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L’UOMO NUOVO – LA GIUSTIFICAZIONE (ANNO PAOLINO)

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L’UOMO NUOVO – LA GIUSTIFICAZIONE (ANNO PAOLINO)

Autore: Re, Don PieroCuratore:Riva, Sr. Maria GloriaFonte:CulturaCattolica.it

Lo Spirito di Cristo non è dunque soltanto il Maestro interiore, una garanzia delle promesse fatte, ma costituisce il fermento che trasforma il ”vecchio uomo” in figlio di Dio: «Tutti coloro che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio… Avete ricevuto uno Spirito da figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!…Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi» (Rom 8, 14-16; cf Gal 4, 4-7; Tito 3, 5-7).
Determinante rilievo assume lo Spirito del Padre e del Figlio, effuso a Pentecoste, in quell’esplicito rapporto con Dio che è la preghiera del cristiano. Senza di Esso, non ci sarebbe vera preghiera: «Nessuno può dire ”Gesù è Signore”, se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1Cor 12, 3). Sempre desto nella parte più segreta del nostro essere, lo Spirito supplisce alle nostre carenze e offre al Padre l’adorazione a Lui dovuta, insieme alle nostre aspirazioni più profonde: «Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare; ma lo Spirito stesso intercede per noi con insistenza, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Rom 8, 26s).
La giustificazione (dikaiosýne) è il frutto di tutta la vicenda redentiva: dalla universale e irrimediabile condizione di ignoranza e corruzione in cui versava l’umanità decaduta, la grazia di Dio misericordioso – con l’effusione dello Spirito di Cristo morto e risorto – ci ha resi giusti, ”creatura nuova”. In una misura che va oltre ogni attesa: «Laddove il peccato è abbondato, ha sovrabbondato la grazia» (Rom 5, 20).
Dunque la giustificazione non è soltanto liberazione dal peccato e dalla morte o possibilità di un miglioramento morale. Con il perdono ci viene data una nuova appartenenza, diventiamo di un altro ”Kúrios”, del Signore Gesù. Essa è una rinascita di tutto l’essere, una santificazione che conferisce all’uomo un nuovo statuto interiore, da cui le opere giuste fluiranno come frutto della salvezza ricevuta: «Secondo la verità che è in Gesù, dovete deporre l’uomo vecchio… Dovete rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4, 21-24; cf Col 3, 9).
Tale rinascita, conseguente alla fede di chi si lascia abbracciare dalla misericordia divina, è accompagnata e visibilmente espressa dal rito efficace del battesimo: «Tutti voi, infatti, siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo» (Gal 3, 26s). L’immersione nell’acqua del fonte seppellisce il peccatore nella morte di Cristo (cf Col 2, 12), da dove esce mediante la risurrezione con Lui (cf Rom 6, 2-5). È così divenuto creatura nuova e purificata (cf Ef 5, 26; 1Cor 6, 11) «nel lavacro di rigenerazione» (Tito 3,5) e da Cristo illuminata (cf Ef 4, 14).
La ”cristificazione” potrebbe essere il termine più appropriato e comprensivo di quanto la giustificazione dona all’uomo nuovo, purificato e santificato dalla fede e dal battesimo.
La concezione che Paolo ha dell’uomo nuovo è caratterizzata da una componente ”mistica”, in quanto comporta una mutua compenetrazione tra Cristo e il cristiano, una intima immedesimazione di noi con Cristo e di Cristo con noi. È tipico soprattutto di Paolo affermare che i cristiani sono ”in Cristo Gesù” (Rom 6, 3.4. 5-11; 8, 1.2.39; 12, 5; 16, 3.7.10; 1Cor 1, 2.3 ecc). Altre volte egli inverte i termini e scrive che ”Cristo è in voi/noi” (Rom 8,10; 2Cor 13,5) o ”in me” (Gal 3, 20). Fino a qualificare le nostre sofferenze come ”sofferenze di Cristo in noi” (2Cor 1, 5), così che noi «portiamo sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2Cor 4, 10).
L’essere ”di, in, con, per” Cristo fu innanzitutto la personale esperienza di Paolo, fin dall’incontro sulla via di Damasco: «Per me vivere è il Cristo» (Fil 1, 21), «Non son più io che vivo, ma il Cristo che vive in me» (Gal 2, 20), e da lui attinge ogni conoscenza ed energia. (Si veda il commento di Gregorio di Nissa, a p. 43)
E questo è già vero anche per ogni credente battezzato, «quelli che sono in Cristo Gesù» (Rom 8, 1); «quelli che sono di Cristo» (1Cor 15, 23). Cristo diventa il soggetto più profondo di tutte le azioni vitali del cristiano, che ”appartiene” ormai a Cristo, perché «ha lo Spirito di Cristo» (Rom 8, 9); «E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione» (Rom 8, 10).
Il rapporto del cristiano con Cristo, del quale porta il nome, non è dunque parziale e di superficie: «In Lui vivete, radicati ed edificati in Lui» (Col 2,6; cf Ef 3,18). Perciò «ciascuno guardi come costruisce; poiché nessuno può porre un’altra base oltre a quella che già esiste: il Cristo Gesù» (1Cor 3, 10). È Lui la pietra angolare che dà a tutta la costruzione ecclesiale solidità e consistenza (cf Ef 2, 20). Nessun istante o azione è concepibile al di fuori di Lui: «Se viviamo, viviamo per il Signore; se moriamo, moriamo per il Signore: Sia che viviamo, sia che moriamo, noi siamo del Signore» (Rom 14, 8).
Questa realtà inedita – l’essere con il Cristo – è frequentemente espressa da Paolo con termini da lui appositamente coniati. Già dal momento della creazione l’uomo è stato conosciuto e destinato da Dio ad essere conforme all’immagine del Figlio suo (cf Col 1,15), chiamato ad essere in Lui giustificato e glorificato (cf Rom 8, 28s). Ora, con la fede e il battesimo, il cristiano è con-crocifisso e con-sepolto, con-vivificato e con-risuscitato (cf Rom 6, 3-11; Col 2,12), con Lui soffre e regnerà nella gloria (cf Rom 6,5; Fil 3, 10. 21; Col 3,1; 2Tim 2,11).

APERTURA ANNO PAOLINO – OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

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APERTURA ANNO PAOLINO – OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

S. Paolo fuori le Muro, 28 giugno 2008

[Omelia del Patriarca Bartolomieo I]

Santità e Delegati fraterni,
Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Cari fratelli e sorelle,

