I discepoli di Emmaus
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don Giacomo Falco Brini
III DOMENICA DI PASQUA (ANNO A) (30/04/2017) – DAVVERO!
Vi è mai capitato di aver sognato ad occhi aperti e lavorato per tanto tempo a qualcosa cui avete dedicato tutto voi stessi con sacrificio e affetto, intravedendone poco a poco la graduale realizzazione, per poi assistere al crollo di tutto sotto il vostro sguardo? Se vi è successo, allora possiamo avvicinarci anche noi ai due discepoli che retrocedono mesti da Gerusalemme, conversando su quanto di tragico vi era accaduto. Possiamo immaginare i loro sentimenti, le loro domande, le loro pause, possiamo comprendere il loro discutere che cerca di spiegarsi qualcosa sulle vicende occorse. Sarebbe rimasta una delle solite sterili discussioni umane, se Gesù in persona (Lc 24,15) non li avesse raggiunti in quel cammino fatto di conversazioni senza sbocco. E’ bello pensare che Gesù ci raggiunge nel nostro smarrimento, laddove il nostro cuore non sa darsi risposte, laddove indietreggiamo difronte ai drammi che ci capitano nella vita, è bello sapere che continua a camminare con noi malgrado la nostra persistente cecità: ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo (Lc 24,16).
Il viandante risorto provoca una fermata con una domanda circa il loro discutere. Accende un dialogo semplice che fa uscire dai loro cuori la tristezza (Lc 24,17), la personale interpretazione dei fatti, la speranza delusa oramai appartenente al passato: noi speravamo (Lc 24,21); ma, soprattutto, la loro totale incertezza difronte all’annuncio delle donne che hanno trovato la tomba vuota. E’ così che lavora il Signore. Camminando con noi, dapprima ci porta a conoscere tutte le ritrosie e le resistenze che ci abitano. Perché è così che siamo fatti noi, dapprima piuttosto scettici difronte a quanto altri testimoniano di aver visto e udito e a quanto ci comunica la stessa parola di Dio. Stolti e lenti di cuore a credere (Lc 24,25): questa è la nostra carta identità quando è priva dell’aiuto del Pellegrino che mai ci abbandona.
Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? (Lc 24,26): questa è la parola su cui si infrangono i nostri ragionamenti e le nostre attese errate, le nostre equivoche immagini di Dio e ogni altra ricerca che vogliamo condurre da noi stessi. Perché Signore, bisognava che soffrissi? Perché Signore questa necessità per te e per noi? Il Risorto non dice perché, ma invita i due discepoli a ritornare con Lui sulle Scritture: lì, nel libro sacro della parola di Dio, era già predetta questa storia d’amore sofferta e solo apparentemente sconfitta. Anche oggi Gesù ci invita a ritornare sulle Scritture, perché tutto quanto è stato detto è per Lui e in vista di Lui: esse sono la roccia incrollabile su cui appoggiarci se vogliamo che la nostra fragilissima fede cresca e non venga meno. Così, quando rispondiamo sempre più a questo suo invito, ci ritroviamo a invitare noi stessi il Signore perché continui a parlarci restando insieme a noi (Lc 24,29).
Il cammino della fede è una discesa nell’oscurità del nostro cuore per poi scoprire, più avanti, che il Vivente è capace di stare con noi anche nelle nostre tenebre. La sua parola ci trasmette la luce vittoriosa che guarisce la nostra cecità spirituale e ce lo fa riconoscere sempre presente con noi, soprattutto alla tavola dove facciamo memoria del suo dono d’amore: l’Eucarestia. E anche se a causa della nostra intermittenza ci sembra talvolta di perderlo di vista (Lc 24,31), il fuoco acceso nel nostro cuore dalla sua parola ci rassicura e ci aiuta a confermarci l’un l’altro (Lc 24,32). L’incontro con il Risorto cambia la direzione del nostro cammino, ci converte a ripercorrere la sua stessa strada facendoci superare le nostre paure (Lc 24,33), ci riunisce ai nostri fratelli che condividono con noi la stessa inaudita sorpresa: davvero il Signore è risorto (Lc 24,34). Chi lo ha incontrato non può tacere, perché sente il bisogno di raccontare con gioia quello che il Signore ha fatto nella propria personale storia (Lc 24,35).
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BRANO BIBLICO SCELTO 1 CORINZI 15,1-11
1 Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, 2 e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano!
