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FIN DALL’INFANZIA UN VOLTO COMINCIA A SVELARSI – Gianfranco Ravasi

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« E VOI, CHI DITE CHE IO SIA? »

FIN DALL’INFANZIA UN VOLTO COMINCIA A SVELARSI

Gianfranco Ravasi

«Il Cristo ci ha collocati di fronte al mistero, ci ha posti definitivamente nella situazione dei suoi discepoli di fronte alla domanda: Ma voi, chi dite che io sia?». Queste parole, che raffigurano in modo limpido e immediato ogni esperienza di incontro e di scontro con Cristo, sono di uno scrittore che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente, Mario Pomilio, che le ha poste all’interno del suo Quinto evangelio. Ebbene, quella domanda affiorata sulle labbra di Gesù a Cesarea di Filippo non attraversa solo i secoli ma riecheggia nell’intimità di ogni persona. E la risposta è data in mille forme, talora sorprendenti, altre volte sconcertanti. A me ha sempre fatto impressione quella che Kafka ha offerto all’amico Gustav Janouch: «Cristo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi».

Modesta e marginale, la mia testimonianza – come per quella di altri – può risultare impacciata proprio perché la domanda artiglia la coscienza nel suo segreto e « pesca » in quella profondità dove domina il silenzio personale, l’intimità, forse anche l’inesprimibile. Due considerazioni sono, però, possibili e immediate. Innanzitutto la mia esperienza è quella di un credente e di un sacerdote, cioè di una persona che ha pur sempre coinvolto se stessa, la sua identità, la sua vicenda umana intrecciandola con quella di Gesù Cristo. In questa dimensione l’elemento fondamentale è paradossalmente esterno all’ « io » del testimone. È illuminante in questo senso Paolo quando descrive la sua « via di Damasco » usando due verbi di rivelazione e uno di lotta: «Cristo è apparso anche a me (…) Dio si degnò di rivelarmi suo Figlio (… )Sono stato afferrato da Cristo Gesù» (Corinzi 15,8; Galati 1,16; Filippesi 3,12).

Detto in altri termini, all’inizio dell’incontro con Cristo c’è « un’epifania », cioè non la mia ricerca ma il suo apparire. Per questo un filosofo credente come Soeren Kierkegaard alla data 16 agosto 1839 del suo Diario invocava: «Gesù, vieni in cerca di me sui sentieri dei miei travisamenti ove io mi nascondo a te e agli uomini!». Nella mia esperienza interiore c’è proprio questo svelarsi del divino non tanto su una via folgorata dalla voce celeste, come per Paolo, quanto piuttosto in una serie di pacate e delicate « epifanie » che affiorano fin dall’infanzia. E curiosamente esse si insediano in uno spirito che portava con sé – allora in forma intuitiva ed esile – già un senso intenso della fragilità della vita e delle cose, del fluire del tempo e dell’inconsistenza della realtà.

Davanti a un frutto che si decomponeva, al fischio di un treno che lacerava la notte e si spegneva, al primo incontro con la morte, alle sofferenze della guerra, al padre assente perché perseguitato politico, nel mio animo infantile non cresceva la desolazione o la tristezza naturale ma lentamente si configurava quell’ « epifania » inattesa e ancora informe. È stato ancora Paolo a farmi capire in seguito questo contrasto e la sua pacificazione quando, stupendosi lui stesso delle parole di Isaia (« il profeta osa dire ») scriveva questa « confessione » divina: «Io, il Signore, mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano, mi sono rivelato anche a quelli che non si rivolgevano a me!» (Romani 10,20). Prima della risposta alla domanda « Ma voi, chi dite che io sia? », Cristo aveva per me (e per tutti) già detto chi egli realmente fosse.

In principio c’è, dunque, la sua parola che ti scuote e sconcerta. Certo è sempre possibile rivolgere altrove lo sguardo e ostruire l’orecchio con altre voci e suoni e questa è pure una storia mia e un po’ di tutti nell’itinerario degli anni, nei percorsi non sempre lineari della vita. Per questo ritengo altrettanto capitale un’altra domanda di Gesù, quella di Cafarnao. Essa è diventata il titolo di una « vita di Cristo » di un altro scrittore a me particolarmente caro, Luigi Santucci: Volete andarvene anche voi? E’ un interrogativo che viene fatto serpeggiare tra i discepoli proprio dopo una grande « epifania », quella della continua presenza di Cristo sotto il segno del pane e del vino eucaristici. Un interrogativo che non sempre ha la pronta replica di Pietro: «Da chi mai andremo? Tu solo hai parole di vita eterna!». Tuttavia anche se si va altrove, Cristo non cessa di seguirci, con discrezione o con insistenza. Quando in seguito mi dedicai allo studio teologico, mi fece impressione una frase di Dietrich Bonhoeffer, il teologo ucciso dai nazisti, che nella sua Cristologia annotava: «Cristo non è tale in quanto Cristo-per sé, ma nel suo riferimento a me. Il suo esser-Cristo è il suo esser-per me».

Nella mia storia personale c’è, però, una seconda dimensione che devo mettere in luce ed è quello dell’essere stato un esegeta, cioè uno studioso delle Scritture Sacre e quindi delle parole evangeliche di Cristo. Già da ragazzo – avevo cominciato a studiare il greco da solo subito dopo le scuole elementari – mi avevano affascinato quelle 64327 parole greche che compongono i quattro Vangeli. In seguito quei versetti furono da me sempre più approfonditi; scoprivo nuove iridescenze in ogni termine e lentamente si configurava un profilo di Cristo che coniugava in sé due fisionomie. Da un lato, c’era la figura di Gesù di Nazareth, il rabbì ambulante le cui labbra dicevano cose sorprendenti ma in una lingua « barbarica » e concreta, le cui mani compivano gesti straordinari ma non « pubblicitari », i cui piedi seguivano una meta grandiosa e celeste ma calpestavano le polverose strade della Palestina, i cui interlocutori erano spesso un’accolta di miserabili o di altezzosi burocrati del sacro e della legge e persino dei traditori. Mi ha a lungo interessato – per usare una terminologia più « tecnica » – il Gesù storico, così come è rintracciabile attraverso l’analisi critica dei testi evangelici.

D’altro lato, però, c’è la figura di Cristo, Figlio di Dio, che offre un volto illuminato dallo splendore della Pasqua. I Vangeli sono innanzitutto un canto al risorto che sboccia dall’incontro con lui, dalla fede e dall’annuncio gioioso. Mi sono, perciò, impegnato nel sottolineare, anche attraverso i miei scritti, le conferenze e una quasi decennale presenza televisiva, questo aspetto che in passato era talmente dominante da diventare esclusivo, così da cancellare il volto storico di Cristo, ma che in questi ultimi tempi è stato quasi messo tra parentesi. Prima una certa visione « sociologica », poi una concezione storicistica e apologetica si è protesa a dimostrare il Gesù storico, nella convinzione che solo così si fondasse la vera Cristologia. Ebbene, Gesù Cristo è uno ma in due nature; ogni divisione lo impoverisce e lo allontana. Egli è uno di noi e con noi ma è anche oltre noi e sopra di noi. E’ per usare il vocabolario di Giovanni, Logos, « parola » perfetta e suprema divina, ed è sarx, « carne » e storia. Conservare l’unità di Gesù Cristo, senza scindere la sua persona in un Gesù nazaretano e in un Cristo pasquale è un compito importante di chi annunzia il Vangelo con fedeltà.

