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CAMMMINO DI FEDE CON GIOVANI SPOSI E COPPIE – CHI CI SEPARERÀ DALL’AMORE DI CRISTO? (RM 8,31B-35.37-39)

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CAMMMINO DI FEDE CON GIOVANI SPOSI E COPPIE

CHI CI SEPARERÀ DALL’AMORE DI CRISTO? (RM 8,31B-35.37-39)  

Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, Nostro Signore.

Che cosa dice il testo (LECTIO) Paolo conclude qui, con parole commosse, la sua meditazione sul piano di salvezza e, in particolare, sul dono dello Spirito, effuso nel cuore dei cristiani. Nei vv. 31-33, l’opera di salvezza compiuta da Dio in Cristo è sintetizzata in quel “per noi”, espressione che appare due volte riferita a Dio e una a Cristo. Sapere che Dio e Cristo sono per noi, sono dalla nostra parte, così come lo era lo Spirito (cfr. Rm 8,26), dà coraggio al cristiano. Paolo ripete così il suo messaggio sull’amore di Dio che già appariva nell’indirizzo della Lettera ai Romani, quando definiva i suoi destinatari come «amati da Dio» (cfr. Rm 1,7). Sul tema dell’amore di Dio era poi tornato successivamente, con indimenticabili espressioni: «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato ri­versato nei nostri cuori… Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,5.8). Ora l’amore di Dio, divenuto visibile nel dono che il Pa­dre fa di suo Figlio nella croce, è contemplato nelle con­seguenze che riguardano la vita presente del cristiano. Anzitutto è sconfitta l’immagine di un Dio adirato, che deve essere temuto dall’uomo e placato con impossibili sacrifici. Il triplice «per noi» (vv. 31.32.34) è sottolineato da Paolo per ribadire come il credente non possa avvicinarsi con angoscia al suo Dio, ma debba essere mosso a fiducia nel suo indefettibile amore. Eliminata così la paura più radi­cale, e cioè che Dio sia un giudice inesorabile per questa umanità peccatrice, vengono superati anche i timori che riguardano gli affanni presenti, come le ansietà per le tri­bolazioni, per le ristrettezze economiche, per l’incertezza del futuro, per la morte (v. 35). Anche le apprensioni per forze misteriose, incontrollabili (vv. 38s.), sono fugate dalla certezza della potenza dell’amore di Dio, manife­statosi in Cristo. Il brano si conclude allora con il tono trionfale di un inno di lode, perché il cristiano non è soltanto “vittorioso”, ma addirittura “stravincitore” (v. 37) nelle varie difficoltà: «Nulla potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (v. 39). Ringraziamo sul testo (MEDITATIO) “Trattami pure male”, diceva Lucia al marito: “Dio è dalla mia parte, Dio mi ricompenserà!”. E lui bestemmiava, acido e irraggiungibile. La scena si ripeteva ogni mattino, quando lei faceva suonare la sveglia alle sei per andare a messa; e lui urlava: «Mi svegli e potrei dormire ancora mezz’ora, con la fatica che mi aspetta poi al lavoro!». E giù bestemmie a quello che lui chiamava “il tuo Dio”. Lucia credeva proprio di avere ragione: anzi il livore e le bestemmie del marito, diceva, non la toccavano. Forse le davano l’ebbrezza di essere “perseguitata”. Ma un mattino, su consiglio di un prete attento, la sveglia così perentoria non suonò. «Non ha suonato», lui le disse, quasi se l’aspettasse. «E non suonerà più», disse lei allegramente: «andrò a messa pian piano se per caso mi sveglierò». Lui fece finta di niente: un mattino, due, tre, poi sbottò: «Ma Dio non è più dalla tua parte?». Sì, Dio era dalla parte di Lucia, cioè del suo matrimonio. Quale Dio? Colui che «non ha risparmiato suo Figlio, ma lo ha dato per tutti noi» (v. 32): non il Dio che ci serve per avere ragione (perfino quando l’abbiamo!), non il Dio che si impone con sveglie più o meno perentorie o con le nostre ansie di fare (e far fare) ciò che abbiamo in testa, bensì il Dio che dona, che non risparmia (altro che solo una bella idea!) nemmeno ciò che ama di più: il Figlio. Questo è il Dio che ci fa vincitori nel farci assomigliare a lui: disposti a donare quanto di più prezioso abbiamo o magari anche (soltanto?) un nostro puntiglio, un nostro punto di vista. E così scopriamo che «nulla ci può separare dall’amore di Dio»: nemmeno le (momentanee) incomprensioni dell’altro/a o le provocazioni o i fallimenti di un figlio o le “persecuzioni” di suocero o nuore o cognati o fratelli. Meraviglioso amore che continua ad abilitarci a donare, se lo vogliamo, piuttosto che a pretendere! Preghiamo (ORATIO) Se l’albero conosce la solidità delle proprie radici, resta sicuro anche nella tempesta; se Cristo è morto e risorto per noi e se noi restiamo in lui, come possiamo ancora temere per il nostro amore? Radica, o Signore, in noi questa certezza, rendila più forte di ogni filtro d’amore, più forte della fiducia nei no­stri sentimenti di oggi, più forte di tutte le nostre armi, più forte della morte (cfr. Ct 8,6). Che cosa ha detto la Parola (CONTEMPLATIO) Lo stesso fra Leonardo riferì che un giorno il beato Francesco, presso S.Maria degli Angeli, chiamò frate Leone e gli disse: «Frate Leone, scrivi». Questi rispose: «Eccomi, sono pronto». «Scrivi », disse, «quale è la vera le­tizia». «Viene un messo e dice che tutti i maestri di Parigi sono entrati nel­l’Ordine; scrivi: non è vera letizia. Così pure che sono entrati nell’ordine tutti i prelati d’Oltr’Alpe,arcivescovi e vescovi, non solo, ma perfino il Re di Francia e il Re d’inghilterra; scrivi: non è vera letizia. E se ti giunge an­cora notizia che i miei frati sono andati tra gli infedeli e li hanno conver­titi tutti alla fede oppure che io ho ricevuto da Dio tanta grazia da sanar gli infermi e da fare molti miracoli; ebbene io ti dico: in tutte queste cose non è la vera letizia». «Ma quale è la vera letizia?». «Ecco, io torno da Perugia e, a notte profonda, giungo qui, ed è un in­verno fangoso e così rigido che, all’estremità della tonaca, si formano ghiaccioli d’acqua congelata che mi percuotono continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. E io tutto nel fango, nel freddo e nel ghiaccio, giungo alla porta e, dopo aver a lungo picchiato e chiamato, viene un frate e chiede: “Chi è?”. Io rispondo: “Frate Francesco”. E quegli dice: “Vattene, non è ora decente, questa, di andare in giro, non entrerai”. E poiché io insisto ancora, l’altro risponde: “Vattene, tu sei un semplice e un idiota, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te”. E io sempre resto davanti alla porta e dico: “Per amor di Dio accoglietemi per questa notte”. E quegli risponde: “Non lo farò. Vattene al luogo dei Crociferi e chiedi là”. Ebbene, se io avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato, io ti dico che qui è la vera letizia e qui è la vera virtù e la salvezza dell’anima”. Fonti francescane, Editio Minor, Assisi 1986, 144s.). Mettere in pratica la Parola (ACTIO) Traducete nella vostra vita coniugale questa parola: nulla «potrà mai separarci dall’amore di Dio» (Rm 8,39). PER LA LETTURA SPIRITUALE La vita è un’opportunità, coglila La vita è bellezza, ammirala La vita è beatitudine, assaporala La vita è un sogno, fanne una realtà La vita è una sfida, affrontala La vita è un dovere, compilo La vita è un gioco, giocalo La vita è preziosa, abbine cura La vita è una ricchezza, conservala La vita è amore, godine La vita è un mistero, scoprilo La vita è una promessa, adempila La vita è tristezza, superala La vita è un inno, cantalo La vita è una lotta, afferrala corpo a corpo La vita è una tragedia, accettala La vita è un’avventura, rischiala La vita è felicità, meritala La vita è la vita, difendila (MadreTeresa di Calcutta).

