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MEDITAZIONE SULLA PAZIENZA
di José Maria Cabodevillla
I La vita è milizia, la vita è seminagione, la vita è teatro, la vita è sogno, la vita è compravendita. Sono molte, infatti, le definizioni della vita umana che si potrebbero trarre, direttamente o indirettamente, dai nostri testi sacri. La vita è pianto, la vita è liturgia, la vita è un fiume che sfocia nel mare. Vivere è tessere una tunica, negoziare col prestito ricevuto, lavorare in una vigna, costruire una casa. Si tratta di un’esistenza così fugace che il nostro vivere equivale all’apparire e allo sparire del fiore di campo; un’esistenza, allo stesso tempo. così lenta e dilatata che i servi hanno il tempo di darsi ad ogni genere di disordine perché il padrone tarda a tornare. Nell’ambito della riflessione cristiana sull’uomo sono molti, ripeto, i modi di definire la nostra vita mortale, capaci tutti di offrire le sfumature più diverse e ricche. Però nessuno tanto comune e tanto fecondo come quello che descrive lo svolgersi della vita umana mediante l’immagine del cammino. Immagine certo presente in tutte le religioni (il dhammapada indù, i muhajjiroun musulmani, il tao come un sentiero), e perfino nel linguaggio più comune, dove la metafora del cammino soggiace a tante etimologie: condotta, metodo, corso e discorso, transito, ingresso, progresso, disgressione, trasgressione… Certamente la american way of life difetta di qualsiasi originalità anche letteraria.
Tuttavia esiste per noi un modo molto particolare di intendere la vita come cammino ed è di intenderla come esodo. Questo generale percorso fra la cattività e il regno ebbe la sua più famosa e plastica rappresentazione storica in quel lungo cammino degli ebrei dall’Egitto fino Canaan; non solo lungo, ma anche umanamente assurdo. Cominciò già in modo assurdo, dirigendosi verso il sud alla ricerca di una meta che si trovava a nord-est; durò quarant’anni il percorso che un viandante ragionevole avrebbe largamente coperto in un paio di settimane. Nella parte superiore della carta geografica, dominando con lo sguardo il labirinto di un simile itinerario, stamperemmo oggi un lemma biblico: «I miei cammini non sono i vostri cammini», dice il Signore (Is 55, 8).
Si tratta—ora come allora—di andare alla Terra Promessa attraverso ciò che Dio vorrà e al passo che egli vorrà: guidati da una colonna di nubi, durante il giorno, e di fuoco durante la notte. Camminando così sempre senza attardarci né affrettarci. Il che diviene quasi una nozione tecnica della virtù della pazienza.
II
Succede che l’homo viator si sente doppiamente tentato: o desistere dall’andare, perché il cammino risulta troppo faticoso, o anticipare l’arrivo alla meta perché si presume che il cammino sia troppo lungo. E, malgrado sembri strano, queste due decisioni così diverse sarebbero due forme del peccare contro una medesima virtù, contro la pazienza. In fondo costituiscono due peccati molto simili, non più diversi ti quanto possano esserlo la disperazione e la presunzione quali peccati contro la speranza e certamente molto vincolati ad esse.
Perché la pazienza è una virtù che ha due volti e in essa vi è tanto di attività quanto di passività. Da una parte si oppone a quella fretta e ansietà che abitualmente chiamiamo impazienza, la quale altro non è che un comportamento dettato dall’ignoranza o il rifiuto della nostra condizione di creature soggette al tempo, dall’altra suppone, nel medesimo tempo, una decisa volontà di vincere tutte le difficoltà che potrebbero ritardare il nostro andare di creature incalzate dal tempo.
E’ interessante accentuare per ultimo, questo: come l’uomo paziente non sia un uomo semplicemente passivo. Il suo atteggiamento ha molti punti di contatto con la non-violenza la quale, come ben sappiamo, significa distinguersi da una mera e rassegnata passività; l’opposto consiste nel resistere attivamente, con tutti i mezzi non violenti, a qualsiasi forma di violenza. Per essere non-violento non basta non essere violento, bisogna essere anche temerari e battaglieri. La non-violenza è dire no alla violenza e dirlo con la massima energia.
