ATTI 7 – L’OMELIA DI STEFANO
http://www.nostreradici.it/Atti7-Stefano.htm
Le Scritture e l’epoca di Gesù – 7.1
ATTI 7 – L’OMELIA DI STEFANO
Per questo nuovo articolo con il quale vogliamo intrattenervi ancora una volta sul tema de “le Scritture e il giudaismo”, non riportiamo il testo di Atti 7, perché troppo lungo, per cui invitiamo il lettore a leggerlo per conto proprio in una sua Bibbia che certo non gli mancherà.
Il c. 7 del libro degli Atti riporta una bella e interessante omelia, quella del diacono Stefano, il quale, accusato davanti alle autorità giudaiche di parlare male del tempio e della legge (6,12-14), risponde in sua difesa con un’omelia estremamente interessante. L’intervento di Stefano si sviluppa attorno al tema del tempio, dando così originalità a uno schema omiletico consueto nel libro degli Atti, come abbiamo già constatato nel discorso di Pietro a Pentecoste (Atti 2) e in quello dello stesso Pietro in 3,11-26. In tal modo si rivela la bravura letteraria di Luca nel far procedere il suo racconto sugl’inizi della Chiesa: egli usa degli schemi fissi, come quello della predicazione cristiana primitiva, ma compone i brani artisticamente come variazioni su tema, alla stregua delle composizioni musicali; il tema di base è sempre il credo cristiano, cioè storia antica d’Israele – ministero, passione, morte e resurrezione di Gesù, ma il suo svolgimento tiene conto sempre del contesto immediato. Stavolta, l’accusa ben precisa contro Stefano, che ricorda quella contro lo stesso Gesù di cui Stefano viene ad essere il seguace-testimone (Mt 26,59-61), è occasione, come precedentemente per Pietro, di dare spiegazione della propria fede.
Egli, accusato di parlare contro il tempio di Gerusalemme, ritenuto dalla fede comune come il fondamento perenne della sussistenza storica d’Israele, imbastisce un discorso molto interessante che riproduce quasi pedissequamente la storia d’Israele così com’è scritta nella collezione dei libri dell’AT che vanno dal Genesi fino a 2 Re, aggiungendovi anche citazioni dei Profeti e dei Salmi.
Constatiamo così diversi elementi significativi. Il primo è che soltanto un popolo al quale appartenevano le Scritture poteva essere rivolto un discorso del genere, il cui impianto logico e le cui testimonianze erano basati appunto sulla Legge di Mosé, sui Profeti e sui Salmi (cf. Lc 24,44). Il secondo elemento che ricaviamo è che Stefano fa uso di un’abitudine che era invalsa alle soglie dell’epoca neotestamentaria, quella di “ri-narrare”, cioè di raccontare con parole proprie quello che era tramandato nelle Scritture. In altri termini, mentre la Bibbia rimaneva il testo base di riferimento, se ne raccontava però la storia contenuta adattandola ai propri argomenti. È quanto troviamo in libri di quell’epoca, come I Testamenti dei XII Patriarchi e I Libri dei Giubilei, che prendevano spunto dalla materia dei libri biblici, per poi sviluppare un proprio racconto, in questo caso a sfondo escatologico e apocalittico (vedi i primi articoli di questa serie [indice]).
Se si legge attentamente la narrazione di Stefano, essa mette in risalto sempre l’argomento spazio, perché in riferimento allo “spazio sacro” del tempio. Al v. 5, ad esempio, egli dice che Dio non diede ad Abramo nemmeno uno spazio della terra che calcava (vale a dire la terra santa che avrebbe ospitato il tempio), ma gliela promise soltanto come dono per la sua discendenza. Questo dono a sua volta è qualcosa che si riceve e si lascia in continuazione, seguendo le memorie storiche su Giacobbe, sui dodici patriarchi e su Giuseppe in particolare (vv. 8-16), su Mosé e sulle peregrinazioni del popolo nel deserto (vv. 17-41). Tutto ciò sta ad indicare la provvisorietà dello spazio-terra promessa, a causa soprattutto dei peccati d’Israele, per i quali poi esso perderà ancora la terra per andare esule a Babilonia (v. 43). Nei vv. 46-49, l’argomento dello “spazio” si restringe e si concentra in particolare sul tempio, del quale già Dio in passato aveva detto a David che non ne aveva necessità (cf. 2 Sam 7,5-7); difatti, non fu David che costruì il tempio, bensì il figlio Salomone. A questo punto, l’acme dell’omelia, Stefano, citando Is 66,1-2, così afferma:
“Il cielo è il mio trono e la terra sgabello dei miei piedi. Quale casa potrete mai edificarmi, dice il Signore, o quale sarà il luogo del mio riposo?”. In altri termini, rifacendosi a un concetto del resto già presente anche nel discorso di dedicazione del santuario che fece Salomone (cf. 1 Re 8,27), Stefano dichiara la relatività di ogni spazio in generale e del tempio materiale in particolare. Non è per il tempio quindi che ci si deve preoccupare, ma per qualcos’altro di ben più importante. A quest’affermazione egli lega l’attualizzazione che consiste nell’accusa ai presenti di aver ucciso Gesù, così come i loro padri avevano fatto con gli antichi profeti (vv. 51-53).
La reazione adirata degli astanti scatta immediatamente (v. 54), interrompendo le parole del martire, il quale nel frattempo, ricevendo una visione celeste, può concludere il suo discorso, confessando l’esaltazione di Cristo in cielo alla destra di Dio (vv. 55-56). Gli aspetti più sconvolgenti dell’invettiva di Stefano contro “gli uccisori di Cristo”, vanno spiegati col commento [v. punto b)] che già abbiamo fatto nel commento a Luca16.
L’invettiva di Stefano è nello stile degli antichi profeti, non meno duri nei riguardi del loro popolo, ma certo non miranti al rinnegamento d’Israele, bensì alla sua conversione. Quel movimento giudaico che si era stretto attorno alla fede in Gesù Cristo e che diventerà solo più tardi un’altra religione, voleva in realtà ricondurre i propri correligionari a quella che per essi era l’autentica fede ebraica. La fede in Gesù è il criterio fondamentale e unico di discrimine tra l’ebraismo e il cristianesimo: su questo non si può discutere, perché implica un’opzione di fede. Tuttavia, la parentela fin dalle origini delle due testimonianze religiose, quella ebraica e quella cristiana, è innegabile; inoltre, l’amore con tutto se stessi nei riguardi dell’unico Dio (Dt 6,4-5), dev’essere la fonte perenne dell’apertura reciproca, del rispetto e dell’amore vicendevole.