Publié dans:Lettera ai Romani, MATRIMONIO |on 26 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

IL MATRIMONIO NELLA BIBBIA – ANTICO E NUOVO TESTAMENTO (anche Paolo)

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IL MATRIMONIO NELLA BIBBIA – ANTICO E NUOVO TESTAMENTO (anche Paolo)

(Pedron Lino)

La costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, affrontando alcuni problemi urgenti della società contemporanea, incomincia proprio dal matrimonio e dalla famiglia: La salvezza della persona e della società umana e cristiana è strettamente connessa con una felice situazione della comunità coniugale e familiare. Però subito dopo afferma che non dappertutto la dignità di questa istituzione brilla con identica chiarezza, poiché è oscurata dalla poligamia, dalla piaga del divorzio, dal cosiddetto libero amore e da altre deformazioni (n. 47).
Ideale e realtà nel matrimonio
La Bibbia ci offre un quadro teologico altissimo del matrimonio e della famiglia, ma ci fa vedere anche che questo ideale non sempre è stato realizzato.
Così nella Bibbia coesistono il progetto ideale (sul quale insisteremo di più perché è il messaggio teologico valido per sempre) e la realtà che, soprattutto nell’AT, è piuttosto deludente.

a) Ombre e luci nell’esperienza matrimoniale
Subito dopo averci descritto il quadro ideale del matrimonio, la Genesi ci descrive l’assassinio di Abele da parte di Caino: il fratello uccide il fratello.
Nella famiglia di Caino, il figlio Lamech per primo viola la legge della monogamia prendendo due mogli (Gen 4,19). Però, a differenza di Lamech e dei cosiddetti figli di Dio (Gen 6,1-4) che si danno senza ritegno alle intemperanze sessuali, Noè è monogamo e ha tre figli.
Proprio per la sua bontà e rettitudine Dio, giusto giudice, lo salva dal diluvio con tutta la sua famiglia, alla quale, come germe e simbolo della nuova umanità, rinnova la benedizione già accordata alla prima coppia umana: Dio benedisse Noè e i suoi figli e disse loro: « Siate fecondi, moltiplicatevi e riempite la terra » (Gen 9,1; cfr 1,28).
Con Abramo inizia una catena diretta di famiglie, che passa attraverso Davide, per sfociare nella famiglia di Nazaret. La Genesi ha come spina dorsale tre famiglie: quelle di Abramo, Isacco e Giacobbe.
Nel presentare queste tre famiglie, l’autore sacro è più intento a far risaltare il piano divino attraverso di esse che la loro esemplarità. Così, ad es., Abramo pratica una specie di poligamia accostandosi alla schiava Agar per avere un figlio, Ismaele.
Non è corretto il suo comportamento neppure quando presenta Sara come sorella invece che moglie, per non aver fastidi quando essa viene richiesta per soddisfare le voglie di Abimelech (Gen 12,10-20) o del faraone (Gen 20)
Meno esemplare ancora è la famiglia di Giacobbe, a cui Dio stesso cambia il nome in Israele (Gen 32), per farne il capostipite del suo popolo: i suoi figli, che danno origine alle dodici tribù di Israele, nascono da due mogli di primo grado, Lia e Rachele, e da due mogli di secondo grado, Zilpa e Bila (Gen 29).
Se passiamo a Davide, la situazione è ancora peggiore: coraggioso soldato e condottiero, abile diplomatico, di forte religiosità, egli è però facilmente attratto dal fascino delle donne ed è debole con i figli. Egli ha presso di sé un vero harem di mogli e concubine (2 Sam 3,2-5.15; 11,2-27; 15,16).
I suoi numerosi figli, che gli sono stati causa di enormi sofferenze, più che le sue virtù hanno ereditato i suoi vizi: Amnon violenta la sorellastra Tamar (2 Sam 13,1-22) che Assalonne vendica assassinando il fratello (2 Sam 13,23-38). Assalonne si ribella contro il padre, insidiandogli il trono e costringendolo a fuggire da Gerusalemme (2 Sam 15-19). Del re Salomone si dice che avesse 700 mogli e 300 concubine (1 Re 11,37).
Accanto a queste, però, ci sono delle famiglie che vivono il matrimonio in maniera esemplare, con tutte le ricchezze d’amore, di fedeltà, di fecondità e di educazione dei figli che risultano dal progetto originario di Dio. Si pensi alla famiglia di Rut e al matrimonio di Tobia.
Particolarmente significativa è la preghiera che Tobia e Sara innalzano al Signore all’inizio della loro vita coniugale: Tu (Dio) hai creato Adamo e hai creato Eva sua moglie, perché gli fosse di aiuto e di sostegno. Da loro nacque tutto il genere umano… Ora, non per lussuria io prende questa mia parente, ma con rettitudine d’intenzione. Degnati di avere misericordia di me e di lei e di farci giungere insieme alla vecchiaia (Tb 8,6-7).
Questo sta a dire che, nonostante le molte ombre derivanti dal circostante ambiente culturale sul mondo ebraico, l’ideale del matrimonio monogamico, vissuto nell’amore e nella gioia dei figli, veniva sentito e normalmente anche praticato in Israele.

L’insegnamento matrimoniale presso i profeti
Perché tale ideale rimanesse sempre limpido, hanno dato un apporto determinante i profeti, che hanno presentato l’allegoria nuziale per esprimere il rapporto d’amore e di fedeltà fra Dio e Israele.
Essi, in realtà, utilizzano un po’ tutte le immagini desunte dall’ambiente familiare per esprimere i rapporti di Dio con il suo popolo.
Dio si presenta come una madre: Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se questa donna si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai (Is 49,15-16).
E per esprimere la gioia della liberazione dall’esilio viene portato l’esempio della gioia nuziale: Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio… come uno sposo che si cinge il diadema e come una sposa che si adorna di gioielli (Is 61,10); Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo architetto; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te (Is 62,5).
a) L’allegoria nuziale per esprimere l’alleanza di Dio con Israele
I profeti adoperano di preferenza l’immagine nuziale per descrivere i rapporti di Dio con Israele: egli è il fidanzato o lo sposo sempre fedele, mentre Israele è la fidanzata o la sposa molte volte infedele.
È Osea che per primo adopera questa immagine, forse partendo da una esperienza matrimoniale fallimentare: la moglie Gomer, infatti, si dà alla prostituzione.
La prostituzione della moglie diventa simbolo dell’infedeltà di Israele, che arriva perfino al culto delle divinità straniere, il quale porta con sé anche vere e proprie aberrazioni sessuali.
Dio, però, sempre fedele, non si arrende e progetta un nuovo fidanzamento con il suo popolo: Pertanto, ecco io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore (Os 2,16)
Il richiamo del deserto rimanda al periodo dell’innamoramento, quando Israele seguiva il suo Dio più da vicino. Il nuovo fidanzamento, però, non dovrà più essere rotto da nuove infedeltà: Ti fidanzerò a me per l’eternità, ti fidanzerò a me nella giustizia e nel diritto, nella tenerezza e nell’amore… (Os 2,21-22).
Geremia riprende il tema di Dio-sposo in modo ancora più tenero, ricordando soprattutto l’entusiasmo del primo amore: Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in una terra non seminata (Ger 2,2).
Proprio per questo è più acuto il rimprovero che viene rivolto al popolo infedele: Perché il mio popolo dice: « Ci siamo emancipati, non faremo più ritorno a te? ».
Si dimentica forse una vergine dei suoi ornamenti, una sposa della usa cintura? Eppure il mio popolo mi ha dimenticato per giorni innumerevoli » (Ger 2,31-32).
L’immagine è ripresa da Ezechiele che ci presenta Israele come una fanciulla abbandonata di cui Dio si invaghisce fino a farla sua: Passai vicino a te e ti vidi; ecco la tua età era l’età dell’amore; io stesi il lembo del mio mantello su di te e coprii la tua nudità; giurai alleanza con te, dice il Signore Dio, e divenisti mia (Ez 16,8). L’immagine ricorre anche più frequentemente in Isaia, dove le difficoltà dell’esilio e del reinserimento in patria vengono addolcite dal ricordo di Dio che è lo sposo e perciò non abbandona il suo popolo: Non temere, perché non dovrai più arrossire… Poiché il tuo sposo è il tuo creatore, Signore degli eserciti è il suo nome; tuo redentore è il Santo d’Israele, è chiamato Dio di tutta la terra (Is 54,4-6).
b) Portata teologica dell’allegoria
L’immagine nuziale è importante per due motivi. Per un verso, Dio non avrebbe potuto prendere come simbolo del suo amore verso Israele la realtà matrimoniale, se essa non fosse stata sentita e vissuta, almeno normalmente, come realtà di amore e fedeltà totale.
Per un altro verso, Dio vuole dare un vero e proprio ammaestramento sul matrimonio: esso ha significato nella misura in cui riflette i costumi di Dio, ne imita gli atteggiamenti, ne assume i valori.
C’è un reciproco intreccio fra la realtà matrimoniale presa a simbolo e il progetto matrimoniale che Dio ripropone ai credenti.