Lo studio esegetico, perciò, non è un freddo esercizio filologico (anche se suppone uno scavo nel testo con rigore e finezza). E’ anche un’avventura del nostro spirito che è invitato a rispondere alla domanda di Cesarea da cui siamo partiti. Mi è sempre piaciuta una frase del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein: «Ho voluto indagare i contorni di un’isola; ma ciò che ho scoperto sono i confini dell’Oceano». Si comincia conoscendo un linguaggio concreto, una figura datata e circoscritta a quell’antica provincia dell’Impero romano, eventi e dati storici, ma alla fine ci si accorge che quella persona è immersa nell’Oceano della divinità, è appunto « il Cristo, il Figlio del Dio vivente », come rispose in quel giorno Pietro, figlio di Giona.

(Cenni biografici – Gianfranco Ravasi, nato nel 1942, sacerdote della diocesi di Milano dal 1966, è Prefetto della Biblioteca Ambrosiana, docente di esegesi Biblica alla facoltà Teologica dell’Italia settentrionale e membro della Pontificia Commissione Biblica. Scrittore prolifico, è autore di numerosissimi libri e di trasmissioni televisive. cura la rubrica « Mattutino » nella prima pagina del quotidiano Avvenire).

IL PRESEPE AIUTA A RECUPERARE LA TEOLOGIA DELLO SGUARDO

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IL PRESEPE AIUTA A RECUPERARE LA TEOLOGIA DELLO SGUARDO

Il presepe è strettamente legato alla peculiarità del cristianesimo ed, in particolare, al mistero dell’incarnazione, realtà storica umanamente inimmaginabile, attraverso la quale Dio non appare come uomo ma si fa davvero uomo. Il cristianesimo, quindi, non è affatto una religione spiritualista ma, al contrario, pone attenzione alla carnalità e alla concretezza dei segni. Il presepe è un simbolo strettamente legato al mistero dell’incarnazione di Nostro Signore. Ma è anche un importante elemento di rafforzamento della cultura cristiana, specie nella sua dimensione pubblica. Sulla mistica dell’arte presepiale, ancora molto popolare in Italia, ZENIT ha intervistato il prof. Corrado Gnerre, docente di Storia delle Dottrine teologiche all’Università Europea di Roma (UER).  Qual è la cultura che fa da sfondo alla nascita dell’arte presepiale? Prof. Guerre: Il presepe è strettamente legato alla peculiarità del cristianesimo ed, in particolare, al mistero dell’incarnazione, realtà storica umanamente inimmaginabile, attraverso la quale Dio non appare come uomo ma si fa davvero uomo. Il cristianesimo, quindi, non è affatto una religione spiritualista ma, al contrario, pone attenzione alla carnalità e alla concretezza dei segni. San Bernardo di Chiaravalle affermava che, essendo noi carnali, il Signore fa sì che il nostro essere si manifesti anche nelle cose.  Il Medioevo, epoca in cui nasce l’arte presepiale, si caratterizza per una spiccata cultura del segno e della carnalità: si pensi al culto delle reliquie. Anche nelle crociate, fenomeno storicamente assai complesso, c’è un elemento di simbologia concreta e di carnalità: l’impossibilità di accedere al Santo Sepolcro di Nostro Signore, aveva indotto i cristiani di quel tempo a battersi per il recupero di quel simbolo sacro ma, al tempo stesso tangibile e concreto.  Con riguardo al presepe è noto che la prima rappresentazione della Natività fu realizzata da San Francesco a Greccio, nel 1223. Un confratello domandò a San Francesco se fosse giusto rispettare l’astinenza dalle carni, visto che quell’anno il 25 dicembre cadeva di venerdì. La risposta del santo patrono d’Italia fu inequivocabile: “Oggi anche i muri devono mangiare carne, vanno spalmati di carne…”.  La cultura secolarizzata tende a svalutare l’arte presepiale. A cosa è dovuto ciò? Prof. Guerre: È un fenomeno tipico della mentalità protestante che rifiuta sia la rappresentazione simbolica del sacro che la devozione mariana. La Vergine Maria è protagonista irrinunciabile del presepe. In fin dei conti il cattolicesimo, articolandosi sul culto mariana, è in armonia con la psicologia femminile che attribuisce importanza al valore dei segni e dei simboli concreti, laddove la mentalità maschile è più portata all’astrazione.  Per quale motivo, anche ai giorni nostri, è utile valorizzare il presepe? Prof. Guerre: In primo luogo perché l’arte presepiale è segno di un’identità culturale che va manifestata pubblicamente: il cristianesimo non è fatto per rimanere confinato nell’intimo della nostra coscienza. La mentalità secolare di oggi tende, al contrario, a cancellare la valenza pubblica dell’esperienza cristiana e a trasformare il cristianesimo in un mito. In secondo luogo il presepe può aiutare a recuperare l’essenza stessa della teologia cattolica, ovvero la teologia dello sguardo. Guardare un oggetto significa porre la propria intelligenza a confronto con la realtà che osserviamo. Lo sguardo aiuta a conoscere la realtà senza avere la pretesa di comprenderla integralmente, conservando l’elemento dello stupore, tipico della fanciullezza. Non a caso Gesù dice: “Se non tornerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli (Mt 18, 3)”. Guardare, quindi, non significa constatare freddamente. Tutto può essere conosciuto ma non tutto può essere compreso: gli stessi misteri della fede ci spingono a indagare sulla loro ragionevolezza ma non possiamo esigere di comprenderli fino in fondo. L’approccio alla Verità non può ridursi alla dimensione intellettuale: Dio non ci giudicherà in base alla nostra conoscenza, quanto all’apertura del nostro cuore al mistero.  La teologia dello sguardo, cui ho fatto accenno, ha ispirato i grandi dottori della Chiesa che vivevano la loro ricerca intellettuale in simbiosi con la preghiera. Penso a San Tommaso d’Aquino che studiava davanti al Santissimo Sacramento e, qualora incontrasse difficoltà di comprensione o riflessione, rivolgeva lo sguardo, verso il tabernacolo.  Come si manifesta la teologia dello sguardo nell’arte presepiale? Prof. Guerre: Teologicamente è più importante l’incarnazione, tuttavia con la sua nascita il Signore ha potuto rivelarsi e farsi guardare. Non è un caso che tutti i personaggi del presepe hanno lo sguardo rivolto al Bambino Gesù. Dallo sguardo scaturisce la dimensione della sequela, ovvero il legame intimo con Cristo: credere in Lui è dimensione necessaria ma non sufficiente, dobbiamo convivere con Lui. La riproduzione plastica del presepe, pertanto, non è la semplice rievocazione della Natività, ma la celebrazione della continua novità del nostro innesto in Lui (“Io sono la vite, voi i tralci”, Gv 15, 5).  Quindi ogni personaggio ha una sua dignità e una sua importanza nell’economia della rappresentazione presepiale. Prof. Guerre: Certamente. La composizione del presepe richiede una grandissima attenzione ai particolari. Chi lo osserva deve calarsi nella realtà concreta della Natività, immaginare l’odore della paglia, il vagito di Gesù Bambino, ecc. Il Dio cristiano, infatti, è il Dio del particolare, in quanto non ci ama astrattamente ma presi nella nostra singolarità. Dio, Signore dell’Universo, crea e ama ogni singola creatura facendone il proprio universo. Questa teologia del particolare è legata al paradosso di un Dio bambino.  In che misura il presepe può diventare uno strumento di dialogo interreligioso e di apostolato in una società multirazziale e multiculturale? Prof. Guerre: La società multirazziale è un dato di fatto, mentre la società multiculturale è pericolosa in quanto preludio e sintomo di relativismo. Pertanto, valorizzare l’arte presepiale può aiutare a recuperare l’affezione verso la nostra cultura e a rafforzare la nostra identità, evitando che la società multirazziale degeneri in società multiculturale.    

