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PACE NEL MONDO, DIALOGO FRA I CRISTIANI E FRA LE RELIGIONI (2002)

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PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA PROMOZIONE DELL’UNITÀ DEI CRISTIANI

PACE NEL MONDO, DIALOGO FRA I CRISTIANI E FRA LE RELIGIONI (2002)

La pace, shalom, è al centro del messaggio dell’Antico e del Nuovo Testamento. Pace, shalom nella Bibbia, non è soltanto un normale saluto quale espressione di cortesia; pace, shalom è l’escatologica promessa proveniente da Dio ed è l’augurio di benedizione fra gli uomini. Infatti Gesù Cristo stesso è la nostra pace (cfr Ef 2, 14). Benedetti da Dio in Gesù Cristo, i cristiani debbono essere fra di loro una benedizione ed una benedizione per tutte le nazioni. « Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio » (Mt 5, 9). La Chiesa è pertanto chiamata ad essere segno, strumento e testimone della pace, pace con Dio e tra gli uomini (cfr Lumen gentium, 1, 13).
Pace, giustizia e perdono
La pace tra gli uomini, quella tranquillitas ordinis insegnata da sant’Agostino, alla quale Papa Giovanni Paolo II si è riferito nel suo Messaggio per la Giornata della Pace del prossimo 1° gennaio (cfr n. 3), non va tuttavia intesa soltanto come silenzio delle armi e assenza della guerra. Essa è il frutto dell’ordine infuso nell’umana società dal suo fondatore (cfr Gaudium et spes, 78), e presuppone un impegno costante ad instaurare nel mondo la giustizia. Come afferma la Scrittura, la vera pace è « opera della giustizia » (Is 32, 17; cfr Gc 3, 18).
Per giustizia deve intendersi il riconoscimento della dignità di ogni persona, i suoi diritti umani fondamentali, la libertà di ognuno, l’assenza di discriminazioni a motivo della fede, della razza, della cultura, del sesso. Per giustizia deve intendersi il diritto di ciascuna creatura umana alla vita, alla terra, al cibo, all’acqua, ad un’educazione che la renda più pienamente consapevole di questi suoi diritti, e capace di autodeterminazione nella sua vita. Questo bene personale presuppone il bene comune, la giustizia sociale soprattutto per i poveri, l’equilibrio sociale e la stabilità dell’ordine sociale e politico.
Davanti ad un mondo contrassegnato dal peccato, dall’egoismo e dall’invidia, un mondo che troppo spesso nega con violenza la giustizia, e sconvolge, nel circolo vizioso dei conflitti, la tranquillitas ordinis, che è presupposto e sostanza della pace, non è possibile instaurare la pace senza la « sollecitudine misericordiosa e provvidenziale di Dio, che conosce le vie capaci di raggiungere i cuori più induriti e di trarre buoni frutti anche da una terra arida e infeconda » (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2002, n. 1). La pace è il dono del perdono, della redenzione e della nuova creazione; al pari dell’amore, della gioia, della penitenza, della benevolenza, della bontà, essa è frutto dello Spirito (cfr Gal 5, 22). Il regno di Dio è giustizia, pace e gioia nello Spirito (cfr Rm 14, 17).
Questa speranza deve sempre più profondamente animare la nostra preghiera. La pace deve essere costantemente implorata, affinché essa ci possa essere concessa ed essere salvaguardata. Ma l’arma della preghiera rafforza anche il nostro impegno per ribaltare le situazioni di ingiustizia, e agire insieme per l’edificazione di un mondo più giusto. Guidati dalla mansuetudine di Colui che ha predicato la giustizia per i poveri del Regno, i cristiani sanno che « la capacità di perdonare è la base per fondare un progetto di società più giusta e solidale » (ibid., n. 9).
I cristiani sanno che l’odio etnico, razziale, religioso, la spirale di violenza che colpisce, indistintamente, vittime e carnefici, può avere un antidoto: il perdono. Soltanto il perdono, infatti, ci situa al di sopra delle accuse; ci permette di non colpevolizzare, a causa di pochi, interi popoli; di non far ricadere sui figli le colpe dei padri. Il perdono, che dipende da ciascuno di noi, può ristabilire la giustizia e condurci da una situazione di guerra a una condizione di pace.
Riconciliazione e pace fra i cristiani
Proprio su questo argomento del legame fra pace, giustizia e perdono si situa l’importanza del dialogo ecumenico e della collaborazione dei cristiani tra di loro. « Di fronte al mondo, infatti, la loro azione congiunta nella società riveste il trasparente valore di una testimonianza resa insieme al nome del Signore » (Ut unum sint, 75). Ma non soltanto. Oppressi dalla loro storia di dispute e di scontri, colpevoli di aver a volte predicato ed imposto il Vangelo di Cristo anche con le armi, i cristiani hanno iniziato, soprattutto in questo secolo, l’impegnativo e lento cammino del loro reciproco perdono. Non c’è ecumenismo senza conversione e perdono (cfr ibid., 15 s, 33). La vergogna e l’interiore ravvedimento per lo scandalo della divisione, ravvedimento che lo Spirito suscita, sono alla base del movimento ecumenico (cfr Unitatis redintegratio, 1).