In questo modo la pazienza oltre che una docile sottomissione al ritmo del tempo, diventa una vittoria positiva sul trascorso e sul logorio del tempo. Non possiamo allungare lo stelo di una pianta per accelerarne la crescita, ma neppure possiamo esimerci dal realizzare per essa tutti i lavori agricoli necessari. Ogni cosa ha il suo tempo. Non perché ci si alzi presto, si fa giorno prima e neanche, è chiaro, annotterà più tardi per permetterci di fare il tratto di cammino che avremmo dovuto già percorrere. Si configura così la pazienza come fedeltà alla volontà divina, ai misteriosi disegni del Dio dell’Esodo, misteriosi anche se nel contempo rivelati giorno per giorno; essa esige da noi tanta attività quanto sottomessa accettazione. Di fronte a questa pazienza, in senso basilare e globale, anche l’impazienza ammette un’ampia definizione, e non più ampia che profonda, che arriva a identificarla col peccato umano in generale.
«Sarete come Dio» (Gn 2,5). Questa promessa del serpente avrà la sua replica più giusta e letterale in quell’altra dell’apostolo San Giovanni: «Saremo come lui» (1Gv 3, 2). Perché era peccaminosa, perché era fallace la prima promessa? Perché prometteva di compiersi prima del tempo, perché proponeva una scorciatoia proibita per arrivare alla meta. La somiglianza dell’uomo con Dio può solo aver luogo all’ora debita e nella debita forma; non per mezzo di una divinizzazione ottenuta dall’uomo, ma mediante una divinizzazione concessa da Dio. Sperare Deum a Deo: bisogna attendere che ciò avvenga e bisogna attenderlo da Dio. Solo alla fine e solo dalle mani divine, la creatura potrà mangiare il frutto dell’albero del Paradiso (Ap 2,7). I nostri padri peccarono per impazienza. Quel peccato originale, quell’impazienza che anticipava l’Apocalisse nel momento prematuro della Genesi, si ripeterà, più o meno, in ognuno dei nostri peccati personali. Perché la volontà non cerca mai il male bensì il bene; il male si basa nel cercare male quel bene, nel voler strappare o con le proprie forze o prima del tempo, nel mangiare un frutto acerbo. Il male è l’impazienza del bene, 1′aborto del bene.
All’inizio delle sue famose Considerazioni, conosciute poi col nome di I quaderni blu in ottavo, Kafka scrisse qualcosa che con piacere avrebbero sottoscritto i Padri greci: «Esistono due peccati capitali nell’uomo, dai quali si originano tutti gli altri: impazienza e indolenza. L’impazienza lo fece scacciare dal Paradiso e non fu per colpa dell’indolenza. Ma forse non esiste che un solo peccato capitale: l’impazienza. A causa dell’impazienza lo scacciarono, a causa dell’impazienza egli non torna».
III
Per redimere la pretesa divinizzazione dell’uomo, il Figlio di Dio si fa uomo, cioè si assoggetta a tutte le limitazioni proprie di un’esistenza temporale, sottomesso allo spazio e al tempo. Per compensare l’impazienza dell’uomo egli sarà paziente. «Gesù cresceva» (Lc 2,52): ecco una frase che non solo loda il suo progresso interiore, ma rivela anche la sua totale dipendenza rispetto al tempo.
Anch’egli doveva percorrere un cammino e anche questo sarebbe consistito, lungo tutta la sua esistenza, in un penoso viaggio fino alla terra promessa ai suoi padri: una costante «salita a Gerusalemme» (At 20,18). Vivrà sempre dipendente da quella che il Vangelo chiama la sua ora, tante volte da lui stesso menzionata (Mt 26, 45; Lc l4, 35.41; Gv 12,27; 17,1…). E’ l’ora del passaggio al Padre, l’ultimo tratto del suo cammino, l’ora verso la quale sono orientate tutte le ore e tutti i passi che la precedettero. Poiché ancora non era suonata la sua ora, fugge e si nasconde quando vogliono ucciderlo (Gv 8, 59; l0, 39; 12, 36). Ma una volta giunta quell’ora, «disse ai suoi discepoli: andiamo un’altra volta in Giudea». I discepoli gli risposero: «Rabbì, poco fa i giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?» (Gv 11, 8). Andò e difatti lo uccisero. Così concluse il suo lungo viaggio, quella salita che aveva iniziato il giorno della sua incarnazione. Salita coraggiosa e intrepida, ininterrotta, contro le dilazioni che ispirerebbe all’uomo indolente e codardo il cammino verso la morte. Salita però lenta, diligente e ponderata contro la fretta e le scorciatoie, che all’uomo impaziente, suggerirebbe un viaggio destinato a porre fine alle sue sofferenze, a concedergli l’accesso ai Paradiso.