3 Vi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, 4 fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, 5 e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici.
6 In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. 7 Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. 8 Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. 9 Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio.
10 Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. 11 Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto.
COMMENTO
1 Corinzi 15,1-11
La risurrezione di Cristo
Nell’ultimo capitolo della 1Corinzi Paolo affronta il problema del destino finale riservato a coloro che hanno abbracciato la fede in Cristo. Precedentemente egli aveva rivolto la sua attenzione a situazioni specifiche riguardanti la vita personale o comunitaria. Ora invece si pone al cuore stesso del «vangelo», mostrando come in esso sia contenuta una salvezza che va oltre i limiti della vita fisica dell’uomo. È difficile stabilire se l’apostolo risponde a una domanda precisa che gli è stata posta dalla comunità (manca all’inizio la formula «riguardo a…»), o se prende posizione nei confronti di una problematica di cui è venuto a conoscenza per altra via. La lunghezza della trattazione dimostra però che il tema era sentito come un punto nevralgico del cristianesimo nascente, intorno al quale erano emerse opinioni divergenti che rischiavano di oscurare il vero significato della fede.
Il capitolo si divide in tre parti. In un primo momento Paolo espone il contenuto essenziale del suo vangelo, che consiste nella morte e nella risurrezione di Cristo (vv. 1-11). Alla luce di questo dato di fede egli affronta poi il tema della risurrezione di coloro che hanno creduto in lui (vv. 12-34). Nella terza parte spiega le modalità con cui avrà luogo la risurrezione (vv. 35-53). Conclude il capitolo un inno alla vittoria sulla morte (vv. 54-58).
In questo testo liturgico viene riportata la parte del capitolo riguardante la risurrezione di Cristo. Paolo si introduce sottolineando il carattere tradizionale e quindi immutabile di ciò che ha annunziato a Corinto (vv. 1-3a), riafferma poi la morte e la risurrezione di Cristo (vv. 3b-4) e infine dà un elenco delle apparizioni del Risorto (vv. 5-11).
La tradizione della Chiesa (vv. 1-3a).
Nella frase introduttiva l’apostolo si richiama alla sua predicazione precedente, sottolineando come essa faccia parte di una «tradizione» che lui stesso ha ricevuto. Egli apre la nuova trattazione con l’espressione «vi rendo noto» (gnôrizô), con la quale sembra introdurre l’annunzio di qualcosa che i corinzi ancora non conoscevano; ma in realtà Paolo intende semplicemente richiamare quanto essi già conoscevano. A tal fine ricorda la loro esperienza cristiana, che si snoda lungo quattro tappe: annunzio evangelico, adesione di fede, vita cristiana, salvezza (vv. 1-2a). Paolo ha annunziato il «vangelo» e i corinzi lo hanno ricevuto una volta per tutte (parelabete, all’aoristo) ed ora in esso «restano saldi» (estêkate, al perfetto) e sono salvati (sôzesthe, al presente, in quanto si tratta di un’azione continuata).
L’apostolo però soggiunge: «Se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato. Altrimenti avreste creduto invano!» (v. 2b). È questa la traduzione più probabile della difficile frase greca che letteralmente suona così: «Con quale parola ve l’ho evangelizzato se lo mantenete». Di per sé sarebbe possibile collegare la frase con il precedente verbo iniziale. In questo caso si dovrebbe tradurre: «Vi faccio presente con quale tipo di parola vi ho annunziato il vangelo che avete ricevuto…. supponendo che lo teniate ben saldo, altrimenti avreste creduto invano». Paolo conclude la frase introduttiva sottolineando che egli ha trasmesso ai corinzi tutto e solo ciò che lui stesso aveva ricevuto (paredôka / parelabon) (v. 3a): anche qui, come in 11,2.23 si presenta semplicemente come un trasmettitore della tradizione della chiesa.
Nelle parole dell’apostolo si nota la consapevolezza di richiamare cose note, da tutti accettate, e al tempo stesso la preoccupazione che i corinzi, dopo aver aderito al vangelo, lo interpretino in un modo non corretto, svuotandolo così del suo significato; e dal seguito della sezione risulta che questa eventualità non era poi così remota (cfr. v. 17). È dunque probabile che egli veda, alla radice dell’errore riguardante la risurrezione dei morti, anche un malinteso circa il nucleo centrale della fede cristiana.