siamo riuniti presso la tomba di san Paolo, il quale nacque, duemila anni fa, a Tarso di Cilicia, nell’odierna Turchia.
Chi era questo Paolo? Nel tempio di Gerusalemme, davanti alla folla agitata che voleva ucciderlo, egli presenta se stesso con queste parole: «Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città [Gerusalemme], formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio…» (At 22,3).
Alla fine del suo cammino dirà di sé: «Sono stato fatto… maestro delle genti nella fede e nella verità» (1Tm 2,7; cfr 2Tm 1,11). Maestro delle genti, apostolo e banditore di Gesù Cristo, così egli caratterizza se stesso in uno sguardo retrospettivo al percorso della sua vita.
Ma con ciò lo sguardo non va soltanto verso il passato. «Maestro delle genti» – questa parola si apre al futuro, verso tutti i popoli e tutte le generazioni. Paolo non è per noi una figura del passato, che ricordiamo con venerazione. Egli è anche il nostro maestro, apostolo e banditore di Gesù Cristo anche per noi.
Siamo quindi riuniti non per riflettere su una storia passata, irrevocabilmente superata. Paolo vuole parlare con noi – oggi. Per questo ho voluto indire questo speciale “Anno Paolino”: per ascoltarlo e per apprendere ora da lui, quale nostro maestro, «la fede e la verità», in cui sono radicate le ragioni dell’unità tra i discepoli di Cristo.
In questa prospettiva ho voluto accendere, per questo bimillenario della nascita dell’Apostolo, una speciale “Fiamma Paolina”, che resterà accesa durante tutto l’anno in uno speciale braciere posto nel quadriportico della Basilica. Per solennizzare questa ricorrenza ho anche inaugurato la cosiddetta “Porta Paolina”, attraverso la quale sono entrato nella Basilica accompagnato dal Patriarca di Costantinopoli, dal Cardinale Arciprete e da altre Autorità religiose.
È per me motivo di intima gioia che l’apertura dell’“Anno Paolino” assuma un particolare carattere ecumenico per la presenza di numerosi delegati e rappresentanti di altre Chiese e Comunità ecclesiali, che accolgo con cuore aperto. Saluto in primo luogo Sua Santità il Patriarca Bartolomeo I e i membri della Delegazione che lo accompagna, come pure il folto gruppo di laici che da varie parti del mondo sono venuti a Roma per vivere con Lui e con tutti noi questi momenti di preghiera e di riflessione. Saluto i Delegati Fraterni delle Chiese che hanno un vincolo particolare con l’apostolo Paolo – Gerusalemme, Antiochia, Cipro, Grecia – e che formano l’ambiente geografico della vita dell’Apostolo prima del suo arrivo a Roma. Saluto cordialmente i Fratelli delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali di Oriente ed Occidente, insieme a tutti voi che avete voluto prendere parte a questo solemne inizio dell’“Anno” dedicato all’Apostolo delle Genti.
Siamo dunque qui raccolti per interrogarci sul grande Apostolo delle genti. Ci chiediamo non soltanto: Chi era Paolo? Ci chiediamo soprattutto: Chi è Paolo? Che cosa dice a me? In questa ora, all’inizio dell’“Anno Paolino” che stiamo inaugurando, vorrei scegliere dalla ricca testimonianza del Nuovo Testamento tre testi, in cui appare la sua fisionomia interiore, lo specifico del suo carattere.
Nella Lettera ai Galati egli ci ha donato una professione di FEDE molto personale, in cui apre il suo cuore davanti ai lettori di tutti i tempi e rivela quale sia la molla più intima della sua vita. «Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Tutto ciò che Paolo fa, parte da questo centro.
La sua fede è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale; è la coscienza del fatto che Cristo ha affrontato la morte non per un qualcosa di anonimo, ma per amore di lui – di Paolo – e che, come Risorto, lo ama tuttora, che cioè Cristo si è donato per lui. La sua fede è l’essere colpito dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin nell’intimo e lo trasforma. La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore. E così questa stessa fede è amore per Gesù Cristo.
Da molti Paolo viene presentato come uomo combattivo che sa maneggiare la spada della parola. Di fatto, sul suo cammino di apostolo non sono mancate le dispute. Non ha cercato un’armonia superficiale. Nella prima delle sue Lettere, quella rivolta ai Tessalonicesi, egli stesso dice: «Abbiamo avuto il coraggio … di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte…
Mai infatti abbiamo pronunziato parole di adulazione, come sapete» (1Ts 2,2.5). La verità era per lui troppo grande per essere disposto a sacrificarla in vista di un successo esterno. La verità che aveva sperimentato nell‘incontro con il Risorto ben meritava per lui la lotta, la persecuzione, la sofferenza.
Ma ciò che lo motivava nel più profondo, era l’essere amato da Gesù Cristo e il desiderio di trasmettere ad altri questo amore. Paolo era uno capace di ama, e tutto il suo operare e soffrire si spiega solo a partire da questo centro. I concetti fondanti del suo annuncio si comprendono unicamente in base ad esso.
Prendiamo soltanto una delle sue parole-chiave: la libertà. L’esperienza dell’essere amato fino in fondo da Cristo gli aveva aperto gli occhi sulla verità e sulla via dell’esistenza umana – quell’esperienza abbracciava tutto. Paolo era libero come uomo amato da Dio che, in virtù di Dio, era in grado di amare insieme con Lui. Questo amore è ora la «legge» della sua vita e proprio così è la libertà della sua vita. Egli parla ed agisce mosso dalla responsabilità dell’amore. Libertà e responsabilità sono qui uniti in modo inscindibile. Poiché sta nella responsabilità dell’amore, egli è libero; poiché è uno che ama, egli vive totalmente nella responsabilità di questo amore e non prende la libertà come pretesto per l’arbitrio e l’egoismo.
Nello stesso spirito Agostino ha formulato la frase diventata poi famosa: Dilige et quod vis fac (Tract. in 1Jo 7 ,7-8) – ama e fa’ quello che vuoi.
Chi ama Cristo come lo ha amato Paolo, può veramente fare quello che vuole, perché il suo amore è unito alla volontà di Cristo e così alla volontà di Dio; perché la sua volontà è ancorata alla verità e perché la sua volontà non è più semplicemente volontà sua, arbitrio dell’io autonomo, ma è integrata nella libertà di Dio e da essa riceve la strada da percorrere.
Nella ricerca della fisionomia interiore di san Paolo vorrei, in secondo luogo, ricordare la parola che il Cristo risorto gli rivolse sulla strada verso Damasco.
Prima il Signore gli chiede: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» Alla domanda: «Chi sei, o Signore?» vien data la risposta: «Io sono Gesù che tu perseguiti» (At 9,4s). Perseguitando la Chiesa, Paolo perseguita lo stesso Gesù. «Tu perseguiti me». Gesù si identifica con la Chiesa in un solo soggetto. In questa esclamazione del Risorto, che trasformò la vita di Saulo, in fondo ormai è contenuta l’intera dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo.
Cristo non si è ritirato nel cielo, lasciando sulla terra una schiera di seguaci che mandano avanti «la sua causa». La Chiesa non è un’associazione che vuole promuovere una certa causa. In essa non si tratta di una causa. In essa si tratta della persona di Gesù Cristo, che anche da Risorto è rimasto «carne». Egli ha «carne e ossa» (Lc 24,39), lo afferma in Luca il Risorto davanti ai discepoli che lo avevano considerato un fantasma.
Egli ha un corpo. È personalmente presente nella sua Chiesa, «Capo e Corpo» formano un unico soggetto, dirà Agostino. «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?», scrivePaolo ai Corinzi (1Cor 6,15). E aggiunge: come, secondo il Libro della Genesi, l’uomo e la donna diventano una carne sola, così Cristo con i suoi diventa un solo spirito, cioè un unico soggetto nel mondo nuovo della risurrezione (cfr 1Cor 6,16ss). In tutto ciò traspare il mistero eucaristico, nel quale Cristo dona continuamente il suo Corpo e fa di noi il suo Corpo: «Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1Cor 10,16s).
Con queste parole si rivolge a noi, in quest’ora, non soltanto Paolo, ma il Signore stesso: Come avete potuto lacerare il mio Corpo? Davanti al volto di Cristo, questa parola diventa al contempo una richiesta urgente: Riportaci insieme da tutte le divisioni. Fa’ che oggi diventi nuevamente realtà: C’è un solo pane, perciò noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo. Per Paolo la parola sulla Chiesa come Corpo di Cristo non è un qualsiasi paragone. Va ben oltre un paragone.
«Perché mi perseguiti?» Continuamente Cristo ci attrae dentro il suo Corpo, edifica il suo Corpo a partire dal centro eucaristico, che per Paolo è il centro dell’esistenza cristiana, in virtù del quale tutti, come anche ogni singolo può in modo tutto personale sperimentare: Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me.
Vorrei concludere con una parola tarda di san Paolo, una esortazione a Timoteo dalla prigione, di fronte alla morte. «Soffri anche tu insieme con me per il Vangelo», dice l’apostolo al suo discepolo (2Tm 1,8). Questa parola, che sta alla fine delle vie percorse dall’apostolo come un testamento, rimanda indietro all’inizio della sua missione. Mentre, dopo il suo incontro con il Risorto, Paolo si trovava cieco nella sua abitazione a Damasco, Anania ricevette l’incarico di andare dal persecutore temuto e di imporgli le mani, perché riavesse la vista. All’obiezione di Anania che questo Saulo era un persecutore pericoloso dei cristiani, viene la risposta: Quest’uomo deve portare il mio nome dinanzi ai popoli e ai re. «Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (At 9,15s). L’incarico dell’annuncio e la chiamata alla sofferenza per Cristo vanno inscindibilmente insieme. La chiamata a diventare il maestro delle genti è al contempo e intrinsecamente una chiamata alla sofferenza nella comunione con Cristo, che ci ha redenti mediante la sua Passione.
In un mondo in cui la menzogna è potente, la verità si paga con la sofferenza. Chi vuole schivare la sofferenza, tenerla lontana da sé, tiene lontana la vita stessa e la sua grandezza; non può essere servitore della verità e così servitore della fede. Non c’è amore senza sofferenza – senza la sofferenza della rinuncia a se stessi, della trasformazione e purificazione dell’io per la vera libertà.
Là dove non c’è niente che valga che per esso si soffra, anche la stessa vita perde il suo valore. L’Eucaristia – il centro del nostro essere cristiani – si fonda nel sacrificio di Gesù per noi, è nata dalla sofferenza dell’amore, che nella Croce ha trovato il suo culmine. Di questo amore che si dona noi viviamo. Esso ci dà il coraggio e la forza di soffrire con Cristo e per Lui in questo mondo, sapendo che proprio così la nostra vita diventa grande e matura e vera. Alla luce di tutte le lettere di san Paolo vediamo come nel suo cammino di maestro delle genti si sia compiuta la profezia fatta ad Anania nell’ora della chiamata: «Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome». La sua sofferenza lo rende credibile come maestro di verità, che non cerca il proprio tornaconto, la propria gloria, l’appagamento personale, ma si impegna per Colui che ci ha amati e ha dato se stesso per tutti noi.
In questa ora ringraziamo il Signore, perché ha chiamato Paolo, rendendolo luce delle genti e maestro di tutti noi, e lo preghiamo: Donaci anche oggi testimoni della risurrezione, colpiti dal tuo amore e capaci di portare la luce del Vangelo nel nostro tempo. San Paolo, prega per noi!
Amen.

OMELIA DEL PATRIARCA ECUMENICO BARTOLOMEO I
Santità, amato Fratello in Cristo,
e voi tutti, i fedeli nel Signore,
Animati da una gioia colma di solennità, ci troviamo, per la preghiera dei Vespri, in questo antico e splendido tempio di San Paolo fuori le Mura, in presenza di numerosi e devoti pellegrini venuti da tutto il mondo, per la lieta inaugurazione formale dell’Anno di San Paolo, Apostolo dei Gentili.
La radicale conversione ed il kerygma apostolico di Saulo di Tarso hanno “scosso” la storia nel senso letterale del termine ed hanno scolpito l’identità stessa della cristianità. Questo grande uomo ha esercitato un influsso profondo sui Padri classici della Chiesa, come San Giovanni Crisostomo, in Oriente, e Sant’Agostino di Ippona, in Occidente. Sebbene non avesse mai incontrato Gesù di Nazaret, San Paolo ricevette direttamente il Vangelo «per rivelazione di Gesù Cristo» (Gal 1, 11S12).
Questo sacro luogo fuori le Mura è senza dubbio quanto mai appropriato per commemorare e celebrare un uomo che stabilì un connubio tra lingua greca e mentalità romana del suo tempo, spogliando la cristianità, una volta per tutte, da ogni ristrettezza mentale, e forgiando per sempre il fondamento cattolico della Chiesa ecumenica.
Auspichiamo che la vita e le Lettere di San Paolo continuino ad essere per noi fonte di ispirazione «affinché tutte le genti obbediscano alla fede in Cristo» (cfr. Rom 16,27).