La letteratura sapenziale
Tutto il filone della letteratura sapienziale esalta i valori del matrimonio e della famiglia.
a) Il dono dei figli
Il Salmo 127 afferma che la benedizione di Dio sta alla base della famiglia e che i figli sono un suo dono: Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori… Ecco, dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del grembo.
A proposito dei figli, si insiste molto sia sul dovere di educarli, sia sull’obbligo che essi hanno di rispettare i genitori: Chi ama il proprio figlio usa spesso la frusta, per gioire di lui alla fine. Chi corregge il proprio figlio ne trarrà vantaggio e se ne potrà vantare con i suoi conoscenti (Sir 30,1-2; cfr Pr 1,8).
Il Signore vuole che il padre sia onorato dai figli, ha stabilito il diritto della madre sulla prole. Chi onora il padre espia i peccati (Sir 3,2-3).
b) La moglie virtuosa e la donna adultera
Il Siracide esalta la felicità dell’uomo che ha trovato una moglie virtuosa: Beato il marito di una donna virtuosa; il numero dei suoi giorni sarà doppio.
Una brava moglie è la gioia del marito, questi trascorrerà gli anni in pace. Una donna virtuosa è una buona sorte, viene assegnata a chi teme il Signore (Sir 26,1-3).
Nello stesso tempo condanna severamente l’adulterio, sia da parte dell’uomo che della donna: L’uomo infedele al proprio letto dice fra sé: « Chi mi vede? Tenebre intorno a me e le mura mi nascondono; nessuno mi vede, chi devo temere? Dei miei peccati non si ricorderà l’Altissimo ». Egli però si illude, perché gli occhi di Dio penetrano fin nei luoghi più segreti (Sir 23,18-19).
Più duro ancora è il giudizio sulla donna adultera: Così della donna che abbandona il suo marito, e gli presenta eredi avuti da estranei. Prima di tutto ha disobbedito alle leggi dell’Altissimo, in secondo luogo ha commesso un torto verso il marito, in terzo luogo si è macchiata di adulterio e ha introdotto in casa figli di un estraneo (Sir 23,22-23).

c) Il messaggio nuziale del Cantico dei cantici
C’è nella letteratura sapienziale un libro che è tutto dedicato all’amore umano, nella tensione del desiderio che poi sfocerà nel matrimonio: il Cantico dei cantici.
Questo piccolo poema è tutto un dialogo d’amore tra uomo e donna che si cercano reciprocamente con gioia e trepidazione: si tratta contemporaneamente dell’esaltazione dell’amore umano e dell’amore di Dio verso Israele.
E proprio per questo l’amore deve essere duraturo, come si esprime la sposa con immagini ardite: Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione; le sue vampe sono come vampe di fuoco, una fiamma di Dio. Le grandi acque non possono spegnere l’amore, né i fiumi travolgerlo (Ct 8,6-7).
Nulla può estinguere l’amore autentico! È un messaggio indubbiamente molto profondo, in cui si fondono l’esperienza umana e il messaggio profetico che ha preso questa esperienza come simbolo dell’amore indefettibile di Dio verso il suo popolo.

Il progetto originale di Dio su il matrimonio
Una visione così alta dell’amore sponsale, anche nei suoi elementi di attrazione fisica, che ci trasmette il Cantico dei cantici, corrisponde al progetto originario di Dio, che troviamo delineato nel secondo racconto della creazione trasmessoci dal libro della Gen 2,18-23.
a) La tradizione jahwista
Questo racconto risale al X secolo a.C. ed esprime realtà teologiche molto profonde.
Prima di tutto l’uomo è chiamato ad uscire dalla sua solitudine: Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile (2,18).
Ma gli animali che Dio crea e mette a disposizione dell’uomo, non sono l’aiuto degno di lui: Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò, gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola che aveva tolto all’uomo una donna, e la condusse all’uomo (2,21-22).
È chiaro che il linguaggio, tutto carico di immagini, non vuole narrare un evento storico, ma afferma semplicemente che la donna non è estranea all’uomo, anzi è come una parte di lui, con la medesima dignità, capace di dialogare e di amare.
Per questo l’uomo intona il primo canto nuziale dell’umanità: Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna, poiché dall’uomo è stata tolta (v. 23).
L’ultima frase in ebraico contiene un gioco di parole non riproducibile in italiano: ’is = uomo, ’ishshah = donna. Anche con questa assonanza linguistica l’autore vuole esprimere l’unità dei due sessi, pur nella loro distinzione.
b) La tradizione sacerdotale
Il primo racconto della creazione, che risale alla tradizione sacerdotale (VI sec. a.C.), esprime in maniera ancora più solenne l’unità dell’uomo e della donna, pur nella differenziazione dei sessi, che è voluta da Dio per la procreazione del genere umano. Il sesso perciò è una realtà integrativa che si comprende solo in dialogo con il partner.
Come coronamento dell’opera della creazione, Dio crea l’uomo, che è tale solo in quanto maschio-femmina: E Dio disse: « Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra ». Dio creò l’uomo a sua immagine: a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: « Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra… » (Gen 1,26-28).

Mettiamo in evidenza due cose.
La prima. L’uomo è immagine di Dio nella dualità di maschio e femmina: né il maschio né la femmina, presi isolatamente, sono immagine di Dio.
La dialogicità dei sessi diversi già apre al dono, all’amore, alla fecondità, riproducendo così l’immagine di Dio che è essenzialmente amore che si dona.
La seconda. Il comando di generare: Siate fecondi e moltiplicatevi… La sessualità ha il suo sbocco e la sua specifica finalità nella trasmissione della vita. Un compito talmente grande che ha bisogno della benedizione di Dio per essere espletato.
Pur accentuando la finalità procreativa, questo testo non esclude la finalità affettiva.
Il fatto che Dio abbia creato l’uomo a sua immagine proprio in quanto maschio e femmina include necessariamente in sé la forza attrattiva dell’amore.
È l’equilibrio di questi due elementi (unitivo e procreativo) che deve segnare per sempre il matrimonio come Dio l’ha concepito nel suo disegno originario.
Sappiamo però che il peccato originale ha infranto questo equilibrio, intaccando la serenità dei rapporti tra l’uomo e la donna; anche la sessualità verrà distorta dai suoi fini propri, come dice subito dopo il testo: Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze… Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà (Gen 3,16). Invece che dono reciproco e sereno, la sessualità diventerà strumento per tiranneggiarsi a vicenda.
Su questo sfondo di perdita di senso della sessualità si spiegano tutte le deviazioni che hanno segnato la storia d’Israele e dell’umanità: poligamia, divorzio, asservimento della donna, violenza sessuale…

La dottrina sul matrimonio nel Nuovo Testamento
Cristo, rivelatore ultimo della volontà del Padre, venuto a compiere la nostra salvezza, cercherà di riportare il matrimonio al disegno originario di Dio.
a) L’interesse di Gesù per la famiglia
Gesù nasce in una famiglia. In una famiglia dove la parola di Dio gode di un primato assoluto e dove l’amore totalmente disinteressato è regola per tutti.
Anche nella sua vita pubblica Gesù manifesterà tutto il suo interesse per la famiglia, dimostrando di conoscerne pregi e difetti, gioie e sofferenze. Il primo dei suoi miracoli è per una coppia di sposi! La sua amicizia per Lazzaro, Marta e Maria è commovente.
A Pietro guarisce la suocera malata. Ama i bambini con una tenerezza più che materna e rimprovera i discepoli che vogliono allontanarli; anzi, li propone come esempio per chi vuol entrare nel regno dei cieli: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso (Mc 10,13-16).
b) La famiglia deve trascendersi
Gesù non fa della famiglia un assoluto: vuole che essa sia aperta alle esigenze di Dio, che può chiedere perfino di abbandonarla e di subordinarla ai suoi progetti.
È quanto risponde a chi gli annuncia che sua madre e i suoi parenti lo stanno cercando: Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?… Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre (Mc 3,31-35).
Con ciò egli pone le premesse per una scelta di vita diversa dal matrimonio.
c) Matrimonio e divorzio nel pensiero di Gesù
Nel testo che esaminiamo Gesù esprime il suo pensiero sul matrimonio. Durante il suo viaggio verso Gerusalemme alcuni farisei, per metterlo alla prova, gli chiedono: È lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo? (Mt 19,3). Gesù si pone al di sopra di ogni controversia e di ogni scuola del suo tempo e rifacendosi al principio condanna ogni forma di divorzio: Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: « Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due, ma una carne sola ».
Quello dunque che Dio ha congiunto l’uomo non lo separi.
Gli obiettarono: « Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di mandarla via? ».
Rispose loro Gesù: « Per la durezza del vostro cuore Mosè ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così. Perciò io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra, commette adulterio » (Mt 19,4-9).
Le affermazioni di questo brano sono tre.
1) Il matrimonio rientra nel disegno primordiale di Dio, il quale non prevede alcuna eccezione all’indissolubilità, proprio perché questa è iscritta nella natura dell’uomo e della donna in quanto esseri complementari. Citando i due passi di Gen 1,27 e 2,24, Gesù intende riportare tutto al quadro originale.
2) La disposizione mosaica circa il divorzio (Dt 24,1) aveva valore transitorio e dimostrava non tanto un’accondiscendenza di Dio, quanto la durezza di cuore degli ebrei, chiusi alle esigenze dell’autentica volontà di Dio.
3) Il divorzio, con passaggio ad altre nozze, è semplicemente adulterio e l’adulterio è espressamente proibito dal sesto comandamento (Es 20,14; Dt 5,18).

