dal sito:
http://www.atma-o-jibon.org/italiano/don_doglio6.htm#I%20riferimenti%20alla%20Madre
DONNE BIBLICHE: FIGURE FEMMINILI NELLE SACRE SCRITTURE
Don Claudio DOGLIO
5. LA MADRE DEL MESSIA: le profezie bibliche applicate a Maria
I riferimenti alla Madre del Messia nell’Antico Testamento
In questo ultimo incontro prenatalizio concentriamo la nostra attenzione sulla Madre del Messia domandandoci, anzitutto, se se ne parla nell’Antico Testamento: non possiamo dire di cercare la figura di Maria nell’Antico Testamento – Maria è un personaggio del Nuovo Testamento -, però è la Madre di Gesù riconosciuto come « il Messia » e, dato che nell’Antico Testamento sono molti i testi messianici, è probabile che vi siano anche dei testi relativi alla Madre del Messia. Se ne possono trovare tre e noi cercheremo di studiarli, consapevoli che la materia che stiamo per prendere in esame è impegnativa e, a differenza del libro di Ester trattato la volta scorsa, questi testi sono strani, complessi e di non facile interpretazione.
Iniziamo con l’elencazione dei tre testi per avere il quadro della situazione:
il primo testo è Genesi 3, 15: « Io porrò inimicizia fra te e la donna »,
il secondo testo è Isaia 7, 14: « Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio »,
il terzo testo è Michea 5, 2: « Perciò Dio li metterà in potere altrui fino a quando colei che deve partorire partorirà ».
Non ne esistono altri esplicitamente relativi alla Madre del Messia, ancorché si possano trovare molti riferimenti femminili. Infatti, nella tradizione patristica, cioè degli antichi interpreti cristiani, sono stati riletti in chiave mariologica molti particolari di questo genere, come ad esempio la figura di Ester o di Giuditta o di altre donne, oppure altri particolari come la Sapienza personificata alla stregua di una donna saggia, o la sposa del Cantico dei Cantici, applicando a Maria tutto ciò che in questi esempi è femminile. Si tratta senza dubbio di un’esagerazione che non corrisponde al senso primario dei testi e quindi non li consideriamo; parlando di Giuditta, nel prossimo incontro, vedremo i possibili riferimenti a Maria che tuttavia non riguardano la « Madre del Messia ». Al contrario, i tre testi sopra riportati sono proprio intenzionalmente orientati a parlare della generazione del Messia.
Esamineremo questi testi non tanto in ordine biblico, secondo il testo, quanto in ordine cronologico, cioè in ordine di composizione.
Il riferimento nel libro della Genesi
Il libro della Genesi, al capitolo 3, contiene un testo arcaico appartenente alla tradizione comunemente chiamata jahvista – la tradizione teologica che usa il nome proprio Jahveh per indicare Dio –, nata alla corte di Gerusalemme; si tratta di una tradizione sapienziale, legata alla città di Gerusalemme ed alla dinastia di Davide, sorta in un periodo di benessere e di ottimismo con l’intenzione di formare le nuove generazioni. Di questa tradizione abbiamo già parlato nel corso del primo incontro quando abbiamo affrontato la figura della prima madre, Eva, e infatti questo versetto si colloca proprio in quel contesto; siamo nell’ambito delle « punizioni », che vengono sancite dopo avere scoperto il delitto della disobbedienza.
La prima punizione è inflitta al serpente: Dio maledice il serpente, lo condanna a mangiare la polvere e fa poi la promessa « Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra il tuo seme e il suo seme; questo ti schiaccerà il capo e tu gli insidierai il calcagno ».
Facciamo bene attenzione a non interpretare subito il testo nel senso delle immagini dell’Immacolata; abbiamo appena celebrato questa festa e, nella liturgia eucaristica, abbiamo letto proprio questo brano.
Il punto nevralgico del testo sta nell’identificazione di chi sia il soggetto che schiaccia la testa; la traduzione italiana adopera la parola « stirpe » al posto di « seme » e conclude: « questa ti schiaccerà la testa ». Sembra così che il riferimento sia alla donna, mentre invece è alla stirpe; l’equivoco è venuto da uno sbaglio di trascrizione in latino dei codici della Vulgata in epoca medievale, quando è stato riportato il femminile « ipsa » nell’espressione « ipsa conteret caput tuum », mentre nei testi antichi della traduzione in latino si trovava il maschile « ipse », corrispondente al maschile del testo greco « autòs » e al maschile ebraico « hû’ ».