Oggi i cristiani hanno varcato la soglia del terzo millennio, e si trovano di fronte ad una scelta impegnativa, difficile, essenziale. L’impegno ecumenico, la promozione dell’unità dei cristiani è una delle grandi sfide e dei compiti più urgenti all’inizio del nuovo millennio (cfr Novo Millennio ineunte, 12, 48). I cristiani sono chiamati a « promuovere una spiritualità della comunione » (ibid., 43 s), ed essere così « luce del mondo », « città collocata sopra un monte » (Mt 5, 14).
Predicano il perdono, questa forma particolare dell’amore (cfr Messaggio, cit., n. 2), e faticosamente la applicano a loro stessi, alle loro Chiese in Oriente ed in Occidente. Dialogare, incontrarsi, purificare le loro memorie, è per le Chiese un atto di coraggio ed un gravoso impegno.
Esse sanno che « la coerenza e l’onestà delle intenzioni e delle affermazioni di principio si verificano applicandole alla vita concreta » (Ut unum sint, 74). Ciò le sollecita, nell’attuale situazione, ad avere tra loro un comportamento esemplare, che rechi al mondo una testimonianza di perdono, di concordia, di dialogo, che esige di essere ancora più profondo quando le divergenze sembrano insormontabili.
Le Chiese, malgrado le perduranti divisioni, grazie all’esperienza di dialogo che esse stanno vivendo, hanno potuto, fino ad oggi, almeno dimostrare che il processo di purificazione della memoria del loro passato genera a poco a poco un’evoluzione che fa prevalere « la legge « nuova » dello spirito di carità. La « fraternità universale » dei cristiani è diventata una ferma convinzione ecumenica » (ibid., 42). Vivono già in una comunione reale e profonda, sebbene essa non sia purtroppo ancora perfetta (cfr ibid., nn. 11-14). Nella testimonianza e nel servizio della pace, essi possono e debbono, già oggi, collaborare strettamente tra di loro.
Dialogo ecumenico e dialogo interreligioso
L’atteggiamento delle Chiese e la predisposizione al perdono, che esse applicano alle loro reciproche relazioni, deve indurle a dialogare insieme con le altre religioni e le altre culture affinché la morale ecumenica che esse ricercano nel loro agire, si rifletta sui rapporti e sul dialogo con le altre religioni, verso una collaborazione che valga a riaffermare i valori della vita e della cultura umana.
Il dialogo ecumenico ed il dialogo interreligioso sono connessi e legati, ma non si identificano l’uno con l’altro. Esiste tra i due una differenza specifica e qualitativa, e perciò non vanno confusi. Il dialogo ecumenico non si fonda soltanto sulla tolleranza ed il rispetto dovuto ad ogni convinzione umana e soprattutto religiosa; né esso si fonda soltanto su un filantropismo liberale o una mera cortesia borghese; al contrario, il dialogo ecumenico è radicato nella comune fede in Gesù Cristo e nel reciproco riconoscimento del battesimo per mezzo del quale tutti i battezzati sono membri dell’unico Corpo di Cristo (cfr Gal 3, 28; 1 Cor 12, 13; Ut unum sint, 42) e possono pregare insieme, come ci ha insegnato Gesù, « Padre nostro ». Nelle altre religioni, la Chiesa riconosce un raggio di quella verità « che illumina ogni uomo » (Gv 1, 9), ma che soltanto in Gesù Cristo è rivelata nella sua pienezza; solo lui è « la via, la verità e la vita » (Gv 14, 6; cfr Nostra aetate, 2). È pertanto ambiguo riferirsi al dialogo interreligioso in termini di macroecumenismo o di una nuova e più vasta fase dell’ecumenismo.
I cristiani e i seguaci delle altre religioni possono pregare, ma non possono pregare insieme. Ogni sincretismo è escluso. Nondimeno essi condividono il senso ed il rispetto di Dio o del Divino ed il desiderio di Dio o del Divino; il rispetto per la vita, il desiderio della pace con Dio o con il Divino, tra gli uomini e nel cosmo; essi condividono molti valori morali. Possono e debbono collaborare per difendere e promuovere insieme, a vantaggio di tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà. Ciò vale particolarmente per le religioni monoteiste, che vedono in Abramo il loro Padre nella fede.
L’invito per la Giornata di preghiera per la pace nel mondo è un modo per riaffermare tutto questo. La Chiesa cattolica considera questa partecipazione un’occasione utile per testimoniare insieme che « i cristiani si sentono sempre più interpellati dalla questione della pace » (Ut unum sint, 76).
Applicando i criteri della ricerca della loro propria unità, i cristiani rispettano le altre religioni. Essi sanno che la « legge nuova » dello spirito di carità incoraggia all’accoglienza, non esclude la legittima diversità. Essi sanno di avere in comune, con le altre religioni, l’arma della preghiera per implorare la pace.
Di fronte al male terribile dell’assenza di pace, di fronte all’infinita catena di lutti che reca la guerra, esse sanno di avere una sola alternativa: dare una testimonianza di reciproco perdono e di tranquillitas ordinis tra loro. Così chiediamo a tutti di percorrere con noi la stessa via di speranza verso la giustizia, la riconciliazione e la pace.