ANNO PAOLINO (GIUBILEO PAOLINO): IL SOGNO ECUMENICO DI PAPA BENEDETTO

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/205564

ANNO PAOLINO (GIUBILEO PAOLINO): IL SOGNO ECUMENICO DI PAPA BENEDETTO

Assieme al patriarca di Costantinopoli, il successore di Pietro ha indetto uno speciale anno giubilare dedicato all’altro grande apostolo, Paolo. Obiettivo dichiarato: « creare l’unità della ‘catholica’, della Chiesa formata da giudei e pagani, della Chiesa di tutti i popoli »

di Sandro Magister

ROMA, 2 luglio 2008 – Nella foto, Benedetto XVI e Bartolomeo I, il patriarca di Costantinopoli, pregano davanti alla tomba dell’apostolo Paolo, sotto l’altare maggiore della basilica romana di San Paolo fuori le Mura. È la vigilia della solennità dei santi Pietro e Paolo. E assieme hanno inaugurato uno speciale anno giubilare dedicato all’apostolo Paolo. L’Anno Paolino, iniziato il 28 giugno, durerà fino al 29 giugno 2009. L’occasione è il bimillenario della nascita dell’apostolo, collocata dagli storici tra il 7 e il 10 dopo Cristo. Benedetto XVI ha annunciato per la prima volta questo speciale anno giubilare un anno fa, il 28 giugno 2007. E così ora ha spiegato l’evento ai fedeli riuniti in piazza San Pietro, prima dell’Angelus della festa dei santi Pietro e Paolo di quest’anno: « Questo speciale giubileo avrà come baricentro Roma, in particolare la basilica di San Paolo fuori le Mura e il luogo del martirio, alle Tre Fontane. Ma esso coinvolgerà la Chiesa intera, a partire da Tarso, città natale di Paolo, e dagli altri luoghi paolini meta di pellegrinaggi nell’attuale Turchia, come pure in Terra Santa, e nell’Isola di Malta, dove l’Apostolo approdò dopo un naufragio e gettò il seme fecondo del Vangelo. « In realtà, l’orizzonte dell’Anno Paolino non può che essere universale, perché san Paolo è stato per eccellenza l’apostolo di quelli che rispetto agli ebrei erano ‘i lontani’ e che ‘grazie al sangue di Cristo’ sono diventati ‘i vicini’ (cfr Ef 2,13). Per questo anche oggi, in un mondo diventato più ‘piccolo’, ma dove moltissimi ancora non hanno incontrato il Signore Gesù, il giubileo di san Paolo invita tutti i cristiani ad essere missionari del Vangelo. « Questa dimensione missionaria ha bisogno di accompagnarsi sempre a quella dell’unità, rappresentata da san Pietro, la ‘roccia’ su cui Gesù Cristo ha edificato la sua Chiesa. Come sottolinea la liturgia, i carismi dei due grandi apostoli sono complementari per l’edificazione dell’unico Popolo di Dio ed i cristiani non possono dare valida testimonianza a Cristo se non sono uniti tra di loro ».

* * * Universale ed ecumenico. Per una Chiesa che è « catholica » e « una ». È questo il doppio orizzonte che il vescovo di Roma e il patriarca di Costantinopoli hanno voluto dare all’Anno Paolino, indetto unitamente dalle rispettive Chiese di Roma e d’Oriente. Nella messa celebrata nel giorno dei santi Pietro e Paolo, i due successori degli apostoli sono entrati assieme nella basilica di San Pietro; assieme sono saliti all’altare, preceduti da un diacono latino e da uno ortodosso recanti il libro dei Vangeli; assieme hanno ascoltato il canto del Vangelo in latino ed in greco; assieme hanno tenuto l’omelia, prima il patriarca e poi il papa, dopo una breve introduzione di quest’ultimo; assieme hanno recitato il Credo, il Simbolo Niceno Costantinopolitano nella lingua originale greca secondo l’uso liturgico delle Chiese bizantine; si sono scambiati il bacio della pace e al termine hanno assieme benedetto i fedeli. Dopo quasi mille anni di scisma tra Oriente e Occidente, è stata celebrata dal vescovo di Roma e dal patriarca di Costantinopoli una liturgia visibilmente protesa all’unità. Più in ombra resta per ora il rapporto con le comunità protestanti. Ma anche nel dialogo con queste l’Anno Paolino può essere ricco di significati. I maggiori pensatori della Riforma – da Lutero e Calvino fino a Karl Barth, a Rudolph Bultmann e Paul Tillich – hanno elaborato il loro pensiero a partire soprattutto dalla Lettera di Paolo ai Romani. E non meno rilevante è l’apporto che l’Anno Paolino potrà dare al dialogo con gli ebrei. Paolo era giudeo e rabbino osservante, prima di cadere abbagliato da Cristo sulla via di Damasco. E la sua conversione al Risorto non comportò mai per lui una rottura con la fede originaria. La promessa di Dio ad Abramo e l’alleanza del Sinai per Paolo fecero sempre tutt’uno con la « nuova ed eterna » alleanza sigillata dal sangue di Gesù. Su questa unità tra l’Antico e il Nuovo Testamento, Joseph Ratzinger ha scritto pagine memorabili, nel suo libro « Gesù di Nazareth ». Qui di seguito è riprodotta l’omelia pronunciata da Benedetto XVI il 28 giugno 2008, nella basilica di San Paolo fuori le Mura, nei vespri della vigilia della festa dei santi Pietro e Paolo. In essa il papa risponde alle domande: chi era Paolo? e che cosa dice a me oggi? Più sotto trovi i link alla doppia omelia – del papa e del patriarca di Costantinopoli – nella messa del giorno successivo, e ad altri testi di Benedetto XVI sull’apostolo Paolo. Più vari rimandi a tutto ciò che riguarda l’Anno Paolino.

« Chi era Paolo? E che cosa dice a me oggi? » di Benedetto XVI Cari fratelli e sorelle, siamo riuniti presso la tomba di san Paolo, il quale nacque duemila anni fa a Tarso di Cilicia, nell’odierna Turchia. Chi era questo Paolo? Nel tempio di Gerusalemme, davanti alla folla agitata che voleva ucciderlo, egli presenta se stesso con queste parole: « Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città [di Gerusalemme], formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio… » (At 22,3). Alla fine del suo cammino dirà di sé: « Sono stato fatto… maestro delle genti nella fede e nella verità » (1Tm 2,7; cfr 2Tm 1,11). Maestro delle genti, apostolo e banditore di Gesù Cristo, così egli caratterizza se stesso in uno sguardo retrospettivo al percorso della sua vita. Ma con ciò lo sguardo non va soltanto verso il passato. Maestro delle genti: questa parola si apre al futuro, verso tutti i popoli e tutte le generazioni. Paolo non è per noi una figura del passato, che ricordiamo con venerazione. Egli è anche il nostro maestro, apostolo e banditore di Gesù Cristo anche per noi. Siamo quindi riuniti non per riflettere su una storia passata, irrevocabilmente superata. Paolo vuole parlare con noi , oggi. Per questo ho voluto indire questo speciale Anno Paolino: per ascoltarlo e per apprendere ora da lui, quale nostro maestro, « la fede e la verità », in cui sono radicate le ragioni dell’unità tra i discepoli di Cristo. In questa prospettiva ho voluto accendere, per questo bimillenario della nascita dell’apostolo, una speciale Fiamma Paolina, che resterà accesa durante tutto l’anno in uno speciale braciere posto nel quadriportico della basilica [di San Paolo fuori le Mura]. Per solennizzare questa ricorrenza ho anche inaugurato la cosiddetta Porta Paolina, attraverso la quale sono entrato nella basilica accompagnato dal patriarca di Costantinopoli [...] e da altre autorità religiose. È per me motivo di intima gioia che l’apertura dell’Anno Paolino assuma un particolare carattere ecumenico per la presenza di numerosi delegati e rappresentanti di altre Chiese e comunità ecclesiali, che accolgo con cuore aperto. [...].

* * * Siamo dunque qui raccolti per interrogarci sul grande apostolo delle genti. Ci chiediamo non soltanto: chi era Paolo? Ci chiediamo soprattutto: chi è Paolo? che cosa dice a me? In questa ora, all’inizio dell’Anno Paolino che stiamo inaugurando, vorrei scegliere dalla ricca testimonianza del Nuovo Testamento tre testi, in cui appare la sua fisionomia interiore, lo specifico del suo carattere. Nella Lettera ai Galati egli ci ha donato una professione di fede molto personale, in cui apre il suo cuore davanti ai lettori di tutti i tempi e rivela quale sia la molla più intima della sua vita. « Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2,20). Tutto ciò che Paolo fa, parte da questo centro. La sua fede è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale; è la coscienza del fatto che Cristo ha affrontato la morte non per un qualcosa di anonimo, ma per amore di lui – di Paolo – e che, come Risorto, lo ama tuttora, che cioè Cristo si è donato per lui. La sua fede è l’essere colpito dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin nell’intimo e lo trasforma. La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore. E così questa stessa fede è amore per Gesù Cristo. Da molti Paolo viene presentato come uomo combattivo che sa maneggiare la spada della parola. Di fatto, sul suo cammino di apostolo non sono mancate le dispute. Non ha cercato un’armonia superficiale. Nella prima delle sue lettere, quella rivolta ai Tessalonicesi, egli stesso dice: « Abbiamo avuto il coraggio… di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte… Mai infatti abbiamo pronunziato parole di adulazione, come sapete » (1Ts 2,2.5). La verità era per lui troppo grande per essere disposto a sacrificarla in vista di un successo esterno. La verità che aveva sperimentato nell‘incontro con il Risorto ben meritava per lui la lotta, la persecuzione, la sofferenza. Ma ciò che lo motivava nel più profondo, era l’essere amato da Gesù Cristo e il desiderio di trasmettere ad altri questo amore. Paolo era un uomo colpito da un grande amore, e tutto il suo operare e soffrire si spiega solo a partire da questo centro. I concetti fondanti del suo annuncio si comprendono unicamente in base ad esso. Prendiamo soltanto una delle sue parole-chiave: la libertà. L’esperienza dell’essere amato fino in fondo da Cristo gli aveva aperto gli occhi sulla verità e sulla via dell’esistenza umana; quell’esperienza abbracciava tutto. Paolo era libero come uomo amato da Dio che, in virtù di Dio, era in grado di amare insieme con Lui. Questo amore è ora la « legge » della sua vita e proprio così è la libertà della sua vita. Egli parla ed agisce mosso dalla responsabilità dell’amore. Libertà e responsabilità sono qui uniti in modo inscindibile. Poiché sta nella responsabilità dell’amore, egli è libero; poiché è uno che ama, egli vive totalmente nella responsabilità di questo amore e non prende la libertà come pretesto per l’arbitrio e l’egoismo. Nello stesso spirito Agostino ha formulato la frase diventata poi famosa: « Dilige et quod vis fac » (Tract. in 1Jo 7 ,7-8), ama e fa’ quello che vuoi. Chi ama Cristo come lo ha amato Paolo, può veramente fare quello che vuole, perché il suo amore è unito alla volontà di Cristo e così alla volontà di Dio; perché la sua volontà è ancorata alla verità e perché la sua volontà non è più semplicemente volontà sua, arbitrio dell’io autonomo, ma è integrata nella libertà di Dio e da essa riceve la strada da percorrere.