Il matrimonio nella dottrina di san Paolo
Pur esaltando la verginità per i valori di libertà interiore e di situazione escatologica, Paolo riafferma la dignità del matrimonio e ne ricorda diritti e doveri, fra cui quelli della fedeltà e dell’indissolubilità.
a) La dignità del matrimonio
Leggiamo nella prima lettera ai Corinti: Quanto alle cose di cui mi avete scritto, è cosa buona per l’uomo non toccare donna; tuttavia, per il pericolo dell’incontinenza, ciascuno abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito. Il marito compia il suo dovere verso la moglie; ugualmente anche la moglie verso il marito. La moglie non è arbitra del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è arbitro del proprio corpo, ma lo è la moglie… Agli sposati ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito – e qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito – e il marito non ripudi la moglie (1 Cor 7,1-10).
Rileviamo due cose in questo testo.
1) Marito e moglie hanno gli stessi diritti e doveri e sono parte l’uno dell’altra; non sono più due, ma un solo essere.
2) L’apostolo si rifà al comando stesso di Gesù: Ordino, non io, ma il Signore (v. 10) per ribadire la condanna del divorzio: l’unica soluzione, in caso di emergenza, è la separazione, che dovrebbe essere solo temporanea. Il traguardo finale rimane la riconciliazione con il coniuge.
b) Matrimonio come segno sacramentale dell’unione di Cristo con la Chiesa
Parlando dei doveri della famiglia cristiana, nella lettera agli Efesini, Paolo incomincia proprio dei reciproci doveri dei coniugi: Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo. Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore… E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la sua Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola… Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai, infatti, ha preso in odio la propria carne; al contrario, la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande: lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa… (Ef 5,21-33; cfr Col 3,18-19; 1 Pt 3,1-8).
Sottolineiamo soltanto alcuni concetti.
Prima di tutto, il discorso sul matrimonio si svolge tutto sotto il segno dell’amore: per cui l’essere sottomessi l’uno all’altro non è segno di dipendenza schiavistica, ma di dipendenza nell’amore.
In secondo luogo, il rapporto marito-moglie viene modellato sul rapporto Cristo-Chiesa, che è essenzialmente un rapporto d’amore: Cristo ha amato la sua Chiesa e ha dato se stesso per lei (v. 25). Solo il rapporto Cristo-Chiesa diventa un modello di amore reciproco tra gli sposi.
Cristo afferra l’amore umano dei battezzati, lo fermenta dal di dentro, lo purifica da tutte le inevitabili scorie per farne un riflesso, un’immagine del suo amore per la Chiesa.
In terzo luogo, il matrimonio cristiano si immerge nel mistero di Dio (v. 32) che, secondo il linguaggio di Paolo, è il suo progetto salvifico culminante nell’incarnazione, di cui la Chiesa, in quanto sposa di Cristo, è la dilatazione, la pienezza.
Il matrimonio, perciò, non è un affare privato, ma rientra nella dimensione della ecclesialità e deve servire alla crescita della Chiesa, della quale è un inizio nella misura in cui sa creare rapporti di amore e di fede fra tutti i suoi membri.
Il matrimonio cristiano è fonte di grazia per vivere nell’amore ed educare all’amore.
c) Pastorale familiare in san Paolo
È proprio in questa direzione dell’amore cristiano che si muove san Paolo rivolgendosi a tutti gli altri membri della famiglia, inclusi gli schiavi: Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto… E voi, padri, non inasprite i vostri figli, ma allevateli nell’educazione e nella disciplina del Signore. Schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo… Anche voi, padroni, comportatevi allo stesso modo verso di loro, mettendo da parte le minacce, sapendo che per loro come per voi c’è un solo Signore nel cielo, e che non c’è preferenza di persone presso di lui (Ef 6,1-9).
Come si vede, nessuno è dimenticato: la famiglia non si esaurisce nella coppia, ma si apre necessariamente ai figli, come frutto dell’amore reciproco, ai quali bisogna dare una giusta educazione corrispondente alle esigenze della fede cristiana: Allevateli nell’educazione e nella disciplina del Signore (v. 4).
Con l’educazione cristiana i genitori generano una seconda volta i loro figli.
Anche il rapporto, non sempre facile, tra padroni e schiavi viene inserito nel quadro della famiglia, la cui legge fondamentale è l’amore: pur rimanendo schiavi, si esalta la loro dignità di figli di Dio, che dev’essere riconosciuta dai padroni, i quali hanno anch’essi un solo Signore nel cielo, che non fa preferenze per nessuno.
A questo punto è evidente che il problema della schiavitù è aperto alla sua soluzione radicale.
Nella lettera a Tito ci viene offerta una catechesi familiare diretta alle varie categorie di persone che compongono la famiglia:
I vecchi siano sobri, dignitosi, assennati, saldi nella fede, nell’amore e nella pazienza. Ugualmente le donne anziane si comportino in maniera degna dei credenti; non siano maldicenti né schiave di molto vino; sappiano piuttosto insegnare il bene, per formare le giovani all’amore del marito e dei figli, ad essere prudenti, caste, dedite alla famiglia, buone, sottomesse ai propri mariti, perché la parola di Dio non debba diventare oggetto di biasimo.
Esorta ancora i più giovani ad essere assennati, offrendo te stesso come esempio in tutto di buona condotta, con purezza di dottrina, dignità, linguaggio sano e irreprensibile… Esorta gli schiavi ad essere sottomessi in tutto ai loro padroni; li accontentino e non li contraddicano, non rubino, ma dimostrino fedeltà assoluta, per far onore in tutto alla dottrina di Dio, nostro salvatore (Tt 2,1-9). Il motivo di questa condotta integra dei vari membri della famiglia cristiana è essenzialmente religioso: Fare onore alla dottrina di Dio (v. 10), perché non sia biasimata la parola di Dio (v.5). Questo presuppone ovviamente che la grazia matrimoniale pervada tutta la famiglia, riversandosi dai coniugi su tutte le altre persone che la compongono.

Conclusione
Se è vero che la società è normalmente lo specchio della famiglia, la Bibbia ci insegna come poterla rifondare, dandole quel respiro di amore totalmente gratuito e disinteressato che solo può rendere più umano e cristiano il mondo in cui viviamo.

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Publié dans:MATRIMONIO |on 5 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

IL MATRIMONIO CRISTIANO – CARLO MARIA MARTINI (anche Paolo)

IL MATRIMONIO CRISTIANO – CARLO MARIA MARTINI

La famiglia
Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. San Paolo esorta gli abitanti di Colossi a vivere con quelle virtù che nascono dall’essere risorti con Cristo, santi perché scelti e amati da Dio. Sono virtù che si riassumono nella carità: al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione.
Alla luce della carità le virtù cristiane vengono descritte in modi diversi e con delicate modulazioni: i fedeli sono esortati a mostrarsi ricchi di quella misericordia che è tenerezza e che sa compatire; ricchi di bontà generosa, di umiltà, di mansuetudine, di dolcezza, una dolcezza che non giudica severamente gli altri. Quando avessero motivo di ritenersi offesi e di lamentarsi nei riguardi degli altri, sappiano dare alla loro carità anche le dimensioni della sopportazione vicendevole e della prontezza al perdono, sull’esempio e a motivo del Signore.
Da questo atteggiamento profondo e costante nasce quella pace che è dono di Cristo e che caratterizza interiormente e esteriormente le condizioni dei membri della comunità. Come alimento, mezzo e garanzia per mantenerci in questo fervore e fuoco di carità, c’è da una parte il richiamo costante alla parola di Dio, che sia sempre presente in mezzo ai fedeli e dimori abbondantemente tra di essi e, dall’altra parte, la preghiera incessante, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali. Di fronte a richiami così ricchi che descrivono alcune connotazioni essenziali della vita della Chiesa, vogliamo applicare l’esortazione di San Paolo a quella particolare e reale figura della chiesa che è la famiglia cristiana.

