odi (1, 3, 8) definiva l’amico come animae dimidium meae (“metà dell’anima mia”), definizione di stampo “nuziale” perché amicizia e amore, come si diceva, attingono alla stessa sorgente, pur avendo poi percorsi autonomi.
[Tratto da Gianfranco Ravasi, “Vivere nell'amore. Amatevi gli uni gli altri” (Edizioni San Paolo)]