* * * Nella ricerca della fisionomia interiore di san Paolo vorrei, in secondo luogo, ricordare la parola che il Cristo risorto gli rivolse sulla strada verso Damasco. Prima il Signore gli chiede: « Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? » Alla domanda: « Chi sei, o Signore? » vien data la risposta: « Io sono Gesù che tu perseguiti » (At 9,4s). Perseguitando la Chiesa, Paolo perseguita lo stesso Gesù. « Tu perseguiti me ». Gesù si identifica con la Chiesa in un solo soggetto. In questa esclamazione del Risorto, che trasformò la vita di Saulo, in fondo ormai è contenuta l’intera dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo. Cristo non si è ritirato nel cielo, lasciando sulla terra una schiera di seguaci che mandano avanti « la sua causa ». La Chiesa non è un’associazione che vuole promuovere una certa causa. In essa non si tratta di una causa. In essa si tratta della persona di Gesù Cristo, che anche da Risorto è rimasto « carne ». Egli ha « carne e ossa » (Lc 24, 39), lo afferma in Luca il Risorto davanti ai discepoli che lo avevano considerato un fantasma. Egli ha un corpo. È personalmente presente nella sua Chiesa, « Capo e Corpo » formano un unico soggetto, dirà Agostino. « Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? », scrive Paolo ai Corinzi (1Cor 6,15). E aggiunge: come, secondo il Libro della Genesi, l’uomo e la donna diventano una carne sola, così Cristo con i suoi diventa un solo spirito, cioè un unico soggetto nel mondo nuovo della risurrezione (cfr 1Cor 6,16ss). In tutto ciò traspare il mistero eucaristico, nel quale Cristo dona continuamente il suo Corpo e fa di noi il suo Corpo: « Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane » (1Cor 10,16s). Con queste parole si rivolge a noi, in quest’ora, non soltanto Paolo, ma il Signore stesso: Come avete potuto lacerare il mio Corpo? Davanti al volto di Cristo, questa parola diventa al contempo una richiesta urgente: Riportaci insieme da tutte le divisioni. Fa’ che oggi diventi nuovamente realtà. C’è un solo pane, perciò noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo. Per Paolo la parola sulla Chiesa come Corpo di Cristo non è un qualsiasi paragone. Va ben oltre un paragone. « Perché mi perseguiti? » Continuamente Cristo ci attrae dentro il suo Corpo, edifica il suo Corpo a partire dal centro eucaristico, che per Paolo è il centro dell’esistenza cristiana, in virtù del quale tutti, come anche ogni singolo può in modo tutto personale sperimentare: Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me.

* * * Vorrei concludere con una parola tarda di san Paolo, una esortazione a Timoteo dalla prigione, di fronte alla morte. « Soffri anche tu insieme con me per il Vangelo », dice l’apostolo al suo discepolo (2Tm 1,8). Questa parola, che sta alla fine delle vie percorse dall’apostolo come un testamento, rimanda indietro all’inizio della sua missione. Mentre, dopo il suo incontro con il Risorto, Paolo si trovava cieco nella sua abitazione a Damasco, Anania ricevette l’incarico di andare dal persecutore temuto e di imporgli le mani, perché riavesse la vista. All’obiezione di Anania che questo Saulo era un persecutore pericoloso dei cristiani, viene la risposta: Quest’uomo deve portare il mio nome dinanzi ai popoli e ai re; « io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome » (At 9,15s). L’incarico dell’annuncio e la chiamata alla sofferenza per Cristo vanno inscindibilmente insieme. La chiamata a diventare il maestro delle genti è al contempo e intrinsecamente una chiamata alla sofferenza nella comunione con Cristo, che ci ha redenti mediante la sua Passione. In un mondo in cui la menzogna è potente, la verità si paga con la sofferenza. Chi vuole schivare la sofferenza, tenerla lontana da sé, tiene lontana la vita stessa e la sua grandezza; non può essere servitore della verità e così servitore della fede. Non c’è amore senza sofferenza, senza la sofferenza della rinuncia a se stessi, della trasformazione e purificazione dell’io per la vera libertà. Là dove non c’è niente che valga che per esso si soffra, anche la stessa vita perde il suo valore. L’Eucaristia – il centro del nostro essere cristiani – si fonda nel sacrificio di Gesù per noi, è nata dalla sofferenza dell’amore, che nella Croce ha trovato il suo culmine. Di questo amore che si dona noi viviamo. Esso ci dà il coraggio e la forza di soffrire con Cristo e per Lui in questo mondo, sapendo che proprio così la nostra vita diventa grande e matura e vera. Alla luce di tutte le lettere di san Paolo vediamo come nel suo cammino di maestro delle genti si sia compiuta la profezia fatta ad Anania nell’ora della chiamata: « Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome ». La sua sofferenza lo rende credibile come maestro di verità, che non cerca il proprio tornaconto, la propria gloria, l’appagamento personale, ma si impegna per Colui che ci ha amati e ha dato se stesso per tutti noi. In questa ora ringraziamo il Signore, perché ha chiamato Paolo, rendendolo luce delle genti e maestro di tutti noi, e lo preghiamo: Donaci anche oggi testimoni della risurrezione, colpiti dal tuo amore e capaci di portare la luce del Vangelo nel nostro tempo. San Paolo, prega per noi! Amen.

L’ARCHITETTO DELLA SALVEZZA (LA VISIONE PAOLINA HA ISPIRATO TUTTI I GRANDI DELLA LETTERATURA)

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L’ARCHITETTO DELLA SALVEZZA (LA VISIONE PAOLINA HA ISPIRATO TUTTI I GRANDI DELLA LETTERATURA)

di Francesca D’Alessandro

Da Dante e Petrarca fino a Leopardi e Luzi, passando per Manzoni, la visione paolina ha ispirato tutti i grandi della letteratura. Ce ne parla una studiosa, che insegna all’Università Cattolica di Milano.