La morte e la risurrezione di Cristo (vv. 3b-4)
Dopo l’introduzione Paolo presenta in sintesi il suo vangelo. Esso contiene anzitutto il ricordo della morte di Cristo, che comprende anche la sepoltura (vv. 3b-4a); ad esso fa seguito l’annunzio della sua risurrezione (v. 4b) che a sua volta trova conferma nelle sue apparizioni. Il vangelo proclamato da Paolo è formulato con una frase in cui è riprodotta, forse con qualche ritocco, una formula preesistente. Egli ha annunziato ai corinzi «…che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto, e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture » (vv. 3b-4). Quanto l’apostolo riferisce in questi versetti rappresenta il contenuto centrale della tradizione che egli ha ricevuto dalla chiesa primitiva e ha trasmesso fedelmente ai corinzi (cfr. v. 11). Essa riguarda anzitutto la morte di Cristo, il cui significato è messo in luce mediante l’espressione «per (hyper) i nostri peccati». Non si tratta quindi di una morte qualsiasi, ma di una morte che attua il perdono di Dio, e come tale ha avuto luogo «secondo le Scritture», cioè in attuazione di quanto esse avevano predetto.
Diversi testi del NT sottolineano il collegamento tra la morte di Gesù e le predizioni dell’AT (cfr. per es. Lc 24,25-27.44-47). Nella chiesa primitiva l’annunzio della morte di Cristo veniva letto specialmente in alcuni testi come il Salmo 118,22 («La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo»: cfr. At 4,11; Mc 12,10 e par.) o Dt 21,22-23 (il condannato a morte è appeso a un albero: cfr. At 5,30; 10,39; Gal 3,13). Ma l’apostolo ha in mente soprattutto i testi riguardanti il Servo di JHWH, nei quali si dice che questi con la sua morte ha eliminato i peccati del popolo: «Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità» (Is [LXX] 53,5).
Insieme alla morte Paolo ricorda la sepoltura di Gesù. Questa rappresenta senz’altro un dato secondario della tradizione, che egli sottolinea per confermare, forse contro i primi dubbi ripresi in seguito dai doceti, la realtà della morte stessa. Non vi è qui alcuna allusione alla scoperta della tomba vuota (Mc 16,1-8 e par.), che Paolo dimostra di ignorare o per lo meno di non ritenere essenziale ai fini dell’annunzio.
Il secondo punto del kerygma è rappresentato dalla risurrezione di Cristo, indicata con il verbo «risorgere» (egeirô), al perfetto medio, che significa letteralmente «risvegliarsi». Con esso si sottolinea che gli effetti dell’azione sono ancora presenti: Cristo è risorto e resta vivo. Questo verbo potrebbe avere anche un significato passivo. In questo caso si tratterebbe di un «passivo divino», con il quale la risurrezione di Cristo viene attribuita all’azione stessa di Dio (cfr. v. 15).
Paolo aggiunge che la risurrezione di Cristo è avvenuta anch’essa, come la sua morte, «secondo le Scritture». I primi cristiani vedevano una predizione della risurrezione di Cristo nella preghiera del giusto, il quale dice a Dio: «Non abbandonerai la mia vita nel sepolcro né lascerai che il tuo santo veda la corruzione» (Sal 16,10; cfr. At 2,25-28). È possibile che l’apostolo pensi piuttosto anche qui al Servo di JHWH, al quale era stata promessa, dopo la sua morte, una lunga vita (Is 53,10; cfr. Sal[LXX] 22,30), che sullo sfondo della fede giudaica nella risurrezione finale poteva venire intesa come una risurrezione anticipata. Ma più in generale era spontaneo pensare che tutte le Scritture avessero predetto la risurrezione di Cristo (cfr. Lc 24,27), in quanto essa rappresenta l’evento con il quale si inaugura il regno escatologico di Dio, caratterizzato appunto dalla risurrezione dei morti.
La designazione cronologica («il terzo giorno») potrebbe indicare solo un breve lasso di tempo, suggerito dal corso degli eventi pasquali; tuttavia non è escluso che Paolo faccia anche di essa l’oggetto delle profezie bibliche. In questo caso egli potrebbe pensare all’esperienza di Giona, che è rimasto «tre giorni e tre notti» nel ventre del pesce (Gn 2,1; cfr. Mt 12,40), o al testo di Osea 6,2, oppure, più verosimilmente, alla tradizione rabbinica che colloca la liberazione finale di Israele nel «terzo giorno».
