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RISCOPERTA, RIPRISTINO E SVILUPPI DELLA PREGHIERA UNIVERSALE (Matias Augé)

dal sito:

http://www.rivistaliturgica.it/upload/2010/articolo6_893.asp

RISCOPERTA, RIPRISTINO E SVILUPPI DELLA PREGHIERA UNIVERSALE
 
Matias Augé

Scopo di queste pagine è illustrare come si è arrivati alla riscoperta dell’antica «preghiera dei fedeli»[1], chiamata anche preghiera «comune» o meglio ancora «universale», il suo recente ripristino nella liturgia romana e gli ulteriori sviluppi che essa ha conosciuto nei diversi documenti della Chiesa.

1. La riscoperta della «preghiera universale»

C’è un certo consenso tra gli autori per quanto riguarda l’esistenza nella messa romana dei primi sei secoli di una preghiera di supplica per intenzioni varie, collocata dopo la proclamazione del vangelo (e l’omelia) e prima dell’offertorio o preparazione dei doni. Questa preghiera sarebbe scomparsa a metà del secolo VI. Gli studiosi però non coincidono nel modo di spiegare le vicissitudini storiche di questo importante elemento eucologico.
Il problema della natura, struttura e funzione della preghiera universale nell’antica liturgia romana è stato discusso nel corso del secolo XX. Se ne sono occupati diversi studiosi[2]. Ci soffermiamo brevemente su due teorie che hanno meritato un’attenzione particolare, quella di B. Capelle[3] e quella di P. De Clerck[4].
Nella ricerca storica di B. Capelle, il punto di partenza è l’Apologia I di san Giustino, dell’anno 150 circa: la preghiera dei fedeli si fa dopo il vangelo e l’omelia, prima dell’offertorio; si prega «sia per noi stessi, sia per colui che sta per essere illuminato, sia per tutti gli altri, ovunque siano, al fine di essere degni di conoscere la verità, di meritare di essere riconosciuti nei fatti buoni cittadini e custodi dei comandamenti, e di essere ammessi all’eterna salvezza»[5]. In seguito abbiamo la testimonianza della Tradizione apostolica, n. 21 e di altri documenti nel corso dei secoli IV e V, fino a papa Felice III (483-492). Il suo successore, papa Gelasio I (492-496), avrebbe soppresso la preghiera dei fedeli dopo il vangelo, introducendo al suo posto una litania che si ispirava ai modelli greci, collocata però all’inizio della messa e costituita dalla supplica Kyrie eleison cantata dopo ogni invocazione; si tratta della cosiddetta Deprecatio Gelasii. È stato notato che i testi della Deprecatio lasciano più spazio alla menzione delle situazioni umane e delle disposizioni personali degli oranti. Finalmente, Gregorio Magno (590-604) avrebbe eliminato le varie intenzioni e lasciato solo il ritornello Kyrie eleison, più Christe eleison, come semplice acclamazione. L’adozione della Deprecatio Gelasii potrebbe spiegare la presenza, in alcuni formulari di messe dei più antichi Sacramentari (la raccolta di Verona e il Gelasiano antico), di una seconda orazione prima della preghiera sulle offerte; poteva infatti trattarsi di un’oratio post precem, preghiera sacerdotale che concludeva la Deprecatio.
Capelle nota, inoltre, che la preghiera dei fedeli non era un rito specificamente romano, ma lo si trovava dappertutto, in Occidente e in Oriente. Il parallelismo più impressionante, secondo lo studioso, è la preghiera dei fedeli dei libri II e VIII delle Costituzioni apostoliche, dove troviamo l’articolazione: pro… oremus… ut, che ricorda la struttura delle Orationes sollemnes del venerdì santo della liturgia romana, unica testimonianza della preghiera dei fedeli che sarebbe rimasta nel libri romani.
Secondo De Clerck, che mette in discussione alcuni elementi della tesi di Capelle, nella liturgia romana esisteva certamente una preghiera, che egli chiama «universale», tra il vangelo e l’offertorio, rimasta fino al secolo VI, quando sarebbe sparita per la concorrenza della litania processionale che precedeva la messa. Il Kyrie, sorto però come pezzo autonomo, sarebbe divenuto l’acclamazione finale aggiuntiva della litania. Nei giorni nei quali non si celebrava la litania, tale acclamazione avrebbe conservato la sua naturale autonomia; scomparsa definitivamente la litania, il Kyrie avrebbe ricuperato stabilmente la sua indipendenza.
Sia la teoria di B. Capelle che quella di P. De Clerck, di cui abbiamo dato una brevissima sintesi, hanno dei punti deboli messi in rilievo da diversi autori e ripresi, recentemente, da V. Raffa, secondo cui la notizia sulla preghiera dei fedeli trovata nelle Apologie di Giustino e meno chiaramente nella Tradizione apostolica, ha una sua propria spiegazione. Al tempo di Giustino non esisteva ancora a Roma una preghiera eucaristica stabilizzata, capace di albergare anche le intercessioni. Il testo della Tradizione apostolica, a parte che ormai non è accettata da tutti la sua rappresentatività della tradizione romana, menziona una preghiera dei fedeli a proposito di una celebrazione che non si sa fino a che punto rifletta la prima parte della messa. Delle altre testimonianze citate non si può escludere che si riferiscano alle intercessioni del canone della messa[6]. Da parte sua, però, A. Nocent e altri autori affermano che la preghiera universale o dei fedeli e le intercessioni anaforiche sono due realtà molto differenti: la preghiera universale propone (enuncia) delle domande, mentre le intercessioni elencano le intenzioni per le quali si offre il sacrifico eucaristico. Le due preghiere quindi hanno potuto coesistere senza porre dei problemi particolari[7].
Per quanto riguarda la Deprecatio Gelasii, K. Gamber, che ne ha pubblicato i testi, A. Chavasse e altri hanno provato che essa non aveva come risposta il Kyrie, ma: Dicamus omnes: Domine exaudi et miserere, o anche: Praesta Domine praesta[8]. Ci sono altri elementi nella storia della preghiera universale sui quali gli autori divergono. Bastano però questi pochi segnalati per farsi carico della problematica.
Le prime manifestazioni in favore della restaurazione o ripristino della preghiera universale sono degli anni ’50 del secolo scorso[9], però è attorno al 1960 che gli studi di J.-B. Molin fanno delle proposte concrete al riguardo[10]. Le proposte del Molin poggiano sulla sopravvivenza della preghiera dei fedeli nelle cosiddette «prières du prône» medioevali. Agli inizi del secolo X, troviamo un invito rivolto al popolo, dopo il sermone delle domeniche e feste, a pregare per diverse intenzioni. Questo costume si è diffuso nel corso del Medioevo; lo troviamo attestato in parecchie diocesi di Francia, Inghilterra, Germania e anche d’Italia. Nei paesi di lingua francese, le suddette preghiere si chiamavano appunto «prières du prône» (prône: cancellata che separava il coro dalla nave). V. Raffa afferma però che nessuna prova esiste sul fatto che queste preghiere del sermone siano, almeno nell’ambito della messa, la continuazione presbiterale della preghiera universale antica della liturgia papale[11].
Come abbiamo visto, le opinioni degli studiosi sull’origine e gli sviluppi della preghiera dei fedeli non sempre combaciano. In ogni modo, c’è un certo consenso per quanto riguarda l’esistenza nella messa romana dei primi sei secoli di una preghiera per intenzioni varie. Il Concilio Vaticano II ha raccolto il desiderio espresso a più riprese da diversi studiosi ripristinando l’antica preghiera dei fedeli o preghiera universale. In un lungo e documentato studio, F. Dell’Oro afferma che in realtà il contesto nel quale è stato realizzato il ripristino di questa preghiera è fondamentalmente quello caratterizzato dallo sviluppo dell’Ordo missae romano in area franco-germanica e che pertanto corrisponde alla seconda fase dello sviluppo della preghiera dei fedeli, cioè quella che va dal secolo IX/X in poi[12].

2. Il ripristino della «preghiera universale»

La Costituzione conciliare sulla liturgia così determina:

«Sia ripristinata dopo il vangelo e l’omelia, specialmente la domenica e le feste di precetto, la “preghiera comune” o “dei fedeli”, in modo che, con la partecipazione del popolo, si facciano preghiere per la santa Chiesa, per coloro che ci governano, per coloro che si trovano in varie necessità, per tutti gli uomini e per la salvezza di tutto il mondo» (SC 53).

La natura di questa orazione la si ricava dalla tradizione liturgica ed è fondata nel precetto paolino, a cui il testo conciliare rimanda:

«Raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possano condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio» (1Tm 2,1-2).

Nelle successive redazioni, che furono oggetto dello studio dei padri conciliari fino alla promulgazione del testo di SC 53 (nelle due prime redazioni, n. 40), ci sono state alcune varianti significative. Nelle due prime redazione si prescriveva questa preghiera «saltem diebus dominicis et festis de praecepto»; nelle due ultime redazioni, invece, si dice: «praesertim diebus dominicis e festis de praecepto». Non si esclude, quindi, che la nostra preghiera possa essere recitata in ogni celebrazione con la partecipazione del popolo. Le altre varianti riguardano una migliore e più ampia esplicitazione, nelle ultime due redazioni, del contenuto di questa preghiera[13].
A pochi giorni di distanza dalla creazione del Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, è stato redatto un abbozzo di riforma generale della liturgia, che si ritrova sostanzialmente nella stesura definitiva del «Piano generale per la riforma liturgica», un fascicolo presentato a Paolo VI il 15 marzo 1964. Per quanto riguarda il Messale, vi troviamo la «Preghiera comune o dei fedeli». Questo era il titolo iniziale; poi, a evitare ambiguità (ogni preghiera liturgica «comune» è «dei fedeli»), fu cambiato in «universale», in riferimento alla natura di questa preghiera[14]. Notiamo però che, come vedremo più avanti, nei documenti posteriori la terminologia ha continuato a essere diversificata: preghiera comune, universale o dei fedeli[15].
Nove mesi dopo la promulgazione di SC, l’Istruzione della Sacra Congregazione dei Riti Inter Oecumenici (26.09.1964), preparata per incarico di Paolo VI dal Consilium, contiene, al n. 56, alcune norme pratiche e provvisorie per l’applicazione di SC 53. Tre anni dopo, l’Istruzione Eucharisticum Mysterium (25.05.1967) della Sacra Congregazione dei Riti e del Consilium stabilisce, al n. 28, che nelle messe domenicali e festive anticipate alla sera del giorno precedente si celebri la messa indicata nel calendario per la domenica o per il giorno festivo, «senza affatto omettere l’omelia e l’orazione dei fedeli».
Il Consilium pubblicò alcune norme corredate di modelli per la preparazione della preghiera universale. Stampate prima «pro manuscripto», il 13 gennaio 1965, nel fascicolo: De oratione communi seu fidelium. Eius natura, momentum ac structura. Criteria atque specimina ad experimentum Coetibus territorialibus Episcoporum proposita, di pp. 32; in seguito nel volume: De oratione communi seu fidelium. Natura, momentum ac structura. Criteria atque specimina Coetibus territorialibus Episcoporum proposita, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1966, pp. 102. Quest’ultima edizione si distingue da quella «pro manuscripto» soltanto per i 54 schemi disposti secondi i tempi liturgici. Scopo del sussidio era di educare le assemblee eucaristiche a questa nuova forma di preghiera introdotta nella liturgia della messa[16].
Da segnalare ancora che nel sussidio: Cantus, qui in Missali Romano desiderantur, iuxta instructionem ad exsecutionem Constitutionis de sacra liturgia recte ordinandam et iuxta ritum concelebrationis, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1965, pubblicato dalla Sacra Congregazione dei Riti e dal Consilium, ed entrato in vigore il 7 marzo 1965, sono proposti alcuni toni per il canto della preghiera dei fedeli[17].
Aggiungiamo ancora che il gruppo di esperti del Consilium, incaricato della revisione delle litanie dei santi, notava che l’ultima parte delle litanie dei santi corrispondeva alla preghiera universale. Si proponeva, quindi, che nelle messe in cui si dicono le litanie, l’ultima parte delle stesse tenga il posto della preghiera universale, presentando intenzioni che riguardino sia il bene della Chiesa e del mondo, sia le persone e le cose per le quali si compie il rito, cioè i battezzati nella veglia pasquale, gli ordinandi, la chiesa o l’altare che vengono dedicati, ecc.[18].
Nel primo schema della cosiddetta «messa normativa», si diceva che la preghiera dei fedeli era un elemento strutturale e stabile della celebrazione, da non omettersi «in nessuna celebrazione, neppure nei giorni feriali e, in forma opportunamente adattata, neppure nelle messe private»[19].
Come si sa, la messa normativa è stata presentata e celebrata «ad experimentum» nel corso del Sinodo dei vescovi del 1967. Dopo questa dimostrazione, sono stati rivolti ai padri sinodali alcuni quesiti su questa messa. Nelle risposte dei padri, troviamo la seguente osservazione un po’ particolare sull’argomento di cui ci occupiamo:

«2. Osservazioni sulla liturgia della parola:
e) La preghiera universale non sembra necessaria in tutte le messe; si potrebbe fare dopo la comunione»[20].