Card. WALTER KASPER
Presidente

Publié dans:PACE NEL MONDO (LA), Vaticano (dal |on 23 avril, 2018 |Pas de commentaires »

L’ANTITESTIMONIANZA E LO SCANDALO

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L’ANTITESTIMONIANZA E LO SCANDALO

Nella Lettera apostolica Tertio Millennio adveniente (n. 33), la Chiesa è inviata «a farsi carico con più viva consapevolezza del peccato dei suoi figli nel ricordo di tutte quelle circostanze in cui, nell’arco della storia, essi si sono allontanati dallo spirito di Cristo e del suo Vangelo, offrendo al mondo, anziché la testimonianza di una vita ispirata ai valori della fede, lo spettacolo di modi di pensare e di agire che erano vere forme di antitestimonianza e di scandalo».
Già nel 1975, l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di Paolo VI, raccogliendo i frutti della III Assemblea generale del Sinodo dei vescovi, consacrata alla evangelizzazione, aveva sottolineato l’importanza centrale della testimonianza. Queste parole hanno trovato una vasta risonanza, sono state riprese dall’attuale Magistero. Conservano tutta la loro pertinenza in vista della nuova evangelizzazione: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri … o se ascolta i maestri, lo fa perché sono dei testimoni …
È dunque mediante la sua condotta, mediante la sua vita, che la Chiesa evangelizzerà innanzitutto il mondo, vale a dire mediante la sua testimonianza vissuta di fedeltà al Signore Gesù, di povertà e di distacco, di libertà di fronte ai poteri di questo mondo, in una parola, di santità» (n. 41). Si rileverà che il soggetto della testimonianza, al di là dei cristiani presi singolarmente, è la Chiesa.
In vista del Grande Giubileo, il tema della testimonianza deve in modo del tutto particolare fare l’oggetto di un nostro esame di coscienza e di meditazione. Le poche considerazioni che seguono su quello che ne è il rovescio: l’antitestimonianza e lo scandalo.