Publié dans:NATALE 2013, TEOLOGIA |on 29 décembre, 2013 |Pas de commentaires »

IL MISTERO DELLA SAPIENZA CHE ABITA CON NOI (II domenica dopo Natale 2011)

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IL MISTERO DELLA SAPIENZA CHE ABITA CON NOI

(RIFLESSIONE SULLA DIVINA INFANZIA)

PADRE GIAN FRANCO SCARPITTA 

II DOMENICA DOPO NATALE (02/01/2011)

Vangelo: Gv 1,1-18 (forma breve Gv 1,1-5.9-14)  

Seconda Domenica dopo Natale. Continua la riflessione sulla Divina Infanzia, prosegue il fascino del mistero dell’Incarnazione di Dio che entra nella nostra storia e la percorre fin dall’infanzia per saggiarne in prima persona tutte le tappe e apportarvi la novità della salvezza. Ma solo adesso forse siamo invitati a capovolgere il punto di vista sul Natale, nel senso che la nostra riflessione si svolge in senso discendente: non più dalla terra (dalla grotta) al cielo, ma… dal cielo alla grotta. Chi è infatti questo Bambino che stiamo contemplando nel presepe ormai da tanti giorni? La Prima Lettura di questa Domenica ci offre una risposta, anche se richiama un altro passo significativo: egli è la Sapienza che era esistente quando Dio creava il mondo; essa conosce che cosa è gradito ai tuoi occhi e ciò che è conforme ai tuoi decreti »; la Sapienza cioè che esisteva in Dio fin dall’eternità e che ha deciso di scegliersi una dimora in mezzo a noi: Sapienza eterna che è entrata nel tempo venendo a porre la propria tenda in mezzo a noi. Come affermerà infatti Paolo, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio (1 Cor 1,24-30; Ef 3,1) perché generato non creato ma della medesima sostanza divina, il Verbo di Dio che si è fatto uomo. La Sapienza che era presente al momento della creazione viene associata nella Scrittura al Verbo e identificata con Esso, sia per l’eternità che la caratterizza sia soprattutto per la « dimora » che essa viene ad instaurare in mezzo agli uomini; essa non può essere allora che il Verbo di Dio incarnato che prende il nome di Gesù e che ci raggiunge nella dimensione storica dell’era di Augusto e nella geografia della cittadina di Betlemme dove avviene questo evento straordinario in una grotta sperduta. E’ significativo considerare che il mistero della grotta di Betlemme muove dall’eternità e riguardi qualcosa di inafferrabile e di inconcepibile relativamente a noi che tuttavia ne siamo resi partecipi: un ricco possidente non parla mai a nessuno dei suoi subalterni dei suoi forzieri, tanto meno della propria camera o del suo letto; al contrario Dio ci parla di se stesso a Betlemme nonostante la sua ineffabilità e grandezza, e nonostante la sua natura non abbia nulla di compatibile con quella dell’uomo. Certo, Dio resta sempre un mistero racchiuso in se stesso, che non potremo mai circoscrivere né determinare, ma questo mistero ci viene tuttavia svelato a Betlemme e siamo resi capaci di conoscerlo. « Mistero » è infatti qualcosa che appartiene alla sola sfera del divino e di cui noi non possiamo parlare se non nella misura in cui Dio ce lo consente; nessuno può parlare adeguatamente di Dio se non in conseguenza della sua Rivelazione e non si potrà mai raggiungere la verità se essa stessa non ci avesse raggiunti.,Ma che cos’è il Natale, visto dalla prospettiva discendente? E’ appunto un mistero, qualcosa di cui solo Dio ha diritto di sapere, perché insondabile per le nostre povere forze eppure di esso veniamo resi partecipi in quell’evento della grotta che dice espressamente tutto: Dio è amore e per amore si è umiliato fino a farsi uomo, anzi Bambino. Nella grotta l’arcano di Dio viene reso manifesto all’uomo e questi viene raggiunto da tanta confidenza divina; nell’avvenimento di Betlemme il Mistero insondabile ci consente di parlare di se stesso anche se non si esaurisce per noi. E’ il mistero di tutta l’Eternità che entra nel tempo, pur restando eternità. Tale cambiamento di prospettiva ci consente anche di immedesimarci in una ricchezza immensa della quale solo Dio è capace e che si rende tutta disponibile per l’uomo, perché nel Verbo Incarnato nonché sapienza increata l’uomo scopre le proprie risorse e si sente incoraggiato nel sapersi amato da Dio. E infatti il prologo al Vangelo di Giovanni insiste sul « Verbo, che era presso Dio e che era Dio… si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi », a convivere con noi diventando in tutto simile a noi per proporsi come nostro orientamento, cioè come luce che rifulge nelle tenebre per averne ragione e per dissiparle: la presenza di Dio incarnato è finalizzata a che l’uomo possa ritrovare se stesso senza brancolare nel buio ma affidarsi alla luce che scaturisce solo dall’Alto. La Sapienza è considerata nella Bibbia il dono più grande che Dio possa concedere in quanto essa è la prerogativa che ci conduce a giudicare con saggezza, obiettività, moderazione secondo la volontà di Dio per poi agire secondo una condotta di verità e di giustizia ben distante dalle aspettative umane; Cristo sapienza di Dio percorre i nostri medesimi sentieri per illuminarci egli stesso con la sua vita, con le sue parole e le opere di misericordia affinché non solamente possiamo realizzare la volontà di Dio, ma per mezzo di lui possiamo anche accedere a Dio. Davanti al fascino del mistero che ci si dischiude e che si fa toccare con mano, da parte nostra non possiamo che darci alla semplicità di un solo atto di adesione libera nella fede, concedendo noi stessi e la nostra vita al Dio Sapienza che ci illumina e ci accompagna.

SANTA MESSA DI MEZZANOTTE 2008, OMELIA – PAPA BENEDETTO

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2008/documents/hf_ben-xvi_hom_20081224_christmas_it.html  

SANTA MESSA DI MEZZANOTTE

SOLENNITÀ DEL NATALE DEL SIGNORE

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana

Giovedì, 25 dicembre 2008

Cari fratelli e sorelle!