La sua ora lo protegge dagli intenti omicidi dei giudei, che non potevano ucciderlo proprio «perché non era ancora giunta la sua ora» (Gv 7,30; 3,20). Però, nel contempo, costituisce per lui un limite, un mandato del Padre a data fissa, una scadenza che non è in suo potere prorogare e nemmeno abbreviare. Non ha alcun potere su quell’ora e nemmeno la conosce (Mc 13, 32). Conoscerla avrebbe significato una forma di potere su di essa, una anticipata notizia relativa agli occulti disegni del Dio dell’Esodo e ciò avrebbe reso psicologicamente impossibile una normale vivibilità umana del tempo. Solo per la generosità e la spontaneità del suo consegnarsi potrà dire: «… io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso» (Gv 10,18). Per quanto concerne la passività e il mistero di quest’immolazione, fu condotto «come un agnello al macello» (Is 53,7). Nei due sensi egli dimostrò pazienza.
Ogni uomo ha la sua ora e davanti ad essa dovrà osservare un comportamento simile: «Abbiate pazienza finché arriverà il giorno del Signore» (Gc 5, 7).
E’ chiaro che l’evocazione di Gesù paziente non è qui un aiuto superfluo o meramente illustrativo. Dopotutto, come qualsiasi altra virtù cristiana, la nostra pazienza si può solo intendere come imitazione e sequela di Cristo. In nessun modo la si potrebbe spiegare senza un espresso riferimento a lui e semplicemente come una condotta imperturbabile e stoica: la condotta di quei pellegrini che nessuna molestia trattiene nel loro cammino e nessuna ansietà sprona. Fra questo genere di pazienza, per quanto perfetta possiamo immaginarla, e la pazienza cristiana ci sarà sempre una differenza essenziale, una distinzione di piani, inclusa un’esigenza di conversione. Anche le persone più pazienti e rassegnate sono obbligate a «nascere di nuovo» (Gv 3,8).
Per quanto riguarda la passività propria della pazienza cristiana, debbo dire che non si tratta precisamente di rassegnazione bensì di abbandono: ci rassegniamo a qualcosa, ci abbandoniamo a qualcuno. Questa nota caratteristica imprescindibile di fiducia nel Padre, suggerisce già un elemento attivo della pazienza: più che sperare in qualcosa speriamo in qualcuno.
IV
Anche nel campo dell’impazienza, nel senso più ristretto, vi sono notevoli differenze qualitative. Alle volte l’impazienza arriva a trasformarsi in un’insolente sfida contro Dio, la volontà sacrilega di forzare o frastornare i suoi piani. «Coloro che dicono che faccia presto, acceleri pure l’opera sua perché la vediamo» (Is 5, 19). Al contrario, altre volte, quello che sembrerebbe impazienza è solo una modalità più ardente della speranza. Quell’esortazione di Giacomo «pazientare finché arrivi il giorno del Signore», non è enunciata senza una certa impazienza tanto incolpevole che può essere santa, tanto accettabile da Dio che può «affrettare l’arrivo del giorno del Signore» (2 Pt 3,12).