Lo scandalo della Croce
Nel linguaggio della Scrittura lo scandalo significa un tranello, tutto quello che fa soccombere e, quindi, che mette alla prova la fede. Ma facciamo notare che, a seconda della provenienza, e a seconda delle capacità e delle disposizioni di chi è scandalizzato, il significato dello scandalo differisce completamente. Per il credente lo scandalo della Croce è adorabile. Questo scandalo non è un’antitestimonianza. È al contrario fonte della più grande testimonianza.
Dopo che Gesù, nella sinagoga di Cafarnao, ebbe annunciato il mistero dell’Eucaristia, una crisi profonda si produsse tra i discepoli. « Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo? ». Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro. Disse allora Gesù ai Dodici: Volete andarvene anche voi? Si conosce la risposta di Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna». Queste sono le parole della fede.
Di fronte allo smarrimento provocato dalle sue parole, Gesù non fece niente per attenuarle: «Questo vi scandalizza?». Egli precisa che in seguito capiranno e che questa comprensione è un dono dello Spirito, ch’essa s’identifica con il dono della fede: «Ma vi sono alcuni tra voi che non credono» (cf. Gv 6, 60-69).
La profondità e la sublimità del messaggio di Gesù, quindi, scandalizza, nel senso che è occasione di caduta per chi non crede o prova superata per colui che crede. Il tema dello scandalo, nel Nuovo Testamento, è dunque legato alla fede, come libera accoglienza del mistero di Cristo. Dinanzi al Vangelo non si può restare indifferente, tiepido, o sottrarsi: il Signore ci interpella personalmente e ci chiede di dichiararsi per lui (cf. Mt 10, 32-33).
Agli invitati di Giovanni che era in carcere, sconcertato per quello che sente dire dello svolgimento del ministero di Gesù, questo risponde evocando i segni messianici che l’accompagnano. E aggiunge: « beato colui che non si scandalizza di me» o: che non cadrà per causa mia (cf. Mt 11, 6).
La prima lettera di Pietro, 1, 7-8, riferendosi ad un brano d’Isaia (8, 14), afferma dal canto suo: «Onore dunque a voi che credete; ma per gli increduli la pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta la pietra angolare, sasso d’inciampo e pietra di scandalo». E vi è data la ragione: «loro v’inciampano perché non credono alla parola».
A questo scandalo, a questa prova della fede, Gesù preparerà i suoi discepoli, annunciando loro l’odio del mondo, le persecuzioni ma anche le consolazioni dello Spirito (cf. Gv 6, 14-16): «Vi ho detto queste cose perché non abbiate a scandalizzarvi (o affinché non soccombiate alla prova») (cf. Gv 16, 1).
È lo stesso paradosso di cui ci parla san Paolo nella prima lettera ai Corinzi, 1, 18-31. Il mondo peccatore non ha saputo riconoscere la Sapienza di Dio, che salverà i credenti per la stoltezza della predicazione del Messia crocifisso, stoltezza e scandalo. Il piano divino della salvezza rivela le profondità del mistero dell’agapè divina e ci invita a prendere coscienza dei nostri limiti, poiché il rifiuto ad aprirsi al mistero ha per motivo l’autosufficienza colpevole: «Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini».
Capire questo, alla luce della fede, è accogliere ciò che possiamo chiamare lo scandalo benedetto delle vie di Dio, è accogliere il mistero della Croce, fonte di salvezza. L’esigenza posta così è l’esigenza della purezza della fede, di un’adesione alla infinita trascendenza della sapienza salvifica di Dio.
L’accoglienza del mistero della salvezza con la fede suppone da parte nostra la purezza di cuore, e di conseguenza un impegno sul cammino della conversione. Ci si ricorderà della bellissima pagina del Vangelo: «In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: « Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto, queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Si, Padre, perché così a te è piaciuto. Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare »» (cf. Lc. 10, 21-22).