Su questo fatto non c’è ombra di dubbio, specialmente nel testo ebraico dove, come in tutte le lingue semitiche, c’è differenza nella coniugazione del verbo e si hanno desinenze diverse fra la terza persona maschile e la terza femminile. È quindi chiarissimo che il riferimento è maschile, ovvero « colui che schiaccerà il capo del serpente » è il « seme della donna », il suo discendente; l’applicazione deve quindi essere fatta con intelligenza.
Questo testo è stato definito dalla tradizione cristiana « protovangelo », cioè primo annuncio di salvezza; infatti, nella Bibbia questa è la prima promessa salvifica: « Io porrò inimicizia ». Nel momento in cui viene condannato il serpente, Dio condanna il male nella sua immagine simbolica, non condanna cioè il serpente in quanto animale, bensì condanna il male nella sua figura diabolica; si tenga tuttavia presente che in quel contesto antico non c’è ancora l’idea del demonio come di un angelo decaduto, c’è invece l’idea di una forza malefica.
Nell’espressione di condanna del male, « mangiare la polvere » significa essere schiacciato e umiliato, essere abbattuto e ridotto all’impotenza.
La promessa dell’inimicizia vuol dire che si verificherà uno scontro continuo, cioè che, nonostante Dio abbia lasciato questa situazione di peccato nell’umanità, promette un combattimento, un’inimicizia volta allo scontro « fra la donna e il serpente », che è come dire fra l’umanità e il male: la « donna », infatti, non va interpretata come una donna in carne ed ossa, ma come il genere umano, analogamente all’interpretazione appena data al « serpente ». C’è quindi la promessa di uno scontro e di una permanente inimicizia fra l’umanità e il male, nel senso che l’umanità non soggiace al male passivamente, ma sente un’istintiva ribellione nei suoi confronti: anche se è inclinata al male, l’umanità continua a riconoscerlo come male, non lo ama e porta dentro di sé il desiderio di eliminarlo. Come istintivamente si è inclinati al male, altrettanto istintivamente il male provoca insofferenza e si vorrebbe superarlo e vincerlo. Questa idea di contrapposizione non riguarda solo la fase arcaica, ma le generazioni future; ecco quindi l’idea del « tuo seme » e del « suo seme » – i discendenti del serpente e i discendenti della donna -, come se in ogni generazione si rinnovassero le situazioni di male al rinnovarsi delle persone ed al mutamento delle situazioni storiche, come se di generazione in generazione si rinnovasse questa condizione di inimicizia e questa situazione di scontro, come in realtà avviene, fino a quando ci sarà una soluzione: un discendente della donna che schiaccerà il capo del serpente.
Il serpente, quando ha sul capo un piede che lo sta per schiacciare, si rivolta e tenta di mordere l’unico punto a cui può arrivare, il calcagno; tenta di rivoltarsi, ma viene schiacciato. Il testo ebraico è molto difficile e adopera due volte lo stesso verbo che, con una sfumatura di significato, sta fra « insidiare » e « osservare »: c’è la differenza fra la testa e il piede, fra la parte bassa e la parte alta, la parte infima e la parte nobile. C’è una differenza di risultato: lo scontro si concluderà con la vittoria dell’umanità; un figlio della donna – il seme della donna – schiaccerà la testa. L’insidia c’è ed è tale che il figlio della donna ne avrà un danno: il serpente insidia il calcagno, morde e può arrecare danno, ma finirà per lasciarci la testa. Questa immagine è poetica e profetica, nel senso che l’autore antico non sa bene cosa sia e cosa intenda dire, ma ha questa intuizione: non racconta semplicemente gli elementi arcaici, iniziali, ma descrive anche quello che sarà in futuro.