“Chi è pari al Signore nostro Dio che siede nell’alto e si china a guardare nei cieli e sulla terra?” Così canta Israele in uno dei suoi Salmi (113 [112], 5s), in cui esalta insieme la grandezza di Dio e la sua benevola vicinanza agli uomini. Dio dimora nell’alto, ma si china verso il basso… Dio è immensamente grande e di gran lunga al di sopra di noi. È questa la prima esperienza dell’uomo. La distanza sembra infinita. Il Creatore dell’universo, Colui che guida il tutto, è molto lontano da noi: così sembra inizialmente. Ma poi viene l’esperienza sorprendente: Colui al quale nessuno è pari, che “siede nell’alto”, Questi guarda verso il basso. Si china in giù. Egli vede noi e vede me. Questo guardare in giù di Dio è più di uno sguardo dall’alto. Il guardare di Dio è un agire. Il fatto che Egli mi vede, mi guarda, trasforma me e il mondo intorno a me. Così il Salmo continua immediatamente: “Solleva l’indigente dalla polvere…” Con il suo guardare in giù Egli mi solleva, benevolmente mi prende per mano e mi aiuta a salire, proprio io, dal basso verso l’alto. “Dio si china”. Questa parola è una parola profetica. Nella notte di Betlemme, essa ha acquistato un significato completamente nuovo. Il chinarsi di Dio ha assunto un realismo inaudito e prima inimmaginabile. Egli si china – viene, proprio Lui, come bimbo giù fin nella miseria della stalla, simbolo di ogni necessità e stato di abbandono degli uomini. Dio scende realmente. Diventa un bambino e si mette nella condizione di dipendenza totale che è propria di un essere umano appena nato. Il Creatore che tutto tiene nelle sue mani, dal quale noi tutti dipendiamo, si fa piccolo e bisognoso dell’amore umano. Dio è nella stalla. Nell’Antico Testamento il tempio era considerato quasi come lo sgabello dei piedi di Dio; l’arca sacra come il luogo in cui Egli, in modo misterioso, era presente in mezzo agli uomini. Così si sapeva che sopra il tempio, nascostamente, stava la nube della gloria di Dio. Ora essa sta sopra la stalla. Dio è nella nube della miseria di un bimbo senza albergo: che nube impenetrabile e tuttavia – nube della gloria! In che modo, infatti, la sua predilezione per l’uomo, la sua preoccupazione per lui potrebbe apparire più grande e più pura? La nube del nascondimento, della povertà del bambino totalmente bisognoso dell’amore, è allo stesso tempo la nube della gloria. Perché niente può essere più sublime, più grande dell’amore che in questa maniera si china, discende, si rende dipendente. La gloria del vero Dio diventa visibile quando ci si aprono gli occhi del cuore davanti alla stalla di Betlemme. Il racconto del Natale secondo san Luca, che abbiamo appena ascoltato nel brano evangelico, ci narra che Dio ha un po’ sollevato il velo del suo nascondimento dapprima davanti a persone di condizione molto bassa, davanti a persone che nella grande società erano piuttosto disprezzate: davanti ai pastori che nei campi intorno a Betlemme facevano la guardia agli animali. Luca ci dice che queste persone “vegliavano”. Possiamo così sentirci richiamati a un motivo centrale del messaggio di Gesù, in cui ripetutamente e con crescente urgenza fino all’Orto degli ulivi torna l’invito alla vigilanza – a restare svegli per accorgersi della venuta del Signore ed  esservi preparati. Pertanto anche qui la parola significa forse più del semplice essere esternamente svegli durante l’ora notturna. Erano persone veramente vigilanti, nelle quali il senso di Dio e della sua vicinanza era vivo. Persone che erano in attesa di Dio e non si rassegnavano all’apparente lontananza di Lui nella vita di ogni giorno. Ad un cuore vigilante può essere rivolto il messaggio della grande gioia: in questa notte è nato per voi il Salvatore. Solo il cuore vigilante è capace di credere al messaggio. Solo il cuore vigilante può infondere il coraggio di incamminarsi per trovare Dio nelle condizioni di un bambino nella stalla. Preghiamo in quest’ora il Signore affinché aiuti anche noi a diventare persone vigilanti. San Luca ci racconta inoltre che i pastori stessi erano “avvolti” dalla gloria di Dio, dalla nube di luce, si trovavano nell’intimo splendore di questa gloria. Avvolti dalla nube santa ascoltano il canto di lode degli angeli: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini della sua benevolenza”. E chi sono questi uomini della sua benevolenza se non i piccoli, i vigilanti, quelli che sono in attesa, sperano nella bontà di Dio e lo cercano guardando verso di Lui da lontano? Nei Padri della Chiesa si può trovare un commento sorprendente circa il canto con cui gli angeli salutano il Redentore. Fino a quel momento – dicono i Padri – gli angeli avevano conosciuto Dio nella grandezza dell’universo, nella logica e nella bellezza del cosmo che provengono da Lui e Lo rispecchiano. Avevano accolto, per così dire, il muto canto di lode della creazione e l’avevano trasformato in musica del cielo. Ma ora era accaduta una cosa nuova, addirittura sconvolgente per loro. Colui di cui parla l’universo, il Dio che sostiene il tutto e lo porta in mano – Egli stesso era entrato nella storia degli uomini, era diventato uno che agisce e soffre nella storia. Dal gioioso turbamento suscitato da questo evento inconcepibile, da questa seconda e nuova maniera in cui Dio si era manifestato – dicono i Padri – era nato un canto nuovo, una strofa del quale il Vangelo di Natale ha conservato per noi: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini”. Possiamo forse dire che, secondo la struttura della poesia ebraica, questo doppio versetto nei suoi due brani dice in fondo la stessa cosa, ma da un punto di vista diverso. La gloria di Dio è nel più alto dei cieli, ma questa altezza di Dio si trova ora nella stalla, ciò che era basso è diventato sublime. La sua gloria è sulla terra, è la gloria dell’umiltà e dell’amore. E ancora: la gloria di Dio è la pace. Dove c’è Lui, là c’è pace. Egli è là dove gli uomini non vogliono fare in modo autonomo della terra il paradiso, servendosi a tal fine della violenza. Egli è con le persone dal cuore vigilante; con gli umili e con coloro che corrispondono alla sua elevatezza, all’elevatezza dell’umiltà e dell’amore. A questi dona la sua pace, perché per loro mezzo la pace entri in questo mondo. Il teologo medioevale Guglielmo di S. Thierry ha detto una volta: Dio – a partire da Adamo – ha visto che la sua grandezza provocava nell’uomo resistenza; che l’uomo si sente limitato nel suo essere se stesso e minacciato nella sua libertà. Pertanto Dio ha scelto una via nuova. È diventato un Bambino. Si è reso dipendente e debole, bisognoso del nostro amore. Ora – ci dice quel Dio che si è fatto Bambino – non potete più aver paura di me, ormai potete soltanto amarmi. Con tali pensieri ci avviciniamo in questa notte al Bambino di Betlemme – a quel Dio che per noi ha voluto farsi bambino. Su ogni bambino c’è il riverbero del bambino di Betlemme. Ogni bambino chiede il nostro amore. Pensiamo pertanto in questa notte in modo particolare anche a quei bambini ai quali è rifiutato l’amore dei genitori. Ai bambini di strada che non hanno il dono di un focolare domestico. Ai bambini che vengono brutalmente usati come soldati e resi strumenti della violenza, invece di poter essere portatori della riconciliazione e della pace. Ai bambini che mediante l’industria della pornografia e di tutte le altre forme abominevoli di abuso vengono feriti fin nel profondo della loro anima. Il Bambino di Betlemme è un nuovo appello rivolto a noi, di fare tutto il possibile affinché finisca la tribolazione di questi bambini; di fare tutto il possibile affinché la luce di Betlemme tocchi i cuori degli uomini. Soltanto attraverso la conversione dei cuori, soltanto attraverso un cambiamento nell’intimo dell’uomo può essere superata la causa di tutto questo male, può essere vinto il potere del maligno. Solo se cambiano gli uomini, cambia il mondo e, per cambiare, gli uomini hanno bisogno della luce proveniente da Dio, di quella luce che in modo così inaspettato è entrata nella nostra notte. E parlando del Bambino di Betlemme pensiamo anche alla località che risponde al nome di Betlemme; pensiamo a quel Paese in cui Gesù ha vissuto e che Egli ha amato profondamente. E preghiamo affinché lì si crei la pace. Che cessino l’odio e la violenza. Che si desti la comprensione reciproca, si realizzi un’apertura dei cuori che apra le frontiere. Che scenda la pace di cui hanno cantato gli angeli in quella notte. Nel Salmo 96 [95] Israele, e con esso la Chiesa, lodano la grandezza di Dio che si manifesta nella creazione. Tutte le creature vengono chiamate ad aderire a questo canto di lode, e allora lì si trova anche l’invito: “Si rallegrino gli alberi della foresta davanti al Signore che viene” (12s). La Chiesa legge anche questo Salmo come una profezia e, insieme, come un compito. La venuta di Dio a Betlemme fu silenziosa. Soltanto i pastori che vegliavano furono per un momento avvolti nello splendore luminoso del suo arrivo e poterono ascoltare una parte di quel canto nuovo che era nato dalla meraviglia e dalla gioia degli angeli per la venuta di Dio. Questo venire silenzioso della gloria di Dio continua attraverso i secoli. Là dove c’è la fede, dove la sua parola viene annunciata ed ascoltata, Dio raduna gli uomini e si dona loro nel suo Corpo, li trasforma nel suo Corpo. Egli “viene”. E così si desta il cuore degli uomini. Il canto nuovo degli angeli diventa canto degli uomini che, attraverso tutti i secoli in modo sempre nuovo, cantano la venuta di Dio come bambino e, a partire dal loro intimo, diventano lieti. E gli alberi della foresta si recano da Lui ed esultano. L’albero in Piazza san Pietro parla di Lui, vuole trasmettere il suo splendore e dire: Sì, Egli è venuto e gli alberi della foresta lo acclamano. Gli alberi nelle città e nelle case dovrebbero essere più di un’usanza festosa: essi indicano Colui che è la ragione della nostra gioia – il Dio che viene, il Dio che per noi si è fatto bambino. Il canto di lode, nel più profondo, parla infine di Colui che è lo stesso albero della vita ritrovato. Nella fede in Lui riceviamo la vita. Nel Sacramento dell’Eucaristia Egli si dona a noi – dona una vita che giunge fin nell’eternità. In quest’ora noi aderiamo al canto di lode della creazione e la nostra lode è allo stesso tempo una preghiera: Sì, Signore, facci vedere qualcosa dello splendore della tua gloria. E dona la pace sulla terra. Rendici uomini e donne della tua pace. Amen. 