Amore reciproco
Per poter offrire la testimonianza della fedeltà a Dio ed essere segno e strumento del suo amore, ogni famiglia deve vivere l’amore al suo interno. È il primo sentiero della carità, come dice papa Paolo VI quando afferma che il primo compito della famiglia è di vivere fedelmente la realtà della comunione nell’impegno costante di sviluppare un’autentica comunità di persone.
Amore vissuto tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle, tra parenti e familiari. Amore che dice buon accordo, buona intesa, serenità reciproca, capacità di sorridere, di comprendere, di dare corda al discorso altrui; assenza di pregiudizi reciproci, superamento delle distanze, delle reticenze, delle diffidenze che sovente vengono a turbare i rapporti familiari; capacità di realizzare tra le diverse generazioni scambi, condivisioni, arricchimenti reciproci.
Amore che si declina con quelle modulazioni ricche e realistiche suggerite dall’apostolo Paolo e che rimanda, come a suo alimento e garanzia, all’ascolto costante della parola di Dio in famiglia, alla preghiera in famiglia. Si tratta perciò di assicurare questi momenti e spazi preziosi e insostituibili, pur nei ritmi logoranti della giornata e per tutte le difficoltà pratiche che possono sorgere. È il significato del tempo di deserto applicato alla famiglia.
Trovare, cioè, tutti insieme il coraggio, la forza, la gioia di congiungere le mani e di esprimere a Dio i sentimenti più profondi del cuore. E tra i tanti modi possibili per pregare in famiglia e ascoltare la Parola in famiglia, mi permetto ricordare tre semplici modi: pregare insieme con le parole che sappiamo; pregare insieme un salmo; pregare insieme una pagina del Vangelo.
All’interno di questo discorso generale c’è il gradino seguente: considerare la posizione precisa degli sposi in ordine al farsi prossimo. Ci sorreggono anche qui le indicazioni dell’Apostolo, molto semplici: amarsi scambievolmente e rispettarsi come si conviene nel Signore, cioè nel più autentico spirito cristiano, che nella lettera agli Efesini verrà approfondito con il riferimento al rapporto misterioso di amore tra Cristo e la Chiesa. Farsi prossimo tra marito e moglie vuol dire, ancora una volta, amore, carità, tenerezza in tutte le sue molteplici e realistiche sfaccettature: comunione profonda, comprensione vicendevole, confidenza su ogni evento bello o triste della propria esperienza, sincerità disarmata e cordiale, rispetto totale e talora anche silenzio come possibilità di comunione e di comunicazione connaturale alle realtà più vere e ineffabili.
Questa donazione e accoglienza mutua riguarda tutto quanto gli sposi posseggono e anche tutto ciò che essi sono. Per questo, il contenuto del dono è la totalità del loro essere, fatto di spiritualità, affettività, corporeità. Ne deriva uno stile di vita ricco e arricchente, fatto di momenti di incontro, di dialogo, di preghiera, di disciplina del corpo e dello spirito.
Le giovani famiglie
Le giovani famiglie, trovandosi in un contesto di nuovi valori e di nuove responsabilità, sono più esposte, specialmente nei primi anni di matrimonio, a eventuali difficoltà, come quelle create dall’adattamento alla vita comune e dalla nascita dei figli. Propongo un’immagine biblica, che trovo in un’icona del monastero delle benedettine del Monte degli Ulivi: è l’immagine di Gesù, Giuseppe e Maria nei primi anni di matrimonio. Giuseppe abbraccia con il braccio destro Maria, mentre il sinistro raggiunge il braccio destro di lei, che si congiunge col suo insieme con la mano sinistra di Gesù, cosicché le tre mani si uniscono nel davanti dell’icona, mentre tutta la Madonna risulta abbracciata da Giuseppe ed essa, a sua volta, tende il braccio verso Gesù che è al centro. Non si capisce neppure se è appoggiato di più all’uno o all’altra, è appoggiato a entrambi, diritto, sicuro, sereno, con la mano in atto di benedizione. Giuseppe ha lo sguardo fisso verso una certa lontananza, ha bisogno di guardare l’avvenire, Maria, invece, ha lo sguardo fisso piuttosto su Gesù, ma i tre sguardi fanno un’unità. È un’icona che esprime, con l’affetto e i colori, ciò che vorremmo dire.
Cerchiamo anzitutto di impostare la domanda: qual è l’importanza dei primi anni di matrimonio? Sembra una domanda ovvia, ma è importante rispondervi. Intanto si affacciano problemi nuovi, difficoltà inedite che per la prima volta bisogna superare. Inoltre si pongono le basi di ciò che sarà il domani; una convivenza ben impostata nei primi anni pone anche le premesse per un lungo avvenire, mentre una convivenza che si sfilaccia dolorosamente fin dall’inizio rischia di durare davvero poco. Sono, questi, motivi psicologici, ovvi, dell’importanza dei primi anni di matrimonio. Vorrei poi aggiungere dei motivi teologici, spiegandoli più a fondo, perché è proprio nei primi anni che gli sposi giovani possono per la prima volta fare quella che si chiama mistagogia: con questa parola difficile si vuol dire che uno è dentro al mistero.
Posso darne un esempio personale, che riguarda la mia esperienza sponsale come vescovo di una Chiesa. Era molto diverso per me, prima di vivere l’esperienza di vescovo, parlare dell’episcopato; conoscevo i testi teologici, sapevo citare i testi biblici, ma è tutt’altra cosa quando uno comincia a vivere la grazia dell’episcopato da dentro, giorno per giorno, sollecitato a rispondervi con le forze che ha, necessitato a scavare a fondo nella grazia del sacramento per rispondere alle esigenze quotidiane che l’esistenza propone. E se uno vive con fede questo momento, incomincia a scavare nelle ricchezze della grazia sacramentale in una maniera prima inaudita, inesplicabile a chi è fuori.
Quante famiglie potrebbero fare molto di più in questo lavoro di scavo, lasciandosi aiutare a scavare nella grazia del loro matrimonio, che è la grazia fondamentale del loro esistere, invece di cercare puntelli al di fuori o, peggio, di fuggire! Cerchiamo soprattutto dentro di noi la forza della grazia che ci abita! Prima non l’avevamo, e nessuno ce la poteva spiegare, ma attraverso il sacramento ci è data. È una riserva formidabile quella di poter attingere alla grazia dello Spirito Santo, che è nostra e di nessun altro, e che quindi nessuno ci può far comprendere così autenticamente come può farlo ciascuno di noi per se stesso.

PAOLO, DOTTORE DEL MATRIMONIO, GLI SPOSI: DUE « CORPI » IN RELAZIONE COMPLEMENTARE – Ef 5,21-32

http://www.stpauls.it/istit/rivistagm/0805catec.htm

PAOLO, DOTTORE DEL MATRIMONIO

GLI SPOSI: DUE « CORPI » IN RELAZIONE COMPLEMENTARE

Ef 5,21-32

Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo. Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo.
E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto. E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!
Il tema è molto affascinante perché tocca la verità del matrimonio, la realtà della complementarietà, la divina realtà del rapporto sponsale « Cristo-Chiesa », reso visibile nel rapporto « marito-moglie ». Questa realtà ha la sua sorgente in Dio.
A) Matrimonio: mistero grande. – Il brano paolino, mal interpretato, ha dato adito a sorrisini compiaciuti di superiorità degli uomini sulle donne, giustificando rivendicazioni che, in successione alternata, portavano ora al predominio del maschio, ora a quello della femmina. Invece, Paolo descrive i nuovi rapporti che, a motivo di Cristo, si instaurano tra marito e moglie; rapporti che non possono più essere concepiti alla maniera dei nostri padri del VT. Ce lo ha detto Gesù stesso: «all’inizio non era così» (cf Mt 19,8). Gesù ha riportato la relazione tra l’uomo e la donna nel matrimonio al disegno originario; e Paolo, per farcelo capire, ci porta a riflettere sul rapporto sponsale di Cristo con la chiesa.
1) Abbiamo una nutrita serie di « esortazioni » fatte ai mariti e alle mogli, perché vivano in pienezza il loro rapporto nel rispetto e nella mutua dipendenza. La dipendenza non è solo della moglie. Toglietevi dalla testa questo « blocco » culturale, inventato di sana pianta.
Ma ogni esortazione acquisisce il suo autentico valore quanto più alte e incisive sono le « motivazioni ». La novità del brano sta proprio nell’unica motivazione che Paolo introduce con la preposizione « come ». Quale? Il rapporto sponsale « Cristo-chiesa » è la motivazione che dà eterno e indissolubile valore al rapporto matrimoniale « uomo-donna ».
2) Notiamo, inoltre, la realtà stupenda: il rapporto sponsale « Cristo-Chiesa » viene prima del rapporto « marito-moglie ». Ma nello stesso tempo i coniugi lo devono incarnare e renderlo visibile. In che modo? La serie dei « come » non ha la funzione di istituire un rigido confronto, a cui l’uomo e la donna devono costantemente riferirsi per non scantonare; ma lo scopo di indicare il fondamento del rapporto « uomo-donna », perché la Chiesa che Cristo ama non sono le pietre, ma sei tu, o marito, sei tu, o moglie; quindi, come Cristo ama te, così tu devi amare il tuo partner. Vi amate perché Cristo vi ama.
Senza Cristo, qualunque rapporto, soprattutto quello matrimoniale, è costruito sulla sabbia; non resiste all’usura del tempo; non lo si può concepire come indissolubile. È nella natura dell’amore, fondato su quello di Cristo per la chiesa, l’essere per sempre. All’inizio era così, e così dovrà essere per sempre. È la rivelazione del grande mistero. Notiamo bene le parole di Paolo: «…questo mistero è grande; io lo dico in relazione a Cristo e alla chiesa» (v 32); quindi il rapporto tra Cristo e la Chiesa che siamo noi:

è sponsale e viene prima del rapporto matrimoniale tra l’uomo e la donna;
è indissolubile, perché l’amore vero, o è per sempre o non è amore;
è gratuito, perché l’amore per sua natura è dono e tale deve essere per sempre.