Questo Anno paolino ci offre l’occasione per tornare a riflettere su uno dei pilastri della civiltà, sul quale si sono fondati edifici di pensiero poderosi per vastità e durata, dove si ricompongono in equilibrio armonico le spinte e controspinte più disparate, concernenti discipline e ambiti di interesse assai diversi. Quanto di accomunante ci è parso di rilevare va colto alle radici dell’uomo e assume la forma della tensione verso una ipotesi di redenzione che non prescinda dall’agire nella storia, ma piuttosto ne riconosca il senso profondo, sostanziale, entro l’orizzonte della speranza, al quale anche Benedetto XVI ci ha invitato a guardare, con la sua enciclica («Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo, l’edificio di Dio. Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un sapiente architetto io ho posto il fondamento», ICor 3,9-10). Tali sono i tratti di un umanesimo del quale l’Apostolo dei Gentili potrebbe dirsi uno dei tralicci portanti, nella misura in cui la sua voce di uomo nuovo sul cammino della salvezza non viene a determinare fratture, ma a compiere, alla luce della rivelazione, le conquiste che già furono della cultura classica, nel territorio metafisico e morale.
Sul versante letterario, crediamo sia imprescindibile rilevare la portata delle disseminazioni e degli affioramenti, impliciti ed espliciti, del magistero di san Paolo, almeno attraverso alcune voci della tradizione (un campionario senza pretesa di esaustività), tra le più alte di ogni tempo. Esse invitano a riconoscere nel superiore appello rivolto dal testo al lettore quelli che sono stati chiamati «i semi della nuova creazione», le tracce – più o meno consapevoli e dichiarate dall’autore – di temi, immagini e archetipi paolini di particolare intensità e significato. Non si tratta tanto e solo di inseguire nelle opere letterarie una vaga e non definita nostalgia del divino, né un’oscura tensione orfica e neppure una infondata astrazione metafisica. Ci si propone piuttosto di esplorare quei varchi verso le regioni ulteriori, aperti da una scrittura aderente al vero, fatta di cose e di eventi, nella convinzione che la sfida più appassionante in questo senso (alla luce del mistero dell’incarnazione) si giochi proprio sul terreno della storia, della società e persino della politica.
Di qui la preferenza – al di là di una più o meno esplicita confessione religiosa – per autori che hanno accolto o ripercorso la lezione di Paolo di Tarso, a partire da una tenace fedeltà alle proprie origini terrestri, che hanno nutrito e coltivato una pur avara speranza, con la ponderata e talvolta dolorosa presa di coscienza del proprio agire nel mondo, per sé e per gli altri, del proprio significativo essere parte della vicenda umana nel tempo. In loro, l’agire si configura come completamento del disegno divino, entro una solida e rinnovata dimensione progettuale, continuamente sorretta dall’architrave della ragionevolezza di ogni convinzione acquisita.
L’edificio della salvezza – ricostruito attraverso gli scrittori di ogni tempo – risulta così poggiare sulle fondamenta delle virtù teologali e di una professione di fede testimoniata nelle opere (Dante e Manzoni) e ardente di carità (Caterina da Siena e Vittoria Colonna). Tale edificio si rivela via via cadenzato dagli elementi architettonici dell’attesa e della gioia, con la sua forza inclusiva e trasfigurante (Petrarca e Sereni), su cui pure si proiettano le ombre dell’assenza e del dubbio, non prive di energia propositiva (Leopardi e Montale), destinate tuttavia a dissolversi nella potenza innovatrice del divino che salva (Péguy, Luzi e Betocchi).
L’intera tradizione volgare sorge dall’orizzonte profetico della Commedia dantesca, una storia della salvezza in forma di poema che nasce sotto il segno paolino, al crocevia tra la civiltà classica e quella cristiana (Inferno II 31-35). Quale nuovo Enea e nuovo Paolo, Dante si vede assegnata la missione di riformatore del mondo, di edificatore della speranza e continuatore dell’opera divina, in un’età avvertita come tempo finale e tempo della grazia. Non a caso la raffigurazione del passaggio dalle tenebre alla luce viene declinata, sin da Purgatorio VII, in termini paolini (Rom 12,12), sin anche nel risoluto vigore del combattente, chiamato ad abbandonare le opere delle tenebre e a rivestirsi delle armi della luce, a indossare la corazza della fede e della carità, con l’elmo della speranza (come recita ITess 5,8). Di nuovo l’itinerario dantesco fa leva sulla dignità dell’agire delle creature, chiamate, nella speranza, a tendere al compimento di sé e alla piena edificazione del progetto divino. Una speranza che Dante si preoccupa di riallacciare (rendendo omaggio al «verace stilo» di san Paolo) alla gerarchia delle virtù teologali, nella professione di fede da lui pronunciata alla presenza di Pietro, quando è prossimo ormai il gaudio della visione beatifica, alla fine del viaggio (Paradiso XXIV, 51-52).
Una tinta paolina si imprime anche sulla parola del padre dell’Umanesimo e della nuova età, Francesco Petrarca, che dal proprio orizzonte terreno si accosta alle perfezioni invisibili del divino artefice, attraverso la bellezza della creazione, e si incammina a una contemplazione intellettuale, non priva di sussulti e di dubbi. Il problema della salvezza si pone per lui nei termini di una profonda lacerazione interiore, di una quotidiana battaglia fra volere e disvolere, fra uomo di terra e uomo celeste, nella piena consapevolezza che la felicità coincide con la libertà dell’animo e la speranza con la misericordia divina.
Nel medesimo terreno dantesco, in materia di fede, si radica il pensiero manzoniano, che inaugura le sue Osservazioni sulla morale cattolica con la cifra paolina della unità e razionalità del credo cristiano. Principia qui a dipanarsi il filo delle reminiscenze paoline, destinato a riaffiorare, quando la meditazione sulla fragilità della natura umana accosta la confessione di Socrate e di Ovidio a quella del Saulo («Il core e la mente mi danno opposti consigli: vedo il meglio, l’approvo; e vo dietro al peggio», Rom 7,19). Al punto di innesto della civiltà cristiana sulla classica, il lamento dell’uomo debole e sconfitto trova tuttavia il riscatto nella radice paolina della speranza, nata dalla «cognizione di mali umanamente irrimediabili», eppure solido legame alla «colonna e fondamento della verità» (ITimoteo 3,15). Sono ancora due elementi architettonici a ribadire il valore delle opere, della libertà e coerenza dell’agire dell’uomo, collaboratore di Dio, chiamato a porre le basi su cui posare l’edificio della salvezza.
Viene così a definirsi, con nitidezza folgorante, il disegno della speranza capace di incidere sulle vicende della storia, tesa fra l’evento iniziale e l’esito finale, all’incontro fra il protendersi progettuale dell’uomo e il volgersi premuroso dello Spirito. Il culmine lirico e meditativo di tale disegno viene raggiunto nella ipotesi estrema di salvezza, nel miracolo della misericordia divina verso Napoleone morente, che Manzoni rappresenta nel finale del Cinque maggio. Qui paiono intersecarsi i piani argomentativi e il vigore metaforico di alcuni snodi della prima lettera ai Corinzi, di quella ai Filippesi e delle due ai Tessalonicesi. Se dalle prime discende l’immagine del premio sperato (ICor 9,24 e Filippesi 3,13), alle seconde può essere ascritta la raffigurazione del Dio glorioso che «discende dal cielo» e rapisce «tra le nubi», «nell’aria», di un Dio che affligge e dà sollievo, a un tempo, in un contesto epico di vittoria della fede e della speranza, ottenuta per tutti, una volta per sempre, con l’obbrobrio della Croce. Come lascia intendere Manzoni, nel solco del dettato paolino, esse giungono a fondare una giustizia nuova e, in quanto primizie dello Spirito, riescono a riscattare l’uomo dalla legge, a liberarlo dall’ossequio alla gloria umana, ad assecondare i suoi desideri profondi, oltrepassandoli nel diluvio della grazia.
Più problematica, ma altrettanto feconda risulta l’indagine entro percorsi compositivi di autori che non hanno trovato la riposata quiete dell’approdo a una fede dichiarata (benché continuamente riconquistata). Per lo più essi appartengono alla contemporaneità e parrebbero germogliare dal ceppo penitenziale della visione leopardiana, prevalentemente incentrata sulle piaghe della creazione, ferita e segnata da un dolore apparentemente irredimibile. Per Leopardi, l’incontro con san Paolo avviene sul terreno della coscienza della contraddizione che dilacera l’uomo, tra desiderio insaziabile di felicità e impossibilità di raggiungerla. Entro il quadro della desolata condizione dei viventi, ricostruito con spietata lucidità, egli delinea la sua riflessione sulla capacità significativa della parola, attraverso la quale giunge a giudicare ragionevole l’ipotesi dell’oltre.
Tra gli eredi novecenteschi di Leopardi, Eugenio Montale colloca l’origine del proprio poetare entro le polarità contrapposte della necessità naturale e della libertà dell’uomo, sul confine tra il fenomeno e il mistero, che sta oltre. Sin dai primi Ossi di seppia (1925), egli accosta allo sgretolamento apocalittico di Clivo l’«avara speranza» d’oltrevita di Casa sul mare, offerta in dono per la salvezza dell’altro. L’infinitarsi, dapprima negato al poeta, diviene in qualche modo possibile già nei secondi Ossi (1928), dove il miracolo dell’Incontro con l’alterità opera una rinascita a rinnovata pienezza vitale: «E farsi mia / un’altra vita sento, ingombro d’una / forma che mi fu tolta». Inizia qui un cammino destinato a sfociare, sullo sfondo del tragico irrompere nella storia della violenza dissennata e del male, in prossimità della Seconda guerra mondiale, in una pur ardua ipotesi di redenzione. A renderla possibile è la donna amata, paolinamente continuatrice dell’opera del creatore, ritratta con colori danteschi, nelle Occasioni e nella Bufera. La sua apparizione viene raffigurata con un linguaggio cristologico, che fa di lei (ebrea e perseguitata dalle leggi razziali) una vera immagine di Cristo, di inarrivabile altezza morale: «Perché l’opera tua (che della Sua / è una forma) fiorisse in altre luci / Iri del Canaan ti dileguasti».
Affine sensibilità si riscontra in Vittorio Sereni, che accoglie nei suoi versi le folate di una speranza intesa come viaggio verso l’alba (la cui luce ferisce e salva a un tempo), come sete di verità dolorosa e insaziata, eppure pronta a sfociare nella gioia. La sua speranza si genera paolinamente da una sorta di fede (pur insicura e vacillante) e si sporge, recidiva – dalla fedeltà tenace alle proprie origini terrestri – a una ipotesi di persistenza di vita oltre la morte, da intendersi come trasformazione dalla deperibilità della materia all’incorruttibilità del movimento e della luce.
È la stessa luce albare invocata e intravista da Mario Luzi, nella quale sfocia – dopo un viaggio periglioso nel magma della storia, contrassegnato dapprima dal dono della carità, poi da quello della profezia – la speranza pasquale, immersa nell’onda viva della creazione, finalmente redenta e ricapitolata nell’unzione cristica finale.

Francesca D’Alessandro

NEL CONFRONTO TRA FEDE E RAGIONE – IL GENIO DI SAN PAOLO

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NEL CONFRONTO TRA FEDE E RAGIONE – IL GENIO DI SAN PAOLO

DI JUAN MANUEL DE PRADA

La commemorazione di questo Anno paolino dovrebbe servirci da stimolo per riflettere su uno dei tratti più distintivi e geniali di san Paolo, l’impulso di universalismo che presto sarebbe divenuto un elemento costitutivo della fede in Gesù Cristo. Un universalismo che, oltre a dare compimento alla missione che Gesù aveva affidato ai suoi discepoli, avrebbe definito l’orientamento innovatore del cristianesimo come religione che incorpora nel suo patrimonio culturale la sapienza pagana. Questa assimilazione culturale trasforma il cristianesimo, fin dai suoi inizi, in una religione diversa da qualsiasi altra: poiché mentre le altre religioni stabiliscono che la loro identità si deve costituire negando l’eredità culturale che le precede, il cristianesimo comprese, grazie al genio paolino, che la vocazione universale della nuova fede esigeva di introdursi nelle strutture culturali, amministrative e giuridiche della sua epoca; non per sincretizzarsi con esse ma per trasformarle radicalmente dal di dentro. E questa illuminazione geniale di san Paolo – che senza dubbio fu illuminazione dello Spirito – deve servire da vigorosa ispirazione per noi cattolici di oggi, spesso tentati di arroccarci contro un mondo ostile.
San Paolo, nato a Tarso di Cilicia, in seno a una famiglia ebrea, fu anche cittadino romano; e questa condizione o status giuridico lo aiutò a comprendere che la vocazione di universalità del cristianesimo si sarebbe realizzata pienamente solo se fosse riuscita a introdursi nelle strutture dell’Impero padrone del mondo. Introdursi per beneficiare della sua vasta eredità culturale; introdursi, anche, per lavare dal di dentro la sua corruzione. Il cristianesimo non sarebbe riuscito a essere quello che in effetti fu se non avesse fatto proprie le lingue di Roma; e se non avesse adottato le sue leggi, per poi umanizzarle, fondando un diritto nuovo, penetrato dalla vertiginosa idea di redenzione personale che apporta il Vangelo. I cristiani avrebbero potuto accontentarsi di rimanere ai margini di Roma, come dei senza patria che celebrano i propri riti nella clandestinità. Addentrandosi nella bocca del lupo, armati solo della fiaccola della fede, rischiarono di perire tra le sue fauci; ma alla fine provocarono un incendio più duraturo dei monumenti di Roma.
Di quale potente lega era fabbricato quell’uomo che sconvolse per sempre il corso della storia? Sappiamo che nella formazione culturale di san Paolo si amalgamavano elementi ebraici e ellenistici. Possedeva una esauriente conoscenza della lingua greca, nutrita dalla Scrittura secondo la versione dei Settanta. Si distingueva però anche per una conoscenza affatto superficiale dei miti greci, come pure dei loro filosofi e poeti: basta leggere il suo discorso nell’Areopago di Atene per renderci conto della sua solida cultura classica. E anche, naturalmente, del modus operandi della sua missione evangelizzatrice: san Paolo inizia il suo discorso apportando riflessioni nelle quali pagani e cristiani potevano convergere, fondandosi anche su citazioni di filosofi; lo conclude però con l’annuncio del Giudizio Finale, pietra dello scandalo per i suoi ascoltatori – fra i quali, a quanto sappiamo, si contavano alcuni filosofi epicurei e stoici – che potevano accettare l’immortalità dell’anima, ma non la resurrezione della carne. Quel gruppo di filosofi probabilmente si sciolse prendendo san Paolo per matto; tuttavia, di ritorno a casa, mentre rimuginavano sulle parole che avevano appena ascoltato, forse riuscirono a scoprire che i principi sui quali si fondava il discorso di san Paolo si potevano cogliere attraverso la ragione. E questi principi assimilabili da un pagano che affiorano nel discorso dell’Areopago sono gli stessi che san Paolo incorpora nelle sue epistole: la possibilità di conoscere Dio attraverso la sua Creazione, la presenza di una legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo, la sottomissione alla volontà di Dio come frutto della nostra filiazione divina. Principi sui quali in seguito san Paolo erigeva il suo portentoso edificio cristologico. Mettiamoci nei panni di quei filosofi pagani che ascoltarono san Paolo. Come non sentirsi interpellati da una predicazione che univa, in un modo così misteriosamente soggiogante, principi che la ragione poteva accettare con tesi che esigevano il concorso di una nuova fede? Come non sentirsi interpellato da questo Mistero che rendeva congruente ciò che ascoltavano e ciò che la mera intelligenza non permetteva loro di penetrare? E, nel cercare di approfondire quel Mistero, come non aprirsi agli orizzonti inediti di libertà e di speranza di cui Cristo era portatore?
Così accadde allora; e il genio paolino ci insegna che può continuare ad accadere ora. A un patrizio romano come Filemone non doveva sembrare più strano concedere la libertà al suo schiavo Onesimo, accogliendolo come un « fratello carissimo » nel Signore, di quanto deve sembrare a un uomo del nostro tempo – ad esempio – aborrire l’aborto. Se il genio paolino riuscì a far sì che un patrizio romano rinunciasse al diritto di proprietà su un altro uomo che le leggi gli riconoscevano, perché noi non possiamo far sì che gli uomini della nostra epoca recuperino il concetto di sacralità della vita umana, per quanto le leggi della nostra epoca sembrino averlo dimenticato? Per farlo, dovremo usare parole che risultino intelligibili agli uomini del nostro tempo; e così riusciremo, come a suo tempo riuscì il genio paolino, a minare dal di dentro una cultura che si è allontanata da Dio, senza arroccarci contro di essa.
Dobbiamo tornare a predicare in questa società neopagana che Dio si è fatto uomo; non per innalzarsi su un trono, ma per partecipare ai limiti umani, per provare le stesse sofferenze degli uomini, per accompagnarli nel loro cammino terreno. E, facendosi uomo, Dio ha fatto sì che la vita umana, ogni vita umana, divenisse sacra. San Paolo riuscì a farsi capire dagli uomini del suo tempo; e così trasformò in realtà la missione insostituibile che noi cristiani abbiamo nel mondo, descritta con parole sublimi nella Lettera a Diogneto: « Come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani (…) L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo (…) Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare ».
Arroccarsi contro il mondo equivale ad abbandonare il posto che Dio ci ha assegnato. Il genio paolino ci insegna che possiamo continuare a essere l’anima del mondo, senza rinunciare ai nostri principi e senza rinnegare la nostra essenza.