25 DICEMBRE 2013 – SANTO NATALE – OMELIA DI APPROFONDIMENTO

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/Anno_A-2014/2-Natale-A-2013/Omelie/01-Santo-Natale-A-2013-SC.html

25 DICEMBRE 2013 | SANTO NATALE | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

NATALE DEL SIGNORE

« Andiamo fino a Betlemme… » Tutto in Cristo è grande, anzi « troppo » grande per la nostra misura di comprensione e di ammirazione. E questo, nonostante che egli si sia fatto « carne » (cf Gv 1,14) umana, in tutto « simile a noi » (Eb 4,15). Però proprio questa « umanizzazione » porta con sé il senso del mistero e della sorpresa: « perché » si è fatto uno di noi, lui che è al di sopra e al di fuori di tutti noi? Nel momento in cui egli ci si avvicina, avvertiamo anche che ci sovrasta all’infinito, ci sfugge, si nasconde a noi. C’è da domandarsi se il Natale ce lo « sveli » più di quello che non ce lo « veli »! È l’eterno gioco del « mistero » di Dio quando si apre all’uomo. La stessa Liturgia del Natale avverte questa « ineffabilità » della venuta di Cristo in mezzo a noi e con la possibilità della triplice celebrazione eucaristica, tipica della festività odierna, tenta di introdurre i fedeli a percepire e a gustare qualcuno dei molteplici aspetti che costituiscono la infinità del mistero dell’Incarnazione. Per la nostra riflessione seguiremo i testi liturgici della seconda Messa, detta dell’aurora, che è molto più concisa delle altre due, ma non meno ricca di contenuto teologico e spirituale. Soprattutto le Orazioni sono frementi di gioia e come inebriate della grande festa di « luce » che è il Natale. « Signore, Dio onnipotente, che ci avvolgi della nuova luce del tuo Verbo fatto uomo, fa’ che risplenda nelle nostre opere il mistero della fede che rifulge nel nostro spirito », preghiamo nella Colletta: è la dilatazione della « luce », che ci è penetrata nella mente e nel cuore mediante la fede, alle opere della vita, che supplichiamo dal Signore. Il Natale si celebra vivendolo! Lo stesso pensiero ricorre nella Orazione dopo la Comunione: « O Dio, che ci hai radunato a celebrare in devota letizia la nascita del tuo Figlio, concedi alla tua Chiesa di conoscere con la fede le profondità del tuo mistero, e di viverlo con amore intenso e generoso ». Il « vivere » è sempre conseguente al « conoscere »: la cosa più grossa è scoprire che cosa significhi la « nascita » umana di Cristo; non appena avremo percepito qualcosa di questo « mistero », sarà tutta la nostra vita ad esserne come travolta e capovolta. Ci accorgeremo subito che non potremo celebrare il Natale del Signore senza « nascere » di nuovo anche noi con lui. Anche le letture bibliche, pur nella loro concisione, portano avanti molto efficacemente questo tipo di riflessioni che abbiamo appena accennato.

« Quando si è manifestato il suo amore per gli uomini » Incominciamo dalla seconda, che è ripresa dalla Lettera a Tito, in cui san Paolo, in un contesto in cui parla dei doveri generali dei fedeli, ricorda quale « rinnovamento » ha prodotto Cristo nella nostra vita, allorché si è « manifestato » in mezzo a noi: « Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, traviati… ». È chiaro che per Paolo tutta l’iniziativa della nostra salvezza risale esclusivamente all’amore di Dio, concretizzatosi nell’Incarnazione del Cristo. Sia il Padre che Cristo vengono chiamati « Salvatore nostro » (vv. 3 e 6), con un’innovazione piuttosto ardita: mentre, infatti, normalmente nell’epistolario paolino solo Dio viene detto « Salvatore »,1 nella nostra lettera tale appellativo viene dato anche a Cristo.2 E questo non soltanto per affermarne l’eguale dignità insieme al Padre, ma anche per mettere in evidenza la « grandezza » della salvezza che ci è stata donata; essa è opera del Padre e del Figlio. Anzi, anche dello Spirito Santo, che « è stato effuso su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo » (v. 6). Il « dono » dello Spirito continua e dilata quello dell’Incarnazione, che in tal modo non rimane un evento grandioso, ma isolato nella storia, senza punti di contatto e di riferimento con i singoli credenti: mediante lo Spirito ognuno di noi, in questa festa di Natale, può risalire alle sorgenti dell’amore, può di nuovo sperimentare e assorbire in sé tutta la forza di quella « bontà » (v. 4) che spinse Dio a progettare e a realizzare quel « primo » Natale, che non cesserà mai di sorprendere gli uomini di tutti i tempi. Non dimentichiamo quello che san Paolo dice così meravigliosamente altrove: « L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato » (Rm 5,5). Proprio perché « dono » dell’amore, lo Spirito è capace di rivelarci e di farci ripercorrere tutte le vie dell’amore attraverso una interiore « degustazione » e anche attraverso una maggiore penetrazione del senso della Liturgia. In tale prospettiva non è senza significato il sottolineare che in questo piccolo brano ricorrono ben tre sostantivi per designare la « benevolenza », completamente gratuita, del Padre verso di noi, di fronte alla quale non hanno rilevanza alcuna le « opere di giustizia » che eventualmente potessimo anche aver « compiuto » (v. 5): il Natale ha senso soltanto perché da sé l’uomo non avrebbe mai potuto e saputo salvarsi! I tre sostantivi sono: la « bontà di Dio », il « suo amore per gli uomini » (v. 4), la « sua misericordia » (v. 5). Soprattutto il secondo è significativo: in greco abbiamo philanthropía, che forse sarebbe stato anche meglio lasciare tale e quale, proprio perché tutti ne conoscono il significato. E Dio non è stato « filantropo » in forma arida e distaccata, ma ha « amato » gli uomini fino a diventare uno di loro: ha davvero saputo mettersi nei nostri panni! Proprio per questo egli ci comprende e ci perdona. D’altra parte, appunto perché è diventato uno di noi, non potrà mai respingerci: direi che, nonostante tutto, Dio è come costretto ad amare gli uomini, perché per il mistero dell’Incarnazione egli si è mescolato a ognuno di noi.