La proposta non ha avuto un seguito.
3. La «preghiera universale» nelle diverse edizioni del Missale Romanum promulgato da Paolo VI

Con la Costituzione apostolica Missale Romanum di Paolo VI (03.04.1969) viene promulgato il nuovo Messale, introdotto dall’IGMR, dove, sotto il nuovo titolo «La preghiera universale» (Oratio universalis), i nn. 45-47 ne determinano natura, struttura e caratteristiche. Anzitutto la natura teologica:
«Nella preghiera universale, o preghiera dei fedeli, il popolo, esercitando la sua funzione sacerdotale, prega per tutti gli uomini». Si afferma poi che «è conveniente che nelle messe, con partecipazione di popolo, vi sia normalmente questa preghiera». In seguito, viene indicata la successione delle intenzioni: per le necessità della Chiesa; per i governanti e la salvezza di tutto il mondo; per quelli che si trovano in difficoltà; per la comunità locale. Le tre prime intenzioni le abbiamo trovate indicate in SC 53; ad esse si associa ora l’intenzione per la comunità locale con l’aggiunta che, in determinate celebrazioni (confermazione, matrimonio, esequie…), la successione delle intenzioni può venire adattata alla circostanza[21]. Finalmente, riprendendo e completando quanto aveva deciso Inter Oecumenici, viene determinata la struttura celebrativa: il sacerdote che presiede la celebrazione guida la preghiera, invitando, con una breve e adeguata monizione, i fedeli a pregare, e la conclude con un’apposita orazione. Le varie intenzioni sono proposte da un diacono o da un cantore o da qualche altra persona. L’assemblea esprime la sua preghiera con un’invocazione comune o pure pregando in silenzio.
In Appendice, il Missale contiene alcuni schemi o formulari (specimina) per la preghiera universale: due formulari generali, otto per i diversi tempi dell’anno liturgico (dall’Avvento al tempo ordinario), e uno per le messe dei defunti.
Nella seconda edizione tipica del Missale Romanum, apparsa il 26 marzo 1975, i numeri dell’IGMR che a noi interessano non hanno subito dei cambiamenti. Non così nella terza edizione tipica del Missale Romanum del 2002/2008, in cui l’Institutio è stata notevolmente modificata: i nn. 69-71 dell’IGMR, corrispondenti ai nn. 45-47 delle due edizioni anteriori, sono stati arricchiti con alcuni significativi elementi. Sul piano teologico, si aggiunge che con questa preghiera, «il popolo risponde in certo modo (quodammodo respondet) alla parola di Dio accolta con fede». Sul contenuto delle intenzioni, si dice che «siano sobrie, formulate con una sapiente libertà e con poche parole, ed esprimano le intenzioni di tutta la comunità». Per quanto concerne la struttura celebrativa, si precisa che il sacerdote guida la preghiera «dalla sede» e che le intenzioni si leggono «dall’ambone o da altro luogo conveniente». Altra novità della terza edizione del Missale è che nell’Appendice I si offrono alcuni toni gregoriani da adoperare nel canto della preghiera dei fedeli, particolarmente per l’invito e per l’acclamazione.
Notiamo che l’OLM del 1981, nelle premesse, aveva già interpretato la preghiera universale come una sorta di «risposta» alla parola di Dio proclamata: «Nella preghiera universale l’assemblea dei fedeli, alla luce della parola di Dio, alla quale in un certo modo risponde (quodammodo respondet), prega…» (OLM 30). L’IGMR della terza edizione tipica del Missale non ha fatto altro che riproporre quanto scritto nel suddetto OLM.
Alla fine di questo percorso, la novità più significativa è che per la prima volta i documenti ufficiali, l’OLM del 1981 e l’ultima edizione dell’IGMR sopra citati, fanno riferimento alla preghiera universale interpretata come «risposta» alla parola di Dio proclamata. Negli studi del settore e nella prassi pastorale, tale tendenza era emersa da tempo. Già nel 1964, A. Nocent, dopo aver ricordato lo svolgimento dell’azione liturgica descritto da Giustino (ascolto della parola di Dio, risposta dei partecipanti, omelia, preghiera comune dell’assemblea), affermava che la preghiera comune è «il frutto e l’esito dell’attività dinamica della parola di Dio proclamata e accolta. Essa è un zampillio di vita, un effetto dell’attuale presenza del Signore che oggi ha parlato e a cui si risponde con la preghiera»[22]. Lo stesso autore, vent’anni circa dopo, indicherà come prima caratteristica della preghiera universale il «mantenere il legame con le letture»[23]. L’opinione del Nocent è stata accolta da altri autori e ha avuto un certo esito nella prassi pastorale nonché, come abbiamo detto sopra, nei documenti ufficiali.
Nel 1983, P. De Clerck, coerentemente con quanto aveva affermato nei suoi studi precedenti, prese una posizione critica al riguardo della tendenza a concepire la preghiera universale come «risposta» alla Parola proclamata[24]. Secondo lo studioso, il problema sta nel sapere se la preghiera universale è la chiusura o meno della liturgia della Parola. Le testimonianze di Giustino e della Tradizione apostolica la presentano, piuttosto, come inizio della liturgia eucaristica. Secondo questi documenti, dopo il lavacro battesimale, i neofiti sono condotti «nel luogo in cui ci riuniamo per pregare in comune con fervore» (Giustino) e sono ammessi a pregare «insieme con i fedeli» (Tradizione apostolica). Il De Clerck rileva che questo è il significato originario della «preghiera dei fedeli», almeno in Oriente: quando i catecumeni sono stati congedati, i fedeli (che qui significa: coloro che hanno ricevuto il battesimo) rivolgono al Signore la loro preghiera. Se la distinzione tra la liturgia della Parola e la liturgia eucaristica è chiarificatrice, e quindi opportuna, non serve però farne due blocchi distinti. In questo modo si renderebbe più difficile il movimento d’insieme che deve caratterizzare la celebrazione eucaristica.
Più recentemente, V. Raffa, pur considerando la preghiera universale come conclusione naturale della liturgia della Parola, afferma che può essere considerata anche come «cerniera» fra le due parti della messa. Infatti, la parola di Dio ha sempre un carattere universalistico e quindi orienta a interessarsi della situazione dei bisogni dell’intera famiglia umana. L’Eucaristia, poi, è il sacrificio offerto dalla Chiesa per tutti gli uomini[25].

4. Conclusioni

Ci siamo limitati a illustrare in modo sintetico le origini, il ripristino e gli ulteriori sviluppi della preghiera universale o dei fedeli della messa. Abbiamo visto che le origini e primi sviluppi storici della nostra preghiera sono interpretati in modi alquanto diversi dagli autori. Il suo ripristino, auspicato da molti, è stato deciso dal Vaticano II. A. Bugnini ha scritto al riguardo:

«L’orazione comune è la “perla preziosa” che la restaurazione liturgica restituisce al “santo popolo di Dio”, secondo formulari già in uso, o stabiliti dalla competente autorità»[26].