Nella tradizione ebraica questo testo era letto in chiave messianica, cioè la tradizione giudaica precristiana interpretava questo versetto come una profezia del Messia. Ne siamo sicuri perché abbiamo il « targum », cioè la traduzione aramaica, in lingua popolare e corrente, che veniva letta in sinagoga per spiegare al popolo il testo biblico quando non veniva più capito bene; queste traduzioni popolari erano molto più ricche del testo ufficiale, aggiungevano delle spiegazioni e delle interpretazioni oggi per noi preziosissime, perché ci dicono il modo in cui a quel tempo il testo veniva interpretato. Noi possiamo quindi sapere che quando Gesù e gli apostoli andavano in sinagoga e veniva letto questo testo, lo sentivano leggere in chiave messianica. A questa stregua, la parafrasi di tipo rabbinico farisaico del testo che stiamo esaminando può essere questa: « Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra i discendenti del serpente e i discendenti dell’umanità. Quando i figli della donna osserveranno la legge ti schiacceranno il capo; se invece non osserveranno la legge tu li insidierai al calcagno, ma mentre essi saranno guariti per te non ci sarà guarigione, perché sarai distrutto nei giorni del Re Messia ». Il testo in questi termini veniva letto in sinagoga, secoli prima di Cristo, quindi quel brano era spiegato dai maestri giudei come messianico; il testo non ha ombra di dubbio: è un discendente della donna che schiaccerà il capo del serpente e nella tradizione ebraica questo discendente non può essere altri che il Messia, il Re Messia, il Re Consacrato.
L’alternativa espressa nella parafrasi è, come detto, di impronta farisaica: se i figli della donna osservano la legge sono forti e vincono il male, mentre se non la osservano sono deboli e il male li vince; questo combattimento sarà continuo, ma ad un certo punto per il serpente non ci sarà più via di uscita perché il Re Messia lo distruggerà.
È logico che, nel momento in cui gli apostoli riconoscono che Gesù è il Messia, tutti i testi messianici siano applicati a lui, cosicché Gesù viene presentato come « il discendente della donna che schiaccia il capo del serpente ». È un’immagine mitica per indicare la vittoria sul male: il Cristo ha vinto il male; nel Vangelo di Giovanni questo diventa evidente: il principe di questo mondo è gettato fuori, ora è il giudizio e il principe del mondo – appunto, il potere del male – viene gettato fuori, è vinto, è sconfitto.
Pur tuttavia il male produce un danno: l’immagine del serpente che si rivolta e morde il calcagno è proprio legata alla morte di Gesù, il male ha fatto morire il Messia per cui, apparentemente, ha vinto il serpente uccidendo « il figlio della donna ». In realtà invece non ha vinto: proprio lo sconfitto è colui che trionfa, colui che è stato eliminato diventa il vincitore e, con la resurrezione di Cristo, il potere del diavolo è definitivamente stroncato.
Nella formulazione arcaica troviamo un particolare molto interessante. Ritengo che sia significativo tradurre letteralmente il « seme », del serpente e della donna, perché con questo termine si esprime il testo ebraico. Lo ritengo importante perché è paradossale parlare di « seme della donna » che, in sé, è un controsenso, la donna non ha seme; è un’immagine forzata per dire « un discendente » e si afferma espressamente che « il seme della donna » schiaccerà il capo del serpente. Questa apparente contraddizione diventa chiara con il concepimento verginale di Gesù là dove c’è una persona che è generata senza seme, non da seme umano, per cui è « il seme della donna » come espressione paradossale per indicare il parto verginale: intervento creatore di Dio che dà inizio ad una nuova umanità. Il parto verginale di Maria non è né un giochetto di prestigio né tanto meno un’espressione contro la sessualità; è invece l’intervento di Dio che crea un’umanità nuova: la generazione di Gesù, nel parto verginale, è l’intervento direttamente creatore di Dio che dà origine ad un nuovo tipo di umanità. Non è legato al ciclo normale delle nascite, ma lo interrompe e inizia nuovamente, viene data origine al nuovo Adamo, alla nuova umanità.
È allora logico riconoscere nella madre di colui che schiaccia il capo del serpente la « nuova Eva », la « nuova madre di tutti i viventi », « colei che ha mutato il nome di Eva » come dicono i poeti medievali notando che « Ave » è l’inverso di « Eva »: c’è il capovolgimento della situazione, dalla disobbedienza all’obbedienza.