« Riconosci, o cristiano, la tua dignità » Ma c’è un’altra cosa da osservare in questo brano: ed è il riferimento al Battesimo, che viene presentato come il « lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo » (v. 5). Non è del Battesimo in genere che vogliamo qui parlare, ma solo in quanto dice riferimento al mistero del Natale: i termini adoperati per descriverlo ci rimandano, infatti, all’idea di una « nuova » nascita (« rigenerazione »: in greco palinghenesía) e di una « novità » di vita (« rinnovamento »). Tutto questo sta a dire che per i credenti il loro « natale » coincide con il Battesimo: in quel momento essi sono « rinati » in Cristo. È per il Battesimo che noi ci appropriamo del mistero dell’Incarnazione, così come è per l’Incarnazione che Gesù si appropria della nostra natura umana. È di qui che deriva tutta la nostra grandezza, così come l’impegno a vivere secondo lo stile di questa « nuova » vita offertaci da Cristo per mezzo del suo Natale. Era quanto ricordava san Leone Magno ai cristiani del suo tempo: « Riconosci, o cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all’abiezione di un tempo con una condotta indegna. Ricordati chi è il tuo Capo e di quale Corpo sei membro… Con il sacramento del Battesimo sei diventato tempio dello Spirito Santo! ».3

« Li chiameranno popolo santo » Anche la prima breve lettura, ripresa da Isaia, può e deve essere letta in questa chiave di « rinnovamento » nella « santità », annunciata dal Profeta per la Gerusalemme dei tempi ultimi, quando gli esiliati ritorneranno finalmente alla loro terra dalla schiavitù di Babilonia: « Dite alla figlia di Sion: Ecco, arriva il tuo Salvatore… Li chiameranno popolo santo, redenti dal Signore. E tu sarai chiamata « ricercata », « città non abbandonata »" (Is 62,11.12). Al di là di queste immagini, è evidente il rimando alla tematica degli « sponsali » fra Dio e il suo popolo (cf Is 54,6-7, ecc.). La Incarnazione è la espressione massima dell’ »innamoramento » di Dio verso gli uomini: davvero nel Natale Cristo ha « sposato » ognuno di noi per attirarci nell’intimità della sua vita e del suo amore!

« Ecco, vi annunzio una grande gioia » Il brano di Vangelo, anch’esso molto rapido, quasi che la Liturgia non volesse disperdere in dettagli secondari o troppo assorbenti la nostra attenzione, ci descrive la premurosa andata dei pastori a Betlemme dopo lo strabiliante annunzio dell’Angelo: « Ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo; oggi vi è nato nella città di Davide un Salvatore, che è il Cristo Signore » (Lc 2,11). Il testo non presenta particolari difficoltà esegetiche, perciò concentreremo la nostra attenzione su certi atteggiamenti spirituali dei protagonisti della scena, che certamente san Luca vuole riproporre anche per i suoi lettori. E prima di tutto l’atteggiamento di accoglienza e di disponibilità dei pastori verso l’annunzio dell’Angelo: « Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere » (Lc 2,15). La loro premura fu ampiamente ricompensata: « Andarono dunque senza indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia » (v. 16). Non furono per niente scandalizzati di trovare il « Salvatore » del mondo in tanta miseria e in tanto disagio. Era quanto l’Angelo aveva già loro anticipato: « Troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia » (v. 12). Se mai, questo era per loro un segno di maggiore credibilità: allora vuol dire che Dio ama davvero tutti gli uomini, anche i più poveri e abbandonati, dal momento che si è posto al loro rango! La Incarnazione annulla radicalmente e addirittura capovolge le posizioni sociali: è la rivalutazione dell’uomo in quanto tale, piccolo o grande che sia, ricco o povero, dotto o ignorante, a prescindere dalla maggiore o minore fortuna o prestigio che ciascuno di noi può avere nella vita. Come effetto, poi, di questo atteggiamento di disponibilità, esplode nei pastori il senso della « gioia » per la grande scoperta e il bisogno di comunicarla agli altri: « E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano » (vv. 17-18). Luca conclude la scena dicendoci che essi « se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, come era stato detto loro » (v. 20). È il Natale che incomincia a fare la sua grande corsa per il mondo: sono dei poveri e semplici « pastori » che « annunziano » il fatto più sconvolgente della storia ad altri uomini! Il Vangelo ha una forza esplosiva nelle realtà che contiene: ha bisogno soltanto di chi lo attesti e lo proclami con la parola e con la vita per diventare contagio, o fuoco che brucia. Non importa essere magi o pastori, pescatori come Pietro o raffinati dottori come Paolo: l’importante è avere il cuore pieno di Lui, gli occhi e gli orecchi ancora carichi di « sorpresa » per avere « visto e udito » qualcosa di incredibilmente bello e meraviglioso, che non potremo mai più tenere solamente per noi.

Maria « serbava tutte queste cose nel suo cuore » Accanto ai pastori c’è un’altra creatura, discreta, eppure attenta osservatrice di tutto quanto le capita attorno: Maria che, al dire di Luca, « serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore » (v. 19). Anche più tardi, dopo il ritrovamento di Gesù nel tempio, Luca ci dirà che « sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore » (2,51). È l’atteggiamento di chi si trova davanti a fatti che sono più grandi di noi, e perciò richiedono uno sforzo di maggiore penetrazione. Non è soltanto la storia di Maria che è piena di mistero, ma anche e soprattutto ciò che è avvenuto al suo Figlio: se veramente egli è l’erede delle promesse fatte a Davide e se il trono « regale » gli appartiene, come le aveva detto l’Angelo (cf Lc 1,33), com’è che nasce nella miseria più squallida? D’altra parte, perché tutta questa gente, umile e semplice, va alla ricerca del suo Figlio, senza che nessuno abbia sparso la notizia della sua nascita? E poi, a chi poteva interessare la nascita di un bambino, che non portava con sé alcun segno di prestigio o di rilevanza sociale, e neppure semplicemente umana? Sono soltanto degli interrogativi che non potevano non nascere nel cuore della madre, per la quale il « mistero » di quel Figlio, nato dalle sue stesse viscere, non era minore che per gli altri: anzi era infinitamente più grande! E accanto a queste considerazioni, il tentativo di squarciare il futuro: che ne sarebbe stato di lui e per quali vie Dio lo avrebbe condotto, senza che lei, sua madre, avesse alcun diritto a intralciarle, ma solo a favorirle e a spianarle? Questo atteggiamento pensoso di Maria davanti al mistero del suo Figlio è un’indicazione preziosa anche per noi, allo scopo di celebrare degnamente il Natale. Una realtà che ci trascende e che solo un infinito amore e una intelligenza vigile e attenta a cogliere tutti i segni del divino nelle cose possono pienamente percepire e rivivere. Un desiderio struggente di ritrovare in Cristo, fattosi nostro fratello, la soluzione a tutti i problemi che agitano e turbano il cuore degli uomini ormai alle frontiere misteriose del Duemila.

Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola. Riflessioni biblico-liturgiche

IO, EBREO, DAVANTI AL PRESEPIO – DI GIORGIO ISRAEL

http://www.magna-carta.it/content/io-ebreo-davanti-al-presepio

IO, EBREO, DAVANTI AL PRESEPIO

DI GIORGIO ISRAEL

(non trovo la data, a dovrebbe essere – leggo da un altro sito – dicembre 2006)  

In questi giorni per gli ebrei è Hanukkah, la festa delle luci. Intorno le luci di Natale. Ma a scuola i miei figli non incontrano un’esperienza religiosa diversa. Trovano soltanto Babbo Natale con una slitta carica di giocattoli e di luoghi comuni multiculturali. Non devo spiegare loro chi era Gesù e cos’è il cristianesimo, bensì difendere la loro esperienza religiosa dall’assedio del consumismo, o arrabbattarmi a spiegare l’insipida storiella di Natale raccontata a scuola: la storia di un bambino italiano, svedese o musulmano (ma musulmano è una nazionalità?) che diventa un bambino qualsiasi per non far torto a nessuno. Mi si potrebbe chiedere cosa mai pretenda. Rimpiango forse i tempi della mia fanciullezza, in cui circolava abbondantemente l’antigiudaismo? Tempi in cui potevo incontrare un sacerdote che spiegava alla classe che gli ebrei erano crudeli deicidi e, carezzandomi la testa, aggiungeva che io, poverino, non c’entravo, dopodichè nessuno voleva più sedere nel banco con me. Non li rimpiango, apprezzo il grande cammino percorso e non sono di quei masochisti che preferiscono non vederlo mentre amano farsi torturare dall’antisemitismo islamico. Quel che voglio lo vedo tangibilmente nel rapporto con gli amici di Comunione e Liberazione: un chiaro e dignitoso senso della propria identità, rispettoso di quella altrui, senza sincretismi e senza tentativi di conversioni, obliqui o invadenti che siano. Un atteggiamento che è la chiave dell’unico dialogo possibile, quello così ben spiegato da Benedetto XVI nel discorso alla sinagoga di Colonia. È un atteggiamento che ho appreso da mio padre in quei tempi in cui era più difficile assumerlo: tanto egli era rigoroso nel contrastare ogni sussulto antiebraico, quanto era tenace nel difendere più che la possibilità, la necessità del dialogo ebraico-cristiano. Da lui ho appreso – e vorrei trasmettere ai miei figli – a ravvisare nelle preghiere cristiane e nella messa le frasi e le benedizioni delle ricorrenze ebraiche, a scoprire che la benedizione ebraica impartita dai genitori ai figli (“Il Signore ti protegga e ti custodisca”) è la stessa di San Francesco a Frate Leone. La propria identità religiosa non rischia nulla nel cercare quel che unisce, nel riconoscere che “non si può essere cristiani se non si è ebrei” (come ha detto il cardinale Caffarra) e che la prima esperienza religiosa con cui un ebreo deve misurarsi e con cui deve dialogare è quella cristiana. Il dialogo non è soltanto reso impossibile dagli atteggiamenti di sopraffazione integralista, ma è vanificato dal buonismo confusionario che, alla fine, svela più intolleranza di quanto sembri. Ho incontrato questo secondo atteggiamento alla fine della mia vita scolastica, quando nel mondo religioso avanzava il progressismo. Il docente di religione nel mio liceo era un sacerdote molto “avanzato”, poi divenuto redattore di un giornale comunista. Mi propose di restare nell’ora di religione per “dialogare”. Poi quando vide che difendevo senza complessi le mie vedute mi invitò seccamente a non disturbare le lezioni… Aveva creato attorno a sé un circolo di adepti assai motivati, molto (troppo) pervasi di una sicurezza di sé che respingeva la mia identità di ebreo non meno drasticamente dei più incalliti integralisti. Colpiva il modo in cui trasformavano l’esperienza religiosa in un’esperienza meramente sociale. Una decina di anni fa assistetti in Spagna al matrimonio cattolico di una coppia di amici. Un prete alquanto informale eseguì il rito in modo casereccio, fino a che lo sposo non salì dietro l’altare e tenne una specie di conferenza colloquiale per spiegare il significato del rito secondo le vedute più “progredite”. Finì con una chitarrata. Espressi a qualcuno il mio disappunto sollevando un’ondata di ilarità: un ebreo che assumeva le vesti del cattolico tradizionalista… Tentavo di spiegare che un rito assume valore se è circondato da un’atmosfera di intensa partecipazione e di silenzioso e assorto rispetto e che perdere questa dimensione è quanto distruggere l’esperienza religiosa alle radici. Non apprezzo la confusione chiassosa delle sinagoghe romane: malgrado ciò, nel momento della benedizione finale del giorno di Kippur, quando i figli si raccolgono sotto il manto di preghiera dei genitori, si crea un silenzio irreale, su cui si staglia soltanto la voce del rabbino celebrante, davvero “la voce del silenzio”. I riti religiosi hanno bisogno di questi momenti di intensità. Assistendo a una messa ho sempre evitato l’atteggiamento del curioso, cercando di capire l’esperienza religiosa e i sentimenti dei fedeli. Non vi è nulla da rimproverare alle forme più o meno mondane di socializzazione, ma è incongruo e insensato surrogare con esse l’esperienza religiosa. Inoltre, chi pretende di creare questi surrogati tende a conferire alle sue pratiche la sacralità della funzione originale e ad assumere atteggiamenti arroganti e intolleranti tipici dell’integralismo. Visto che si considera investito del potere di tradurre i riti della sua fede nelle forme socializzate da lui decise, figuriamoci quale rispetto può avere per le fedi altrui. Un giorno pranzai con uno di questi sacerdoti iperprogressisti che mi spiegò con sussiego e sdegno che l’ebraismo era una religione rozza e brutale e che il cristianesimo, pur avendo fatto qualche progresso, aveva ancora molto da apprendere da una religione tanto più evoluta come l’islam… Non poteva darsi una manifestazione più clamorosa di odio di sé. Non rimpiango un certo passato ma non mi piace il “presepe” di oggi. L’evoluzione dell’insegnamento di religione nelle scuole illustra ulteriormente l’andazzo. Le novità introdotte dal secondo Concordato non hanno costituito affatto un progresso. Certo, prima occorreva chiedere l’esenzione dall’ora obbligatoria di religione, che però veniva concessa sempre: se eri piccolo restavi in classe a fare quel che volevi e l’unico rischio era di incontrare qualche persona malevola; quando eri più grande uscivi prima o entravi dopo, perché la collocazione dell’ora lo consentiva sempre. La perversa introduzione delle ore sostitutive obbligatorie crea un sentimento di esclusione molto più grave. Il mio figlio più grande fu costretto a sorbirsi un’annata di lettura del Corano, i più piccoli si destreggiano tra attività improbabili e libercoli intrisi di un insopportabile buonismo multiculturale da cui ricavano un’unica sbagliatissima conclusione: che sono “diversi”. Su tutto domina la tiritera secondo cui l’ora di religione è sì confessionale, ma a tal punto “aperta” che non può che “far bene a tutti”. Il guaio, per l’appunto, è che è troppo aperta, fino a generare il proselitismo del nulla. Così, può capitare l’insegnante – non meno devastante del sacerdote della mia infanzia – che invita i piccoli a fare pressioni psicologiche sul loro compagno perché partecipi anche lui e si tolga dall’isolamento. Sono manifestazioni di arrogante debolezza che alimentano soltanto il discredito e la disaffezione per l’insegnamento della religione. È questo un tema su cui si possono fare proposte precise per un’ora di religione obbligatoria non confessionale ma per nulla confusamente “storico-culturale”, la quale trasmetta i valori spirituali che sono a fondamento delle nostre società. Ma è un discorso troppo serio e complesso per rischiare di trattarlo male in poche righe. Vorrei concludere dicendo che occorre arrestare la corsa verso il disprezzo della spiritualità, in particolare di quella religiosa. Un Natale così non fa bene a nessuno. Si ricominci pure a fare i presepi nelle scuole e a cantare “Stille Nacht”. Ho accompagnato tante volte delle compagne di scuola a comprare le bellissime figurine dei presepi di stile napoletano e sono ancora qui, senza aver perso nulla della mia identità ebraica. È molto più importante sbarazzarsi di questo Babbo Natale politicamente corretto, con la pelle multicolore a vestito di Arlecchino e la slitta vuota di spiritualità e carica di cellulari.