(L’Osservatore Romano 13 novembre 2008)

VERSO IL NATALE CON SAN PAOLO (Anno Paolino)

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VERSO IL NATALE CON SAN PAOLO (Anno Paolino)

Cari cooperatori e amici,
quest’anno la festività del Natale cade nel mezzo dell’Anno dedicato a San Paolo, voluto da papa Benedetto XVI per la ricorrenza del bimillenario della nascita dell’Apostolo. Al riguardo, nel giugno scorso, ho già proposto su queste pagine alcune riflessioni, richiamando il mandato del beato Giacomo Alberione alla Famiglia Paolina a essere « San Paolo vivo oggi » e invitando « a mostrare, nei fatti e nelle riflessioni, che San Paolo incarna anche oggi un modello affascinante di vivere e comunicare l’esperienza di Cristo ». Aggiungevo che il « farsi tutto a tutti » dell’Apostolo è di indirizzo per la nostra attività pastorale che « valorizza in pieno tutte le forme e i linguaggi della comunicazione attuale per permettere che il Cristo integrale, Via e Verità e Vita, si incontri con la totalità della personalità, mente e cuore e volontà ».

« Quando venne la pienezza del tempo »
Ora, attraverso alcuni testi paolini della liturgia natalizia, vogliamo farci accompagnare da San Paolo e con lui accostarci al mistero che contempliamo: « Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge… perché ricevessimo l’adozione a figli » (Gal 4,4-5). L’Apostolo medita sul mistero, che vela e rivela « la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini » (Tt 2,11); si coinvolge nel mirabile scambio per il quale il Figlio di Dio assume la nostra umanità e la eleva alla dignità divina; vive in sé la gioia dell’uomo fatto figlio di Dio.
Nell’Incarnazione – giacché il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo – trova vera luce il mistero stesso dell’uomo: « Se uno è in Cristo è una creatura nuova »(2Cor 5,17); nell’Incarnazione è radicata l’unità e la solidarietà della famiglia umana: « Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché voi tutti siete uno in Cristo Gesù » (Gal 3,28); la creazione stessa, sottomessa alla caducità (Rm 8,20), è reintegrata nel disegno divino di « ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra » (Ef 1,10).
Annota il nostro Fondatore: « Il Figlio di Dio si fa uomo, si umanizza, e la Chiesa vuole che noi domandiamo la grazia di diventare consorti della divinità, mentre il Figlio di Dio ha voluto essere partecipe della nostra umanità » (Per un rinnovamento spirituale, p. 314).

« Vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo »
Risuoneranno nella Notte santa queste parole dell’Apostolo, che costituiscono un vero programma di vita cristiana. La venuta del Figlio di Dio non può lasciare indifferente il suo discepolo, anzi – dice San Paolo – lo impegna alla conversione: « c’insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo »; e all’orientamento costante della vita verso Dio: « nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo » (Tt 2,12-13).
Commenta Don Alberione: «È volontà di Gesù Cristo che noi viviamo in questo mondo con temperanza, con giustizia e con pietà. Con temperanza: mortificare, cioè, le passioni sregolate; frenare gli occhi, la lingua; frenare ogni cupidigia; frenare l’orgoglio, la sensualità. Bisogna che la letizia sia sempre temperata da quello che è giusto, da quello che è il limite segnato da Dio stesso. Con giustizia. Giustizia verso Dio: « A Dio l’onore e la gloria » (1Tm 1,17). Giustizia verso il prossimo: rispetto vicendevole, rispetto nelle parole e nelle opere. Giustizia che riguarda l’onore e i doni spirituali e i beni corporali. Con pietà: vivere piamente! Questi devono essere giorni di grande pietà: buone Confessioni, buone Comunioni. Sobrie et iuste ac pie vivamus» (Per un rinnovamento spirituale, pp. 308-309).

« Annunziare a tutti le imperscrutabili ricchezze di Cristo »
Mentre i Magi s’appresseranno alla grotta di Betlemme, ci accompagnerà l’assillo di San Paolo per far risplendere il mistero nascosto da secoli nella mente di Dio, e ora rivelato: « i pagani sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della promessa per mezzo del Vangelo » (Ef 3,6). Non ci è difficile immaginare l’Apostolo « con l’occhio al panorama geografico del mondo pagano, l’anima tesa giorno e notte agli uomini tutti per comunicare a tutti l’ardore santo che lo consuma e lo trasforma in Gesù Cristo », come scrive il nostro Fondatore (L’Apostolato dell’Edizione, p.350).
Nella missione Paolo sposa le prospettive universali di Gesù, il cui cuore è aperto a tutti; « Venite tutti a me », egli ripete con Gesù percependo la fame spirituale dei popoli e delle nazioni. Direi che il suo ardore deve divorare ciascuno di noi, suoi discepoli e cooperatori nell’apostolato; è lui stesso a dirci: « Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo » (1Cor 11,1).
Guardando all’Apostolo delle genti nell’Anno a lui dedicato (cf Proposizioni 1 e 49), il recente Sinodo sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa ha sollecitato il compito dell’annuncio ai vicini e ai lontani. « I laici – ha detto – sono chiamati a riscoprire la responsabilità di esercitare il loro compito profetico, che deriva loro direttamente dal battesimo, e testimoniare il Vangelo, nella vita quotidiana: in casa, nel lavoro e dovunque si trovino » (Proposizione 38). E riferendosi ai mezzi di comunicazione sociale: « L’annuncio della Buona Notizia trova nuova ampiezza nella comunicazione odierna caratterizzata dall’intermedialità… Il nuovo contesto comunicativo ci consente di moltiplicare i modi di proclamazione e di approfondimento della sacra Scrittura. Questa, con la sua ricchezza, esige di poter raggiungere tutte le comunità, arrivando ai lontani anche attraverso questi nuovi strumenti… Sono, in ogni caso, forme che possono facilitare l’esercizio dell’ascolto obbediente della Parola di Dio (Proposizione 44).
Come vedete, ci sta davanti un campo immenso. Alla nostra ricchezza interiore e creatività pastorale, intinte nella passione paolina per Dio e per l’uomo, è dato il dono di raggiungere i cuori e disporli all’ascolto dell’unico Maestro, Gesù, Via Verità e Vita.

Vi auguro un santo Natale e un proficuo Anno 2009, mentre prego per voi e ringrazio Dio « a motivo della vostra cooperazione alla diffusione del Vangelo » (Fil 1,3).

