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Vita, morte e Amore
padre Gian Franco Scarpitta
V DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO A) (02/04/2017)
La liturgia di oggi ci invita indirettamente al prosieguo della Parola della scorsa Domenica, perché a proposito della guarigione del cieco nato si interrogava espressamente Gesù intorno alle ragioni del suo malessere: « Chi ha peccato lui o i suoi genitori perché sia nato cieco? » Com’è noto era infatti convinzione comune nel popolo ebraico che ogni infermità fisica fosse stata causata da un peccato commesso da chi ne era interessato o dai suoi progenitori e che ad ogni malattia fosse associata una mancanza morale. La risposta di Gesù debella questa mentalità a dir poco demoralizzante e introduce l’argomento della fiducia in Dio anche nella prospettiva del dolore, come del resto si evince anche nella letteratura dell’intero testo di Giobbe. « Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio » invita infatti a considerare la malattia fisica come una circostanza in cui è possibile sperimentare la vicinanza di Dio all’uomo e la sua misericordia. Certamente il dolore fisico è assillante e, seppure da parte nostra non si possa approvare il ricorso alla pratica del « suicidio assistito »(peraltro accessibile ai soli che possano permettersi viaggi all’estero), sebbene la morale cattolica non può non condannare l’eutanasia e l’interruzione volontaria della vita biologica, non si può tuttavia restare indifferenti all’assillo atroce al quale sono costretti parecchi sofferenti di mali irrimediabili, la sofferenze lancinante che provano tanti soggetti costretti a rinunciare all’uso degli arti, il senso di disagio e di dipendenza che provano quanti sono costretti a dipendere dagli altri anche nei minimi movimenti, la spietatezza del dolore fisico e dell’angoscia che provano altri costretti alla perenne degenza a letto… La malattia è difficile a sopportarsi e solamente chi ne vive il dramma può veicolarne la pesantezza e l’atrocità. La suddetta espressione di Gesù costituisce un invito alla speranza nelle circostanze del male irrimediabile, un invito alla costanza nel dolore nella certezza che Dio non abbandona coloro che soffrono e che anzi la malattia è un’occasione di esperienza della vicinanza di Dio. Dio poi è sempre l’onnipotente e può ricompensare il nostro dolore anche con appropriati interventi miracolistici perché la « gloria di Dio è l’uomo vivente » (Ireneo).
Cosi pure, poco prima di descrivere l’evento della resurrezione di Lazzaro, Giovanni mette in bocca a Gesù un’altra espressione simile alla precedente: « Questa malattia (di Lazzaro) non è per la morte, ma per la gloria di Dio » a identificare che Dio vince anche quando alla malattia non c’è più un rimedio naturale. Come sul dolore, così Dio ha potere sulla morte. Anch’essa, nel suo Figlio Gesù Cristo, è occasione perché Dio manifesti le sue opere gloriose che vertono sempre alle finalità di misericordia e di amore. Anzi, la nostra fede ci illustra che nella stessa circostanza del morire troviamo la realizzazione dell’amore e della gioia piena, se è vero che « le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà »(Sap 3,1). Dicevamo: ce lo illustra la nostra fede. Determinate certezze sono in effetti materialmente inconcepibili quando siano guardate dal solo punto di vista umano senza che ci si soffermi sull’adesione alla rivelazione di Dio, senza che ci si immedesimi nel mistero della Resurrezione di Cristo assumendolo nella forma totalizzante della nostra vita. Senza cioè aprire il cuore alla speranza e alla certezza che ci proviene nient’altro che dalla Parola rivelata e dal Cristo morto e risuscitato. Senza la risorsa della fede l’esperienza del dolore e della morte può diventare frustrante e dar luogo anche alla disperazione e all’abbandono. Senza la fede radicata nel Risorto, l’esperienza della morte nella scomparsa prematura di un nostro caro può diventare deleteria non offrendo alcuna possibilità di appiglio. Nelle parole di Gesù: « Io sono la Resurrezione e la vita, chiunque vive e crede in me anche se muore vivrà » vi è la certezza della Rivelazione di quella che abbiamo riconosciuto nelle scorse Domeniche come la « Verità », la quale a sua volta diventa « Vita » e nel risorto possibilità di vittoria sulla morte. Il Dio dei vivi che ridona vitalità alle ossa inaridite che in forza dello Spirito vanno ricomponendosi e riacquistando carnagione e con questa la dinamicità (I Lettura), mostra nei confronti della disfatta e della morte un potere che solamente il suo Amore può giustificare e ciò soprattutto in un evento concreto: il Risorto Gesù Cristo suo Figlio. Questi certamente piange per la scomparsa dell’amico Lazzaro dando la prova che il dispiacere e lo smarrimento caratterizzano inesorabilmente la vita umana, ciononostante si accosta alla sua tomba ben sapendo che il cadavere è tumefatto « da quattro giorni » e maleodorante, si intrattiene in conversazione con il Padre Dio dei vivi e non dei morti e al suo invito Lazzaro esce prodigiosamente dal sepolcro nonostante il vincolo delle bende e del sudario. L’episodio della resurrezione di questo personaggio che desterà stupore anche in seguito, durante una cena, è emblematico dell’annuncio del Cristo vincitore sulla morte in nome dell’Amore, quale si presenterà una volta fuoriuscito dal sepolcro e la stessa rianimazione del cadavere dell’amico è un saggio della medesima resurrezione dopo la morte di croce. Essa ci ragguaglia che anche la morte è il luogo del manifestarsi delle grandi opere di Dio, in tal caso del prevalere della Vita sulla morte e appunto la fede ci dischiude a questa possibilità di speranza che diventa certezza. In Cristo non c’è morte che non diventi occasione di fede per aprirsi alla prospettiva della vita, perché nella fede siamo illuminati sul fatto che oltre alla morte c’è il Dio Amore. La fede non è tuttavia un concetto astratto o un’utopia o un farmaco atto a lenire il dolore per chi è morto, ma un vivere in sintonia con il Risorto e anzi un vivere anche noi la vita nell’ottica della risurrezione senza vivere da morti la vita.
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