Non è raro che l’impazienza del credente faccia sì che la preghiera tenda a trasformarsi in una supplica ansiosa e assillante: «Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti?» (Ab 1,2). Ha tutta l’apparenza di una provocazione arrogante, altezzosa, ma forse ciò è solo dovuto alla difettosa formulazione di un sentimento molto più sensibile, all’espressione di una necessità più perentoria o, semplicemente una mancanza di conoscenza e di attenzione alle cose spirituali. Infatti colui che così si lamenta della trascuratezza di Dio, ignora che non è Dio che deve ascoltare l’uomo bensì l’uomo che deve ascoltare Dio. Quell’anima, che, come confessa, va da tanto tempo supplicando invano, non sa ancora che la preghiera deve prolungarsi precisamente non fino a quando Dio ascolti le suppliche dell’uomo, ma fino a quando l’uomo scopra e accolga e accetti la volontà di Dio; lungo tutta quella preghiera infruttuosa è stato Dio a dimostrarsi paziente alla sordità di un’anima che a forza di parlare, si rendeva incapace di udire. Infatti la comunione di più volontà alla quale tende ogni vera preghiera deve realizzarsi verso l’alto e non verso il basso. Dio esaudirà tutte le sue promesse, ma non è tenuto a soddisfare tutti i nostri desideri. Mai dà una pietra a chi gli chiede un pane, ma neanche dà un coltello al bambino che gli chiede un coltello. Se l’uomo, invece di lamentarsi che Dio non lo ascolta, si immergesse nel silenzio per ascoltare Dio, finirebbe per capire e il suo cuore potrebbe così evolvere dal desiderio all’annientamento, dall’esigenza fino al distacco, dall’impazienza fino alla pazienza.
Ogni volta che chiediamo qualcosa, è giusto e necessario, è nostro dovere e nostra salvezza aggiungere – esplicitamente e implicitamente – quelle parole indispensabili: «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra». In principio probabilmente la nostra volontà non coinciderà con la sua. Perfino Cristo stesso nel Getsemani distingueva fra «ciò che io voglio» e «ciò che tu vuoi» (Mt 26, 39). Ma seppe anteporre la volontà del Padre alla propria.
E avviene che alla fine i nostri desideri più profondi si realizzano e si realizzano largamente; quei desideri che Dio stesso seminò in noi sono stati però soffocati da altri desideri futili o sbagliati, poiché l’impazienza ci fa vivere alla superficie di noi stessi, nell’inganno e nella meschinità dell’immediato. La nostra aspirazione essenziale è di arrivare felicemente alla Terra Promessa, l’inquietudine del cuore ci induce a prendere scorciatoie che sono solo smarrimenti. Ma alla fine, per grazia di Dio, il viaggio si concluderà positivamente, perché i desideri retti si saranno imposti su quelli distorti, i profondi su quelli superficiali, i più ambiziosi sui più meschini. Alla fine avverrà ciò che avvenne con Gesù Cristo stesso, i cui desideri così, secondo la preghiera del Getsemani, furono ampiamente soddisfatti e nel contempo incompiuti; colui che chiedeva che gli fosse risparmiato il calice della morte, morì; ma dopo la morte fu risuscitato.
Dio infatti ascoltò la preghiera del figlio. Ma lo fece «al terzo giorno».
Questi tre giorni sono per tutti noi la parentesi ineluttabile imposta dalla fede, le giornate o le tappe della nostra peregrinazione, il tempo necessario per l’esercizio della pazienza.
V
Come ho detto prima, c’è nella pazienza un elemento di passività e un altro di attività. Dato che questa virtù ci è tanto necessaria per attendere saldi l’arrivo dello Sposo, quanto per sostenere, da concorrenti, la prova per la quale siamo stati tutti convocati: ecco due immagini sacre che descrivono in modo diverso la vita temporale del cristiano, mettendo nel contempo in rilievo quei due differenti aspetti della pazienza. Spicq ha insistito nel tradurre: «corriamo con pazienza» il noto testo di Eb 12, 1, sostituendo pazienza alla precedente perseveranza. Questa sfumatura risulta molto eloquente se ricordiamo che si tratta di una corsa agli ostacoli e una corsa di fondo, in contrasto con quelli chiamati concorsi di velocità. Quello che importa è superare finalmente la prova (Atti 20, 24), raggiungere la meta (2 Tim 4, 7), e per riuscirvi bisogna evitare l’esaurimento prematuro causato da un’indebita accelerazione.
Ma il contrasto con l’impazienza si fa più evidente in quell’elemento di passività, di obbedienza, di fermezza impavida, che si manifestò nel tragitto dell’Esodo, costringendoci a trattenere ad ogni momento i nostri passi alla presenza e alla direzione della colonna di nubi. Perché, date le speciali caratteristiche di questo nostro viaggio a Canaan, la sua scabrosità, l’incertezza dell’itinerario, la fame e la sete, la frequente ostilità di tanti Etei, Ferusei, Gebusei, si potrebbe dire che l’impazienza assuma quasi sempre l’immagine di una fuga, «una fuga in avanti».
