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LA «VITA ETERNA» NELLA TESTIMONIANZA BIBLICA E NELLA TRADIZIONE CRISTIANA

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LA «VITA ETERNA» NELLA TESTIMONIANZA BIBLICA E NELLA TRADIZIONE CRISTIANA

Riccardo Battocchio

La vita è fragile e precaria. Di questo come essere umani abbiamo coscienza, con questo dato siamo chiamati a confrontarci, implicitamente o esplicitamente, in tutto ciò che pensiamo e operiamo. «Noi siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni…»[1]: non è detto sia l’ultima parola possibile per descrivere la nostra condizione, ma è una voce che non sarebbe giusto mettere a tacere in modo troppo sbrigativo. Da dove sorge allora la prospettiva di una vita non minacciata dall’estinzione, sottratta alla provvisorietà, tutelata rispetto all’azione divorante della morte e in grado di adempiere le promesse di bene che sembrano trovare posto anche nelle pieghe delle più tormentate esistenze? Dal desiderio, forse. Da uno sguardo che non si rassegna e non si limita a constatare il nulla che sta dietro e di fronte agli attimi che ci sono da vivere, ma ardisce volgersi al di là del tempo che consuma. Cosa però ci assicura che questo levarsi in alto degli occhi del desiderio non sia un’illusione, una proiezione al di fuori di noi di un abisso che è solo nostro, oppure una strategia adattiva, effetto di una serie di mutazioni più o meno casuali, che ci permette di sopravvivere a un ambiente ostile grazie alla costruzione mentale di un mondo stabile e sicuro?  Se la via del desiderio sembra poco praticabile, almeno a prima vista, si può pensare che la speranza nella reale possibilità di un’esistenza umana che permane nella e oltre la morte sia il dono offerto da una parola che non nasce dal cuore dell’uomo, ma da un “Altro”, il quale dice: «Tu non morrai» perché egli stesso è più forte della morte, avendola sofferta, combattuta e sconfitta. Il cristianesimo, con la sua storia complessa e i suoi volti differenziati, si propone nel quadro variegato delle esperienze religiose dell’umanità come annuncio di quella parola. Essa ha preso corpo in un momento particolare, all’interno della lunga storia di un piccolo popolo, ma si rivolge a tutti, al di là di ogni appartenenza, offrendo motivi per credere che se è vero che nel mezzo della vita facciamo sempre esperienza della morte, è ancor più vero che nella morte e oltre la morte ci è donata una vita «eterna». Vita eterna è una delle formule che i cristiani hanno privilegiato per esprimere il contenuto della speranza sorta dall’incontro, nella fede, con il Crocifisso risorto[2]. Una formula paradossale: come può la vita (realtà che sembra implicare, in qualche modo, il divenire) essere eterna (appartenere all’ambito di ciò che non muta)? Ci si può effettivamente chiedere se ci sia un contenuto di verità nell’affermazione: «credo la vita eterna», o se si tratti solo dell’espressione di un sentimento per mezzo di un ossimoro, una poetica accoppiata di opposte qualità, come “una dolce amarezza”, “una lieta tristezza”. Prima però di liquidare come falsa o persino dannosa la nozione di vita eterna, o prima di ribadirne semplicemente la legittimità, come se il suo significato fosse da sempre chiaro e univoco, è opportuno interrogarsi su ciò che queste parole hanno inteso e intendono effettivamente comunicare[3]. Non possiamo occuparci delle differenti rappresentazioni della condizione umana nella morte e al di là della morte, alcune delle quali (non tutte!) sono chiaramente associate alla prospettiva di una vita “altra” rispetto a quella sperimentata nel tempo dell’esistenza cosiddetta «terrena»[4]. Il nostro percorso si colloca all’interno dell’orizzonte di comprensione della realtà che si lascia istruire dal vangelo di Gesù Cristo, così come risuona nell’uno e nell’altro Testamento e in alcune figure significative della tradizione cristiana. Senza ricapitolare i contenuti della speranza cristiana (a cui si riferisce quell’ambito della riflessione teologica che, con termine moderno, viene chiamato escatologia), ci concentreremo su una delle sue nozioni chiave, quella appunto di vita eterna, considerandone sinteticamente la storia.