Se il tuo occhio ti è occasione di scandalo
C’è una profonda corrispondenza tra le anawime di cui parlano le righe precedenti e l’accoglienza del mistero, che risulta uno scandalo per colui che resta chiuso nella sua sufficienza. I discepoli fanno così notare a Gesù dopo il suo insegnamento sul puro e l’impuro: «Sai che i farisei si sono scandalizzati nel sentire queste parole?» (cf. Mt. 15, 12). Qui l’accento si sposta: lo scandalo non è più, se si può dire, sulle profondità del disegno di Dio, è nella cecità del cuore.
Esistono degli scandali che provengono da noi o dei quali siamo più o meno direttamente responsabili ed che è nostro dovere togliere dalla nostra strada.
La parola di Gesù è categorica: «Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna. E se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te…» (Mt. 5, 29-30, cf. anche 18, 8-9).
Il vigilare e il coraggio delle rinunce fa anche esso parte del cammino della conversione. Qui lo scandalo è l’ostacolo che occorre scartare totalmente. Per questo sappiamo di poter contare sull’aiuto di Dio, al quale lo chiediamo tutti i giorni: «non ci indurre in tentazione».

Lo scandalo dei piccoli
È dopo aver invitato i discepoli a farsi piccoli e ad accogliere i bambini, che Gesù parla, con grande severità dello scandalo arrecato ad altri: «Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare. Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!» (cf. Mt. 18, 6-7).
Necessità non vuol dire evidentemente fatalità. Significa che lo scandalo è inevitabile essendo il mondo segnato dal peccato. Ma questo non deve portare alla passività e alla rassegnazione. L’animazione evangelica della vita sociale è un dovere dei cristiani. Quindi devono alzare la voce ed impegnarsi in favore dei «piccoli» senza difesa e prendere delle iniziative per correggere i costumi il cui degrado offende la dignità dell’essere umano creato ad immagine di Dio.

La legge della carità
L’infanzia evoca dipendenza e debolezza. Su quest’ultimo punto, san Paolo enuncia il principio che ci deve sempre guidare: «Noi che siamo i forti abbiamo il dovere di sopportare l’infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi. Ciascuno di noi cerchi di compiacere il prossimo nel bene, per edificarlo. Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso, ma come sta scritto: gli insulti di coloro che ti insultano sono caduti sopra di me» (cf. Rm. 15, 1-3).
Quel che non è scandalo per l’uno può esserlo per l’altro. San Paolo detta a questo proposito ai cristiani di Roma la condotta che devono assumere. Alcuni di loro si credono in coscienza ancora sostenuti dall’osservanza delle prescrizioni legali del giudaismo, altri hanno capito di essersene liberati, ed erano portati a disprezzare i primi: «Cessiamo dunque dal giudicarci gli uni gli altri; pensate invece a non esser causa di inciampo o di scandalo al fratello…. Tutto è mondo, d’accordo; ma è male per un uomo mangiare dando scandalo» (cf. Mt. 14, 13. 20).
La regola è la ricerca della pace e della reciproca edificazione. L’apostolo aveva incontrato un’analoga situazione a Corinto, ma si trattava probabilmente di cristiani provenienti dal paganesimo, la cui coscienza era turbata quando consumavano della carne precedentemente sacrificata agli idoli. A quelli che hanno capito che l’idolo est nulla, Paolo scrive: «Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli … Ed ecco, per la tua scienza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello» (cf. 1 Co, 8, 9. 1113). La debolezza può essere quella di una coscienza poco illuminata, come nei casi esaminati direttamente da Paolo. Può essere ancora la presenza di tenaci pregiudizi, di malintesi o la difficoltà a capire alcuni segni.
Così lo scandalo investe un campo vasto di situazioni diverse e contrastate. La testimonianza più alta, quella del martirio, è perfetta comunione allo scandalo della Croce. Al contrario, lo scandalo del peccato, incitazione o cattivo esempio, porta con sè la caduta del prossimo. È una tentazione colpevole. Ci sono, in fine, dei comportamenti che, senza essere riprovevoli in se stessi, offendono la carità perché il prossimo non è atto a capirli. Allora, l’amore fraterno che è la regola suprema, richiede dei sacrifici e delle rinunce. Per un esame di coscienza che abbraccia il passato, il presente, e i progetti futuri, è giusto ricordarsi di questo triplice parametro.