Dall’insieme della documentazione liturgica si deduce una certa evoluzione terminologica che testimonia il desiderio di far sì che anche i termini contribuiscano a individuare meglio questo particolare tipo di preghiera. Senza arrivare a una terminologia unitaria, negli ultimi documenti – noi abbiamo citato solo i principali – prevale l’espressione «preghiera universale», da sola o anche abbinata a quella di «preghiera dei fedeli»[27].
Per quanto concerne la natura teologica della preghiera universale, bisogna attendere la pubblicazione del Missale Romanum del 1970 con l’Institutio che lo precede. Nelle sue diverse edizioni, l’IGMR, come anche le premesse all’OLM, hanno messo in rilievo due caratteristiche principali della preghiera universale: si tratta di una preghiera in cui il popolo esercita la sua funzione sacerdotale e, inoltre, risponde in certo modo alla parola di Dio accolta con fede. La preghiera universale è preghiera del popolo sacerdotale, cioè riservata a coloro che hanno ricevuto il Battesimo e l’unzione dello Spirito Santo e fanno parte perciò del popolo che in Cristo ha accesso al Padre e partecipa della sua mediazione. L’esercizio di questa funzione sacerdotale ha una manifestazione concreta, non unica naturalmente, in questo particolare momento della celebrazione. In una simile prospettiva acquisterebbe tutto il suo valore e significato la terminologia «preghiera dei fedeli»[28].
La preghiera universale è supplica a Dio, non quindi adorazione, rendimento di grazie, e meno ancora predica o catechesi. In essa si chiedono a Dio beni soprattutto universali, pur non essendo esclusa l’intercessione per l’assemblea celebrante. Perciò giustamente F. Dell’Oro afferma che una delle condizioni necessarie alla maturazione armoniosa della preghiera universale è oggi lo studio teologico della preghiera di domanda[29].
A. Catella, nel contesto di alcune linee storiche concernenti il sorgere e l’evolversi della celebrazione delle tempora nella liturgia romana (non escluso il Vaticano II), ha presentato la proposta dell’Orazionale edizione CEI confrontandola con la tradizione e facendo di questa innovazione postconciliare una lettura «moderna» alla quale dovrebbero essere opportunamente iniziati gli utenti dell’«Orazionale per la preghiera dei fedeli»[30].
Nei diversi Ordines, pubblicati dopo il Vaticano II, la preghiera dei fedeli non è un elemento eucologico esclusivo della messa, ma è prevista anche nella celebrazione dei sacramenti, nel rito della professione religiosa, nel rito delle esequie, nella celebrazione della Liturgia delle Ore, ecc.
Per quanto riguarda la Liturgia delle Ore, De Clerck, dopo aver notato che la storia esaustiva sulla tipologia della preghiera universale non può limitarsi solo alla messa, afferma che dovrebbe avere uguale attenzione per le preghiere litaniche dell’Ufficio divino. Lo studioso aggiunge che si tratta di una questione abbastanza «embrouillé»[31]. Le attuali preci delle lodi e dei vespri sono formulate in modo diverso della preghiera universale della messa: quelle delle lodi sono principalmente dirette a dedicare a Dio la giornata che inizia, invocando (da qui il nome di «invocazioni») il suo aiuto e la sua benedizione sulle occupazioni che la riempiranno e sulle persone che si incontreranno. Le preci dei vespri sono soprattutto «intercessioni» per le necessità di tutto il popolo di Dio; l’ultima intercessione è sempre per i defunti[32].
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[1] Le sigle più frequentemente ricorrenti sono: IGMR = Institutio generalis Missalis Romani (diverse edizioni); OLM = Ordo lectionum Missae, Editio typica altera (21.01.1981); SC = Sacrosanctum Concilium (4.12.1963); CEI = Conferenza episcopale italiana.
[2] Una bibliografia abbondante e una sintesi delle diverse opinioni si trova in V. Raffa, Liturgia eucaristica. Mistagogia della messa: dalla storia e dalla teologia alla pastorale pratica, CLV-Ed. Liturgiche, Roma 2003, pp. 348-374 (nuova edizione ampiamente riveduta e aggiornata secondo l’editio typica tertia del Messale Romano).
[3] Cf. B. Capelle, Le Kyrie de la messe et le pape Gélase, in «Revue bénédictine» 46 (1934) 126-144; Id., Le pape Gélase et la messe romaine, in «Revue d’histoire ecclésiastique» 35 (1939) 22-34; Id., L’œuvre liturgique de S. Gélase, in «Journal of Theological Studies» 52 (1951) 129-144; Id., Innocent Ier et le canon de la messe, in «Recherches de Théologie ancienne et médiévale» 19 (1952) 5-16; Id., L’intercession dans la messe romaine, in «Revue bénédictine» 65 (1955) 181-191; tutti questi studi si possono trovare riuniti in Id., Travaux liturgiques de doctrine et d’histoire, vol. 2, Abbaye di Mont César, Louvain 1962.
[4] Cf. P. De Clerck, La «prière universelle» dans les liturgies anciennes. Témoignages patristiques et textes liturgiques, Aschendorf, Münster Westf. 1977. Un’ampia sintesi di questa importante opera si trova in F. Dell’Oro, La «preghiera universale» nelle liturgie latine antiche, in «Rivista Liturgica» 67 (1980) 683-726. Si veda anche P. De Clerck, Prière universelle et appropriation de la Parole, in «La Maison-Dieu» 153 (1983) 113-131; Id., Les prières d’intercession. Les rapports entre Orient et Occident, in «La Maison-Dieu» 183/184 (1990) 171-189.
[5] Apologia I, 65,1, in Giustino, Apologie, a cura di G. Girgenti, Rusconi, Milano 1995, p. 167, cf. anche 67,5.
[6] Cf. Raffa, Liturgia eucaristica, cit., pp. 352-368.
[7] Cf. A. Nocent, La prière commune des fidèles, in «Nouvelle Revue Théologique» 86 (1964) 948-964 (qui p. 963).
[8] Cf. A. Chavasse, A Rome, au tournant du Ve siècle, additions et remaniements dans l’Ordinaire de la Messe, in «Ecclesia Orans» 5 (1988) 25-44.
[9] Cf. B. Opfermann, Um die Erneuerung des Fürbittengebetes in der Messfeier, in «Bibel und Liturgie» 18 (1951) 243-248; P.-M. Gy, Signification pastorale des prières du prône, in «La Maison-Dieu» 30 (1952) 125-136.
[10] Cf. J.-B. Molin, L’«oratio fidelium», ses survivances, in «Ephemerides Liturgicae» 73 (1959) 310-317; Id., Comment redonner pleine valeur aux prières du prône, in «Paroisse et liturgie» 42 (1960) 285-300; Id., Enquêtes historiques, in J.-B. Molin – T. Maertens , Pour un renouveau des prières du prônes, Apostolat liturgique, Bruges 1961, pp. 11-44; Id., Les prières du prône en Italie, in «Ephemerides Liturgicae» 76 (1962) 39-42; Id., L’«oratio communis fidelium» au moyen âge en Occident du X au XV siècle, in Miscellanea liturgica in onore si S.E. il Cardinale Giacomo Lercaro, vol. 2, Desclée, Roma 1967, pp. 313-468.
[11] Cf. Raffa, Liturgia eucaristica, cit., p. 367 in nota.
[12] Cf. F. Dell’Oro, La preghiera dei fedeli: tradizione o innovazione?, in «Rivista Liturgica» 74 (1987) 9-70.
[13] Cf. F. Gil Hellín (ed.), Constitutio de Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium (Concilii Vaticani II Synopsis), LEV, Città del Vaticano 2003, pp. 158-159.
[14] Cf. A. Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975). Nuova edizione riveduta e arricchita di note e di supplementi per una lettura analitica, CLV-Ed. Liturgiche 1997, p. 77.
[15] Raffa preferisce la denominazione «preghiera dei fedeli», più idonea a distinguere questo genere da quello della preghiera presidenziale, la quale potrebbe definirsi, a un titolo più particolare, preghiera universale e comune in quanto viene formulata dal presidente a nome di tutti e della comunità presente. Cf. Raffa, Liturgia eucaristica, cit., pp. 369-370.
[16] Cf. Bugnini, La riforma liturgica, cit., pp. 126 e 253.
[17] Cf. ibid., p. 131.
[18] Cf. ibid., p. 326.
[19] Cf. ibid., p. 341.
[20] Cf. ibid., p. 351.
[21] La problematica che riguarda le messe per gruppi particolari è stata affrontata dal Consilium nel 1968. Tra le proposte vi troviamo la seguente: «c) Preghiera dei fedeli: può essere adattata, ma non manchino mai le intenzioni universali» (Bugnini, La riforma liturgica, cit., p. 427).
[22] Nocent, La prière commune des fidèles, cit., p. 950.
[23] A. Nocent, Storia della celebrazione dell’Eucaristia, in Anàmnesis 3/2, Marietti, Casale M. 1983, p. 222.
[24] Cf. De Clerck, Prière universelle et appropriation, cit., pp. 113-131.
[25] Cf. Raffa, Liturgia eucaristica, cit., pp. 370-371.
[26] Bugnini, La riforma liturgica, cit., pp. 805.
[27] Più documentazione la si può trovare nello studio di M. Sodi, La preghiera universale o dei fedeli nella normativa dei libri liturgici, in «Rivista Liturgica» 74 (1987) 82-102.
[28] Cf. P. Sorci, Significato teologico della preghiera dei fedeli, in «Rivista Liturgica» 74 (1987) 71-81.
[29] Cf. Dell’Oro, La «preghiera universale» nelle liturgie latine, cit., p. 726.
[30] Cf. A. Catella, Preghiera dei fedeli e le Quattro Tempora, in «Rivista Liturgica» 74 (1987) 114-123.
[31] Cf. De Clerck, La «prière universelle» dans les liturgies, cit., p. 269.
[32] V. Raffa, Preghiera dei fedeli – Invocazioni – Intercessioni, in «Rivista Liturgica» 74 (1987) 124-141, dopo una concisa descrizione della natura, importanza e struttura della «preghiera dei fedeli» nella messa e delle «invocazioni» alle lodi e delle «intercessioni» ai vespri nella Liturgia delle Ore, sottolinea gli elementi che sono in comune e quelli che sono propri a ciascuno, sia nel contesto del libro liturgico in cui sono inseriti e sia – anzi principalmente – nella stessa azione liturgica. Conclude con alcune «osservazioni pratiche» degne di attenzione e di intelligente valutazione.

L’OMELIA E LA SPIRITUALITÀ DELL’ASCOLTO (P. Matias Augé)

dal sito:

http://liturgia-opus-trinitatis.over-blog.it/article-l-omelia-e-la-spiritualita-dell-ascolto-59771685-comments.html#anchorComment

L’OMELIA E LA SPIRITUALITÀ DELL’ASCOLTO

di P. Matias Augé

Viviamo in una società che è stata definita società dell’immagine, una società che non favorisce l’ascolto. Molteplici immagini accompagnate da molteplici parole e in rapida successione si sovrappongono confusamente sugli schermi della TV e dei telefonini, sui giornali, nei siti internet, nelle sale cinematografiche, in migliaia di libri sfornati dalle case editrici, nei graffiti delle mura delle città. Non è possibile prestare vero ascolto, dare retta a tutti questi molteplici messaggi, che somigliano ad un torrente impetuoso le cui acque scivolano lungo in pendio dei nostri sensi e della nostra mente. Nella nostra società c’è la prevalenza del “vedere” e del “sentire” sull’“ascoltare”.

Nell’antica civiltà ebraica, invece, le cose stavano in un altro modo. La possibilità di accedere alla Parola di Dio mediante la sua lettura in un testo scritto era molto ridotta, data la rarità di quanti erano in grado di leggere e la scarsità di testi scritti. Per l’antico ebreo la possibilità pressoché unica era, quindi, quella di sentir proclamare la Parola di Dio. Questo fatto ha affinato nel popolo eletto la capacità di ascolto. La Bibbia ci trasmette il ricordo delle reazioni di volta in volta suscitate nei pii ebrei da questo “ascolto”. Così, ad esempio, dopo che Mosè, disceso dal monte Sinai, lesse al popolo il libro dell’alleanza, gli israeliti risposero entusiasticamente: “Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto” (Es 24,7). La stessa preghiera ebraica è ritmata dallo Shema’ Jisra’el, “Ascolta, Israele” (cf Dt 6,4-9), un comando che, in varie forme, è ripetuto più volte nella Torah. Possiamo ben dire che nella società e religiosità bibliche c’è l’assoluta prevalenza dell’ “ascoltare” sul “sentire”.

Il “sentire” si esaurisce perlopiù in una semplice sensazione fisica o anche emotiva; “ascoltare” è invece qualcosa di più profondo. Si potrebbe dire che, se per Dio “in principio è la Parola” (cf Gv 1,1; Gen 1,3.6), per l’uomo “in principio è l’ascolto”. Nella Bibbia si tratta di un ascolto del cuore. Il credente, come “deve amare il Signore con tutto il cuore”, deve anche tenere la Parola di Dio “fissa nel cuore” (cf Dt 6,5.6). La Parola deve superare le barriere dell’ascolto puramente fisico e della comprensione intellettuale per spingersi nelle profondità dell’uomo fino a raggiungere la sua più profonda interiorità, appunto il “cuore”. Il cuore assomiglia al “grembo materno” ove il germe seminato vive e cresce. Sono noti i testi di Luca in cui egli parla del cuore di Maria: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19) e ancora: “Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore” (Lc 2,51). Le parole “custodire” e “meditare” traducono due parole greche che significano rispettivamente: “cutodire” e “mettere insieme” (symbállo), “raccogliere” e “ricordarsi” (diateréo). Così, secondo i due contesti, il senso è che Maria, ricordando le profezie delle Scritture, ne ha viste alcune realizzarsi sotto i suoi. E ora, nel profondo della sua coscienza, nel suo cuore, mette i fatti a confronto.

All’ascoltatore della Parola si richiede un’attenta cura delle disposizioni personali e interiori (generosità, fiducia, povertà, disponibilità, libertà interiore, apertura, sforzo di attenzione, impegno, obbedienza nella fede ecc.) e delle condizioni ambientali o esterne (clima di deserto, di silenzio, di solitudine, di fede, di speranza, di carità, di preghiera ecc.) che possono favorire quell’itinerario della Parola che va dall’orecchio (o dagli occhi) al cuore.

Ecco quindi che l’omileta dev’essere anzitutto ascoltatore assiduo della Parola, abitato dalla Parola (cf Gv 5,38), deve nutrire una spiritualità dell’ascolto, deve far sì che la Parola che  predica diventi anzitutto per lui stesso una parola ascoltata e accolta nel cuore. Soltanto così potrà poi essere ministro efficace della Parola. L’omelia infatti deve, a sua volta, aiutare l’assemblea ad ascoltare la Parola. L’omileta vive della Parola che esce dalla bocca di Dio (cf Mt 4,4; Dt 8,3), si fa servo di questa Parola e ne diventa annunciatore in mezzo all’assemblea; ciò però è possibile e fecondo soltanto se l’omileta è un uomo di preghiera. Preghiera che nasce nell’ascolto della Parola e prepara all’ascolto dell’assemblea. Preghiera e servizio della Parola vanno insieme (cf At 6,4)

L’Istruzione Liturgicae Instaurationes afferma: “Lo scopo dell’omelia è di rendere comprensibile ai fedeli la Parola di Dio che è stata loro annunziata e di adattarla alla sensibilità della nostra epoca”. Le parole dell’omelia sono mediatrici della Parola. La Proposizione 15 del Sinodo dei Vescovi sul tema La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, termina con questa affermazione: “… i Padri sinodali auspicano che si elabori un Direttorio sull’omelia, che dovrebbe esporre, insieme ai principi dell’omiletica e dell’arte della comunicazione, il contenuto dei testi biblici che ricorrono nel lezionario in uso nella liturgia”. L’omelia è quindi un atto di comunicazione, e ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione. Nel caso dell’omelia, l’aspetto contenutistico è decisamente quello preminente, e tuttavia l’aspetto relazionale ha un suo peso non trascurabile, anzi rilevante. L’omileta quindi oltre che nell’ascolto della Parola, il cui contenuto deve poi trasmettere, deve esercitarsi anche nell’ascolto dell’assemblea, destinataria dell’omelia, deve cioè stabilire con la sua comunità una vera relazione, una vera comunicazione. Parliamo perciò di una spiritualità dell’ascolto dell’assemblea.