1. Passaggi e tensioni nell’Antico Testamento È necessaria una certa cautela quando, leggendo una traduzione italiana dell’Antico Testamento, ci imbattiamo in espressioni quali «amore eterno», «alleanza eterna», «vita eterna». Il termine ebraico ‘olam, tradotto generalmente in greco con aión e in italiano con eterno, non indica di per sé una condizione che si colloca «al di là» del tempo, quanto piuttosto un tempo lontano, passato da molto o proiettato nel futuro. Espressioni quali «amore eterno», «alleanza eterna», «regno eterno» e simili, non vanno riferite immediatamente a un futuro definitivo (escatologico) di tipo personale o collettivo: dicono piuttosto il carattere durevole dell’alleanza, dell’amore, del regno[5]. Non è difficile, del resto, osservare come dai libri dell’Antico Testamento non traspaia un’idea univoca del destino che attende l’uomo al momento della morte. La fede che dà stabilità al popolo d’Israele (cf. Is 7,9b) – la fede di Abramo – è fondata su una promessa e, come tale, è rivolta al futuro. Questo futuro però non si configura subito come esistenza personale oltre la morte, essendo sufficientemente rappresentato dalla discendenza, dal possesso della terra, dalla possibilità di godere in essa lo shalom («pace») donato da Dio. I defunti stanno nel «mondo sotterraneo» (lo sheol) come «ombre»: non «anime» in senso platonico, ma esistenze depotenziate, sottratte alla relazione con Dio, al quale non possono «dar lode» (cf. Sal 88,11). La prospettiva del permanere della relazione personale fra Dio e l’uomo (il giusto) nella morte e oltre la morte emerge nei testi risalenti all’epoca post-esilica. Il tema del «rapimento al cielo» di personaggi particolari (Enoch, Elia), l’esperienza della fedeltà di Dio nel momento della prova, l’esigenza di una ricompensa per il giusto sofferente di fronte alla prosperità del malvagio, interagiscono fra loro e portano a esprimere in alcuni salmi (ad es.: 49,16; 73,24; cf. anche 16,10) l’idea di un legame tra Dio e il giusto tale non solo da permettere la salvezza “dalla morte” ma anche da permanere (almeno secondo un lettura possibile dei testi) “al di là della morte”. Intorno al II secolo a.C., all’epoca delle rivolte contro la politica anti-giudaica dei Seleucidi, diventa esplicita la consapevolezza di un «risveglio» dei morti (nella totalità del loro essere personale) al momento dell’instaurazione definitiva della signoria di Dio, in vista della ricompensa dei giusti e della punizione dei malvagi. Così in Daniele: Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre (Dn 12,2-3)[6]. Se in questo passo l’attesa è quella di un risveglio dei morti a una vita «eterna» (su questa terra), il secondo libro dei Maccabei dà voce anche alla speranza che i giusti, uccisi a causa della loro fedeltà alla legge, siano accolti «in cielo» al momento stesso della morte: Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna [letteralmente: in una reviviscenza eterna di vita] (2Mac 7,9). Il contrasto fra la sorte degli empi e quella dei giusti è in primo piano nei capitoli iniziali (1-5) del libro della Sapienza: La speranza dell’empio è come pula portata dal vento, come schiuma leggera sospinta dalla tempesta; come fumo dal vento è dispersa, si dilegua come il ricordo dell’ospite di un solo giorno. I giusti al contrario vivono per sempre, la loro ricompensa è presso il Signore e di essi ha cura l’Altissimo (Sap 5,14-15). Vita «eterna» è quindi la relazione personale con Dio che continua, per chi è fedele all’alleanza, anche oltre la morte, non come prolungamento indefinito dell’esistenza terrena, ma come partecipazione alla vita di Dio, l’Eterno, il Vivente, che si manifesta tale rimanendo fedele alla sua promessa. La speranza nell’adempimento delle promesse di Dio può essere espressa con immagini diverse e con linguaggi non sempre facilmente sovrapponibili. L’interpretazione cristiana delle Sacre Scritture del popolo ebraico coglie volentieri una dinamica progressiva nel modo in cui la speranza d’Israele passa da una rappresentazione del futuro promesso da Dio come legato alla terra, a una coscienza più marcatamente “escatologica” di tale futuro, orientato al compimento che è il Cristo. Questa prospettiva, in sé legittima, non dovrebbe far dimenticare i caratteri specifici di ogni tradizione (legge, profeti, scritti) o le tensioni presenti all’interno dell’esperienza di fede d’Israele, con le quali il Nuovo Testamento si confronta a partire dal criterio interpretativo rappresentato dalla vicenda di Gesù, dalla sua morte e risurrezione[7].