Don Silvio Sassi
Superiore generale SSP

 

Publié dans:ANNO PAOLINO, NATALE 2014 |on 22 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

…ANNO PAOLINO UN ITINERARIO PER SPOSI E GENITORI CHE SCATURISCE DAGLI SCRITTI DELL’APOSTOLO

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NEL CONTESTO DELL’ANNO PAOLINO UN ITINERARIO PER SPOSI E GENITORI CHE SCATURISCE DAGLI SCRITTI DELL’APOSTOLO

Dalla « lettera » di s. Paolo agli sposi e ai genitori

Dagli scritti paolini è facile accogliere spunti e provocazioni, proposte e intuizioni per elaborare comportamenti, costruire progetti e sviluppare esami di coscienza da parte delle coppie di sposi e delle famiglie. Teologia e pastorale del matrimonio in s. Paolo. Tutto si riassume nell’amore. Il rapporto genitori-figli. Da sottolineare il sano realismo mostrato dall’apostolo su questi temi. I primi seguaci di Cristo si ritrovavano nelle case. Già in Atti 2 avviene il passaggio dal tempio alla casa, con la « frazione del pane » nella dimora accogliente di un membro del gruppo di credenti: sono le prime « chiese domestiche ». L’incontro con Cristo coinvolge tutte le dimensioni del vissuto, compreso lo sposarsi e l’abitare. San Paolo, pur non essendo sposato, è vissuto con coppie di sposi. Si pensi all’anno e mezzo trascorso a Corinto in casa di Aquila e Priscilla, i due coniugi che gli hanno dato il lavoro e l’hanno aiutato con
grande generosità sul piano pastorale. L’apostolo li definisce «miei collaboratori in Cristo Gesù». In 1Cor 16,15 Paolo cita la famiglia di Stefana «primizia dell’Acaia», distintasi per il grande impegno. Molti dei 72 collaboratori dell’apostolo, menzionati negli Atti e nelle Lettere, erano sposati. È questo un segnale inequivocabile che l’attiva collaborazione tra l’apostolo e qualche precisa famiglia cristiana ha dato frutti insperati. Da qui un criterio spirituale e pastorale sempre valido: la sinergia tra istituzione (parrocchia, diocesi) e famiglia, tra sacerdote e sposi, apre le porte dell’evangelizzazione. Paolo attribuisce tanto valore all’istituto matrimoniale da scrivere: «Se qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele»
(1Tim 5,8). La prima e più importante verifica della fede personale e dell’appartenenza alla chiesa passa
attraverso il proprio stile di vita familiare. La teologia del matrimonio Paolo non ha scritto un trattato specifico sul matrimonio, ma ha affrontato questa tematica rispondendo a quesiti postigli dalle comunità da lui fondate o prendendo posizione su situazioni reali della vita dei cristiani. Pur esaltando la verginità per i valori di libertà, di offerta totale a Dio e, quindi, di anticipo della situazione escatologica, e pur risentendo dell’impostazione tradizionale dei ruoli nella famiglia antica, l’apostolo introduce varie novità per il matrimonio. Egli ribadisce anzitutto il comando del Signore circa la fedeltà e l’indissolubilità del legame sponsale. Il coniuge è il primo prossimo da amare, fino a costituire un essere solo (Ef 5,28). Sia in Ef che in Col, Paolo modula il rapporto marito-moglie sul rapporto Cristo-chiesa: è questa la massima valorizzazione della relazione coniugale. In Ef 5,1-2.21-33 viene ripetuto per tre volte il verbo agapao: mai il mondo greco e latino aveva usato tale verbo per indicare il rapporto uomo e donna, solitamente riconducibile a
passionalità (eros). Qui invece si allude ad un amore gratuito e fedele. Il marito è sì « capo », ma solo nel modo in cui Cristo è capo e salvatore della chiesa, in quanto cioè è disposto a donare radicalmente la propria vita. È la pasqua della famiglia, con la crocifissione dell’egoismo in ciascun membro. L’amore autentico tra due coniugi diventa così partecipazione al « mistero » della comunione divina e dell’alleanza di Dio col suo popolo. Con originale profondità, Paolo immerge l’amore dei due sposi all’interno di quel grande gorgo che è l’amore infinito ed eterno di Dio.
La vita coniugale diventa pertanto una manifestazione dell’amore stesso di Dio e uno strumento di santificazione per i coniugi. Gli sposi sono chiamati ad amarsi l’un l’altro come «Cristo ha amato la chiesa e ha dato se stesso per lei» (Ef 5,25): è questo il metro di misura del loro amore. Il matrimonio è la consacrazione di un legame, che non è solo giuridico o funzionale o psicologico, ma si radica in Dio. Per sposarsi, occorre essere in cinque: lo sposo, la sposa, il Padre, il Figlio e lo Spirito. Bisognerebbe ricordarlo nella tentazione della separazione. I coniugi cristiani si amano, con le fragilità e i limiti di tutti ma, se lo fanno affidandosi al Signore, il loro amore diventa luminoso e contagioso, si trasforma in un annuncio spontaneo e quotidiano.
LINEE DI PASTORALE FAMILIARE
La vita dei fedeli sposati poneva ogni giorno problemi concreti, che esigevano indicazioni pratiche per vivere da cristiani in famiglia. Ecco alcuni consigli di Paolo:
- A causa del rispetto che dovete avere per Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri (Ef 5,21). L’amore è reciproca sottomissione: il termine « coniuge » significa « stare sotto lo stesso giogo », liberamente accolto. È tener conto della volontà dell’altro, dialogare e, a volte, pure rinunciare, per il bene comune della coppia e della famiglia. ? Il corpo è per il Signore e il Signore è per il corpo (1Cor 6,13). La corporeità e la sessualità rivelano il bisogno di Dio come pienezza di comunione, e quindi non possono essere riducibili a ricerca di sé o del solo piacere egoistico. Questo postula una conversione permanente per vivere al meglio i doni di Dio.
- Non astenetevi tra voi se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera; ma poi ritornate insieme, perché satana non vi tenti nei momenti di passione (1Cor 7,5). Contro la tendenza spiritualista del tempo, basata sull’opposizione corpo-spirito, Paolo riconosce l’importanza dell’esercizio della sessualità nella coppia, poiché «i vostri corpi sono membra di Cristo» (1Cor 6,15).
- Non fate delle vostre membra delle armi di ingiustizia al servizio del peccato (Rm 6,13). Paolo evidenzia i peccati sessuali più diffusi: l’adulterio, il disordine nei rapporti coniugali, l’andare con prostitute, la dissolutezza, le varie forme di impurità, la passione colpevole. Libertà non equivale mai a libertinismo e certi comportamenti escludono dal Regno perché non lasciano trasparire la « nuova creatura » redenta da Cristo, ma le catene della schiavitù idolatrica.
- Purificatevi dal vecchio lievito per essere una pasta nuova (1Cor 5,7). L’amore degli sposi deve essere « casto », per diventare oblativo. Castità coniugale non è astensione, ma misura e armonia: è la vera arte di amare. La castità è un’energia che regola l’uso della sessualità come dono reciproco e come occasione di crescita umana e spirituale (1Cor 7,1-9).
- Quelli che usano del mondo è come se non ne usassero appieno (1Cor 7,31). La verginità proietta oltre il presente, ha valore escatologico. Il credente vive nella realtà quotidiana del mondo, con tutte le sue gioie e fatiche, ma la sperimenta in modo quasi verginale, non stabilendosi in essa. Anche il matrimonio e la famiglia non sono realtà ultime e definitive, in attesa della pasqua finale.
NELL’AMORE, TUTTO
Per san Paolo nulla va anteposto a Cristo e nulla va vissuto senza Cristo: dunque, anche la vita sponsale e familiare non viene né idolatrata né relativizzata, ma passata al vaglio della pasqua del Cristo crocifisso e risorto. Oggi l’apostolo inviterebbe non a « sposarsi in chiesa », come solitamente si dice, ma a sposarsi « nel Signore »: il fulcro non è sul luogo materiale, ma piuttosto sulla fede autentica in Cristo, il che poi postula anche il valore del luogo sacro per la celebrazione del sacramento. La meditazione dei testi paolini aiuterebbe i nubendi, le loro famiglie e comunità a saper distinguere l’essenziale dal relativo e il sostanziale dall’apparente, imparando a fare scelte più oculate e alternative alla sapienza di questo mondo consumistico perché povero del profumo di Cristo. Sono innumerevoli le indicazioni che l’apostolo invia alle sue comunità e che si potrebbero tranquillamente applicare alla famiglia. Citiamo, come esempio, il consiglio di essere costruttori di verità nell’amore: «Vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa, verso di lui che è il capo della chiesa» (Ef 4,15-16). Gli antichi greci abbinavano al termine verità quello di franchezza: per loro era una conquista della democrazia e significava libertà di parola, apertura all’altro, coraggio di dire ciò che si pensa, comunicazione autentica. Senza la franchezza, i rapporti interpersonali rischiano di essere formali, convenzionali e opportunistici. È l’invito ad una comunicazione schietta e genuina, non condita da sotterfugi o doppi sensi, malizie o infedeltà. Paolo scrive questa esortazione alla chiesa nel suo insieme, affinché cresca unita edificandosi nell’amore. Ma tutto questo vale anche per la cellula più piccola della chiesa, che è la famiglia. Il consiglio
sottolinea l’importanza dell’ascolto e della parola, del dialogo e della comprensione reciproca. Occorre mettere in disparte l’idea che l’inganno sia utile e la sincerità risulti necessariamente brutale. Nell’inno all’amore della 1Cor 13 afferma che la carità si compiace della verità, non approva mai comportamenti ingiusti, non li condivide e non li giustifica. La combinazione di gentilezza e schiettezza è la carta vincente della comunicazione e del dialogo in famiglia, della sua crescita serena. In Rom 12,1-2 Paolo chiede ai cristiani, e quindi anche alla famiglia credente, non di vivere fuori dal mondo, ma di non conformarsi allo stile di vita dominante, di non lasciarsi intossicare dalla mentalità
comune, di discernere ciò che è in linea col Vangelo e avendo il coraggio di andare controcorrente, se richiesto dalla fedeltà al Signore e dalla sintonia con il suo corpo vivente, che è la chiesa. Paolo afferma poi che il vero culto spirituale consiste nell’«offrire i propri corpi come sacrificio gradito a Dio». È la logica dell’incarnazione, che consiste nel declinare l’amore in scelte di vita quotidiana, in atteggiamenti etici concreti. Dio, facendosi uomo, ha santificato ogni ambiente, ogni momento dell’esistenza ordinaria. Spesso ci si ostina a cercare Dio nella straordinarietà, nei tempi forti, in luoghi speciali, dimenticando che egli abita nel tempio dei nostri corpi fragili e stanchi e nel tempio dei nostri
appartamenti e dei nostri uffici. Paolo apre una straordinaria prospettiva, quando suggerisce di offrire a Dio la pesantezza delle fatiche quotidiane come culto spirituale gradito a Dio! Non manca il riferimento alla preghiera perseverante e al generoso servizio del Signore, alla semplicità e al perdono, alla condivisione e all’umiltà, all’accoglienza premurosa e alla collaborazione nel bene, alle opere buone che costituiscono i monili più belli sui volti femminili. L’apostolo distingue il comandamento del Signore circa il non separarsi dal suo personale consiglio circa le possibile scelte future. Molto incoraggiante l’affermazione paolina secondo la quale il marito non credente viene
santificato dalla moglie credente e viceversa (1Cor 7,14). È il frutto maggiore della grazia di Dio, la quale trasforma un coniuge in un ponte per l’altro sulla strada salvifica che va oltre il tempo e lo spazio. Paolo non teme di affrontare con chiarezza le situazioni di scandalo (1Cor 5,1-5), suggerendo prospettive di purificazione per il soggetto e la comunità. Con interessanti consigli inoltre dimostra interesse circa il ruolo delle vedove nella comunità cristiana (1Tm 5, 3-16).
RAPPORTO GENITORI-FIGLI
Paolo tiene in tal conto l’ambiente familiare che, per descrivere l’intensità del rapporto avuto con le sue comunità, usa spesso l’analogia con l’amore di un padre e di una madre: «Siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature» (1Ts 2,7); «Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!» (Gal 4,19); «Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo» (Cor 4,14-15). L’apostolo in quest’ultimo testo pare affermare che un vero padre vale più di diecimila maestri! E ancora prende spunto dal latte e dal cibo solido, esperienza tipica dello svezzamento, per indicare la condizione immatura dei cristiani di Corinto, ai quali raccomanda: «Sia che
mangiate sia che beviate, tutto fate per la gloria di Dio» (1Cor 10,31. Mentre Paolo dà parecchie indicazioni e consigli ai coniugi, scrive invece poche righe (in Ef 6,1-4 e in Col 3,20-21) sul rapporto genitori-figli. Anche questa può essere un’indicazione educativa: l’amore più grande verso il proprio figlio si manifesta anzitutto nel rispetto e nell’intimità col proprio partner. Prima si è sposi e poi si diventa genitori e tra le due dimensioni vige un rapporto direttamente proporzionale: come si può essere autentici genitori, attenti e premurosi verso i figli, se non si è uniti e in cammino come sposi? Eppure, quanto è facile proiettarsi sui figli, dando per scontato il rapporto col proprio coniuge con
il quale si è ricevuta la benedizione del Signore! Per l’apostolo i figli sono « santi » (1Cor 7,14), cioè partecipano della grazia che anima la vita dei loro genitori. La fede non è « esterna » alla coppia, ma insita nell’esperienza condivisa e trasmessa. Poi raccomanda ai figli: «Obbedite ai vostri genitori nel Signore» (Ef 6,1). Omettendo tanti precetti
sapienziali (Sir 3,1-16; 7,27-28), Paolo invita ad un atteggiamento di obbedienza con due motivazioni: perché « è giusto », in riferimento alla consueta relazione tra le generazioni e alla concezione ellenistica di virtù. La seconda motivazione rimanda al quarto comandamento, sottolineando che esso è il primo comando del Signore legato ad una promessa: una vita lunga e felice. Non ci si improvvisa pellegrini della storia, se non ci si lascia accompagnare da chi ci ha preceduto facendo tesoro della sua saggezza di vita. Umiltà e disponibilità, da una parte, e responsabilità e consegna, dall’altra, sono le condizioni per uno scambio generazionale proficuo. Il cristianesimo non ama la separazione dei giovani dagli adulti e dagli anziani, ma tende alla comunione, pur nell’originalità di ciascuna età. Paolo rivolge poi una duplice esortazione ai padri: «Non esasperate i vostri figli, ma nutriteli con l’educazione e la disciplina del Signore». Dapprima li invita a non pretendere troppo dai propri figli, a non infierire su di loro con punizioni troppo severe. Poi l’aspetto positivo e propositivo di una sana educazione, fatta di rimproveri e di incoraggiamenti, di fermezza e di tenerezza a partire « dal Signore ». La fede, con i valori umani che essa origina e purifica, illumina e feconda anche l’impegno educativo nella famiglia. La sola fermezza, infatti, inasprisce i figli, la sola tenerezza manca di robustezza interiore, così utile per affrontare la vita. Paolo perciò invita a « nutrire » i figli, cioè a coinvolgersi nel progetto educativo
familiare, non demandabile ad alcun altro. Accoglienza e amore, assieme a valori chiari e a precisi punti di riferimento, costituiscono l’argine entro il quale il fiume della vita può essere utilmente contenuto. Per san Paolo, « educare » i figli implica il « lasciarsi educare dal Signore » in un atteggiamento di ascolto e di ricerca, di fiducia e di coraggio, nella certezza che la fede aiuta l’umanità propria e altrui ad esprimersi in pienezza e a costruire un ambiente più umano. La chiesa domestica come esperta in umanità.
IL SANO REALISMO
San Paolo rifiuta lo spiritualismo asettico, il manicheismo di parte, il soggettivismo relativista. Attingendo alla propria esperienza e alla vita problematica delle sue comunità, egli conosce la fragilità di ogni persona, sebbene investita della grande vocazione sponsale e familiare. Per questo (cf. Ef 4,26) raccomanda di non peccare nell’ira. Non dice di non arrabbiarsi mai, ma di non mancare di rispetto, aggredendo, disprezzando o sminuendo il proprio partner o la propria prole. E aggiunge: «Non tramonti il sole sopra la vostra ira». In altre parole: a volte, in famiglia, sono inevitabili il conflitto e la tensione; l’importante è sapersi spiegare e riconciliarsi presto, così da dormire sereni e in pace con tutti. Nell’inno alla carità l’apostolo afferma che «l’amore non si adira». Chi ama non esaspera, non assume posizioni
rigide e intransigenti, non vive di nostalgia per un passato che inevitabilmente passa e muta, né impone scelte per un futuro che si costruisce gradualmente insieme. L’amore non aggredisce, non vuole dominare né sopraffare.
Alternanza di « bastone e carità » (1Cor 4,21): è la fatica di ogni genitore ed educatore. Anche all’emergenza educativa si applica il mistero pasquale di morte e risurrezione. Non si tratta quindi di una tecnica, ma di un’esperienza nuova, generata dallo Spirito che rende presente ed operante Cristo, signore e maestro di ogni persona. No al genitore-padrone, al genitore-amico e al genitore-rinunciatario! In molti passi Paolo consiglia la mitezza e la tolleranza, il perdono e la riconciliazione, ma anche l’esemplarità e il coinvolgimento personale, fino al dono di sé : sono questi gli atteggiamenti veramente rivoluzionari del cristiano, che portano alla civiltà dell’amore. È la semina e la testimonianza più che il risultato secondo i criteri umani. Dagli scritti paolini è facile accogliere spunti e provocazioni, proposte e intuizioni per elaborare comportamenti, costruire progetti e sviluppare esami di coscienza da parte delle coppie di sposi, delle famiglie nella loro interezza e delle comunità parrocchiali, come pure da parte delle associazioni e dei
movimenti cattolici.