Si può affermare che in linea di massima la disposizione relazionale dell’assemblea è corrispondente a quella che anima l’omileta. Se, cioè, egli nutre vera stima, attenzione, vicinanza e disponibilità ad essere utile, se ha un approccio sincero nei confronti degli ascoltatori, se le sue parole sono vere, nascono dal cuore, allora la comunicazione ha tutte le possibilità di riuscire. L’omileta deve vivere, poi, in sintonia intima con la comunità a cui si rivolge, immedesimarsi con essa, far sì, come dicono le prime battute della Gaudium et spes, che “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono”, siano pure “ le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce” sue. Non si deve dimenticare che il destinatario della Parola è l’uomo, tutto intero, con i suoi problemi esistenziali e concreti di ogni giorno e che la Parola di Dio è più Parola di Dio sull’uomo che parola di uomo su Dio. 

LA «LITURGIA DELLE ORE»: PREGHIERA DI CRISTO E DELLA CHIESA

dal sito:

http://www.rivistaliturgica.it/upload/2006/articolo1_37.asp

LA «LITURGIA DELLE ORE»: PREGHIERA DI CRISTO E DELLA CHIESA 

di Matias Augé

In queste pagine vogliamo illustrare la natura della Liturgia delle Ore (= LdO) come preghiera di Cristo e della Chiesa. Si tratta, in fondo, di descrivere i tratti essenziali di una teologia dell’Ufficio divino. Iniziamo indicando, in primo luogo, i principali documenti magisteriali che si sono occupati dell’argomento dal concilio Vaticano II in poi, da considerarsi perciò fonte privilegiata della nostra riflessione; in secondo luogo, forniamo alcuni ragguagli sul metodo con cui intendiamo organizzare il nostro discorso.
La Costituzione Sacrosanctum concilium (= SC) del Vaticano II dedica il c. IV all’Ufficio divino; nei due primi numeri di questo capitolo (SC 83-84) troviamo una breve sintesi dottrinale sulle dimensioni ecclesiologica e cristologica della LdO. In seguito, riprendono e sviluppano la stessa tematica la Costituzione apostolica Laudis canticum (= LC), con cui Paolo VI promulga il 1 novembre del 1970 la Liturgia delle Ore, rinnovata dopo il Vaticano II, e i Principi e norme per la Liturgia delle Ore (= PNLO) pubblicati in volume a parte il 2 febbraio del 1971, e poi inseriti, assieme alla Costituzione apostolica, all’inizio del primo volume dell’edizione tipica del libro della Liturgia delle Ore, libro pubblicato dalla Congregazione per il culto divino l’11 aprile del 1971. È stato detto che i PNLO sono uno dei documenti
«più importanti, se non il più prestigioso, di tutta la riforma liturgica postconciliare. Un vero trattato teologico, pastorale, ascetico, liturgico sulla preghiera, sul significato della Liturgia delle Ore e delle parti di cui si compone»[1].
Da un punto di vista del metodo da seguire, il nostro discorso potrebbe partire dalla prospettiva della celebrazione liturgica o dalla prospettiva della preghiera o, forse meglio ancora, dalla prospettiva della preghiera liturgica in quanto è vera celebrazione rituale. Nei non numerosi approfondimenti sulla nostra tematica che sono stati pubblicati in questi ultimi decenni[2], notiamo il più delle volte una specie di dicotomia, per cui la LdO è considerata semplicemente o prevalentemente come celebrazione liturgica o, nel caso contrario, viene ridotta quasi esclusivamente alla dimensione generica di preghiera (ufficiale) della Chiesa. Lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica (= CCC) non sembra che sia sfuggito a questa tentazione. Infatti il tema della preghiera della Chiesa viene affrontato in due momenti diversi: nella parte seconda, dedicata alla «celebrazione del mistero cristiano», si parla ampiamente della LdO, e nella parte quarta, dedicata alla «preghiera cristiana», si approfondisce il tema più generale della preghiera nella vita della Chiesa, vista soprattutto nella prospettiva personale, mentre alla LdO si fa soltanto un fugace riferimento. Più che di un doppione, si tratta piuttosto di una mancanza di osmosi tra le due trattazioni che, in ogni caso, dovrebbero essere lette in un’ottica di complementarità[3].
1. La Liturgia delle Ore è una celebrazione liturgica
Notiamo che i PNLO, al n. 10, considerano la LdO «tra le altre azioni liturgiche». La preghiera pubblica della Chiesa è una celebrazione liturgica vera e propria e, in quanto tale, è un evento rituale che introduce i partecipanti nel mistero storico-salvifico di Cristo. Dalle sue origini, caratteristica propria della LdO è quella di segnare il tempo della giornata con incontri e scadenze fissate in momenti significativi; incontri che sono da considerarsi vere celebrazioni di preghiera. Ci si permetta a questo proposito ricordare molto brevemente, a modo di flash, alcuni dati della storia[4]. Essa ci insegna che la LdO come celebrazione e il suo sviluppo nel corso dei secoli appaiono strettamente collegati all’evolversi della specifica riflessione ecclesiologica.
Incontriamo una prima epoca, dal IV-V sec. in poi, in cui tempo, preghiera e celebrazione si fondono in maniera armonica. È l’epoca in cui le due grandi tradizioni della LdO, quella cattedrale e quella monastica, pur distinguendosi, s’incontrano e si arricchiscono reciprocamente. In questa prima tappa, l’Ufficio divino è inteso come la preghiera oraria celebrata dalle comunità cristiane. In una seconda tappa di questa storia – che inizia dopo il sec. IX, si consolida nel corso del sec. XIII, e sostanzialmente perdura fino al sec. XX – vediamo che comincia a venir meno uno dei fattori principali della celebrazione: il soggetto comunitario. Con l’emergere e lo stabilizzarsi di un’immagine di Chiesa clericale, l’Ufficio divino, che poi si chiamerà Breviario, si avvia a divenire non solo preghiera individuale ma anche compito proprio e quasi esclusivo del clero e dei monaci. Decaduta l’ecclesiologia che la sostentava, l’evoluzione ha offuscato seriamente l’immagine della Chiesa come comunità orante e la testimonianza della preghiera fatta unanimemente (cf. At 2,42), come suo compito primario e una delle espressioni fondamentali della sua vita.
Con il privatizzarsi della LdO la dimensione celebrativa dell’Ufficio divino è stata sacrificata in favore del suo valore ascetico e didattico-pedagogico e ordinata a nutrire la preghiera quotidiana del clero e dei monaci. Per sua natura, però, la LdO non usa solo il linguaggio delle parole, ricorre anche al canto e ai silenzi, ai gesti e alle azioni, ai tempi e agli spazi, alle cose e alle persone. Contro ogni concezione dualistica, bisogna affermare inoltre che la LdO si può e si deve esprimere anche attraverso il linguaggio del corpo, come semplice presenza davanti a Dio del soggetto in atteggiamento orante. Afferma R. Guardini:
«Ciò che opera nell’azione liturgica, che prega, offre e agisce non è l’anima, non l’interiorità, bensì l’uomo: è l’uomo intero che esercita l’attività liturgica»[5].
D’altra parte, ciò si può e si deve affermare anche della preghiera in generale: in seguito alla separazione cartesiana di res cogitans e res extensa, il pensiero moderno tende talvolta a vedere il pregare prevalentemente come un accadimento dell’interiorità e perciò non corporeo; certo, la preghiera comincia nella quiete del cuore ma, nella misura in cui accade come linguaggio, accade anche in modo corporeo[6].
Come abbiamo accennato sopra, la parte quarta del CCC fa soltanto un fugace riferimento alla LdO per affermare che essa è proposta dalla tradizione della Chiesa come uno dei «ritmi di preghiera destinati ad alimentare la preghiera continua» (n. 2698). Il CCC parla invece appositamente della LdO nella parte seconda che ha come argomento «La celebrazione del mistero cristiano», in concreto nel c. II che si occupa della «celebrazione sacramentale del mistero pasquale» (nn. 1174-1178). Notiamo, quindi, che il CCC, pur non essendo riuscito ad armonizzare LdO e preghiera, considera giustamente la LdO come vera e propria celebrazione liturgica. Così pure il Codex iuris canonici (= CIC) si occupa della LdO nel Libro IV sulla «Funzione santificatrice della Chiesa», in concreto nei Cann. 1173-1175 della parte seconda che si interessa degli «altri atti del culto divino». Non si tratta di osservazioni insignificanti, ma di scelte metodologiche precise di cui dobbiamo tener conto in ordine a ricuperare la dimensione celebrativa della LdO.
Stabilito che la LdO è vera celebrazione liturgica, possiamo affermare anche che essa è, come ogni celebrazione liturgica, azione di Cristo e della Chiesa (cf. SC 7). È quanto affermano i PNLO: la LdO «è principalmente preghiera di lode e di supplica, e precisamente preghiera della Chiesa con Cristo e a Cristo» (n. 2). È, però, una celebrazione liturgica che ha una sua specificità, come si dice più avanti in PNLO 10, riprendendo concetti espressi da SC 83-84: la LdO «tra le altre azioni liturgiche, ha come sua caratteristica per antica tradizione cristiana di santificare tutto il corso del giorno e della notte». È nota tipica e caratteristica della LdO che essa si svolga intimamente unita al ritmo del tempo. Si tratta di un dato della storia che ha una valenza teologica. Il tempo è il «terreno» della parola orante. Riscoperta la dimensione celebrativa della LdO, viene messa in risalto anche la sua dimensione segnica, il che comporta ricollocare la preghiera delle ore dentro il disegno naturale del tempo, dentro le sue ordinate scansioni: un segno è sempre tale dentro un disegno, come un testo è sempre tale dentro un contesto. Le figure del tempo vengono assunte nella prospettiva cristiana come simboli del tempo salvifico-cristologico. I simboli sono significanti, non convenzionali, dotati di una certa affinità con la realtà significata, e quindi sono capaci di sintonizzare con essa i ritmi antropologici, a livello sia biologico che affettivo. Così, ad esempio, la relazione mattino-lode o sera-abbandono fiducioso[7]. Si potrebbe dire che la preghiera delle «ore» appare e si realizza come «sacramento della vita»[8].
2. La Liturgia delle Ore è preghiera di Cristo
Cristo, come uomo, è il primo orante, l’adoratore perfetto del Padre, l’intercessore più vicino e più efficace dell’umanità davanti a Dio. La preghiera di Gesù è orazione del Figlio che, dal profondo della sua propria identità, si rivolge a Dio come Abbà, Padre. La preghiera introduce Gesù nel cuore di un’intimità unica e personalissima con il Padre e, al tempo stesso, essa scaturisce dalla comunione con lui. La natura della preghiera cristiana è fondata sul fatto che è partecipazione dell’amore del Figlio verso il Padre, e di quelle orazioni e suppliche che egli, durante la vita terrena, ha espresso con le sue parole, anche nella sofferenza (cf. Eb 5,7), e che ora nella gloria non cessa mai di elevare al Padre per noi (cf. Eb 7,25) e insieme con noi nella comunione dello Spirito Santo (cf. Rm 8,15.26). Tale mistero di comunione con la preghiera di Cristo risorto (cf. Rm 8,34; Eb 7,25; 1Gv 2,1) si attua in noi per la potenza dello Spirito Santo effuso nei nostri cuori. Ecco quindi che la dimensione cristologica della preghiera dischiude quella trinitaria e quindi anche quella pneumatologica nonché è a fondamento, come vedremo più avanti, della dimensione ecclesiale della preghiera stessa.
La celebrazione della LdO, come ogni altra celebrazione liturgica, ha carattere anamnetico: è memoria efficace della preghiera di Cristo dilatata al suo corpo che è la Chiesa. Essa la realizza e la rende efficacemente presente: l’ecclesialità della LdO, come di ogni altra forma di preghiera, è fondata sul suo presupposto cristologico. Cristo continua l’«ufficio sacerdotale per mezzo della sua stessa Chiesa, che loda il Signore incessantemente e intercede per la salvezza del mondo intero non solo con la celebrazione dell’eucaristia, ma anche in altri modi, specialmente con la recita dell’Ufficio divino» (SC 83). Questa dottrina viene ripresa e sviluppata dai PNLO 15:
«Nella Liturgia delle Ore la Chiesa, esercitando l’ufficio sacerdotale del suo capo, offre a Dio “incessantemente” (1Ts 5,17) il sacrificio di lode, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome (cf. Eb 13,15). Questa preghiera è “la voce della stessa sposa che parla allo sposo, anzi è la preghiera che Cristo, unito al suo corpo, eleva al Padre” (SC 84)».
È quindi lo stesso Cristo a conferire alla preghiera della Chiesa tutto il suo profondo valore salvifico e la sua vera dimensione cultuale. Cristo è il punto di riferimento di tutta l’attività orante della Chiesa.
La nostra preghiera si dice «cristiana» non perché, o non in primo luogo, perché modellata su quella di Cristo o perché da lui insegnata, ma molto più profondamente perché egli ne diviene il principio primo, tanto da poter dire: non siamo noi a pregare, ma è Cristo che prega in noi. Infatti la preghiera della Chiesa è possibile come preghiera cristiana in quanto «un vincolo speciale e strettissimo intercorre tra Cristo e quegli uomini che egli per mezzo del sacramento della rigenerazione unisce a sé come membra del suo corpo, che è la Chiesa» (PNLO 7). Se possiamo invocare Dio come «Padre» è perché nel Figlio, mediante il battesimo, siamo incorporati e adottati come figli di Dio (cf. CCC 2798). L’iniziazione cristiana è quindi anche iniziazione alla preghiera di Cristo. La preghiera dei battezzati, poi, è da considerarsi esercizio del sacerdozio battesimale, per cui siamo stati abilitati al culto[9].
Cristo è al centro della nostra preghiera perché è indissolubilmente unito a noi, come lo sposo alla sposa, come il capo al corpo. Afferma Agostino:
«[Gesù Cristo] è il capo, noi il corpo. Noi dunque preghiamo rivolti a lui; preghiamo per mezzo di lui e in lui. Noi preghiamo insieme con lui ed egli prega con noi. Noi diciamo in lui ed egli dice in noi la preghiera di questo salmo…»[10].
Senza la presenza del Signore che unisce come pontefice le sponde della terra e del cielo, la nostra preghiera non potrebbe arrivare fino al Padre. D’altra parte, per la comunione con Cristo, capo dell’umanità, e per la solidarietà della Chiesa con tutti gli uomini, la preghiera ecclesiale raccoglie le preghiere di tutti gli uomini e trasforma in lode e offerta tutte le situazioni umane, intercede per la salvezza di tutti e feconda misteriosamente la vita e le opere dell’umanità per l’avvento del regno di Dio. Come afferma Paolo VI nella LC 8:
«La preghiera cristiana è anzitutto implorazione di tutta la famiglia umana, che Cristo associa a se stesso»[11].
Il nostro canto rende udibile il canto di Cristo; la nostra preghiera di lamento dà concretezza alla protesta del Cristo contro il male di questo mondo; la nostra preghiera dei salmi, rende attuale e sperimentabile la salmodia di Cristo, non solo quella della sua vita mortale, ma anche quella attuale come Signore glorioso. La comunità cristiana che prega è da considerarsi come un segno efficace, una specie di «sacramento» della preghiera che risuona anche oggi nel cuore del Cristo glorioso e che così può farsi percepibile su questa terra per mezzo della sua comunità. Chi realizza questa mutua presenza tra Cristo e la sua comunità orante è lo Spirito Santo, che «è lo stesso in Cristo, in tutta la Chiesa e nei singoli battezzati» (PNLO 8). È lui che nel cuore umano edifica il tempio della gloria del Padre, «viene in aiuto della nostra debolezza» e «intercede con insistenza per noi con gemiti inesprimibili» (Rm 8,26); è lo Spirito del Figlio che, «mandato nei nostri cuori», eleva dall’intimo il grido: «Abbà, Padre!» (Gal 4,6; Rm 8,15); è lo Spirito che accompagna la sposa nella sua invocazione allo sposo: «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,17.20; 1Cor 16,22).
Se Gesù orante manifesta esistenzialmente la sua realtà ontologica di totale e vitale immersione nel mistero del Padre nello Spirito, possiamo parlare di una dimensione trinitaria della LdO. Anzi, si potrebbe affermare in qualche modo che la stessa Trinità, l’unione del Padre con il Figlio nello Spirito, è la forma primigenia di preghiera. La preghiera cristiana partecipa dell’amore del Figlio per il Padre e della preghiera che di questo amore costituisce l’espressione. Lo Spirito Santo, donato alla Chiesa, è questo amore che «unificando tutta la Chiesa, per mezzo del Figlio la conduce al Padre» (PNLO 8)[12]. La preghiera della Chiesa è, quindi, partecipazione alla comunicazione che avviene incessantemente all’interno della Trinità. La preghiera – in particolare, nel nostro caso, la lode e la dossologia – è prolungamento e attualizzazione nella Chiesa della comunione dialogica tra le tre persone, ossia partecipazione alla stessa vita trinitaria.
Se prendiamo in considerazione lo schema trinitario tipico della teologia greca, vediamo che tutto parte dal Padre, tutto si attua per mezzo del Figlio, poi con lo Spirito Santo si risale su e per il Figlio si ritorna al Padre. Questo schema teologico riflette il movimento reale della storia della salvezza. È quindi Dio che apre il dialogo di sua iniziativa, e inizia un rapporto che è dono suo. E quanto afferma con altre parole SC:
«Il sommo sacerdote della nuova ed eterna alleanza, Cristo Gesù, prendendo la natura umana, ha introdotto in questo esilio terrestre quell’inno che viene eternamente cantato nelle sedi celesti. Egli unisce a sé tutta la comunità degli uomini, e se l’associa nell’elevare questo divino canto di lode» (SC 83; cf. anche PNLO 3).
Il «proprium» della preghiera cristiana, a partire dal quale soltanto si può intendere la sua articolazione, è il fatto di non essere una preghiera che sale istintivamente dal cuore dell’uomo, ma una preghiera «donata».
3. La Liturgia delle Ore è preghiera della Chiesa
Nel paragrafo precedente abbiamo visto come non si può parlare della preghiera di Cristo senza coinvolgere nel discorso la preghiera dei fedeli cristiani. Se l’orazione di Cristo è espressione della sua unione personale con il Padre, e la preghiera dei cristiani, seguendo il suo esempio e il suo mandato, è anche espressione di comunione vitale con Dio e con tutti gli uomini, ne consegue che la preghiera cristiana è essenzialmente comunitaria e quindi ecclesiale, anche quando essa si svolge nel segreto della propria camera (cf. Mt 6,6). Anche nei momenti di preghiera più intima, il cristiano deve conservare un’apertura verso la comunità ecclesiale e verso l’intera umanità. Non è possibile essere in comunione con Dio e immergersi nel mistero del Cristo senza prendere coscienza che questo Dio è il Padre di tutti gli uomini e che Cristo è il Salvatore universale. Ogni preghiera cristiana è fatta sempre da un membro della Chiesa, per Cristo, nello Spirito. Dobbiamo aggiungere, però, che, in ogni caso, la celebrazione in comune della LdO rappresenta sempre un valore aggiunto, in quanto «manifesta più chiaramente la [sua] natura ecclesiale» (PNLO 33).
Che la LdO non sia solo preghiera del clero (e dei monaci), ma vera e propria celebrazione ecclesiale, è una convinzione che, dopo secoli di pratico oblio, si è imposta soprattutto nel corso del movimento liturgico classico e ha trovato autorevole conferma nei documenti del Vaticano II nonché nella riforma da esso promossa[13]. Contro una visione ecclesiologica ristretta in senso clericale, che rischiava di ridurre la Chiesa alla sola gerarchia, il Vaticano II, ricollegandosi all’antica tradizione cristiana, ha compreso la Chiesa di nuovo come soggetto comunitario che è costituito dall’intero popolo di Dio[14]. Orbene, la comunità dei credenti diviene un soggetto comunitario attraverso l’ascolto comune della parola di Dio, attraverso la partecipazione alla celebrazione liturgica dei misteri della salvezza e alla preghiera comune nonché attraverso l’esperienza della vita fraterna comunitaria. Il soggetto Chiesa costituito in questo modo non è dunque un’ipostasi separabile dalla concreta comunità dei credenti[15].
In questo particolare settore, si capisce meglio il progresso dottrinale compiuto dai PNLO, se vengono confrontati con l’impostazione dottrinale dei documenti magisteriali precedenti, compresi gli stessi documenti del Vaticano II[16]. Prendiamo come punto di confronto il solo documento del magistero pontificio, anteriore al concilio, che si è occupato in modo significativo della teologia della LdO, e cioè l’Enciclica Mediator Dei (= MD) di Pio XII (20.11.1947). All’inizio della parte terza, MD parla del «fondamento teologico» dell’Ufficio divino[17]. Per meglio valutare però l’impostazione dottrinale della MD, è utile ricordare prima alcuni principi proposti dall’attuale CIC.
Il Can. 834, § 2, del CIC, attenendosi al Can. 1256 del Codice precedente, delinea il concetto di culto liturgico, mettendone in rilievo le tre condizioni richieste tradizionalmente, e cioè il culto liturgico è tale «quando esso viene reso in nome della Chiesa, da parte di persone legittimamente a ciò deputate e mediante gli atti (libri) approvati dall’autorità della Chiesa stessa». MD riprende questi concetti giuridici e li applica alla LdO:
«L’Ufficio divino è, dunque, la preghiera del corpo mistico di Cristo, rivolta a Dio a nome di tutti i cristiani e a loro beneficio, essendo fatta dai sacerdoti, dagli altri ministri della Chiesa e dai religiosi, a ciò dalla Chiesa stessa delegati»[18].
Sembra che si dovrebbe concludere da queste affermazioni che l’Ufficio divino è preghiera del corpo mistico di Gesù Cristo solo quando viene celebrato da sacerdoti, ministri e religiosi a tale compito delegati. È evidente che sotto tutto questo non vi è soggiacente nessuna reale teologia, ma solo una semplice visione giuridica, applicata a realtà teologiche[19]. Il Vaticano II nella SC ripete sostanzialmente la stessa dottrina:
«Il divino Ufficio, secondo l’antica tradizione cristiana, è costituito in modo da santificare tutto il corso del giorno e della notte per mezzo della lode di Dio. Quando poi a celebrare debitamente quel mirabile canto di lode sono i sacerdoti e altri a ciò deputati per incarico della Chiesa, o i fedeli che pregano insieme col sacerdote nella forma approvata, allora è veramente la voce della sposa stessa che parla allo sposo, anzi è preghiera di Cristo che, unito al suo corpo, rivolge al Padre» (SC 84).
Notiamo però una novità importante in questo testo conciliare, se confrontato con quello anteriore della MD, ed è l’inclusione dei «fedeli che pregano insieme col sacerdote». In ogni modo, la mentalità dell’insieme del testo è sempre prevalentemente quella giuridica del CIC.
I PNLO compiono un significativo passo avanti, quando da un’impostazione che fin qui appare per lo più giuridica passano a un’impostazione di tipo strettamente teologico. Alla LC di Paolo VI. che afferma che l’Ufficio è «preghiera di tutto il popolo di Dio», fa eco la PNLO che esordisce con queste parole: «La preghiera pubblica e comune del popolo di Dio è giustamente ritenuta tra i principali compiti della Chiesa» (PNLO 1). E più avanti: «La Liturgia delle Ore, come tutte le altre azioni liturgiche, non è un’azione privata, ma appartiene a tutto il corpo della Chiesa» (PNLO 20). E verso la fine del documento, si afferma ancora: «La lode della Chiesa non è riservata, né per la sua origine, né per la sua natura, ai chierici o ai monaci, ma appartiene a tutta la comunità cristiana» (PNLO 270). Ecco perché i ministri sacri devono curare che «i fedeli siano invitati e siano istruiti con opportuna catechesi a celebrare in comune, specialmente nei giorni di domenica e di festa, le parti principali della Liturgia delle Ore» (PNLO 23).
Stabilito il principio teologico secondo cui la comunità intera è il soggetto primario della LdO, in PNLO 28-32 si parla del «mandato di celebrare la Liturgia delle Ore». In questo caso, però, il mandato o «deputazione» fatta ai ministri sacri (e ai religiosi) sta a indicare il livello ecclesiale della LdO. Infatti la Chiesa li deputa alla celebrazione della LdO «perché il compito di tutta la comunità sia adempiuto in modo sicuro e costante almeno per mezzo loro, e la preghiera di Cristo continui incessantemente nella Chiesa» (PNLO 28). La dimensione ecclesiale della LdO non è quindi legata a un mandato della Chiesa, ma è strettamente connessa con la deputazione alla preghiera insita nel battesimo e che riguarda perciò tutti i cristiani. Così si esprime autorevolmente il CCC dopo aver affermato – citando SC 98 – che la LdO è la preghiera pubblica della Chiesa: «Nella quale i fedeli (chierici, religiosi, laici) esercitano il sacerdozio regale dei battezzati» (CCC 1174). Notiamo che col termine «fedeli» vengono indicati sia i laici che i religiosi e i chierici[20].
A conferma di tutto ciò, si abbia presente che la LdO è preghiera della Chiesa anche quando la comunità orante è formata eventualmente da soli laici: «Anche i laici riuniti in convegno, sono invitati ad assolvere la missione della Chiesa, celebrando qualche parte della Liturgia delle Ore» (PNLO 27 [corsivi miei]; cf. n. 32; CIC, can. 230, § 3). In questo caso, in mancanza del sacerdote o del diacono, un laico può quindi «presiedere» la celebrazione della LdO (cf. PNLO 258). I laici esercitano questa presidenza in virtù del loro sacerdozio battesimale (cf. CCC 1669).
Dopo quanto abbiamo detto, è evidente che il soggetto orante – ministro sacro, religioso o fedele laico – si deve autocomprendere anzitutto come Chiesa, come membro del popolo di Dio e, in concreto, come soggetto che forma parte di una assemblea. I PNLO 20, applicano questo principio generale alla LdO per esaltarne la sua celebrazione comunitaria:
«Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è “sacramento di unità”, cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi» (SC 26).
4. Considerazioni conclusive
Paolo VI nella LC afferma:
«Rinnovata […] e restaurata completamente la preghiera della santa Chiesa secondo la sua antichissima tradizione, e tenuto conto delle necessità del nostro tempo, è davvero auspicabile che essa pervada profondamente, ravvivi, guidi ed esprima tutta la preghiera cristiana e alimenti efficacemente la vita spirituale del popolo di Dio» (LC 8).
Alla luce di queste parole, possiamo dire che quanto abbiamo esposto sulla LdO deve interpretarsi nel contesto di un’adeguata teologia della preghiera cristiana. Oggettivamente, dato il suo carattere normativo, il contenuto della preghiera liturgica si accorda perfettamente con l’ideale della preghiera cristiana. Quando la Chiesa afferma che una preghiera è liturgica, garantisce che quel testo particolare manifesta la sua coscienza di comunità orante. Naturalmente, questo non esclude che altri testi, anche le preghiere delle persone umili e senza cultura, siano preghiere veramente ecclesiali e rivelatrici della coscienza orante della Chiesa. L’atto giuridico del riconoscimento ufficiale della Chiesa è da considerarsi conseguente alla realtà oggettiva preesistente di cui è garanzia.
Il mistero della preghiera cristiana è una realtà unitaria, globale. L’ultima parte di SC 83 si esprime con queste parole: Cristo Gesù «continua questo ufficio sacerdotale per mezzo della sua stessa Chiesa, che loda il Signore incessantemente e intercede per la salvezza del mondo intero non solo con la celebrazione dell’eucaristia, ma anche in altri modi, specialmente [aliis modis, praesertim] con la recita dell’Ufficio divino» (SC 83). Le parole che abbiamo scritto in corsivo non erano presenti nei due primi schemi della Costituzione liturgica; sono state aggiunte sotto richiesta di un padre conciliare affinché non si dimentichi «illa oratio Ecclesiae, quae fit sine intermissione per totum orbem a populo christiano, tum communiter, tum privatim a singulis»[21].
La preghiera liturgica realizza ed esprime in modo eminente ed esemplare (praesertim) il mistero della preghiera cristiana. Perciò la LdO non esclude altre forme di preghiera; è da considerarsi però la norma o criterio di ogni preghiera cristiana perché è una preghiera eminentemente biblica, oggettiva e tradizionale. L’Ufficio divino assicura una struttura che modella, nutre e modera la preghiera privata e che, a sua volta, la preghiera privata può rendere più interiore, personale e intensa. Si può ben dire che ogni forma di preghiera nella Chiesa ha il suo referente cristologico ed ecclesiologico nella LdO.
Finalmente, la LdO esprime con il suo linguaggio legato al ritmo del giorno e della notte, quella stessa logica di unità profonda tra vita e preghiera che i sacramenti perseguono nell’arco della vita intera del credente nei suoi passaggi fondamentali (dall’iniziazione all’unzione degli infermi)[22].