2. Prospettive nel Nuovo Testamento Bíos, psyché, zoé sono i tre termini del greco neotestamentario che in italiano possono essere tradotti con «vita». Se i primi due si riferiscono al dato biologico, la condizione dell’uomo in quanto essere vivente tra gli altri esseri viventi o, nel caso di bíos alle esigenze dell’esistenza materiale, il terzo dice una modalità dell’esistenza possibile solo grazie a una particolare iniziativa di Dio. Anche quando non viene qualificato dall’aggettivo «eterna» (aiónios), il sostantivo zoé ha una connotazione teologica: è tuttavia alla formula vita eterna che intendiamo prestare ora attenzione[8]. – In Paolo, vita eterna è la ricompensa che Dio concede «a coloro che, perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità» (Rm 2,7). Contesto e linguaggio non sono lontani da quelli dell’apocalittica, con al centro il tema del giudizio di Dio (cf. Dn 12,2): la novità è rappresentata dal riferimento a «Gesù Cristo nostro signore», per mezzo del quale regna la grazia «mediante la giustizia per la vita eterna» (Rm 5,21). La vita eterna è il destino / il fine (télos) e il dono (chárisma) concesso a quanti, tramite la fede e il battesimo, per l’azione dello Spirito (principio datore di vita), sono resi partecipi della morte e della vita di Cristo crocifisso e risorto (cf. Rm 6,22-23). La comunione con Cristo inizia nella vita terrena, ma si compie nella risurrezione dei morti: Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita (zoopoiethésovtai) (1Cor 15,22). – Lo sguardo rivolto al futuro accompagna l’utilizzo, non frequente, della nostra espressione nei Sinottici. Vita eterna è ciò che il giovane di Mt 19,16-22 desidera avere: «Maestro, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?» (Mt 19,16, cf. Mc 10,17; Lc 18,18). Per Gesù, essa è l’eredità («nel tempo che verrà») di quanti avranno lasciato «case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi» per il suo nome (cf. Mt 19,29; Mc 10,30; Lc 18,30); è la condizione a cui avranno accesso «i giusti», coloro che si sono messi a servizio «di uno dei fratelli più piccoli» (Mt 25,46). – Anche negli Atti degli Apostoli, la vita eterna è quella a cui sono «destinati» (tetagménoi) quanti accolgono nella fede la parola di Dio annunciata da Paolo e Barnaba (At 13,4-48). – A enunciare il carattere non solo futuro della vita «eterna» sono soprattutto gli scritti giovannei. La vita eterna è il dono del Figlio unigenito, inviato dal Padre. Ad essa si accede fin da ora tramite la fede e l’obbedienza, accogliendo cioè la rivelazione («l’esegesi», cf. Gv 1,18) offerta da Gesù, il Logos incarnato, del Dio che «nessuno ha mai visto»: E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna [altra traduzione possibile: «perché chiunque crede, in lui abbia la vita eterna»]. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna [...] Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui (Gv 3,15-16.36; cf. anche 6,47). Il luogo in cui avviene il passaggio «dalla morte alla vita» è l’ascolto della parola di Gesù (cf. Gv 5,24: «In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita») e, insieme, l’osservanza del comandamento dell’amore (cf. 1Gv 3,15: «Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida ha più la vita eterna che dimora in lui»). La parola di Gesù è «sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14) e «cibo che rimane per la vita eterna» (Gv 6,27). Egli «ha parole di vita eterna» (Gv 6,68) e «dà la vita eterna» alle pecore di cui è pastore e dalla cui mano non potranno essere rapite (Gv 10,28). Gesù stesso, come si legge all’inizio della prima lettera di Giovanni, è «la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi» (1Gv 1,2; cf. anche la conclusione della lettera, 1Gv 5,20: «Egli è il vero Dio e la vita eterna»). La vita eterna che Dio ci ha dato è la vita «nel suo Figlio» (1Gv 5,11). Se la vita eterna è sperimentata fin da ora nella relazione con Gesù (la fede), il suo compimento è collegato all’evento escatologico della risurrezione: Questa infatti è la volontà del Padre: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno (Gv 6,40). È una realtà data ora e, allo stesso tempo, “promessa” (cf. 1Gv 2,25). Il carattere insieme “presente” e “futuro” della vita eterna, con la tensione che ne deriva, è analogo a quello che connota l’immagine del «regno di Dio», a cui ricorrono con maggior frequenza i Sinottici per dire l’attuarsi di una situazione nuova e definitiva nel rapporto fra Dio e l’umanità. “Presente” e “futuro” s’intrecciano, tanto nella nozione di vita eterna, tanto in quella di «regno di Dio». Abbiamo lasciato per ultimo un testo giovanneo nel quale la nozione di vita eterna viene caratterizzata come «conoscenza». Rivolgendosi al Padre, nel momento della sua «ora», Gesù chiede che sia manifestata la sua «gloria» di Figlio e aggiunge: Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo (Gv 17,2-3). Non si tratta di una conoscenza di tipo puramente intellettuale o gnostica (abbiamo appena visto come la vita eterna presupponga e implichi l’obbedienza ai comandamenti e come essa sia mediata da un evento storico), quanto piuttosto dell’esperienza diretta e intima del Padre resa possibile da Gesù, dalla fede in lui, che pure non esclude una dimensione “dottrinale”, almeno incoativamente[9]. Il v. 17,3 assume un rilievo particolare se considerato in rapporto ad altri due passi neotestamentari (uno giovanneo, l’altro paolino) nei quali il compimento futuro della storia della creatura umana viene rappresentato nei termini della «visione di Dio». Così in 1Gv 3,2: «Sappiamo [...] che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è» e in 1Cor 13,12: «Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto». È partendo da questi testi che la tradizione cristiana successiva ha in molti casi privilegiato l’idea della «visione di Dio» come contenuto proprio del concetto di vita eterna[10]. 