da Avvenire

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO : AUTORI VARI, NATALE 2013 |on 23 décembre, 2013 |Pas de commentaires »

UNA RACCOLTA DI PENSIERI SUL NATALE – (TRATTE DAGLI SCRITTI DEI PADRI DELLA CHIESA)

http://www.regnumchristi.org/italiano/articulos/articulo.phtml?id=35559&se=362&ca=967&te=707

UNA RACCOLTA DI PENSIERI SUL NATALE – (TRATTE DAGLI SCRITTI DEI PADRI DELLA CHIESA)

Roma, 19 dicembre 2011. Offriamo ai nostri lettori una serie di riflessioni sul Natale tratte dagli scritti dei Padri della Chiesa, da leggere una al giorno, come una novena, o tutte insieme nella meditazione del mattino.

Non c´è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita, una vita che distrugge la paura della morte e dona la gioia delle promesse eterne. Nessuno è escluso da questa felicità. Dai Discorsi di san Leone Magno, papa. Se infatti non fosse stato vero Dio, non avrebbe portato a noi rimedio; se non fosse stato uomo vero, non ci avrebbe dato l`esempio. Leone Magno, Sermoni, 21. Riconosci, o cristiano, la tua dignità e, consorte ormai della divina natura, non tornare alla bassezza della tua vita antecedente, depravata. Ricordati di quale capo e di quale corpo tu sei membro. Rammenta che sei stato strappato dal potere delle tenebre e sei stato trasferito nella luce e nel regno di Dio. Col sacramento del battesimo sei diventato tempio dello Spirito Santo (cf. 1Cor 3,16): non cacciare da te con le azioni cattive un ospite tanto degno e non assoggettarti di nuovo alla schiavitù del demonio: il tuo prezzo è il sangue di Cristo. Leone Magno, Sermoni, 21. Mosè desiderò contemplare la gloria di Dio, ma non gli fu possibile vederla come aveva desiderato. Potrebbe oggi venire a vederla, perché giace nella cuna in una grotta. Allora nessun uomo sperava di vedere Dio e restare in vita; oggi tutti coloro che l`hanno visto sono sorti dalla seconda morte alla vita. Mosè non poté vedere Dio come realmente è; i magi invece entrarono e videro il Figlio di Dio fatto uomo. E` grande il prodigio che si è compiuto sulla nostra terra: il Signore di tutto è disceso su di essa, Dio si è fatto uomo, l`Antico è diventato fanciullo; il Signore si è fatto uguale al servo, il figlio del re si è reso come un povero errabondo. Efrem Siro, Inno per la nascita di Cristo, 1. Maria credette, e ciò in cui credette in lei è avvenuto. Crediamo anche noi, perché anche a noi possa giovare ciò che è avvenuto. Certo, anche questa natività è mirabile; tuttavia pensa, o uomo, ciò che per te ha accettato il Dio tuo, il Creatore per la creatura. Restando Dio in Dio, vivendo l`eterno con l`eterno, il Figlio uguale al Padre non ha sdegnato di rivestire la forma del servo per i colpevoli, per gli schiavi peccatori. E ciò non è stato certo ricompensa di meriti umani. Per le nostre iniquità, meritavamo piuttosto le pene; ma, se avesse osservato le nostre iniquità, chi lo avrebbe sostenuto? Per gli empi, dunque, e per gli schiavi peccatori il Signore si è fatto uomo e si è degnato di nascere di Spirito Santo da Maria vergine. Agostino, Predica sulla professione di fede, 215,4. Il Verbo di Dio si è manifestato nella carne una volta per sempre. Ma, in chi lo desidera, egli vuole continuamente rinascere secondo lo spirito, perché ama gli uomini. Così, ridiventa bambino e si forma in loro con il progredire delle virtù. Il Verbo si manifesta nella misura in cui sa di poter essere ricevuto da chi lo accoglie: non limita la manifestazione della sua grandezza per gelosia, ma misura l`intensità del suo dono secondo il desiderio di chi brama vederlo. Il Verbo di Dio si manifesta sempre, secondo le disposizioni di chi lo riceve: tuttavia, data l`immensità del mistero, egli rimane ugualmente invisibile per tutti. Per questo motivo l`apostolo, penetrata con acutezza la potenza del mistero, dice: Gesù Cristo è lo stesso, ieri, oggi e nei secoli (Eb 13,8): egli dimostrava così di avere ben compreso la perenne novità del mistero e intuiva che l`intelligenza non potrà mai possederlo come una cosa invecchiata. Massimo il Confessore, Capitoli teologici, 1,8-13. Per quanto, dunque, lo stato infantile che la maestà del Figlio di Dio non si è sdegnata di assumere abbia poi raggiunto, col succedersi degli anni, l`età adulta e, dopo il trionfo della passione e della risurrezione, si siano succedute tutte le azioni che l`umiltà di Cristo ha accettato per noi, tuttavia l`odierna festività della nascita di Gesù da Maria vergine ne rinnova i sacri inizi; e mentre adoriamo la natività del nostro Salvatore dimostriamo insieme di celebrare il nostro inizio. La generazione di Cristo infatti è l`origine del popolo cristiano, e la nascita del capo è la nascita del corpo. Leone Magno, Sermoni, 26,1-2. Ma il Signore vuole aumentare ancora la tua gloria. Imprime in te la sua immagine, perché questa immagine visibile renda manifesta sulla terra la presenza del Creatore invisibile; ti ha dato il suo posto in questo mondo terrestre perché il grande regno di questo mondo non sia privo di un rappresentante del Signore… E ciò che Dio ha creato in te con la sua potenza, ha avuto la bontà di assumerlo in sé. Ha voluto manifestarsi realmente nell`uomo, nel quale, fino a quel momento, era apparso soltanto in immagine. Ha concesso all`uomo di essere in realtà quello che prima era soltanto per somiglianza… Pietro Crisologo, Sermoni, 148. Sappiamo che il Verbo ha assunto un corpo incarnandosi in una vergine e ha portato il vecchio uomo realizzando in sé la nuova creazione… Sappiamo che egli è veramente uomo, costituito della nostra stessa natura: se non fosse così, invano avrebbe ordinato di imitarlo come maestro. E infatti, se quest`uomo avesse una natura diversa dalla mia, come potrebbe ordinarmi di essere simile a lui, mentre io sono così debole? Dove sarebbero la sua bontà e la sua giustizia? così, per non essere considerato diverso da noi, egli ha sopportato la fatica, ha voluto soffrire la fame e la sete, si è abbandonato al sonno, non si è sottratto al dolore e ha obbedito alla morte manifestando infine la sua risurrezione. In tutto questo egli ha offerto come primizie la propria umanità, perché tu, quando soffri, non ti perda di coraggio, ma, riconoscendoti uomo, aspetti anche tu quello che il Padre ha dato a lui… Ippolito di Roma, Confutazione di tutte le eresie, 10,33-34.

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