Il motivo per cui questo testo viene letto nella festa dell’Immacolata Concezione sta nel fatto che in quella occasione celebriamo la vittoria sul male; il discorso sulla verginità di Maria non è attinente con l’oggetto della celebrazione, anche se purtroppo non di rado si riscontra confusione interpretativa ritenendo che « immacolata » sia da intendersi come » vergine », che abbia concepito in modo immacolato e sia diventata madre in quanto vergine. Si tratta di interpretazione del tutto errata: è lei che è stata concepita senza peccato originale, quindi il concepimento di cui si parla in questa festa è nel seno di Sant’Anna ed è avvenuto con un normale rapporto sessuale; tuttavia, nel concepimento c’è stato un intervento di Dio che ha salvato pienamente Maria fin dall’inizio in forza della redenzione operata da Cristo: Maria è stata salvata prima di nascere, ma anche lei ha avuto bisogno di essere salvata. Tutti abbiamo bisogno di salvezza e Maria non fa eccezione, solo che a lei la salvezza è stata applicata da subito per grazia di Dio perché la potenza della morte e resurrezione di Cristo, in lei, ha vinto totalmente il male, da sempre, in modo definitivo. Quindi, nella persona di Maria noi ammiriamo la potenza di Dio che ha vinto il male.
L’immagine mitica di Maria Immacolata con il serpente ai piedi intende dire che nella sua persona, concretamente, Dio ha vinto il male. Tale immagine è mitica perché il concepimento di Maria parla di una cellula fecondata iniziale che non è rappresentabile con una donna adulta; Maria è rappresentabile come donna una volta che è nata e cresciuta. L’Immacolata e l’Assunta sono due immagini teologiche che celebrano, appunto, la teologia e non Maria in quanto donna storica; l’Immacolata infatti è Maria prima della nascita e l’Assunta è Maria dopo la morte, per cui tali celebrazioni riguardano ciò che c’è prima e ciò che c’è dopo, e sono le due feste dell’umanità redenta: il male è vinto alla radice e, di conseguenza, l’umanità può raggiungere il vertice del cielo.
Non esiste quindi alcun problema nell’applicazione anche delle immagini, una volta che si riconosca che chi vince il serpente è il Messia; la Madre gode pienamente i benefici dell’opera realizzata dal Figlio ed è la prova concreta che il Figlio ha vinto il male.
Il riferimento nel libro di Isaia
L’argomento è altrettanto difficile del precedente e gli eventi a cui si riferisce si collocano a Gerusalemme verso l’anno 730 A.C., al tempo del re Acaz.
La situazione storica è brutta, Gerusalemme sta vivendo un momento di difficoltà soprattutto perché hanno tentato di coinvolgere il re Acaz e il suo regno di Giuda in una guerra contro gli Assiri.
Isaia, uomo di corte e potente ministro, si è opposto, non vuole questo tipo di alleanza; di conseguenza, alcuni staterelli che vivono intorno a Giuda muovono guerra a Gerusalemme con l’intenzione di abbattere la dinastia di Davide, togliere dal trono il re Acaz e sostituirlo con un altro, in modo tale che il nuovo re sia d’accordo con loro per fare la guerra.
L’avere ascoltato Isaia che non voleva la guerra ha portato Gerusalemme in guerra e la città si trova assediata da questi eserciti in una situazione di estremo pericolo.
Il re è in rotta con Isaia e addirittura – raccontano i libri storici – ha tentato una carta estrema: ha fatto un sacrificio umano nella valle di Hinnon immolando il proprio figlio ad una divinità cananea per ottenere aiuto nella guerra. Questo fatto denota che a Gerusalemme si praticava abbondantemente l’idolatria se addirittura il re, discendente di Davide, arriva a sacrificare il proprio figlio rimanendo così senza erede in un momento in cui ci sono degli eserciti che vogliono abbattere la dinastia.