B) Rapporto complementare. – Complementarietà: questa parola mette in evidenza il ruolo della mascolinità e della femminilità. Sia chiaro che il ruolo della moglie non è di natura inferiore rispetto a quello del marito, o viceversa. Purtroppo il prevalere di un ruolo sull’altro è avvenuto soventissimo nel corso della storia. Il riferimento a Cristo trasforma i due ruoli in servizi complementari. Il marito è « complemento » della moglie e viceversa; il che significa non solo che l’uno ha bisogno dell’altra (collaborazione reciproca), ma che l’uno è complemento dell’altra, cioè l’uno non è tale se non è unito all’altra. La parola « complemento » deriva dal latino « cumplére » e significa: completare, colmare.
1) «Gli sposi sono tra loro complementari; sono due persone che portano a pienezza il coniuge e nello stesso tempo anche se stessi proprio per il fatto di trovarsi connessi, accostati, inseriti uno nell’altro». Se l’uomo – come afferma un mal proverbio – « sotto le coltri si sente un re », in quel momento trasforma un servizio di amore in una dittatura che uccide l’amore e offende non solo la donna, ma in modo grave Dio.
2) La complementarietà è legge di natura, e si rifà al principio biblico: «a sua immagine e somiglianza». Dice Giovanni Paolo II: «In egual misura l’uomo e la donna… sono stati creati ad immagine e somiglianza del Dio personale» (MD 6); per cui:
l’uomo e la donna sono uguali come origine: «ad immagine e somiglianza di Dio»; per questo, «la donna è un altro « io » nella comune umanità» (MD 6);
ma complementari nella vita: «…ciò significa il superamento dell’originaria solitudine», quando Adamo viveva il suo rapporto con il creato senza il suo complemento.
3) Sono simili a Dio come « creature razionali e libere »; però non possono esistere soli, ma «solo come « unità dei due » e dunque in relazione ad un’altra persona umana» (MD 7). E sono dissimili tra loro nella mascolinità e nella femminilità. Quindi, se nella rivendicazione delle dignità si persegue l’uguaglianza in modo da livellare la mascolinità e la femminilità, l’uomo e la donna riprecipitano nella solitudine che Adamo all’inizio soffriva.
Dio è Padre e Madre nello stesso tempo: i due stili in Dio sono integrati; nell’uomo la paternità e nella donna la maternità devono integrarsi per rispondere al progetto di Dio.
C) Sottomissione vicendevole. – Nel brano paolino non si parla della sottomissione di una parte all’altra, ma di sottomissione vicendevole.
1) Anzitutto, nel rapporto di coppia, l’umiltà è la radice da cui spunta come un fiore l’agape, cioè l’amore che, per volere di Dio, deve unire un uomo e una donna. È impossibile amare in modo gratuito, disinteressato, per sempre senza l’umiltà. Difatti l’invito iniziale di Paolo: «Siate sottomessi gli uni gli altri nel timore di Cristo» rende luminoso il discorso e fa intuire in modo giusto l’affermazione: «la moglie sia sottomessa al marito».
2) In secondo luogo è puerile accusare Paolo di maschilismo:
anzitutto non dice che «il marito deve sottomettere la moglie», ma che «la moglie sia sottomessa al marito». È una sottomissione volontaria, che non esalta il marito, ma esalta l’amore, perché è nella natura dell’amore l’umiltà della sottomissione;
in secondo luogo il riferimento a Cristo («il marito ami la moglie come Cristo…»), afferma che la sottomissione del marito alla moglie deve essere così radicale e profonda da essere disposto a dare la vita per lei, come Cristo ha dato la vita per la Chiesa.
Ci vuole grande umiltà per non cadere nell’errore idolatrico di voler « sottomettere l’altro ». L’azione attiva di sottomettere l’altro è solo di Dio; eppure Dio, motivato dall’amore, non sottomette, ma si sottomette. Cristo stesso, il Dio fatto uomo, si è sottomesso volontariamente a noi assumendo la natura umana per darci la vita. Per questo il marito e la moglie devono guardare a lui per vivere tra di loro l’umiltà della sottomissione.
3) L’alimento indispensabile per vivere in pienezza questo « rapporto sponsale » all’insegna della mitezza e dell’umiltà, è l’Eucaristia.
D) Cristo-sposo lava i piedi alla Chiesa-sposa. – Nell’episodio della lavanda dei piedi (Gv 13,1-15), i gesti di Gesù diventano paradigmatici di come la coppia deve vivere il loro rapporto. Giovanni avrebbe potuto sintetizzare il tutto dicendo semplicemente: «…e lavò loro i piedi». Il resto era chiaramente supposto. Invece, con grande meticolosità, ne descrive con sette gesti ogni particolare. Il « sette » è un numero considerato celeste e perfetto; è segno di abbondanza e totalità. L’amore (= agape) acquisisce un valore incalcolabile.
«…si alzò da tavola». Ci si alza per far qualcosa. L’evangelista ritiene necessario puntualizzarlo, perché rivela la « dinamica dell’amore » che deve caratterizzare la vita di coppia: nessuno è padrone o padrona; non esiste matriarcato o patriarcato.
«…si tolse la veste». Si può tradurre: « depose la veste » che richiama il « deporre la vita » del buon pastore; Giovanni usa lo stesso verbo. Ecco la prima qualità dell’amore: è un donarsi reciproco, disposti lui e lei a consumarsi fino a dare la vita per le persone che ama. Il « deporre la vita » fa parte della natura del sacramento del matrimonio.
«…prese un asciugamano». Qualifica il gesto che si appresta a compiere, non a far compiere. Ecco un’altra qualità dell’amore: ha sempre l’iniziativa. Dovete preparare il vostro cuore ad accogliere quello che significa. Ci stupisce ciò che Gesù sta rivelando.
«…se lo cinse attorno alla vita». L’asciugamano, prima di essere usato, è il nuovo vestito che Gesù indossa dopo essersi spogliato. Nel mondo biblico la persona non ha un vestito, ma è il suo vestito. Gesù ci fa capire che l’amore è la natura di Dio ed è la natura dell’uomo; l’amore sarà autentico quanto più è vissuto nel desiderio di servirsi vicendevolmente. Il pretendere di essere serviti è la negazione dell’amore.
«…poi versò dell’acqua in un catino». È Gesù stesso che prepara il catino con l’acqua; ci vuol far capire che l’autentico amore, specie nella vita di coppia, deve rispettare le sue qualità intrinseche: è gratuito, è disinteressato. Quanto è urgente oggi testimoniare ai giovani la straordinaria ricchezza di questo amore.
«Cominciò a lavare i piedi dei discepoli». Questo gesto sovverte ogni nostro schema; comporta anzitutto l’abbassarsi, il chinarsi, l’inginocchiarsi di fronte a colui che riceve il servizio. È l’amore nel suo totale disinteresse. Difatti, Gesù si china davanti a Pietro e davanti a Giuda senza far distinzioni, senza chiedere nulla in cambio.
«…e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto». L’asciugamano era la nuova veste di cui si era cinto quando aveva deposto il vestito. Per asciugare i piedi dei discepoli, se lo toglie senza rimettersi quello che aveva prima deposto. Si spoglia e rimane « nudo »; vale a dire, totalmente ed eternamente disponibile. L’amore o è per sempre o non è amore.
Gesù conclude: «Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica» (v 17). Ecco la beatitudine del servizio. La reazione di Pietro ci fa intendere come non sia facile penetrare nel senso profondo di questo mandato.

PAOLO, GESÙ E IL MATRIMONIO

http://letterepaoline.net/2009/03/19/paolo-era-sposato/

PAOLO, GESÙ E IL MATRIMONIO

This entry was posted on 19 marzo, 2009, in Materiali Introduttivi, Per conoscere Paolo.

Prima di affrontare il tema delle riflessioni paoline sul matrimonio, e più in generale sulla sua considerazione dei rapporti fra uomo e donna, è opportuno interrogarsi sull’esperienza concreta e personale dell’apostolo.