Le apparizioni del Risorto (vv. 5-11)
Come alla morte aveva fatto seguito la sepoltura, così la risurrezione è confermata dalle apparizioni ai discepoli. Questo tema viene sviluppato nella seconda parte del brano: «… e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (v. 5). Il verbo «apparve» (aoristo passivo di oraô, vedere) è utilizzato spesso nei LXX per indicare la manifestazione di Dio a personaggi da lui scelti (cfr. Gen 12,7; 18,1; 35,9; Es 3,2); nel NT designa le apparizioni del Risorto ai discepoli (Lc 24,34; At 13,31) e a Paolo stesso (At 26,16; cfr. 9,17). In questo contesto non significa «essere visto» (passivo), ma «farsi vedere» (intransitivo con valore mediale): in realtà Paolo non pensava a una esperienza soggettiva dei discepoli, ma a un intervento attivo dello stesso Cristo. È difficile però stabilire qual è stato per gli interessati il contenuto della visione: siccome nell’AT il termine è usato per indicare manifestazioni divine che consistono in un messaggio orale, resta aperta la possibilità che si sia trattato di un’esperienza interiore, senza un coinvolgimento diretto delle facoltà esterne. Il fatto che lo stesso verbo sia utilizzato subito dopo per designare l’esperienza personale di Paolo non aggiunge nulla circa le modalità dell’apparizione, anche perché altrove egli ne parla semplicemente in termini di «rivelazione» (cfr. Gal 1,16).
La prima apparizione è quella che ha avuto come destinatario Cefa (Pietro). Di essa parla anche il terzo vangelo, ma solo indirettamente, presentandola come un evento di cui i discepoli di Emmaus ricevono la notizia quando fanno ritorno a Gerusalemme (Lc 24,34). Anche Giovanni ricorda tale apparizione, ma nella sistemazione attuale del libro essa non viene più al primo posto (cfr. Gv 21). Essa sottolinea il ruolo speciale di Pietro nel cristianesimo primitivo.
L’apparizione a Cefa, abbinata a quella avuta dai Dodici, il gruppo ristretto dei discepoli di Gesù al quale lo stesso Cefa appartiene, è narrata da tutti gli evangelisti (cfr. Mt 28,16-20; Lc 24,36-49; Mc 16,14-18; Gv 20,19-23). Stupisce però il fatto che l’apostolo parli dei «Dodici» senza ricordare che, dopo la defezione di Giuda, i discepoli più intimi erano rimasti solo in undici. Forse era preoccupato di mettere in luce non tanto singoli dettagli storici, quanto piuttosto il rapporto con Gesù di un gruppo specifico di persone che nella chiesa primitiva erano riconosciute come i suoi discepoli più intimi e svolgevano il ruolo di testimoni della sua risurrezione (cfr. At 1,21-22).
Dopo l’apparizione a Cefa e ai Dodici si elencano quelle di cui sono stati beneficiari cinquecento fratelli, poi Giacomo e tutti gli apostoli e infine Paolo stesso. Malgrado la ripetizione della particella «poi» (eita, epeita), esse sono elencate secondo un ordine che non ha un vero e proprio significato cronologico, ad eccezione della prima (Cefa) e dell’ultima (Paolo). Anzitutto viene nominata quella riservata a più di 500 fratelli (v. 6). Costoro potrebbero rappresentare tutta la comunità di Gerusalemme in un certo stadio del suo sviluppo; il ricordo dell’apparizione speciale ad essi riservata serviva forse a sottolineare l’importanza di questa comunità e il ruolo da essa svolto nel cristianesimo delle origini. Nessun indizio permette di situare questa apparizione in rapporto all’evento di Pentecoste, di cui si parla solo negli Atti degli apostoli: Luca infatti non menziona un’apparizione del Risorto in quella occasione e d’altra parte informa che la comunità contava allora solo 120 persone (At 1,15), alle quali sarebbero state aggregate in quello stesso giorno altre tremila persone (2,41). L’accenno al fatto che solo alcuni di questi fratelli sono morti, mentre la maggioranza è ancora in vita, potrebbe avere lo scopo di dare un valore attuale e verificabile alla loro testimonianza.