Guglielmoni L. – Negri F.

DECALOGO PER LA COPPIA (da 1Cor 13,4-8)
1. L’amore è paziente: «Siate impegnati, non pigri: pazienti nelle tribolazioni, perseveranti nella preghiera» (Rom 12,11-12). «La chiave che apre ogni porta è la pazienza. Ottieni la gallina covando l’uovo, non rompendolo» (A. Glasow).
2. L’amore è benevolo: «Il vostro amore sia sincero. Fuggite il male, seguite fermamente il bene» (Rom 12,9). «Il Signore ci ha creati per fare cose piccole con grande amore. Questo amore deve cominciare dalla nostra casa, dalla porta del vicino… Siate l’espressione vivente della gentilezza di Dio» (Madre Teresa).
3. L’amore non è invidioso, né geloso: «Siate premurosi nello stimarvi gli uni gli altri» (Rom 12,10). «Tenetevi gli uni accanto agli altri, ma non troppo vicini, così come il cipresso e la quercia non crescono l’una all’ombra dell’altra» (K. Gibran).
4. L’amore non si vanta, non si gonfia: «Andate d’accordo tra voi. Non inseguite desideri di grandezza, volgetevi piuttosto verso le cose umili» (Rom 12,16). «Matrimonio riuscito: la condizione di una piccola comunità costituita da un padrone, una padrona e due servi: in tutto, due persone» (Anonimo).
5. L’amore non manca di rispetto: «Ciascuno ami la propria moglie come se stesso e la donna sia rispettosa verso il marito» (Ef 5,33). «Tratta tua moglie come se fosse un purosangue e non sarà mai una donna rozza» (Anonimo).
6. L’amore non cerca il suo interesse: «Dio vi ha scelti e vi ama. Perciò abbiate sentimenti nuovi: misericordia, bontà, umiltà, pazienza e dolcezza» (Col 3,12). «Se ciascun partner è disposto a dare il 75% di se stesso in un rapporto, si avrà il 50% in più di quello che serve per un’unione perfetta» (Leo Buscaglia).
7. L’amore non si adira: «Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca, ma piuttosto parole buone che possono servire per la necessaria edificazione» (Ef 4,29). «Liberatevi dalle piccole seccature. Certo, siete diversi: ma non è per questo che vi siete innamorati?» (Anonimo).
8. L’amore non tiene conto del male ricevuto: «Sopportatevi a vicenda: se avete motivo di lamentarvi gli uni degli altri, siate pronti a perdonare, come il Signore ha perdonato a voi» (Col 3,13). «Chiedere scusa è la supercolla della vita: può riparare quasi tutto» (Lynn Johnston).
9. L’amore non gode dell’ingiustizia: «Vostra cintura sia la verità, vostra corazza le opere giuste» (Ef 6,14). «Una coppia di novelli sposi chiese al maestro di spiritualità: « Cosa dobbiamo fare perché il nostro amore duri? ». Rispose il maestro: « Amate insieme altre cose »» (A. De Mello).
10. L’amore si compiace della verità: «Bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri… Il vostro parlare sia sempre con grazia, condito di sapienza (Ef 4,25.15). «Il solo modo di dire la verità è parlare con amore» (D. Thoreau). L’amore tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. Inseguite l’amore (1Cor 14,1).

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