In ogni pretesa anticipazione del futuro, si rivela un vile abbandono del presente, un’evasione dalla dura situazione propria del presente. L’uomo impaziente pretende di sottrarsi alla realtà. Poiché «tutto il vero è brutto», secondo la famosa dichiarazione del Leopardi, propendiamo a rifugiarci anticipatamente nel futuro; non importa che questi non esista ancora: precisamente, essendo illusorio, possiamo modellarlo del tutto a nostro piacimento. L’immaginazione infatti risulta il mezzo più economico per farci evadere da un presente inospitale.
Ma fuggire dove? Questo è il meno. Ogni fuggitivo più che andare a, viene da. Succede così che l’impaziente se ne va a Gredos solo per venir via da Madrid; adotta l’ideologia più progressista per liberarsi dalla dottrina tradizionale; oppure diviene conservatore per fuggire l’intemperie e la perplessità proprie di ogni situazione innovatrice; si sposa solo per abbandonare la casa paterna; inizia un nuovo amore solo per meglio dimenticare il suo precedente fallimento. Amore? «Divertitevi, non amate» consiglia il marchese de Sade. Il vero amore comporterebbe un impegno grave, un dovere di fedeltà e consenso: quanto di meno appropriato alla figura di un fuggitivo.
Non ha importanza il luogo dove ci dirigiamo. Solo importa fuggire dal luogo dove ci troviamo. In definitiva la verità è che fuggiamo sempre da noi stessi.
Fuggendo dalla propria interiorità, l’uomo impaziente vive a fior di pelle, scivola sulla superficie delle cose e degli avvenimenti. Invece d’immergersi in un amore serio, moltiplicherà i contatti occasionali, invece di amare si divertirà. Mi viene in mente il pascaliano senso del divertissement, nella sua totale riprovazione. In effetti invece di convertirci e di rivolgerci alla nostra intimità, siamo portati a «divertirci», invece di concentrarci ci disperdiamo. Preferiamo leggere male cinque libri piuttosto che leggerne bene uno solo. Preferiamo divagare piuttosto che sintetizzare. Preferiamo parlare piuttosto che pensare. Recitiamo innumerevoli preghiere invece di tacere, quieti e attoniti. Invece di pregare scriviamo un trattato sull’orazione. Preferiamo la velocità e il rumore. E quando il rumore arriva ad opprimerci e ci immergiamo nel silenzio, immediatamente riempiamo questo silenzio di altri rumori, di letture evasive, di vani progetti, di inutili chiamate telefoniche. Pecchiamo d’impazienza.
Anche il lavoro quotidiano può trasformarsi in una forma di evasione. Ricordo che alcuni anni fa, negli Stati Uniti, ebbe larga diffusione un certo disegno che appariva insistentemente negli spots della TV, negli spazi pubblicitari, nelle riviste, sulle scatole di fiammiferi. Raffigurava il noto uomo di affari sempre affaticato, il cittadino impaziente per antonomasia: con una borsa sotto braccio e consultando l’orologio, dalle sue spalle emergeva una grande chiave a forma di farfalla, di quelle che servono per caricare un meccanismo e metterlo in moto. Sotto al disegno un suggerimento: «Vada a riposare in un albergo Sheraton». Se non sapessimo che quella frase pubblicitaria proponeva un genere di riposo assai diverso dalla lettura dei «Pensieri» di Pascal, si direbbe che fosse stata ispirata precisamente da uno di essi: «Ogni disgrazia degli uomini proviene del non essere capaci di starsene seduti in una camera».
VI
L’uomo impaziente passa la sua vita fuggendo da una città all’altra, da un progetto all’altro, da una chimera all’altra, da un equivoco all’altro. L’importante è non fermarsi. Quando già esisteva la navigazione, egli inventò la circumnavigazione. Odisseo mi chiamo e l’Odissea adoro. La potenza locomotrice è causa e, nel contempo, effetto del movimento. Lo scoiattolo muove la gabbia, la gabbia muove lo scoiattolo. L’uomo impaziente ha inventato il moto continuo, l’inquietudine perpetua e la velocità accelerata senza uniformità.