3. Ireneo, Agostino, la tradizione orientale, Tommaso d’Aquino – Il motivo del «vedere Dio» occupa un posto di rilievo nell’elaborazione del tema escatologico proposta verso la fine del II secolo da Ireneo di Lione (130-202), come si ricava da un passaggio giustamente celebre del quarto libro della sua opera Contro le eresie: L’uomo [...] non può vedere Dio da sé; ma egli di sua volontà si farà vedere dagli uomini che vuole, quando vuole e come vuole. Dio è potente in tutte le cose: fu visto allora profeticamente mediante lo Spirito, fu visto poi adottivamente mediante il Figlio e lo sarà poi anche nel regno dei cieli paternalmente, perché lo Spirito prepara in precedenza l’uomo per il Figlio di Dio, il Figlio lo conduce al Padre e il Padre gli dà l’incorruttibilità per la vita eterna che tocca a ciascuno per il fatto di vedere Dio. Come coloro che vedono la luce sono nella luce e partecipano del suo splendore, così coloro che vedono Dio sono in Dio, partecipando del suo splendore. Perché lo splendore di Dio vivifica! Dunque coloro che vedono Dio parteciperanno della vita. E per questo colui che è incomprensibile, inafferrabile e invisibile si presenta agli uomini come visibile, afferrabile e comprensibile, per vivificare coloro che lo comprendono e lo vedono. Come la sua grandezza è imperscrutabile, così è inesprimibile anche la sua bontà, grazie alla quale si fa vedere e dà la vita a coloro che lo vedono. Infatti, è impossibile vivere senza la vita, l’esistenza della vita è possibile grazie alla partecipazione di Dio e la partecipazione di Dio consiste nel vedere Dio e godere della sua bontà. Gli uomini, dunque, vedranno Dio per vivere, divenendo immortali, grazie a questa visione, e arrivando fino a Dio (IV, 20,5-6)[11]. Nei testi patristici in cui la vita eterna è associata alla «visione di Dio» – oltre a Ireneo, dobbiamo ricordare Clemente di Alessandria, Origene, Gregorio di Nissa, Basilio di Cesarea, per i greci; Ambrogio e Agostino, per i latini[12] – non è difficile riconoscere l’intrecciarsi della tematica propriamente scritturistica con la spiccata preferenza, non priva di problemi, che la tradizione greca (e, in genere, occidentale) accorda al “vedere”, considerato come il modo migliore per entrare in rapporto con la realtà[13]. – La dimensione affettiva, non solo intellettuale, del «vedere Dio» è tuttavia ben presente in Agostino di Ippona (354-430): basti pensare al modo in cui egli collega desiderio di verità e desiderio di felicità (di una vita “beata”), giungendo a definire quest’ultima come gaudium de veritate, «piacere del vero»[14]. Tutta la storia è chiamata a sfociare nella visione, nell’amore, nella lode: Là [nel sabato senza tramonto, nell’ottavo giorno della vita eterna, consacrato nella risurrezione di Cristo] riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo[15]. Possiamo aggiungere che, per Agostino, vita eterna significa «essere in Dio»: è lui «il nostro luogo», come spiega commentando il v. 21 del Sal 31(30): «Tu li nascondi al riparo del tuo volto[16]. In questo modo egli offre un importante criterio ermeneutico delle affermazioni ricavate dalla Scrittura, riprese tanto dai Padri quanto dagli autori medievali, dalla predicazione e dalla catechesi, relative a una localizzazione “in cielo” della vita eterna. – La riflessione sulla vita eterna come “visione di Dio” è stata approfondita dalla teologia dell’Oriente cristiano soprattutto in reazione agli scritti di Eunomio (330 ca. – 392/5), avversario della dottrina nicena della omousia («consustanzialità») del Figlio rispetto al Padre e sostenitore della tesi secondo la quale la ragione può conoscere Dio come egli stesso si conosce. Tra IV e V secolo, autori come Teodoreto di Ciro e Giovanni Crisostomo svilupparono l’idea di una distinzione tra la visione della «gloria» e la visione dell’«essenza» di Dio: solo la prima è accessibile all’uomo, mentre la seconda rimane incomprensibile. Su questa distinzione s’innesteranno dibattiti di lunga durata, all’interno del mondo teologico di lingua greca e nel confronto tra questo e l’Occidente latino[17]. – Un esempio efficace del modo in cui la vita eterna era intesa nell’ambito della riflessione latina medievale si può trovare in un testo che deriva da una serie di prediche nelle quali, durante la quaresima del 1273, Tommaso d’Aquino (1224-1274) ha commentato il Simbolo apostolico. Ecco quanto si legge a proposito dell’articolo conclusivo: La vita eterna, in quanto meta finale di tutti i nostri desideri, giustamente nel Simbolo viene posta al termine di tutte le altre verità da credere, quando vi si dice: «Credo la vita eterna». Sono contrari a questa verità coloro che sostengono che l’anima muore col corpo. Ma se ciò fosse vero, non ci sarebbe differenza tra l’uomo e i bruti. [...]. L’anima, invece, per la sua immortalità è simile a Dio, è simile ai bruti solo per la parte sensitiva [...]. In questo articolo della nostra fede dobbiamo innanzitutto considerare che tipo di vita sia la vita eterna. Orbene, essa consiste: 1. Nell’unione con Dio. Premio e fine di tutte le nostre fatiche è infatti Dio in persona [...]. Questa unione consiste poi innanzitutto in una perfetta visione di lui [...]. Consiste poi anche in un ferventissimo amore, perché più uno lo si conosce, e più lo si ama; e in una somma lode di lui [...]. 2. Nell’appagamento totale e perfetto di ogni desiderio. Nella vita eterna ogni beato troverà l’appagamento di quanto ha desiderato e sperato. La ragione è, che niente nella vita presenta può appagare pienamente i desideri dell’uomo, né vi è alcunché di creato che possa soddisfare le sue aspirazioni. Soltanto Dio può saziarle e sorpassarle infinitamente [...]. Tutto ciò che può recare diletto si trova infatti nella vita eterna e in sovrabbondanza. Se si desiderano godimenti, là vi sarà il sommo e perfetto godimento, perché avrà come oggetto Dio che è il sommo bene [...]. Se si desiderano onori, là si avranno tutti [...]. Se poi si desidera la scienza, là sarà perfettissima, perché conosceremo la natura delle cose, ogni verità e tutto quello che vorremo sapere. E quanto vorremo avere, lo avremo con la vita eterna [...]. 3. Nella perfetta sicurezza. Mentre, infatti, in questo mondo non c’è perfetta sicurezza, perché quanto più ricchezze uno possiede e più onorifiche sono le sue cariche, tanto più ha paura di perderle e gli mancano inoltre tante altre cose, nella vita eterna non c’è invece alcuna tristezza, nessuna fatica, nessun timore [...]. 4. Nella lieta compagnia dei beati. Trovarsi insieme a tutti i buoni sarà una compagnia massimamente piacevole, perché ciascuno avrà così tutti i beni in comune a tutti i loro e là ciascuno amerà l’altro come se stesso e godrà di quello altrui come del proprio bene. E ciò farà sì che, aumentando la gioia e la felicità di uno, aumenti la felicità di tutti, come dice il salmista: «Quelli che sono in te, sono tutti lieti e festosi (Sal 87 [86],7)»[18]. Le opere maggiori di Tommaso offrono abbondante materiale per sviscerare quanto è qui ricapitolato. Merita in ogni caso sottolineare come sia il tema del fine ultimo dell’uomo, declinato nei termini di “visione essenziale” di Dio, ad avere un deciso rilievo strutturale. L’uomo è creato per «vedere Dio», al di fuori del quale non può, per sua natura, trovare il pieno compimento del desiderio di conoscere e di amare che lo caratterizza. Tale compimento, a cui l’uomo non giunge da se stesso ma in quanto abilitato dalla grazia, lo pone in un rapporto immediato con Dio, oggetto ma anche mezzo («forma») della visione[19]. Tommaso va segnalato anche per i testi nei quali, in una prospettiva che si collega a quella giovannea, egli raccorda il presente dell’esistenza umana nella fede e nella grazia con la sua condizione futura nella gloria. In questo senso, egli propone di definire la fede come l’inclinazione o disposizione stabile dello spirito (habitus mentis) grazie alla quale «inizia in noi la vita eterna»[20].