L’apparizione ai 500 costituisce una specie di intermezzo tra quella riservata a Cefa e ai dodici e quella, citata subito dopo, concessa «a Giacomo e quindi a tutti gli apostoli» (v. 7). Giacomo era un «fratello del Signore» (cfr. Gal 1,19) e non apparteneva al gruppo dei Dodici. Il ricordo dell’apparizione da lui ricevuta serve forse a giustificare il fatto che egli resse per lungo tempo la comunità di Gerusalemme. «Tutti gli apostoli», a cui Gesù apparve successivamente, sono i missionari della chiesa primitiva, il cui compito di «inviati» (è questo il senso della parola «apostolo») viene fatto risalire a un intervento personale del Risorto (cfr. 9,5). Al loro gruppo appartenevano certamente i Dodici, ma anche Giacomo stesso, menzionato in stretto contatto con loro, nonché Paolo (cfr. v. 9) e altri missionari (cfr. Rm 16,7; Fil 2,25; 2Cor 8,23): in questo momento l’identificazione degli apostoli con i Dodici, che sarà un fatto ormai acquisito al tempo di Luca (cfr. At 1,15-26), non aveva ancora avuto luogo.
Accanto alle apparizioni per così dire ufficiali Paolo ricorda quella di cui è stato destinatario lui stesso (v. 8). Egli osserva che Gesù gli è «apparso» come a un «aborto» (ektrôma): può darsi che abbia coniato lui questo termine per sottolineare che il suo incontro con Cristo ha avuto luogo quando il tempo delle apparizioni pubbliche era ormai chiuso, a somiglianza dell’aborto che viene alla luce al di fuori del tempo normale; è possibile però che si tratti di un appellativo che gli veniva affibbiato dai suoi avversari per squalificare la sua persona e il suo messaggio. Al suo incontro con il Risorto Paolo allude altrove presentandolo una volta come una rivelazione (Gal 1,16) e l’altra come una visione (1Cor 9,1).
Il ricordo dell’apparizione del Risorto suggerisce a Paolo una considerazione personale: «Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me» (vv. 9-10). In questo brano si fondono umiltà e fierezza: alla sua condizione di persecutore, che lo pone all’ultimo posto nella scala degli apostoli, fa riscontro la grazia di Dio, alla quale unicamente attribuisce non solo il suo apostolato, ma anche la sua instancabile attività, in forza della quale non si sente inferiore a nessun degli altri apostoli. Sullo sfondo si intravedono le accuse rivoltegli dai suoi avversari, che mettevano in discussione precisamente la sua prerogativa di apostolo (cfr. 1Cor 9,1-3).
Dopo aver elencato i testimoni della risurrezione, Paolo conclude ricollegandosi all’introduzione del brano: «Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto» (v. 11). Con queste parole intende sottolineare che quanto egli «predica» (kêryssô), cioè il vangelo che annunzia (cfr. vv. 1.14), non è diverso da quello che predicano gli altri apostoli; è ad esso che i corinzi, diventando cristiani, hanno creduto una volta per tutte (episteusate, all’aoristo).
Linee interpretative
Le apparizioni di Gesù, così come sono ricordate da Paolo hanno come destinatari personaggi che svolgevano ruoli di particolare importanza nella chiesa primitiva. Per essi l’aver visto il Signore risorto era la garanzia di una particolare chiamata da parte sua, che li autorizzava a svolgere le proprie funzioni in suo nome. Ciò spiega forse in parte il fatto che le apparizioni menzionate dall’apostolo non coincidano esattamente con quelle raccontate nei vangeli (Mt 28,9-20; Lc 24,13-53; Gv 20,11-21,23) e negli Atti degli Apostoli (At 1,3-8). È probabile che sia Paolo sia gli evangelisti abbiano fatto una scelta all’interno di un’ampia gamma di racconti trasmessi dalla comunità primitiva, mediante i quali i primi cristiani annunziavano la loro fede nella risurrezione del Signore. Le testimonianze che sono state conservate, con tutte le loro diversità e contraddizioni, non servono perciò a dimostrare la realtà storica della risurrezione, ma piuttosto l’insorgere precoce di questa stessa fede all’interno della comunità cristiana. In altre parole, con i loro racconti i primi cristiani non hanno inteso dimostrare che la risurrezione è un fatto storico, ma l’hanno presentata come il primo articolo di una fede che essi stessi hanno ricevuto dai primi discepoli e testimoni di Gesù. Questa fede resta ancora oggi il fondamento e l’unica ragione di essere della chiesa.