[1] Riferito nel libro-memoria sulla riforma liturgica di A. Bugnini, La riforma liturgica 1948-1975, CLV-Ed. Liturgiche, Roma 1983, p. 512.
[2] Qualche anno fa, io stesso ho affrontato questo argomento nel volume La Liturgia delle ore scuola ecclesiale di preghiera. Atti del XLII Convegno liturgico-pastorale dell’A.L.F.S. Cuore Opera della Regalità di N.S.G.C. (Roma, 20-22 febbraio 2001), Centro Ambrosiano, Milano 2001, pp. 29-42. Il presente contributo rappresenta una profonda ristrutturazione della precedente riflessione, sia per quanto riguarda il metodo che il contenuto. Tra gli autori che più ci sono spesi nell’approfondimento della teologia della LdO, è degno di menzione S. Marsili (cf. gli studi citati più sotto, alla nota 16 e 19).
[3] Cf. D. Sartore, Liturgia e preghiera nel Catechismo della Chiesa cattolica. Confronto tra la seconda e la quarta parte, in «Rivista Liturgica» 81 (1994) 753-763.
[4] Cf. A. Catella, Modelli storici di riforma dell’«Officium divinum», in Liturgia delle ore. Tempo e rito. Atti della XXII Settimana di studio dell’APL (Susa [TO], 29 agosto-3 settembre 1993), CLV-Ed. Liturgiche, Roma 1994, pp. 107-140.
[5] R. Guardini, Formazione liturgica. Saggi, Edizioni OR, Milano 1988, p. 21.
[6] Cf. B. Casper, Evento e preghiera. Per un’ermeneutica dell’accadimento religioso, CEDAM, Padova 2003, pp. 89-91.
[7] Cf. A. Rizzi, Tempo e liturgia, in Il tempo, EDB (= PSV 36), Bologna 1997, pp. 326-328.
[8] Cf. V. Croce, Cristo nel tempo della Chiesa. Teologia dell’azione liturgica, dei sacramenti e dei sacramentali, LDC, Leumann (TO) 1992, p. 536.
[9] Tommaso d’Aquino parla di una «deputazione» del battezzato «al culto divino» (cf. Somma Teologica III, q. 63, a. 6, ad 2).
[10] Agostino, Esposizioni sui salmi 85, 1: CCL 39, 1176 (ed. it. Nuova Biblioteca Agostiniana, Città Nuova, Roma 1965ss).
[11] Su tutto ciò cf. J. Castellano Cervera, La Chiesa in preghiera, in E. Ancilli (ed.), La preghiera. Bibbia, teologia, esperienze storiche, vol. 1, Città Nuova, Roma 1988, pp.107-145.
[12] Cf. A. Grillo, Tempo e preghiera. Dialoghi e monologhi sul «segreto» della Liturgia delle Ore, EDB, Bologna 2000, p. 72.
[13] Cf. E.J. Lengeling, Dialog zwischen Gott und Mensch in der «Liturgia Horarum», in P. Jounel – R. Kaczynski – G. Pasqualetti (edd.), Liturgia opera divina e umana. Studi sulla riforma liturgica offerti a S.E. mons. Annibale Bugnini in occasione del suo 70o compleanno, CLV-Ed. Liturgiche, Roma 1982, pp. 533-571. L’autore raccoglie alcune testimonianze al riguardo.
[14] Si veda, in particolare, il c. II sul «popolo di Dio» della Lumen gentium.
[15] Sull’argomento c’è un’abbondante letteratura. Qui mi limito a rimandare allo studio di G. Tangorra, Dall’assemblea liturgica alla Chiesa. Una prospettiva teologica e spirituale, EDB, Bologna 1999.
[16] Sull’argomento, cf. S. Marsili, Aspetto «ecclesiale» e «personale» della Liturgia delle Ore, in La preghiera della Chiesa. Atti della I Settimana di studio dell’APL (Bergamo, 4-8 settembre 1972), EDB, Bologna 1974, pp. 57-76.
[17] Leggiamo il testo in C. Braga – A. Bugnini (edd.), Documenta ad instaurationem liturgicam spectantia (1903-1963), CLV-Ed. Liturgiche, Roma 2000.
[18] (Corsivi miei). «Est igitur “Divinum officium”, quod vocamus, mystici Iesu Christi corporis precatio, quae christianorum omnium nomine eorumque in beneficium adhibetur Deo, cum a sacerdotibus aliisque Ecclesiae ministris et a religiosis sodalibus fiat, in hanc rem ipsius Ecclesiae instituto delegatis» (Braga – Bugnini [edd.], Documenta ad instaurationem, cit., n. 2001).
[19] Cf. S. Marsili, Preghiera comune – preghiera della Chiesa, in «Rivista Liturgica» 62 (1975) 321.
[20] Il fatto che l’intera comunità cristiana sia soggetto della LdO non vuol dire che in seno alla comunità i ministri ordinati e i consacrati non abbiano motivi speciali per partecipare in modo più frequente e inteso alla preghiera delle ore. Anzi, in essa trovano un elemento caratteristico della loro spiritualità (cf. J. Aldazábal, Attori della preghiera, in J. Aldazabal – A. Altisent – P. Farnés – R. Grandez – P. Tena (edd.), La lode delle ore. Spiritualità e pastorale, LEV, Città del Vaticano 1996, pp. 7-33).
[21] Cf. F. Gil Hellín, Concilii Vaticani II Synopsis: Constitutio de Sacra Liturgia «Sacrosanctum concilium», LEV, Città del Vaticano 2003, pp. 248-251.
[22] Cf. E. Bargellini, Liturgia delle Ore: elemento unificante dell’esperienza spirituale, in «Vita Monastica» 214 (2000) 13.

Il mistero di Cristo nucleo centrale della celebrazione liturgica e della vita dei credenti;

Augé Matias, Spiritualità liturgica, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1998

Capitolo 3, Il mistero di Cristo nucleo centrale della celebrazione liturgica e della vita dei credenti;

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stralcio dal libro che ho a casa; devo dire che ho fatto una scelta sul tema cristologico perché anche tutta la parte precedente è molto importante, vedrò in seguito quello che posso fare;

Premessa e parte prima, pagg. 35-38;

L’argomento che stiamo per affrontare si deve considerare un approfondimento e un ulteriore sviluppo teologico della dimensione cristologica del culto cristiano, tema che abbiamo illustrato da una prospettiva neotestamentaria nel capitolo precedente. Infatti, è un dato tradizionale che le realtà centrali della salvezza donataci in Cristo sono indicate col termine « mistero ».