Innanzitutto, Paolo era sposato?
A questa domanda, che a prima vista potrebbe apparire oziosa, molti studiosi rispondono affermativamente, sulla base del fatto che il percorso ordinario dell’educazione farisaica, com’è riportato dalle successive fonti rabbiniche, contemplava il matrimonio tra i diciotto e i vent’anni: un’età che si presume che Paolo abbia attraversato prima di diventare seguace di Gesù.
A favore di quest’ipotesi, inoltre, si cita spesso un passaggio – in realtà poco chiaro – della prima lettera ai Corinzi, laddove Paolo rivolge ai propri interlocutori una domanda che ha tutta l’aria di una provocazione: «Non abbiamo forse (io e Barnaba) il diritto di condurre con noi una sorella, come fanno gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?» (1Cor 9,5). Come si evince da un esame del contesto generale della lettera (1Cor 9,1-14), l’interrogativo ha una funzione puramente retorica, e non rivela alcunché sullo “stato civile” dell’apostolo.
Da questo brano, semmai, è possibile ricavare una conferma del fatto che altri apostoli, come Simon Pietro (qui menzionato col soprannome aramaico Cefa) e alcuni membri del gruppo parentale di Gesù, affrontassero viaggi missionari assieme alle mogli, nominate appunto col titolo di “sorelle” in quanto facenti parte del movimento. Paolo, in tal senso, lascia intendere che potrebbe benissimo avvalersi di un tale “diritto” (exousía), ad esempio facendosi accompagnare da una “sorella” ed esigendo ospitalità anche per lei: ma è una cosa che, verosimilmente, non fece mai, e che fu anzi, probabilmente, un suo personale titolo di vanto. Poco prima, nella stessa lettera, l’apostolo aveva addirittura esortato i Corinzi a seguire il suo esempio, mantenendosi liberi dai vincoli coniugali: «Vorrei che tutti fossero come me: ma ciascuno ha il proprio dono (chárisma) da Dio, chi in un modo chi in un altro. Quanto ai non sposati e alle vedove, [dico poi che] è cosa buona per loro rimanere come me» (1Cor 7,7-8).
Dai pochi indizi sparsi nelle lettere, pertanto, si possono trarre almeno tre diverse conclusioni: a) Paolo era sposato, ma aveva lasciato la moglie per dedicarsi completamente all’attività missionaria; b) Paolo era vedovo; c) Paolo era celibe. Cerchiamo di esaminarle rapidamente.
Avendo presente la proibizione esplicita del divorzio formulata da Gesù, riportata da varie fonti proto cristiane (vd. oltre), è improbabile che Paolo si fosse sposato con una “sorella” per poi separarsene. Il matrimonio, se mai ci fu, dovette in ogni caso precedere la “conversione”, supponendo sempre un pieno rispetto del giovane Saulo nei confronti della consuetudine farisaica menzionata più sopra. Il cosiddetto “privilegio paolino”, per cui la separazione tra i coniugi veniva da lui stesso considerata lecita, nel caso di matrimoni “misti” contratti prima dell’ingresso nella comunità (1Cor 7,15), sembrerebbe persino avvalorare una simile ipotesi: ma in quel caso la separazione veniva dichiarata possibile qualora il non credente della coppia ne facesse esplicita richiesta, e rappresentava certamente un caso limite. Il rapporto coniugale era investito di un tale potere, per Paolo, che il marito non credente veniva santificato dalla moglie credente, e la moglie non credente dal marito credente (1Cor 7,14). Di un matrimonio dell’apostolo in giovane età, con successiva separazione, non troviamo tuttavia alcuna traccia nelle lettere.
Anche l’ipotesi per cui Paolo sarebbe stato vedovo, avanzata fra gli altri da Jerome Murphy O’Connor, sembra fondarsi su basi fragilissime. Il matrimonio del fariseo Saulo è ancora una volta dato per scontato: viste le consuetudini giudaiche dell’epoca, «non si può escludere che Paolo non si sia mai sposato». Le eccezioni alla regola, che pure non mancherebbero, vengono trascurate o minimizzate, anche per ciò che riguarda singoli casi ben documentabili: da quello del profeta Geremia, che non volle mai prender moglie per adempiere alla propria vocazione, a quello dello storiografo Giuseppe Flavio, che si risolse al matrimonio in età relativamente tarda (verso i trent’anni), e soltanto su impulso di Vespasiano. La giovinezza inquieta di Giuseppe, spesa alla ricerca di un’esperienza religiosa radicale, potrebbe benissimo essere affiancata a quella di Paolo, che presenta se stesso come «pieno di zelo» nella fede dei padri (vd. ad es. Gal 1,14); senza considerare, poi, il caso di un Giovanni Battista, o dello stesso Gesù, che rimasero entrambi indubbiamente celibi. Da questo punto di vista, la proposta avanzata da Murphy O’Connor non può che suonare immaginosa: il silenzio di Paolo sulla propria condizione di vedovo, secondo lo studioso, andrebbe imputato a un evento traumatico, come la perdita improvvisa della moglie (e forse anche dei figli!) a causa d’un incendio o di un terremoto. Questo avrebbe addirittura orientato una parte della sua successiva elaborazione teologica: «se il dolore e l’angoscia [per una tale perdita] non potevano dirigersi verso Dio», alla cui volontà imperscrutabile bisognava piegarsi, occorreva «trovare un altro obiettivo… una via di sfogo per il desiderio represso di vendetta» (J. Murphy O’Connor, Vita di Paolo, trad. it. Brescia 2003, p. 85). E Paolo li avrebbe trovati: dapprima nei primi discepoli di Gesù, e in seguito nei Giudei che avevano rifiutato il messaggio di Cristo – una spiegazione circolare che, per quanto psicologicamente ingegnosa, lascia francamente perplessi.
L’unica ipotesi sostenibile, in conclusione, resta quella di una scelta celibataria, secondo quanto l’apostolo stesso si preoccupa di esprimere, in termini sufficientemente chiari, nel già citato versetto di 1Cor 7,7: «Vorrei che tutti fossero come me…». Il principio che anima tutta la riflessione di Paolo sui rapporti fra uomo e donna, a questo punto, potrebbe essere letto in riferimento alla sua posizione personale al tempo della vocazione apostolica: «Ciascuno, o fratelli, rimanga davanti a Dio nella condizione in cui si trovava quando venne chiamato» (7,24). Da questa affermazione si può dedurre che Paolo, nel momento in cui ricevette la rivelazione di Cristo sulla via di Damasco, non fosse affatto sposato, e che tale rimase anche dopo.

Matrimonio e divorzio in 1Cor 7
Il capitolo 7 della prima lettera ai Corinzi è interamente dedicato al tema dei rapporti coniugali [1]. Paolo, nello specifico, risponde ad alcune questioni che gli erano state poste in precedenza dai Corinzi: in primo luogo riguardo al fatto se fosse davvero «bene per l’uomo non toccare donna», come recitava presumibilmente uno “slogan” degli interlocutori. Partendo da qui, l’apostolo espone una rapida serie di istruzioni relative agli “sposati”, ovvero alla disciplina delle relazioni matrimoniali (7,1-16), poi al rapporto fra l’ingresso nel gruppo e i vari “stati di vita” (7,17-24), e infine alla regolamentazione di casi particolari, come quello dei “non sposati”, delle “vergini” e delle “vedove” (7,25-40). Tre diversi ordini di questioni, dunque. Nel cuore del primo, l’apostolo si sofferma sul problema del divorzio, appoggiandosi per l’occasione a una citazione esplicita di Gesù:
«Per gli sposati dispongo, non io ma il Signore, che la moglie non si separi dal marito, e qualora invece si separi, rimanga non sposata o si riconcili col marito, e che il marito non ripudi la moglie» (1Cor 7,10-11).
Molti commentatori sostengono che questo passaggio trasmetta una forma pre-letteraria di un detto di Gesù che ritroviamo nel vangelo di Marco (10,11-12), nella fonte comune ai vangeli di Matteo e di Luca (cf. Mt 5,31-32; 19,9; Lc 16,18) e in altri scritti protocristiani (Erma, Mand. 4,1-11). La formulazione paolina, in effetti, presenta un chiaro legame con la tradizione testimoniata e trasmessa dai sinottici (vd. M. Pesce, Le parole dimenticate di Gesù, Milano 2004, pp. 502-504).
Paolo, come Marco, riporta il detto in forma assoluta, e si distingue da Matteo e da Luca perché prevede la possibilità anche da parte della donna di “separarsi”. L’intera frase viene presentata come un vera e propria norma legale, come una disposizione di Gesù riguardo agli sposati, e ciò costituisce un elemento di forte specificità rispetto al dettato dei sinottici, che non parlano di questo come di un precetto, ma lo presentano piuttosto come una halakah, un’applicazione giuridica della Legge, formulata da Gesù. Al centro dell’interesse di quest’ultimo, più che la questione legale del divorzio, sembra esserci il richiamo a una moralità più alta, più esigente, a partire dall’assunto dell’indissolubilità dell’unione matrimoniale: per questo Gesù si pronuncia sul divorzio includendolo nella categoria morale dell’adulterio. La concezione di Gesù, in proposito, si avvicina a quella espressa da alcuni documenti coevi, come 11QTempl 57,16-19 e CD 4,20-5,2.
L’apostolo, come si è detto, traduce la norma di Gesù per ambienti in cui anche alle donne era consentito divorziare [2]: questo, da una parte, appare in linea con l’immagine che Paolo poteva avere di Gesù, e che non mancava di trasmettere alle proprie comunità, dall’altra apre la strada per supporre un’ulteriore elemento di continuità fra i due, precisamente sul senso trascendente che poteva essere conferito all’unione matrimoniale.