La fede nella risurrezione di Cristo suppone senz’altro, in base alle concezioni antropologiche del tempo, che il suo corpo sia stato liberato dalla corruzione del sepolcro. Il suo significato però non si ferma qui. Nel contesto delle attese diffuse nel mondo giudaico e dell’annunzio evangelico complessivamente preso, la risurrezione di Gesù non consiste nella semplice rianimazione di un cadavere o nel ritorno di un morto a una nuova vita. Per Paolo, come per tutta la Chiesa primitiva, la risurrezione significa che Dio ha riabilitato colui che era stato ingiustamente crocifisso, innalzandolo accanto a sé e donandogli una gloria senza fine. In lui è l’umanità intera che ritorna alla comunione con Dio. Il peccato è dunque vinto e quel regno di Dio che Gesù aveva annunziato durante la sua vita terrena è inaugurato. Egli stesso, nella sua nuova condizione di Signore glorificato, guida alla risurrezione finale tutti coloro che credono in lui. In altre parole credere nella risurrezione significa assumere su di sé, come hanno fatto Paolo e i primi testimoni, la missione stessa di Gesù, che consiste nell’annunziare il regno di Dio, operando efficacemente perché si realizzi.
http://www.nostreradici.it/titoli.htm
LA DANZA – SEGNO DI GIOIA E DI GRATITUDINE
La Danza, nella Bibbia è intesa soprattutto come lode, manifestazione di gioia spirituale ed espressione liturgica. Si danza per festeggiare una vittoria ottenuta con l’intervento divino; per il ritorno di una persona cara, e in occasione di nascite e matrimoni.
La profetessa Miriam, sorella d’Aronne, esterna la sua esultanza e ringrazia Dio, dopo il passaggio del Mar Rosso, “formando cori di danze” con le altre donne, suonando i timpani e cantando (Cf Es 15,20). Un’altra danza molto famosa è quella che fece Davide, in occasione del trasferimento dell’arca a Gerusalemme.
Danzando e saltellando agilmente, il re d’Israele manifesta con tutto il suo essere la gioia incontenibile che prova per il singolare avvenimento.
“Allora Davide andò e trasportò l’Arca di Dio dalla casa di Obed-Edom nella città di Davide, con gioia. (…) Davide danzava con tutte le forze davanti al Signore. Davide era cinto di un efod Così Davide e tutta la casa d’Israele trasportarono l’arca del Signore con tripudi e a suon di tromba” (2Sam 6,12; 6,14-15).
Per descrivere l’esultanza del re Davide di fronte all’arca dell’Alleanza, l’autore sacro usa le parole: “gioia” e “con tutte le forze”, rimarcando così il coinvolgimento totale della persona nel movimento ritmico della danza.
Simbologia rituale
Nell’Arca sono custodite le Tavole della Legge date da Dio a Mosè sul Monte Sinai. Danzando davanti all’arca, Davide indossa un costume sacerdotale succinto, una specie di perizoma adatto a compiere i sacrifici: l’efod di lino. Il testo sacro ci fa capire che la nudità del re e la sua danza sono in rapporto con gli “olocausti e i sacrifici di comunione” che egli si appresta ad offrire davanti al Signore.
Il modo in cui Davide esprime la sua gioia per la Legge (Torà), è ritenuto sconveniente dalla figlia di Saul che se ne scandalizza. “Mentre l’Arca del Signore entrava nella città di David, Mikal, figlia di Saul, guardò dalla finestra; vedendo il re Davide che saltava e danzava dinanzi al Signore, lo disprezzò in cuor suo” (2Sam 6,16). Più tardi il re chiarirà alla donna il senso rituale del suo gesto: “L’ho fatto dinanzi al Signore, (…) ho fatto festa davanti al Signore” (2Sam 6,21).
Gli ebrei di oggi, al termine della festa dei Tabernacoli (Sukkot), celebrano nelle sinagoghe la Simchat Torà – o gioia della Legge – danzando, a saltelli ritmati, con i rotoli della Torà e cantando inni in onore dell’Eterno. La danza è anche in questo caso un gesto liturgico che esprime il rapporto di tutto l’essere con Dio. È un’espressione di gioia e di “festa davanti al Signore”, per il dono della Torà. Ed è ancora con la danza che gli ebrei chassidici [i], dopo le preghiere quotidiane, esternano il loro entusiasmo religioso.
La Danza in cerchio: hag
Ai tempi biblici, le processioni danzanti di uomini e donne caratterizzavano le tre grandi feste di pellegrinaggio: Pasqua, Pentecoste e Tabernacoli. Sembra che tali danze ritmate avvenissero in modo circolare, ed è forse per questo motivo che nell’ebraismo, la danza in cerchio è chiamata hag: festa.