4. Questioni relative alla visione beatifica Se la tradizione cristiana registra un ampio consenso nell’identificazione della vita eterna con la “visione beatificante di Dio”, i problemi sorgono quando si va a considerare il modo in cui è pensata tale «visione». La storia della teologia ci consegna due momenti, in parte connessi e cronologicamente vicini (siamo nel XIV secolo), nei quali il tema è stato oggetto di controversie e di intensi dibattiti. – Nel mondo latino, la discussione si è incentrata sul carattere immediato o meno della retribuzione dei giusti (visione di Dio) e dei malvagi (dannazione) al momento della loro morte. La vicenda è nota: dal 1331 al 1334 papa Giovanni XXII pronunciò una serie di sei omelie nelle quali, riprendendo idee presenti in alcuni autori dell’antichità cristiana e appoggiandosi all’autorità di san Bernardo, sosteneva che prima della risurrezione e del giudizio finale le anime dei giusti possono contemplare solo l’umanità di Cristo, non l’essenza stessa di Dio. L’opinione del papa fece scalpore e suscitò una vasta opposizione, nella quale s’intrecciavano motivi dottrinali e politici. Dopo aver incaricato una commissione di studiare l’argomento, Giovanni XXII fece in tempo a preparare una bolla, sottoscritta il 3 dicembre 1334, un giorno prima della sua morte, con la quale prendeva le distanze da affermazioni da lui pronunciate che fossero eventualmente apparse dissonanti dalla fede cattolica[21]. Poco più di un anno dopo, il suo successore, Benedetto XII, con la costituzione Benedictus Deus (19 gennaio 1336) definì come verità di fede la retribuzione immediata, dopo la morte, per i giusti e per i malvagi. Le anime dei giusti subito dopo la loro morte, e la purificazione [...] in coloro che erano bisognosi di tale purificazione, anche prima della risurrezione dei loro corpi e del giudizio universale [...] furono, sono e saranno in cielo, nel regno dei cieli e del celeste paradiso, con Cristo, associate alla compagnia degli angeli santi; e [...] queste [anime] [...] hanno visto e vedono l’essenza divina con una visione intuitiva e, più ancora, faccia a faccia, senza che ci sia, in ragione di oggetto visto, la mediazione di nessuna creatura, rivelandosi invece a loro l’essenza divina in modo immediato, scoperto, chiaro e palese[22]. – Un secondo motivo di dibattito riguarda la possibilità per l’uomo di vedere “l’essenza” di Dio che la Scrittura dichiara essere invisibile e inaccessibile[23]. La ripresa operata da Gregorio Palamas (1296-1359) della distinzione tra «essenza» (inaccessibile) ed «energie divine increate» (che agiscono, come la luce del Tabor, “divinizzando” la creatura umana) indicò un percorso seguito volentieri dalla tradizione orientale ma accolto con perplessità dall’Occidente latino, dove si preferì ribadire la dottrina della grazia “creata” e la differenza fra «visione» e «comprensione» di Dio: la prima possibile grazie a un dono (il lumen gloriae) che permette all’intelligenza umana di partecipare, rimanendo nella sua finitezza, alla vita di Dio; la seconda inaccessibile anche nella gloria all’intelletto umano finito.