A quel punto, racconta Isaia al capitolo 7, il profeta si presenta al re e gli offre la possibilità di un segno: « «Chiedi un segno dal Signore tuo Dio, dal profondo degli inferi oppure lassù in alto» » (Is 7, 11). Acaz rifiuta il segno; è un atteggiamento prepotente e arrogante, che mostra strafottenza e disinteresse, non è un atteggiamento devoto. Sono infatti possibili due eccessi di fronte al segno proposto da Dio: uno è la pretesa del segno da Dio, l’altro è il rifiuto del segno che Dio offre, atteggiamenti entrambi sbagliati.
Il profeta propone quella linea sapiente dell’equilibrio: di fronte ad una proposta di un segno l’uomo deve accoglierlo e verificarlo. Questo è proprio l’atteggiamento di Maria quando l’angelo le dice che la cugina Elisabetta attende un figlio, lei che tutti credevano sterile; Maria si alza e va a trovarla, si fida ed accetta il segno, ma nello stesso tempo va anche a verificare se è proprio vero che Elisabetta è al sesto mese e, nello stesso tempo, che proprio lei è stata scelta per essere la madre del Messia. Proprio nell’incontro con Elisabetta ha la conferma quando si sente dire: « «A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?» » (Lc, 1, 43). Viene fatto di domandarsi come faccia Elisabetta a sapere che Maria è madre, dato che è un segreto assoluto non ancora confidato a nessuno: quindi, il segno non solo è stato verificato, ma è stato anche confermato e nell’atteggiamento di fiducia di Maria il segno accolto produce altri segni di conferma.
Acaz invece è prepotente ed arrogante: « Acaz rispose: «Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore» » (Is. 7, 12). Adopera cioè una formula ipocritamente devota, ma il tono della voce e l’atteggiamento danno fastidio e indicano che in realtà il segno non gli interessa, tant’è vero che Isaia reagisce in modo duro: « Allora Isaia disse: «Ascoltate, casa di Davide! (cioè il casato, tutta la famiglia regnante) Non vi basta di stancare la pazienza degli uomini, perché ora vogliate stancare anche quella del mio Dio?» » (ib. 7, 13); che è come dire che Isaia aveva già perso la pazienza da tempo con il re, ma adesso la sta perdendo anche Dio e allora, anche se Acaz non lo vuole, il Signore darà ugualmente il segno: « «Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele. Egli mangerà panna e miele finché non imparerà a rigettare il male e a scegliere il bene. Poiché prima ancora che il bimbo impari a rigettare il male e a scegliere il bene, sarà abbandonato il paese di cui temi i due re» » (ib. 7, 14-16). Il Signore dà quindi la garanzia che prima ancora che il bambino sia cresciuto saranno annientati i due tizzoni fumosi che provocano tanta paura. Ci chiediamo allora quale sia il segno annunciato; il segno sarà la nascita di un figlio ad Acaz e, prima che questo bambino raggiunga l’età della ragione, quei problemi che adesso angosciano la città non ci saranno più e la situazione sarà risolta.
Resta tuttavia l’interrogativo circa il termine « vergine » di cui si parla a proposito del segno; in realtà nel testo ebraico questo termine esplicito non c’è, c’è invece il termine ‘almah, che significa genericamente « ragazza » o « giovane donna ». Nel linguaggio antico era molto comune chiamare « vergini » le giovani donne a prescindere dall’effettiva condizione fisica; abbiamo come esempio la parabola delle dieci vergini, nella quale non si intende la verginità propriamente detta, ma si parla semplicemente di dieci giovani ragazze non ancora sposate che, proprio in quanto tali, partecipano al corteo nuziale. Il termine ‘almah ricorre molte volte nella Bibbia e se si fa una verifica nella versione della CEI si trova che in tutti gli altri casi questo termine è tradotto semplicemente con « ragazza »; quindi, anche in questo caso, l’interpretazione deve essere in questo senso.
Tornando all’annuncio del segno e del suo significato attuale, teniamo presente che il profeta sta parlando al re riferendosi alla situazione di estrema difficoltà che stava attraversando la città di Gerusalemme, senza alcun riferimento a ciò che sarebbe accaduto oltre settecento anni dopo – la nascita di Gesù – e che, oltre tutto, non sarebbe stato di interesse alcuno per gli attuali abitanti della città. Occorre interpretare correttamente il modo di agire del profeta, che non è un mago che preveda l’avvenire, bensì è una persona ispirata che legge in modo appropriato i segni del presente proiettandosi nel futuro.