In cerchio si danza intorno ad un luogo sacro, o durante una cerimonia religiosa, esprimendo così il clima gioioso e comunitario della festa. La simbologia della danza in cerchio ci dice che nessuno può ritenersi più importante dell’altro, mentre tutti sono rivolti verso Colui che è al centro della vita di ognuno.
Rito Bizantino: la triplice danza
Ritroviamo il movimento circolare nella celebrazione del matrimonio cristiano nel Rito bizantino, la cui liturgia prevede una triplice danza in cerchio del sacerdote e degli sposi. Dopo essersi recati presso l’iconostasi, essi girano per tre volte intorno all’altare, mentre si cantano alcuni tropari.
Rito Romano
Col progredire dell’inculturazione, il Rito Romano si va arricchendo di gesti e simboli appartenenti ad altre culture. Sempre più frequentemente, anche grazie al mezzo televisivo, si possono vedere celebrazioni liturgiche in cui la danza, la musica e il canto di altri popoli, trovano uno spazio adeguato.
“I gesti e gli atteggiamenti dell’assemblea, in quanto segni di comunità e di unità, favoriscono la partecipazione attiva esprimendo e sviluppando l’intenzione e la sensibilità dei partecipanti. Nella cultura di un paese, si sceglieranno gesti e atteggiamenti del corpo che esprimano la situazione dell’uomo davanti a Dio, dando ad essi un significato cristiano, in corrispondenza, se possibile, con i gesti e gli atteggiamenti provenienti dalla Bibbia.
Presso alcuni popoli, il canto si accompagna istintivamente al battito delle mani, al movimento ritmico del corpo o a movimenti di danza dei partecipanti. Tali forme di espressione corporale possono avere il loro posto nell’azione liturgica di questi popoli, a condizione che esse siano sempre espressione di una vera preghiera comune di adorazione, di lode, di offerta o di supplica e non semplicemente spettacolo”.[ii]
[i] Chassidismo, da Chassid: pio, devoto. È un movimento ebraico sorto in Europa intorno al 1750. I suoi membri pongono l’accento sulla gioia del cuore e sulla retta intenzione.
[ii] Da: “ La Liturgia romana e l’inculturazione” (III, 41-42) – Istruzione della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 25 gennaio 1994.
http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/04-05/10a-Inno_Cristologico_Filippesi.html
LA CATECHESI DI BENEDETTO XVI: CRISTO SERVO DI DIO (Fil. 2,6-11)
In ogni celebrazione domenicale dei Vespri la liturgia ci ripropone il breve ma denso inno cristologico della Lettera ai Filippesi (cf 2,6-11). Quello che qui consideriamo è la prima sezione (cf vv. 6-8), ove si delinea la paradossale «spogliazione» del Verbo divino, che depone la sua gloria e assume la condizione umana. Questa parte viene pregata ai Primi Vespri della domenica della terza settimana.
Cristo incarnato e umiliato nella morte più infame, quella della crocifissione, è proposto come un modello vitale per il cristiano. Questi, infatti, – come si afferma nel contesto – deve avere «gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (v. 5), sentimenti di umiltà e di donazione, di distacco e di generosità.
Una scelta di umiltà
Egli, certo, possiede la natura divina con tutte le sue prerogative. Ma questa realtà trascendente non è interpretata e vissuta all’insegna del potere, della grandezza, del dominio. Cristo non usa il suo essere pari a Dio, la sua dignità gloriosa e la sua potenza come strumento di trionfo, segno di distanza, espressione di schiacciante supremazia (cf v. 6). Anzi, egli «spogliò», svuotò se stesso, immergendosi senza riserve nella misera e debole condizione umana. La «forma» (morphe) divina si nasconde in Cristo sotto la «forma» (morphe) umana, ossia sotto la nostra realtà segnata dalla sofferenza, dalla povertà, dal limite e dalla morte (cf v. 7).
Non si tratta quindi di un semplice rivestimento, di un’apparenza mutevole, come si riteneva accadesse alle divinità della cultura greco-romana: quella di Cristo è la realtà divina in un’esperienza autenticamente umana. Dio non appare soltanto come uomo, ma si fa uomo e diventa realmente uno di noi, diventa realmente «Dio-con-noi», che non si accontenta di guardarci con occhio benigno dal trono della sua gloria, ma si immerge personalmente nella storia umana, divenendo «carne», ossia realtà fragile, condizionata dal tempo e dallo spazio (cf Gv 1,14).