5. Istanze di rinnovamento nell’escatologia del XX secolo L’esigenza di andare oltre la concezione piuttosto individualistica e spiritualistica della vita eterna – quale si era imposta nell’insegnamento, nella predicazione, nella catechesi e nella devozione dei cristiani, anche in seguito ai dibattiti a cui abbiamo accennato – ha segnato il vivace rinnovamento dell’escatologia promosso all’inizio del XX secolo da una rilettura dei testi biblici e, in particolare, del tema del «regno di Dio», accompagnato da una spiccata sensibilità per la dimensione storica e comunitaria dell’esperienza cristiana e dall’individuazione del principio cristologico come chiave di lettura della rivelazione. Il cattolicesimo ha recepito questi stimoli con il concilio Vaticano II, esplicitando nei nn. 48-51 della Lumen gentium la coscienza della dimensione ecclesiale e insieme cosmica della vita eterna: la vicenda di ogni singola persona, nei suoi diversi passaggi, non può essere interpretata al di fuori del cammino che, in modi diversi e non sempre visibili, la lega agli altri (alla chiesa) e a tutte le realtà che costituiscono il nostro mondo (aspetto, questo, sviluppato nel n. 39 della Gaudium et spes)[24]. Anche la questione del cosiddetto «stato intermedio» (come pensare la condizione dell’individuo tra la morte e il pieno compimento nella risurrezione dei morti?), alla quale nei decenni scorsi hanno prestato attenzione tanto alcuni teologi di diverse confessioni cristiane (O. Cullmann, G. Greshake, N. Lohfink, K. Rahner, J. Ratzinger) quanto alcune istanze dottrinali cattoliche[25], va ripensata in questa prospettiva ecclesiale e cosmica: lo «stato intermedio» è il tempo della chiesa, in cammino verso la piena comunione con Dio uno e trino, nella diversità di condizioni in cui si trovano i suoi membri (Maria, i santi, coloro che «vengono purificati»). In questo quadro, perdono significato le obiezioni di quanti ritengono che l’idea di vita eterna sia sinonimo di staticità e, in definitiva, di noia. Al di là di tutte le rappresentazioni concrete, per loro natura inadeguate, il compimento definitivo annunciato dalla rivelazione cristiana è pienezza e ricchezza di vita, per la singola persona, per l’umanità nel suo insieme e anche per il mondo materiale[26]. Le immagini trasmesse dalla Sacra Scrittura per dire la vita eterna (il banchetto, le nozze, la città illuminata dall’Agnello…) vanno continuamente riprese e interpretate (non “concettualizzate”). L’eternità – la comunione piena con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che è insieme comunione con tutte le creature liberate dalla corruzione del peccato e della morte – è oggetto di speranza, ma può essere anche oggetto di pensiero, partendo anche dalle piccole «esperienze di eternità» che ci sono donate nel tempo: l’esperienza dell’amore, della bellezza, della scoperta di piccole o grandi verità, della gioia di condividere quello che siamo e possediamo.