Quindi, il testo è chiaro e il segno sta in questo: il Signore garantisce al re che avrà un figlio, del quale al momento è del tutto inconsapevole, e nel giro di poco tempo, prima che il bambino abbia raggiunto l’età della ragione – sei o sette anni – tutto sarà risolto; le cose infatti andranno proprio in questo senso.
Isaia aveva una preferenza per i nomi simbolici, tanto che ai suoi figli diede nomi molto particolari: uno si chiamava Sear-iasub che significa « ne resta solo un resto », l’altro si chiamava Mahèr-salàl-cash-baz che significa « pronto bottino, preda veloce ». Per fortuna, quando propose un nome simbolico per il figlio del re fece una scelta decisamente più gradevole: Emmanuele. Per i propri figli aveva scelto nomi simbolici di un tono pesante e configuranti una minaccia: « ne resta solo un resto » fa pensare che tutto il rimanente finirà distrutto, mentre « pronto bottino, preda veloce » richiama l’idea di un saccheggio rapido e totale. Si tratta delle sue speranze, è la raffigurazione del futuro espressa in modo drammatico con una prosa molto corposa e con immagini forti; i nomi dati ai figli indicano ciò che egli teme e prospetta per la situazione e denotano questa concretezza di linguaggio. Analogamente, proponendo un nome simbolico per il figlio del re vuole garantire la presenza del Signore: ‘Immanu vuol dire « con noi » e El è il nome generico di Dio, quindi il nome Emmanuele significa « Dio è con noi ».
Il re non lo ascolta, ma il figlio nasce; non verrà chiamato Emmanuele, ma Ezechia, che vuol dire « Dio aiuta » e quindi con un significato abbastanza vicino a quello proposto.
Effettivamente Isaia aveva ragione perché nel giro di pochi anni non solo l’assedio viene smantellato, ma i due re che avevano mosso guerra a Gerusalemme vengono eliminati; questi due re sono vittima degli assiri mentre Gerusalemme è salva e sicuramente Isaia potrà affermare di avere dato un segno, che conferma come egli parli a nome di Dio e quindi come debba essere ascoltato.
Quel testo fu conservato nella tradizione, fu riscritto e tramandato, ma non fu mai interpretato in senso messianico, per cui l’interpretazione corrente che ne davano i maestri giudei era riferita al figlio di Acaz, Ezechia, quindi come una promessa legata semplicemente a quel momento. Quando gli ebrei tradussero la Bibbia in greco, al posto di ‘almah tradussero « parthénos » che in greco ha un significato molto più cogente e significa « vergine » in senso vero e proprio; ciò significa che almeno ad Alessandria d’Egitto la comunità giudaica di lingua greca aveva una vaga interpretazione messianica del testo. Il testo fu interpretato seriamente nella luce del Messia solo dopo la nascita di Gesù dalla vergine Maria; non era stato capito prima ed è stato interpretato dopo. Matteo infatti scrive: « Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi » (Mt, 1 22-23). Facendo l’avvocato del diavolo, si potrebbe dire che Matteo si è inventato il concepimento verginale di Gesù per poter affermare che la profezia si è realizzata. Quest’ipotesi non regge in quanto nessun ebreo si aspettava un concepimento verginale del Messia, eventualità che non faceva parte dell’immaginario comune proprio perché quel testo di Isaia non veniva letto in chiave messianica, per cui non c’era alcun motivo di inventare il dato del concepimento verginale; è invece avvenuto il contrario: il concepimento verginale di Gesù ha prodotto un dubbio circa il motivo per cui ciò è accaduto ed una ricerca per verificare se le Scritture ne parlavano. Matteo allora trovò quel testo di Isaia e lo capì alla luce di quanto era accaduto con la nascita di Gesù; dopo che gli apostoli ebbero avuto la notizia del parto verginale, capirono quel testo di Isaia.