Il senso trascendente dell’unione coniugale
Vari testi protocristiani presentano il matrimonio come una metafora non semplicemente dell’unione fra Dio e Israele, quanto del rapporto che s’instaura fra il Cristo stesso e l’insieme dei suoi seguaci. Questa metafora nuziale compare anche nella corrispondenza di Paolo ai Corinzi, ad esempio in 2Cor 11,2: «Ardo per voi d’uno zelo divino, avendovi fidanzati a uno sposo, per presentarvi a Cristo come una vergine immacolata».
La relazione fra uomo e donna, nei testi del giudaismo pre-cristiano, era sempre stata utilizzata in riferimento all’Alleanza stipulata tra Dio e Israele, mentre in Paolo, forse sulla scia di analoghe riletture che troviamo attribuite a Gesù e a Giovanni Battista, essa passa ad indicare l’attesa della sposa/comunità nei confronti dello sposo/Cristo.
Nella predicazione dei profeti d’Israele, massimamente in Osea (1-3), la dolorosa vicenda personale del profeta diventava il paradigma stesso dell’amore ferito di Dio per la sua sposa “infedele”, in uno schema di corrispondenze fra adulterio e idolatria, separazione e ripudio, riconquista e conversione. I protagonisti del dramma erano tre: la sposa, che indicava al contempo Israele e la terra; lo sposo, figura dell’unico Dio; e i figli, che rappresentavano i frutti della loro relazione. La sposa/Israele era chiamata ad abbandonare i propri amanti, quei ba‘alim (letteralmente “padroni”, originariamente dèi della fecondità) con i quali si era prostituita, per ricongiungersi al suo ‘ish, il marito che senza di lei non può vivere. Attraverso la voce dei profeti, la stessa vicenda dei “protoplasti”, di Adamo e di Eva, veniva riletta come una traccia del cammino percorso da Dio con l’umanità. Accanto alla minaccia costante di un ripudio, si affacciava dunque l’annuncio di un amore fedele e imperituro, dell’attesa di una “nuova creazione” (in cui «la donna abbraccerà l’uomo»: Ger 31,22), o della celebrazione dell’intimità erotica rivista in chiave “spirituale” (come nel Cantico dei cantici: la cui esegesi allegorica, di fatto, ne avrebbe consentito il futuro inserimento nel canone ebraico e cristiano).
In Paolo, come nella stessa letteratura deutero-paolina (Ef 5,25-29), nei vangeli sinottici (Mt 9,14-15 // Mc 2,18-20 // Lc 5,33-35; Mt 25,1-13), nella tradizione del quarto vangelo (Gv 1,27; 3,29; cf. 12,1-8) o nell’Apocalisse di Giovanni (Ap 3,20; 19,7-9; 21,2.9; 22,17), gli esegeti rilevano però un mutamento significativo: lo sposo non è più il Dio d’Israele, ma Gesù, e la sposa non è più figura d’Israele, ma della comunità degli ultimi tempi; inoltre, come illustrato in riferimento al procedimento nuziale ebraico, ch’era sostanzialmente diviso in due fasi (il fidanzamento e la coabitazione degli sposi), «il passato, il tempo della stipulazione del contratto nuziale coincide con la venuta dello sposo Cristo… La coabitazione dello sposo con la sposa è rinviata, però, al tempo escatologico, quando nessun muro d’ombra potrà frapporsi tra i due amanti» (così R. Infante, Lo sposo e la sposa, Cinisello Balsamo 2004, p. 242).
Nella prospettiva dei detti riferiti dai sinottici, la centralità è assegnata alla presenza attuale di Gesù (basti pensare alla sospensione momentanea del digiuno in Mc 2,18-20, Mt 9,15 e Lc 5,34), al quale viene implicitamente attribuito il titolo di sposo messianico; e la sposa può trovarsi in una situazione di vigile attesa delle nozze, come accade nella parabola delle vergini (Mt 25,1-13) e nel passaggio paolino di 2Cor 11,2. L’apostolo potrebbe pertanto riferirsi, in questo caso, a un insegnamento di Gesù rielaborato e diffuso dai suoi primi discepoli. Il ruolo metaforico dell’apostolo sarebbe quello del padre che presenta allo sposo venturo la propria “vergine immacolata”, custodendone l’integrità (questo, peraltro, getta luce anche sul problema delle “vergini”, cui Paolo allude in 1Cor 7,25 e sgg.).
È assolutamente degno di nota, d’altronde, che in una discussione sul divorzio come quella che troviamo formulata in 1Cor 7, Paolo contro ogni sua consuetudine faccia appello a Gesù, e non alle Scritture: è forse l’indizio di un mancato accordo con esse, a renderlo necessario? È ciò che potrebbe emergere da un’attenta rilettura dei brani evangelici citati, e in particolare da una riconsiderazione del richiamo di Gesù a Genesi 1,27 e 2,24: «Mosè per la durezza del vostro cuore vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; ma in principio non era così» (Mt 19,8; cf. Mc 10,5-6).
Questo richiamo, con tutte le sue profonde implicazioni, può essere infatti spiegato come un netto rifiuto, da parte di Gesù, della norma relativa all’atto di ripudio fissata in Deuteronomio 24, che viene in questo modo apertamente contrapposta all’ordine più alto rappresentato dalla creazione («in principio non era così»). Spiega opportunamente Klaus Berger:
«All’epoca di Gesù il rifarsi all’ordine della creazione è senz’altro motivato anche dal fatto che la filosofia stoica del tempo aveva contrapposto criticamente l’ordine razionale della natura al diritto statale positivo. La radicalizzazione della legge secondo la volontà creatrice di Dio, in Gesù, si incrocia quindi con l’idea stoica dell’ordine razionale nella natura. Entrambe si rafforzano a vicenda. Il divorzio, seguito da un nuovo matrimonio, è contro la natura, perché il mondo è ordinato a coppie di maschio/femmina, e in Dio un solo uomo e una sola donna vengono congiunti a formare qualcosa di nuovo» (K. Berger, Gesù, trad. it. Brescia 2006, pp. 158).
Questo principio, secondo Berger, si integra allora con qualcosa di strettamente collegato alla persona di Gesù:
«Gesù torna sempre ad autodefinirsi lo sposo di Israele rinnovato… Forse si può spiegare così perché la parola di Gesù sul divieto del divorzio (seguito da un nuovo matrimonio) sia il suo detto più frequentemente citato nel Nuovo Testamento. Gesù vede nella fedeltà e nell’amore coniugali un’immagine reale del rapporto tra Messia e popolo. Se il matrimonio tra esseri umani è distrutto, il matrimonio non può più essere un simbolo reale del futuro regno di Dio. È qualcosa di analogo alla riconciliazione: solo quando gli esseri umani si sono perdonati a vicenda anche Dio può perdonare. Come il perdono tra esseri umani è il nucleo e il presupposto del perdono che si spera da Dio, allo stesso modo il risanamento dei matrimoni umani è il presupposto affinché venga rinnovato il matrimonio di Dio con il suo popolo. In entrambi i casi il rapporto sanato tra esseri umani è più di un semplice simbolo, è cioè allo stesso tempo nucleo e presupposto» (ibid., p. 163).
***

Note
[1] Per quanto riguarda le relazioni familiari nel mondo sociale di Gesù e di Paolo, sono fondamentali i due volumi collettivi curati da D. Balch e C. Osiek, Families in the New Testament World: Households and House Churches, Louisville 1997, e Early Christian Families in Context: An Interdisciplinary Dialogue, Grand Rapids 2004; vd. anche, fra gli altri, K.C. Hanson – D.E. Oakman, La Palestina ai tempi di Gesù. La società, le sue istituzioni, i suoi conflitti, trad. it. Cinisello Balsamo 2003 (ed. or. Minneapolis 1998), pp. 33-88. Su matrimonio, divorzio e adulterio per Paolo, una buona panoramica è offerta dalla voce relativa in G.F. Hawthorne et alii, Dizionario di Paolo e delle sue lettere, ed. it. a cura di R. Penna, Cinisello Balsamo (ed. or. Downers Grove 1993), pp. 991-1002, con bibliografia ulteriore, mentre per una trattazione più approfondita si rimanda a R.F. Collins, Divorce in the New Testament, Colledgeville 1992, e W. Deming, Paul on Marriage & Celibacy: The Hellenistic Background of 1 Corinthians 7, Grand Rapids 2004.
[2] Le posizioni del fariseismo contemporaneo a Gesù e a Paolo, per come sono ricavabili dalla letteratura rabbinica posteriore, sono ben rappresentate dalle scuole di Hillel e Shammaj. Del primo si dice che accettasse la richiesta di divorzio da parte del marito anche per un motivo futile come una pietanza bruciata. Del secondo, invece, è nota la posizione leggermente più “liberale”, per cui il marito non poteva ripudiare la moglie senza il consenso di lei. In entrambi i casi, la richiesta di divorzio era comunque un atto unilaterale, riservato al maschio. Per una rassegna di testimonianze papirologiche di ambiente giudaico-ellenistico, vd. D. Instone-Brewer, “1 Corinthians 7 in the Light of the Jewish Greek and Aramaic Marriage and Divorce Papyri”, “Tyndale Bulletin” 52 (2/2001), pp. 225-243.

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