 (MOLTE NOTE VEDERE SUL SITO)

 

BENEDETTO XVI – IO CREDO IN DIO: IL CREATORE DEL CIELO E DELLA TERRA, IL CREATORE DELL’ESSERE UMANO

https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2013/documents/hf_ben-xvi_aud_20130206.html

BENEDETTO XVI – IO CREDO IN DIO: IL CREATORE DEL CIELO E DELLA TERRA, IL CREATORE DELL’ESSERE UMANO

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 6 febbraio 2013

Cari fratelli e sorelle,

il Credo, che inizia qualificando Dio come “Padre Onnipotente”, come abbiamo meditato la settimana scorsa, aggiunge poi che Egli è il “Creatore del cielo e della terra”, e riprende così l’affermazione con cui inizia la Bibbia. Nel primo versetto della Sacra Scrittura, infatti, si legge: «In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gen 1,1): è Dio l’origine di tutte le cose e nella bellezza della creazione si dispiega la sua onnipotenza di Padre che ama. Dio si manifesta come Padre nella creazione, in quanto origine della vita, e, nel creare, mostra la sua onnipotenza. Le immagini usate dalla Sacra Scrittura al riguardo sono molto suggestive (cfr Is 40,12; 45,18; 48,13; Sal 104,2.5; 135,7; Pr 8, 27-29; Gb 38–39). Egli, come un Padre buono e potente, si prende cura di ciò che ha creato con un amore e una fedeltà che non vengono mai meno, dicono ripetutamente i salmi (cfr Sal 57,11; 108,5; 36,6). Così, la creazione diventa luogo in cui conoscere e riconoscere l’onnipotenza del Signore e la sua bontà, e diventa appello alla fede di noi credenti perché proclamiamo Dio come Creatore. «Per fede, – scrive l’autore della Lettera agli Ebrei – noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio, sicché dall’invisibile ha preso origine il mondo visibile» (11,3). La fede implica dunque di saper riconoscere l’invisibile individuandone la traccia nel mondo visibile. Il credente può leggere il grande libro della natura e intenderne il linguaggio (cfr Sal 19,2-5); ma è necessaria la Parola di rivelazione, che suscita la fede, perché l’uomo possa giungere alla piena consapevolezza della realtà di Dio come Creatore e Padre. È nel libro della Sacra Scrittura che l’intelligenza umana può trovare, alla luce della fede, la chiave di interpretazione per comprendere il mondo. In particolare, occupa un posto speciale il primo capitolo della Genesi, con la solenne presentazione dell’opera creatrice divina che si dispiega lungo sette giorni: in sei giorni Dio porta a compimento la creazione e il settimo giorno, il sabato, cessa da ogni attività e si riposa. Giorno della libertà per tutti, giorno della comunione con Dio. E così, con questa immagine, il libro della Genesi ci indica che il primo pensiero di Dio era trovare un amore che risponda al suo amore. Il secondo pensiero è poi creare un mondo materiale dove collocare questo amore, queste creature che in libertà gli rispondono. Tale struttura, quindi, fa sì che il testo sia scandito da alcune ripetizioni significative. Per sei volte, ad esempio, viene ripetuta la frase: «Dio vide che era cosa buona» (vv. 4.10.12.18.21.25), per concludere, la settima volta, dopo la creazione dell’uomo: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (v. 31). Tutto ciò che Dio crea è bello e buono, intriso di sapienza e di amore; l’azione creatrice di Dio porta ordine, immette armonia, dona bellezza. Nel racconto della Genesi poi emerge che il Signore crea con la sua parola: per dieci volte si legge nel testo l’espressione «Dio disse» (vv. 3.6.9.11.14.20.24.26.28.29). E’ la parola, il Logos di Dio che è l’origine della realtà del mondo e dicendo: “Dio disse”, fu così, sottolinea la potenza efficace della Parola divina. Così canta il Salmista: «Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro schiera…, perché egli parlò e tutto fu creato, comandò e tutto fu compiuto» (33,6.9). La vita sorge, il mondo esiste, perché tutto obbedisce alla Parola divina. Ma la nostra domanda oggi è: nell’epoca della scienza e della tecnica, ha ancora senso parlare di creazione? Come dobbiamo comprendere le narrazioni della Genesi? La Bibbia non vuole essere un manuale di scienze naturali; vuole invece far comprendere la verità autentica e profonda delle cose. La verità fondamentale che i racconti della Genesi ci svelano è che il mondo non è un insieme di forze tra loro contrastanti, ma ha la sua origine e la sua stabilità nel Logos, nella Ragione eterna di Dio, che continua a sorreggere l’universo. C’è un disegno sul mondo che nasce da questa Ragione, dallo Spirito creatore. Credere che alla base di tutto ci sia questo, illumina ogni aspetto dell’esistenza e dà il coraggio di affrontare con fiducia e con speranza l’avventura della vita. Quindi, la scrittura ci dice che l’origine dell’essere, del mondo, la nostra origine non è l’irrazionale e la necessità, ma la ragione e l’amore e la libertà. Da questo l’alternativa: o priorità dell’irrazionale, della necessità, o priorità della ragione, della libertà, dell’amore. Noi crediamo in questa ultima posizione. Ma vorrei dire una parola anche su quello che è il vertice dell’intera creazione: l’uomo e la donna, l’essere umano, l’unico “capace di conoscere e di amare il suo Creatore” (Cost. past. Gaudium et spes, 12). Il Salmista guardando i cieli si chiede: «Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?» (8,4-5). L’essere umano, creato con amore da Dio, è ben piccola cosa davanti all’immensità dell’universo; a volte, guardando affascinati le enormi distese del firmamento, anche noi abbiamo percepito la nostra limitatezza. L’essere umano è abitato da questo paradosso: la nostra piccolezza e la nostra caducità convivono con la grandezza di ciò che l’amore eterno di Dio ha voluto per lui. I racconti della creazione nel Libro della Genesi ci introducono anche in questo misterioso ambito, aiutandoci a conoscere il progetto di Dio sull’uomo. Anzitutto affermano che Dio formò l’uomo con la polvere della terra (cfr Gen 2,7). Questo significa che non siamo Dio, non ci siamo fatti da soli, siamo terra; ma significa anche che veniamo dalla terra buona, per opera del Creatore buono. A questo si aggiunge un’altra realtà fondamentale: tutti gli esseri umani sono polvere, al di là delle distinzioni operate dalla cultura e dalla storia, al