Sono seduto al margine della strada
il conducente cambia la ruota.
Non mi piace il luogo da dove provengo.
Non mi piace il luogo dove vado.
Perché guardo il cambio della ruota
con impazienza?
(Bertold Brecht)
Perché l’unica cosa cui aneliamo è il movimento come tale, lo spostamento in se stesso, la fuga da un luogo che non ci piace verso un altro che, precisamente perché neanche ci piacerà, ci spingerà subito a continuare la fuga. Per quello ci contraria tanto doverci fermare, non fosse altro che il tempo necessario per cambiare una ruota, tempo durante il quale non abbiamo altro rimedio che porci inevitabilmente, la domanda più ovvia e più terribile: Perché tanta impazienza?
Muoverci, non star quieti, non permettere che quell’immobilità e quel silenzio si prolunghino al punto da renderci conto che la nostra fuga non ha alcun senso, come il correre sopra coperta in direzione opposta a quella che segue il bastimento. Bisogna di nuovo citare Pascal: all’uomo non interessa la preda, ma la caccia; non cerca le cose, ma la ricerca delle cose. Ripeto, l’importante è non fermarsi. E quanto più in fretta andiamo, tanto meglio è. Perché? Siamo come un pattinatore che scivoli a gran velocità, sapendo più o meno oscuramente che lo strato ghiacciato è troppo debole per sopportare il nostro peso, se solo ci pensassimo; il ghiaccio si romperebbe e cadremmo dentro: dentro noi stessi, dentro il nostro proprio vuoto. Ecco come l’impazienza, che è causa di tanto stordimento, è pure effetto della nostra volontà di stordimento, della nostra diserzione: in definitiva, della nostra paura cosciente e incosciente. L’uomo è come un cane con una latta legata alla coda.
E cosa otteniamo fuggendo? Ricordiamo il famoso passo di Sartre: «Fuggo per ignorare, ma non posso ignorare che fuggo; e la fuga dall’angoscia non è altro che un modo di rendersi coscienti dell’angoscia».
La disperazione sarebbe una soluzione ispirata da quella paradossale legge della vertigine, secondo la quale vi è chi si getta giù dalla torre per paura di caderne. Si tratta di una presunzione alla rovescia, l’altra modalità dell’impazienza: invece di precipitarsi verso la meta, invece di ritenerla già acquistata, l’impaziente mette fine immantinente alla sua corsa, negando che esista alcuna meta per lui, avanzando l’argomento che tutti i numeri possibili si trovano alla stessa distanza, dall’infinito, dall’inarrivabile.
VII
Di fronte a questi due peccati di presunzione e di disperazione, la pazienza dell’Esodo, sempre attiva e passiva, ci si rivela essenzialmente associata alla speranza. (In una stazione ferroviaria del Marocco spagnolo, Gide vide un cartello con la scritta «Sala de espera» e si meravigliò che la lingua castigliana non facesse differenza fra speranza e attesa. Certamente noi conosciamo la differenza fra questi due elementi della speranza, solo che esitiamo a dissociarli).
Secondo san Paolo, la pazienza genera speranza (Rm 5,4). Apparentemente bisognerebbe esprimerlo al contrario, poiché solitamente è la speranza che ci incita ad essere pazienti. Ma la parola dell’apostolo contiene una verità più profonda, e cioè che solo con la pazienza si costruisce la speranza in quanto virtù, come nell’amore matrimoniale, che necessita del tempo e delle difficoltà inerenti al tempo, per essere qualcosa di più di un innamoramento passeggero. Il superamento di queste difficoltà genera la pazienza, rende ardua la nostra speranza, la consolida e la rivaluta fino a giungere a «sperare contro ogni speranza» (Rm 4,18), pratica questa non meno dura, non meno paziente, di quella di credere contro ogni evidenza, di amare il nemico come noi stessi.
Solo la pazienza ci permette di sperare veramente e secondo la volontà di Dio. Poiché sperare significa propriamente continuare a sperare, sperare con ostinazione, sperare quando ogni ragionevole aspettativa si è dissipata e si è fatto buio. Della speranza Bacone soleva dire che è una buona colazione ma una cattiva cena.