Noi potremmo allora dire che nella mente di Isaia c’era semplicemente una promessa per il momento che stava vivendo, ma nella mente di Dio che ispirava il profeta c’era una promessa molto più avanti nel tempo, che riguardava oltre settecento anni dopo: Isaia non sapeva questo, ma Dio sì, e quella parola profetica aveva un senso che si realizzerà non perché gli uomini manomettono i testi, ma perché in essi scoprono con meraviglia un progetto che Dio sta guidando.
Il riferimento nel libro di Michea
Quest’ultimo riferimento si presenta più semplice e meno problematico dei due precedenti; inoltre, in questo testo si parla veramente della Madre del Messia.
Negli altri due testi esaminati la figura della Madre è implicita, sullo sfondo, se ne parla, ma non è rilevante; in quest’ultimo testo, invece, il riferimento è esplicito: « E tu, Betlemme di Efrata così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui fino a quando colei che deve partorire partorirà e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli di Israele » (Mic, 5 1-2).
Questa è un’autentica profezia messianica che parla della Madre del Messia, ma proprio perché è una profezia non dice niente di particolare. Parla di un paesino sperduto, Betlemme, nel quale era nato Davide che poi era diventato re. Quando viene scritto questo testo di Michea è caduta la monarchia ed è caduto lo stato di Israele, c’è una situazione di grande depressione e di sconfitta generale e il profeta lancia una profezia di speranza dando una garanzia: il paesino piccolo e insignificante una volta ha dato origine a colui che sarebbe diventato re, da Betlemme più avanti nel tempo ne verrà fuori un altro che sarà il dominatore.
Si noti che in questo secondo caso non si parla più di re, ma di « moshel », che significa la guida, il capo, il dominatore appunto, che ha origine dall’antichità, cioè è pensato da Dio, è progettato da sempre, dai giorni più remoti – l’autore non ha il concetto dell’eternità -, quindi nascerà in futuro, ma le sue origini sono antiche e Dio, per il momento, metterà gli israeliti in potere altrui e lascerà che altri comandino – infatti sono sotto i persiani, poi arriveranno i greci, infine i romani – fino a quando « colei che deve partorire partorirà ». Vediamo quindi che non c’è alcun preciso riferimento temporale, perché la profezia autentica non è una previsione magica, è invece una parola di speranza che garantisce, ma non chiarisce.
Nella versione ebraica si legge « la partoriente partorirà », dove la partoriente è l’immagine della Madre del Messia, è la donna, per cui il significato è « fino al momento in cui la donna partorirà l’uomo » e « il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli di Israele », cioè ci sarà una conversione universale ed Egli starà là. « Egli (il partorito) starà là e pascerà (sarà il Pastore) con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore suo Dio. Abiteranno sicuri perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra e tale sarà la pace … » (Mic, 5 3-4a). È l’annuncio del Messia che guiderà un popolo riunito e garantirà la pace, anzi dice di più: « et erit iste pax », cioè Egli in persona sarà la pace; quando San Paolo dice: « Cristo è la nostra pace, lui che ha fatto dei due un popolo solo » fa riferimento a questo testo. Qui abbiamo la profezia che offre speranza: ci sarà quel figlio, quel discendente della donna che eliminerà una situazione negativa.
Conclusioni
Da questi tre testi la liturgia cristiana ha preso i riferimenti fondamentali ed ha capito, dopo avere riconosciuto Gesù e chiarito i particolari della sua nascita, che il progetto di Dio veniva dall’antichità e noi, che abbiamo conosciuto la vicenda della vergine Maria, riconosciamo che l’Antico Testamento parlava di lei: il seme della donna ha schiacciato il serpente, lei è la vergine che ha partorito l’Emmanuele – Dio con noi, è proprio Dio quel bambino partorito, con noi perché ha condiviso l’umanità molto di più di quanto immaginasse Isaia – e lei è la partoriente che ha partorito la pace.
Natale vuol dire riconoscere che il progetto di Dio si è realizzato e si sta realizzando, sta nascendo la pace, sta risolvendo la situazione negativa del nostro mondo: colui che regna, il dominatore che viene dal piccolo borgo di Betlemme adesso domina; non solo è nato, ma è morto ed è risorto, siede alla destra del Padre e il suo regno non avrà fine.