di là di ogni differenza sociale; siamo un’unica umanità plasmata con l’unica terra di Dio. Vi è poi un secondo elemento: l’essere umano ha origine perché Dio soffia l’alito di vita nel corpo modellato dalla terra (cfr Gen 2,7). L’essere umano è fatto a immagine e somiglianza di Dio (cfr Gen 1,26-27). Tutti allora portiamo in noi l’alito vitale di Dio e ogni vita umana – ci dice la Bibbia – sta sotto la particolare protezione di Dio. Questa è la ragione più profonda dell’inviolabilità della dignità umana contro ogni tentazione di valutare la persona secondo criteri utilitaristici e di potere. L’essere ad immagine e somiglianza di Dio indica poi che l’uomo non è chiuso in se stesso, ma ha un riferimento essenziale in Dio. Nei primi capitoli del Libro della Genesi troviamo due immagini significative: il giardino con l’albero della conoscenza del bene e del male e il serpente (cfr 2,15-17; 3,1-5). Il giardino ci dice che la realtà in cui Dio ha posto l’essere umano non è una foresta selvaggia, ma luogo che protegge, nutre e sostiene; e l’uomo deve riconoscere il mondo non come proprietà da saccheggiare e da sfruttare, ma come dono del Creatore, segno della sua volontà salvifica, dono da coltivare e custodire, da far crescere e sviluppare nel rispetto, nell’armonia, seguendone i ritmi e la logica, secondo il disegno di Dio (cfr Gen 2,8-15). Poi, il serpente è una figura che deriva dai culti orientali della fecondità, che affascinavano Israele e costituivano una costante tentazione di abbandonare la misteriosa alleanza con Dio. Alla luce di questo, la Sacra Scrittura presenta la tentazione che subiscono Adamo ed Eva come il nocciolo della tentazione e del peccato. Che cosa dice infatti il serpente? Non nega Dio, ma insinua una domanda subdola: «È vero che Dio ha detto “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino?”» (Gen 3,1). In questo modo il serpente suscita il sospetto che l’alleanza con Dio sia come una catena che lega, che priva della libertà e delle cose più belle e preziose della vita. La tentazione diventa quella di costruirsi da soli il mondo in cui vivere, di non accettare i limiti dell’essere creatura, i limiti del bene e del male, della moralità; la dipendenza dall’amore creatore di Dio è vista come un peso di cui liberarsi. Questo è sempre il nocciolo della tentazione. Ma quando si falsa il rapporto con Dio, con una menzogna, mettendosi al suo posto, tutti gli altri rapporti vengono alterati. Allora l’altro diventa un rivale, una minaccia: Adamo, dopo aver ceduto alla tentazione, accusa immediatamente Eva (cfr Gen 3,12); i due si nascondono dalla vista di quel Dio con cui conversavano in amicizia (cfr 3,8-10); il mondo non è più il giardino in cui vivere con armonia, ma un luogo da sfruttare e nel quale si celano insidie (cfr 3,14-19); l’invidia e l’odio verso l’altro entrano nel cuore dell’uomo: esemplare è Caino che uccide il proprio fratello Abele (cfr 4,3-9). Andando contro il suo Creatore, in realtà l’uomo va contro se stesso, rinnega la sua origine e dunque la sua verità; e il male entra nel mondo, con la sua penosa catena di dolore e di morte. E così quanto Dio aveva creato era buono, anzi, molto buono, dopo questa libera decisione dell’uomo per la menzogna contro la verità, il male entra nel mondo. Dei racconti della creazione, vorrei evidenziare un ultimo insegnamento: il peccato genera peccato e tutti i peccati della storia sono legati tra di loro. Questo aspetto ci spinge a parlare di quello che è chiamato il “peccato originale”. Qual è il significato di questa realtà, difficile da comprendere? Vorrei dare soltanto qualche elemento. Anzitutto dobbiamo considerare che nessun uomo è chiuso in se stesso, nessuno può vivere solo di sé e per sé; noi riceviamo la vita dall’altro e non solo al momento della nascita, ma ogni giorno. L’essere umano è relazione: io sono me stesso solo nel tu e attraverso il tu, nella relazione dell’amore con il Tu di Dio e il tu degli altri.  Ebbene, il peccato è turbare o distruggere la relazione con Dio, questa la sua essenza: distruggere la relazione con Dio, la relazione fondamentale, mettersi al posto di Dio. Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che con il primo peccato l’uomo “ha fatto la scelta di se stesso contro Dio, contro le esigenze della propria condizione creaturale e conseguentemente contro il proprio bene” (n. 398). Turbata la relazione fondamentale, sono compromessi o distrutti anche gli altri poli della relazione, il peccato rovina le relazioni, così rovina tutto, perché noi siamo relazione. Ora, se la struttura relazionale dell’umanità è turbata fin dall’inizio, ogni uomo entra in un mondo segnato da questo turbamento delle relazioni, entra in un mondo turbato dal peccato, da cui viene segnato personalmente; il peccato iniziale intacca e ferisce la natura umana (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 404-406). E l’uomo da solo, uno solo non può uscire da questa situazione, non può redimersi da solo; solamente il Creatore stesso può ripristinare le giuste relazioni. Solo se Colui dal quale ci siamo allontanati viene a noi e ci tende la mano con amore, le giuste relazioni possono essere riannodate. Questo avviene in Gesù Cristo, che compie esattamente il percorso inverso di quello di Adamo, come descrive l’inno nel secondo capitolo della Lettera di San Paolo ai Filippesi (2,5-11): mentre Adamo non riconosce il suo essere creatura e vuole porsi al posto di Dio, Gesù, il Figlio di Dio, è in una relazione filiale perfetta con il Padre, si abbassa, diventa il servo, percorre la via dell’amore umiliandosi fino alla morte di croce, per rimettere in ordine le relazioni con Dio. La Croce di Cristo diventa così il nuovo albero della vita. Cari fratelli e sorelle, vivere di fede vuol dire riconoscere la grandezza di Dio e accettare la nostra piccolezza, la nostra condizione di creature lasciando che il Signore la ricolmi del suo amore e così cresca la nostra vera grandezza. Il male, con il suo carico di dolore e di sofferenza, è un mistero che viene illuminato dalla luce della fede, che ci dà la certezza di poterne essere liberati: la certezza che è bene essere un uomo.

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