Fratello di ogni uomo
Questa condivisione radicale e vera della condizione umana, escluso il peccato (cf Eb 4,15), conduce Gesù fino a quella frontiera che è il segno della nostra finitezza e caducità, la morte. Questa non è, però, frutto di un meccanismo oscuro o di una cieca fatalità: essa nasce dalla sua libera scelta di obbedienza al disegno di salvezza del Padre (cf Fil 2,8).
L’Apostolo aggiunge che la morte a cui Gesù va incontro è quella di croce, ossia la più degradante, volendo in questo modo essere veramente fratello di ogni uomo e di ogni donna, anche di quelli costretti a una fine atroce e ignominiosa.
Ma proprio nella sua passione e morte Cristo testimonia la sua adesione libera, totale e cosciente al volere del Padre, come si legge nella Lettera agli Ebrei:
«Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,8).
Fermiamoci qui nella nostra riflessione sulla prima parte dell’inno cristologico, concentrato sull’Incarnazione e sulla passione redentrice. Avremo occasione in seguito di approfondire l’itinerario successivo, quello pasquale, che conduce dalla croce alla gloria. L’elemento fondamentale di questa prima parte dell’Inno mi sembra essere l’invito ad entrare nei sentimenti di Gesù.
Entrare nei sentimenti di Gesù vuol dire non considerare il potere, la ricchezza, il prestigio come i valori supremi della nostra vita, perché in fondo non rispondono alla più profonda sete del nostro spirito, ma aprire il nostro cuore all’Altro, portare con l’Altro il peso della nostra vita e aprirci al Padre dei Cieli con senso di obbedienza e fiducia, sapendo che proprio in quanto obbedienti al Padre saremo liberi. Entrare nei sentimenti di Gesù: questo sarebbe l’esercizio quotidiano da vivere come cristiani.
Carico delle nostre infermità
Concludiamo la nostra riflessione con un grande testimone della tradizione orientale, Teodoreto che fu Vescovo di Ciro, in Siria, nel V secolo:
«L’Incarnazione del nostro Salvatore rappresenta il più alto compimento della sollecitudine divina per gli uomini. Infatti, né il cielo né la terra né il mare né l’aria né il sole né la luna né gli astri né tutto l’universo visibile e invisibile, creato dalla sua sola parola o piuttosto portato alla luce dalla sua parola conformemente alla sua volontà, indicano la sua incommensurabile bontà quanto il fatto che il Figlio unigenito di Dio, colui che sussisteva in natura di Dio (cf Fil 2,6), riflesso della sua gloria, impronta della sua sostanza (cf Eb 1,3), che era in principio, era presso Dio ed era Dio, attraverso cui sono state fatte tutte le cose (cf Gv 1,1-3), dopo aver assunto la natura di servo, apparve in forma di uomo, per la sua figura umana fu considerato come uomo, fu visto sulla terra, con gli uomini ebbe rapporti, si caricò delle nostre infermità e prese su di sé le nostre malattie» (Discorsi sulla provvidenza divina, 10: Collana di testi patristici, LXXV, Roma 1988, pp. 250-251).
Teodoreto di Ciro prosegue la sua riflessione, mettendo in luce proprio lo stretto legame sottolineato dall’inno della Lettera ai Filippesi fra l’Incarnazione di Gesù e la Redenzione degli uomini.
«Il Creatore con saggezza e giustizia lavorò per la nostra salvezza. Poiché egli non ha voluto né servirsi soltanto della sua potenza per elargirci il dono della libertà né armare unicamente la misericordia contro colui che ha assoggettato il genere umano, affinché quegli non accusasse la misericordia d’ingiustizia, bensì ha escogitato una via carica di amore per gli uomini e al contempo adorna di giustizia.
Egli infatti, dopo aver unito a sé la natura dell’uomo ormai vinta, la conduce alla lotta e la dispone a riparare alla sconfitta, a sbaragliare colui che un tempo aveva iniquamente riportato la vittoria, a liberarsi dalla tirannide di chi l’aveva crudelmente fatta schiava e a recuperare la primitiva libertà» (ibidem, pp. 251-252).
Benedetto XVI
L’Osservatore Romano, 14-06-2005