1.  Il « mistero di Cristo » – « mistero pasquale »

Ci limitiamo a dare un rapido sguardo alle lettere paoline e deuteropaoline, perché è in esse che il termine « mistero » assume una posizione centralissima per indicare l’evento salvifico in Cristo. Paolo parla del « mistero » – in greco mystêrion – (Rm 16, 25), del « mistero di Dio » (Col 2,2), del « mistero di Cristo » (Col 4,3; Ef 3,4), del « mistero della pietà » (1Tm 3, 16) o del « mistero del vangelo » (Ef 6,19); locuzioni che hanno significati affini. La dottrina paolina al riguardo la si può riassumere dicendo che il « mistero » è la volontà salvifica divina ed il suo mirabile disegno di salvezza, le cui linee si raccolgono e si centrano tutte in Cristo. Questo disegno, nascosto in Dio fin dall’eternità, è stato pienamente manifestato in Cristo, che ne ha consegnato l’annuncio ufficiale agli apostoli: « questo mistero non fu palesato alle altre generazioni, come adesso è stato svelato ai santi apostoli suoi e ai profeti nello Spirito Santo (cfr Ef 3, 4-6 gr), affinché predicassero il vangelo, suscitassero la fede in Gesù Cristo e Signore, e riunissero la Chiesa. Di tutto ciò gli scritti del Nuovo Testamento sono testimonianza perenne e divina » (DV, n 17).
Il « mistero » si manifesta come una « economia » – in greco oikonomía _: ordinamento o disposizione temporale della salvezza, e si dice anche delle tappe successive attraverso le quali si realizza il piano divino: la venuta in terra del Figlio di Dio, il tempo della Chiesa, la consumazione finale. Il mistero è quindi un dinamismo nel quale sono coinvolti quanti ne sono investiti (cfr. Col 2,2; Ef 1,17ss; 3,18s). In Col 1,27 il contenuto del mistero viene espresso con la formula « Cristo in voi », consiste cioè nell’inabitazione del Cristo crocifisso e glorificato « in voi », cioè i gentili. In Ef 3,4ss il mistero è l’ammissione dei gentili all’eredità, al corpo della Chiesa, alla promessa di Cristo. In Cristo quindi tutto si ricapitola e si assomma (cfr. Ef 1,9.10).
L’espressione parallela « mistero pasquale » non la si trova nella Scrittura. È presente per la prima volta, e con notevole frequenza nelle Omelie pasquali di Melitone di Sardi e dell’Anonimo Quartodecimano della metà del II secolo (= »mistero della pasqua ») (NOTA 1). Tutto il contenuto teologico che Paolo aveva riassunto nella categoria « mistero di Cristo » viene ora racchiuso nel « mistero della pasqua ». Notiamo però che le antiche omelie pasquali vanno oltre il mistero della pasqua o pasquale non solo ricapitola l’intera economia salvifica compiuta in Cristo, ma ne esprime la partecipazione che di essa fa la Chiesa attraverso i riti sacramentali.
La riflessione dei Padri e i testi della liturgia riprenderanno questa dottrina. Dopo un silenzio che è durato secoli, è stata riproposta da Odo Casel († 1948)) e riportata nel discorso teologico (Nell’attuale Messale Romano, l’espressione « mistero (sacramento) pasquale » indica tanto l’economia salvifica compiutasi nella morte-risurrezione di Cristo, quanto la celebrazione annuale della Pasqua e i sacramenti del battesimo e dell’eucarestia, centro di tutta la liturgia cristiana, mediante i quali tale economia si attualizza nella Chiesa. Da parte sua il Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 1085, afferma sinteticamente: « Nella liturgia della Chiesa Cristo significa e realizza principalmente il suo mistero pasquale ».
Il Vaticano I è consapevole della centralità del mistero pasquale nella vita del cristiano e pone questa dottrina come fondamento e chiave interpretativa della liturgia intesa come azione memoriale dell’evento salvifico e come esperienza vitale di esso (cfr. SC, nn. 2,5,6,61,104, 109; CD, n 15; OT, n. 8; GS nn 14,22): la liturgia della Chiesa annunzia e celebra il mistero pasquale per mezzo del quale Cristo ha compiuto l’opera della salvezza, affinché i fedeli lo vivano e ne rendano testimonianza nel mondo. Il mistero di Cristo – mistero pasquale è annunziato, celebrato, vissuto e testimoniato. Possiamo, quindi, affermare che questo mistero è il nucleo da cui si sviluppa tutta l’esperienza della vita cristiana: « l’esistenza cristiana consiste nel realizzare nella vita il mistero celebrato nei sacramenti. »

LO SPIRITO SANTO NEL MISTERO DEL NATALE

dal sito:

http://www.vatican.va/jubilee_2000/magazine/documents/ju_mag_01121997_vol-vi-index_it.html

« TERTIUM MILLENNIUM »

N. 6 Dicembre 1997
L’ANNO DELLO SPIRITO SANTO

Liturgia

LO SPIRITO SANTO NEL MISTERO DEL NATALE

Mathias Augé

Con l’Avvento abbiamo iniziato la celebrazione del secondo anno del triennio preparatorio al Grande Giubileo del 2000, anno dedicato in modo particolare «allo Spirito Santo e alla sua presenza santificatrice all’interno della Comunità dei discepoli di Cristo» (TMA 44). La celebrazione liturgica è il luogo privilegiato dove l’opera della salvezza, compiuta in Cristo, si realizza. Essendo la liturgia vera storia della salvezza celebrata e perennizzata (cfr. SC 6), è anche spazio adeguato della presenza e dell’azione dello Spirito Santo. Dal giorno dell’Incarnazione ogni presenza di Cristo è in relazione inscindibile con l’azione dello Spirito. Ecco perché Cristo, presente nelle azioni liturgiche, «esercita ininterrottamente il suo ufficio sacerdotale in nostro favore per mezzo del suo Spirito» (PO 5): il mistero di Cristo diventa presenza e azione santificatrice e cultuale per mezzo dello Spirito Santo. Nell’azione liturgica, la presenza dello Spirito è incessante affinché la memoria del mistero di Cristo sia vitale e la partecipazione al mistero sia fruttuosa e pregnante. Non sempre noi cristiani siamo consapevoli di questa realtà. Qui vorrei illustrare brevemente come i testi della liturgia romana, noti per la loro classica sobrietà, mettono in evidenza la presenza e l’azione dello Spirito nella celebrazione del mistero natalizio.

La presenza e l’azione dello Spirito Santo sono particolarmente intense nei misteri del concepimento e della nascita di Gesù. Nella celebrazione di questi misteri nel ciclo dell’anno liturgico è guida insostituibile la lettura e meditazione dei primi capitoli del vangelo di san Luca, ripresi e proclamati dalla liturgia natalizia. San Luca legge questi eventi e li racconta alla luce della risurrezione di Cristo. Ciò emerge dai temi contenuti nelle parole dell’angelo a Maria: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio» (Lc 1,35). Il concepimento per opera dello Spirito Santo sottolinea che il mistero della persona di Cristo va al di là di ciò che appare all’esterno. Quella gloria divina, che si manifesterà in modo nuovo alla fine della vita terrena di Cristo nella sua risurrezione e pienamente alla fine dei tempi «quando verrà nella sua gloria» (Mt 25,31), è già adesso realmente presente in lui, anche se ancora nascosta. Anticipando all’Annunciazione i temi della potenza, della nube, della gloria e della filiazione divina, Luca intende affermare che la gloria di Cristo non è specifica né degli ultimi tempi né della risurrezione, ma che essa è già presente in Gesù fin dall’inizio della sua esistenza terrena. Il Gesù «nato dalla stirpe di Davide secondo la carne», è lo stesso che è stato «costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti» (cfr. Rm 1,1-7). La filiazione divina di Gesù proclamata nel mistero dell’Incarnazione è la stessa del Cristo risorto, tuttavia non più nella condizione di debolezza della carne ma nella forza e nella potenza dello Spirito. In questo modo, pur essendo Figlio prima della risurrezione, può dirsi che Gesù è stato «costituito Figlio di Dio con potenza» dopo di essa.

Coerenti con l’impostazione lucana, i testi della liturgia ci invitano a celebrare il Natale nella luce e nella realtà della Pasqua. La teologia dell’Incarnazione presente nei testi dell’ufficio e delle Messe natalizie si può riassumere così: il Figlio di Dio è venuto sulla terra e ha assunto la nostra natura per portar a termine la nostra salvezza nel mistero della sua morte e risurrezione. Nell’inno dei Vespri del tempo di Natale cantiamo: «Nel gaudio del Natale ti salutiamo, Cristo, redentore del mondo». E l’orazione sulle offerte della Messa vespertina della vigilia presenta il Natale come il «grande giorno che ha dato inizio alla nostra redenzione». Il Natale è già l’inizio della redenzione nella assunzione della natura umana da parte del Figlio nella quale potrà consumare la sua passione e si renderà efficace e perpetua, sempre per opera dello Spirito, la risurrezione secondo la carne. Nel ritornello del salmo responsoriale della Messa del giorno di Natale, ispirato al Sal. 97, ripetiamo: «Tutta la terra ha veduto la salvezza del Signore». Nel bambino di Betlemme questa salvezza si è manifestata, e tutti gli uomini della terra sono invitati a contemplarla e ad accoglierla. È lo Spirito che ci rende capaci di contemplare ed accogliere questa salvezza. Perché è lui che attualizza e compie dal di dentro l’opera salvifica di Cristo (cfr. AG 4). Come dice Pio XII nella Mystici Corporis, «senza lo Spirito non si può produrre neppure un minimo atto che conduca alla salvezza».

Il brano di Is. 62,1-5, letto nella medesima Messa della vigilia di Natale, illustra il tema dell’unione sponsale tra Dio e Gerusalemme, che è figura della Chiesa. Questa unione ha la sua prima grande manifestazione nel mistero dell’Incarnazione: l’eterno Figlio di Dio appare nel tempo, indissolubilmente unito alla natura umana, nella persona di Gesù Cristo. Così pure l’antifona al Magnificat dei Vespri della solennità natalizia riprende il tema sponsale: «[...] come lo sposo dalla stanza nuziale egli viene dal Padre». Artefice di questa unione sponsale è lo Spirito Santo. San Francesco di Sales afferma in una delle sue lettere che «siamo sposi, quando per lo Spirito Santo l’anima del fedele si unisce a Gesù Cristo». Il Cristo sposa la Chiesa nello Spirito, nel bacio divino del Padre e del Figlio, nella loro donazione di amore. Il Figlio sposando la Chiesa la porterà nella casa del Padre per farle godere la vita propria delle tre Persone divine. Come dice San Paolo, «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). E San Pietro aggiunge: così siamo fatti «partecipi della natura divina» (2 Pt 1,4). Questo mistero iniziato nell’Incarnazione, partecipato da noi nei sacramenti del battesimo-confermazione, trova piena realizzazione nell’Eucaristia. La preghiera dopo la comunione della Messa del giorno di Natale afferma che il Salvatore nel mistero della sua nascita ci ha rigenerati come figli di Dio e «ci ha comunicato il dono della sua vita immortale». La stessa tematica la ritroviamo nel Prefazio III del tempo natalizio. Di questa vita immortale, lo Spirito è la primizia e la caparra (cfr. Ef 1,14; 2 Cor 1,22; 5,5).

Le due prime letture bibliche della Messa della domenica II dopo Natale mettono in rilievo il tema della Sapienza divina che «fissa la tenda in Giacobbe» (Sir 24,8) e quello della nostra predestinazione a figli di Dio per mezzo di Gesù Cristo (cfr. Ef. 1,3-6). È lo Spirito Santo che ci guida a scoprire i misteri della Sapienza di Dio e ci rende conformi all’immagine del Figlio (cfr. Ef. 1,17). Is. 63,14 attribuisce allo Spirito la funzione che nella storia del popolo d’Israele è stata esercitata dalla nube luminosa del deserto: «lo Spirito del Signore li guidava al riposo». E quello che nel libro di Isaia è attribuito allo Spirito di Dio, l’autore del libro della Sapienza lo attribuisce alla Sapienza di Dio (cfr. Sap. 10,15-21). Gesù si congeda dei suoi discepoli con questa promessa: «Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà» (Gv 16,13-14; cfr. 14,26). È lo Spirito che ci dà la comprensione del mistero del Figlio di Dio fatto uomo. Come dice San Paolo, noi abbiamo ricevuto «lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato» (1Cor 2,12). Il dono supremo che il Padre ha fatto al mondo è il suo Figlio incarnato.

Riprendendo il tema della gloria sopra accennato, possiamo affermare che il Natale è la festa della gloria di Dio. Riecheggiando le parole dell’angelo di Betlemme, la Chiesa proclama: «gloria a Dio nel più alto dei cieli» (Lc 2,14). Ma la gloria di Dio, segno della sua presenza, è ormai sulla terra: il Natale è la manifestazione della gloria di Dio. L’antifona d’ingresso della Messa della vigilia annuncia: «Oggi sapete che il Signore viene a salvarci: domani vedrete la sua gloria». In modo simile si esprime l’antifona alla comunione della stessa Messa. Questa gloria del Signore la contempliamo nel Verbo incarnato (cfr. Gv 1,14). La gloria però che il Padre ha dato al Figlio, e che si manifesta già nel mistero dell’Incarnazione, ci viene data affinché noi diventiamo una sola cosa con il Padre per opera dello Spirito (cfr. Gv 17,20). Il dono dello Spirito è la presenza in noi della gloria del Signore che ci trasforma a sua immagine (cfr. 2 Cor 3,18).

Il Dio della creazione e dell’alleanza ha inviato nella pienezza dei tempi il Figlio suo e poi, perché ne venisse proseguita l’opera, ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio (cfr. Gal 4,4-6). Se eliminiamo lo Spirito Santo, Cristo è ridotto al rango di un maestro buono e sfortunato, il cui ricordo sbiadisce sempre più col tempo. Infatti, colui per il quale Gesù è il vivente in mezzo a noi è lo Spirito. L’evento dello Spirito non prescinde mai dall’evento-Cristo, ne è anzi la ripresentazione, l’attualizzazione nella varietà della vicenda umana. Per la presenza dello Spirito la Chiesa è una comunità viva e varia, che pur fissa nella parola del suo capo, Cristo, e protesa verso l’unica sua meta, il Regno, si muove nella storia con un dinamismo ricco di forme diverse e sempre nuove. La liturgia della Chiesa ci può guidare a riscoprire e vivere questa presenza vivificante dello Spirito Santo.

l’anno liturgico, l’Avvento: rapporto che intercorre tra la celebrazione dell’ anno liturgico e la propria scelta vocazionale

dal sito:

http://www.ansdt.it/Testi/CulturaMonastica/Auge/index.html#1

Prof. Matias  Auge’ 

Anno  liturgico   

rapporto  che  intercorre tra   la  celebrazione  dell’ anno  liturgico e  la  propria  scelta  vocazionale 

Per comprendere e vivere in la sua profondità il rapporto che intercorre tra la celebrazione dell’anno liturgico e la propria scelta vocazionale, bisogna anzitutto riscoprire il « segno dell’anno liturgico » come itinerario di fede e di vita, nonché perno della catechesi permanente dell’intera Comunità cristiana. Da questa riscoperta, la pastorale della vocazioni non può che trarne utili indicazioni operative. 

1.  Anno  liturgico

      e  presa  di  coscienza  vocazionale

L’anno liturgico potrebbe essere descritto come il complesso delle celebrazioni con cui la Chiesa fa memoria annualmente del mistero di Cristo. Questo mistero si manifesta nei « misteri », che sono le « azioni » attraverso le quali in Cristo si è rivelato il disegno salvifico di Dio. Non si tratta però di una semplice riproduzione drammatica della vita terrena di Cristo; l’anno liturgico è invece una struttura rituale in cui la totalità della storia della salvezza, e cioè l’evento Cristo, nelle sue diverse proiezioni temporali di passato-presente-futuro, si attualizza nel tempo determinato di una concreta assemblea ecclesiale e nello spazio di un anno. Infatti, come insegna il Concilio Vaticano II, la Chiesa nel corso dell’anno distribuisce tutto il mistero di Cristo e, « ricordando in tal modo i misteri della redenzione, essa apre ai fedeli i tesori di potenza e di meriti del suo Signore, in modo da renderli presenti a tutti i tempi, perché i fedeli possano venirne a contatto ed essere pieni della grazia della salvezza» (SC n.102). Il ripetersi delle celebrazioni, anno dopo anno, offre alla comunità ecclesiale l’opportunità di un continuo e ininterrotto contatto con i misteri del suo Signore.

Tutto ciò è possibile perché l’evento Cristo, col suo culmine nella Pasqua, dà pienezza al tempo ma non lo chiude, per questo ogni persona che vive nella storia è chiamata ad essere coinvolta nell’evento salvifico. Possiamo quindi affermare che la liturgia fa realmente la storia della salvezza riempiendo tutto il tempo del mistero di Cristo. Come è detto nelle Premesse alle Messe della Beata Vergine Maria, « dopo la gloriosa ascensione di Cristo al cielo, l’opera della salvezza continua attraverso la celebrazione liturgica, la quale, non senza motivo, è ritenuta momento ultimo della storia delta salvezza» (n. 11).

L’anno liturgico è un itinerario di fede e di vita proposto a tutta la comunità ecclesiale e ad ogni singolo componente di essa. Un itinerario quindi univo e diversificato in cui trovano posto tante situazioni personali diverse che sono presenti nel seno della comunità cristiana. L’anno liturgico ha una forte valenza pedagogico-pastorale. Esso infatti nel suo progressivo svolgimento esprime due caratteristiche fondamentali: la « continuità » e la « ciclicità ». E questo è pedagogica- mente efficace, e risponde alle esigenze di crescita nella fede, nel rispetto della legge della ripresa progressiva degli stessi contenuti per età psicologicamente diverse. Pertanto la celebrazione dell’anno liturgico sollecita il credente partecipante ad entrare in un atteggiamento di formazione permanente. In questa cornice, il credente è stimolato a prendere coscienza delle proprie respon- sabilità, della particolare vocazione a cui è chiamato da Dio che lo sceglie e destina ad un’opera particolare nel suo disegno di salvezza. Di questo disegno salvifico, raccontato dai libri della Bibbia dalla Genesi all’Apocalisse, il credente ne prende coscienza progressiva nella partecipa- zione alla liturgia che nel corso dell’anno rinarra, interpreta e annuncia l’unico piano salvifico realizzato nel mistero di Cristo. La celebrazione dei misteri del Signore attraverso il suo svolgi- mento progressivo, diventa così visione globale dell’esperienza cristiana, che sola può generare la possibilità di scelte vocazionali all’insegna dell’impegno definitivo. Infatti, « l’unica vocazione cristiana si attua sempre nella varietà delle vocazioni particolari, fondate su diversi doni dello Spirito. Esse sono modi differenti, ma tuttavia complementari, di realizzare la chiamata alla santità, alla comunione e al servizio del Regno, rivelando ognuna un particolare aspetto della novità cristiana e manifestando nel loro insieme la pienezza del volto e dell’opera di Cristo » (CEI, La formazione deiPresbiteri nella Chiesa italiana, l980, n.21).

Il ciclo delle celebrazioni dell’anno liturgico è la cornice in cui si svolge la preghiera della Chiesa nonché il perno della catechesi permanente dell’intera comunità cristiana. L’anno liturgico è quindi anche l’ambiente ideale in cui può prendere corpo la vocazione del credente: « Momenti essenziali dell’animazione vocazionale sono specialmente la preghiera e la catechesi. La preghiera nasce dalla consapevolezza che ogni chiamata è dono dello Spirito e insieme rappresenta la fedele risposta al comando di Gesù di pregare il Padrone della messe (cf. Mt 9,38; Lc 10,2). La catechesi è orientata a formare una mentalità di fede, per la quale soltanto può nascere la decisione fondamen- tale di cercare la volontà del Padre e di farsi discepoli di Cristo » (CEI, ivi n. 25).

Se prendiamo come prototipo di vocazione quella profetica, vediamo che essa è imperniata su tre costanti: Dio, che ha l’iniziativa, raggiunge il candidato con la sua Parola, il quale è tenuto a rispondere a Dio che lo chiama. La vocazione, quindi, nasce, si sviluppa e consolida nell’ascolto delta Parola che dischiude al credente il piano di Dio e le sue implicanze col proprio progetto esistenziale. Afferma il Card. Carlo M. Martini: « La familiarità con questa Parola, il suo ascolto attento, docile e perseverante, permettono all’uomo di chiarire e riconoscere i veri punti di riferi- mento delle proprie scelte, mettendo così la sua libertà in grado di rispondere all’appello divino » (Martini, 1982, 600). Se nell’ascolto della Parola nasce e matura il proprio progetto vocazionale, l’anno liturgico è il luogo più adatto a tale ascolto. Infatti, l’itinerario celebrativo dell’anno liturgico viene fatto sotto la guida della Parola di Dio, da cui i credenti attingono, soprattutto nella celebra- zione eucaristica e in sintonia con l’interpretazione della Chiesa, il contenuto e il messaggio dei diversi misteri che nel corso dell’anno sono celebrati come espressioni dell’unico mistero che è Cristo, Parola di Dio nella sua espressione definitiva e completa. 

2.  Avvento – Natale :

      tempo  di  annuncio  e  di  ricerca

L’Avvento si presenta come un tempo di attesa del compimento della salvezza: nell’attesa gioiosa della festa del Natale, siamo orientati verso il ritorno glorioso del Signore alla fine dei tempi. La seconda venuta di Cristo, tema ricorrente soprattutto nelle prime settimane di Avvento, è in stretto rapporto con la prima venuta: la certezza della venuta di Cristo nella carne ci rincuora nell’attesa dell’ultima venata gloriosa nella quale le promesse messianiche avranno totale e defi- nitivo compimento. Nel Natale, poi, la nascita di Gesù è vista nel contesto del disegno salvifico di Dio, compiuto da Cristo nel mistero della Pasqua. La liturgia è consapevole che il Natale è ormai presente nella Chiesa, nella luce e nella realtà del mistero pasquale.

L’atteggiamento interiore che ci viene richiesto dai testi liturgici lo si può riassumere nell’attesa vigilante ed operosa in vista della rinnovata comunione con Dio. Avvento-Natale è un tempo di attesa e di ricerca in ordine a stabilire un incontro, una comunione con Dio che viene a noi. Siamo quindi invitati a cercare, scrutare e leggere i « segni » del Signore che viene come Redentore di tutta l’umanità. L’evento del Natale interpella ogni persona che non può far a meno di prendere posizione dinanzi a questo mistero. La liturgia ci propone alcune grandi figure di uomini e donne che hanno atteso con fede vigilante la venuta del Salvatore: il profeta Isaia, Maria madre di Gesù, Giuseppe sposo di Maria, Giovanni il Battista, i suoi genitori Zaccaria ed Elisabetta, i Magi giunti dall’Oriente sotto la guida della stella, il giusto Simeone e la profetessa Anna. Sono personaggi per i quali l’incontro con Cristo è stato l’evento che ha dato senso alla loro vita. Dal « Fiat » della Madonna al « Nunc dimittis » del vecchio Simeone, emerge la centralità dell’incontro con Cristo nella vita di questi uomini e donne che hanno accettato una chiamata e hanno svolto una precisa missione nell’attuazione del disegno salvifico di Dio.

Nel tempo di Avvento-Natale siamo invitati tutti ad avviare o ravvivare l’incontro con Cristo, il solo che può dar senso alla nostra vita. La vocazione nasce e si consolida nell’incontro con Cristo e con il suo progetto sulla persona. A cavallo tra il tempo di Avvento-Natale e la prima parte del Tempo Ordinario, le due prime domeniche di questo tempo si riferiscono ancora alla manifestazione del Signore, celebrata nella solennità dell’Epifania: la prima domenica celebra il Battesimo di Gesù e la seconda ci propone – con sfumature diverse negli anni A, B, e C – la mani- festazione di Gesù ai primi discepoli e la loro vocazione. In questo modo siamo avviati, dopo l’incontro, alla sequela di Gesù, per conoscerlo, stare con lui, e maturare altre eventuali chiamate.

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