GEORGES COTTIER

Publié dans:LO SCANDALO, Vaticano (dal |on 25 février, 2015 |Pas de commentaires »

COMMISSIONE PER I RAPPORTI RELIGIOSI CON L’EBRAISMO NOI RICORDIAMO: UNA RIFLESSIONE SULLA SHOAH (1998)

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COMMISSIONE PER I RAPPORTI RELIGIOSI CON L’EBRAISMO

NOI RICORDIAMO: UNA RIFLESSIONE SULLA SHOAH

Al Signor Cardinale
EDWARD IDRIS CASSIDY
Presidente della Commissione
per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo

In numerose occasioni durante il mio Pontificato ho richiamato con senso di profondo rammarico le sofferenze del popolo ebreo durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il crimine che è diventato noto come la Shoah rimane un’indelebile macchia nella storia del secolo che si sta concludendo.
Preparandoci ad iniziare il terzo millennio dell’era cristiana, la Chiesa è consapevole che la gioia di un Giubileo è soprattutto una gioia fondata sul perdono dei peccati e sulla riconciliazione con Dio e con il prossimo. Perciò Essa incoraggia i suoi figli e figlie a purificare i loro cuori, attraverso il pentimento per gli errori e le infedeltà del passato. Essa li chiama a mettersi umilmente di fronte a Dio e ad esaminarsi sulla responsabilità che anch’essi hanno per i mali del nostro tempo.
È mia fervida speranza che il documento: Noi ricordiamo: una Riflessione sulla Shoah, che la Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo ha preparato sotto la Sua guida, aiuti veramente a guarire le ferite delle incomprensioni ed ingiustizie del passato. Possa esso abilitare la memoria a svolgere il suo necessario ruolo nel processo di costruzione di un futuro nel quale l’indicibile iniquità della Shoah non sia mai più possibile. Possa il Signore della storia guidare gli sforzi di Cattolici ed Ebrei e di tutti gli uomini e donne di buona volontà così che lavorino insieme per un mondo di autentico rispetto per la vita e la dignità di ogni essere umano, poiché tutti sono stati creati ad immagine e somiglianza di Dio.

Dal Vaticano, 12 marzo 1998.

COMMISSIONE PER I RAPPORTI RELIGIOSI CON L’EBRAISMO
NOI RICORDIAMO: UNA RIFLESSIONE SULLA SHOAH

I. La tragedia della Shoah ed il dovere della memoria
Si sta rapidamente concludendo il XX secolo e spunta ormai l’aurora di un nuovo millennio cristiano. Il Bimillenario della nascita di Gesù Cristo sollecita tutti i cristiani, e invita in realtà ogni uomo e ogni donna, a cercare di scoprire nel fluire della storia i segni della divina Provvidenza all’opera, come pure i modi in cui l’immagine del Creatore presente nell’uomo è stata offesa e sfigurata.
Questa riflessione riguarda uno dei principali settori in cui i cattolici possono seriamente prendere a cuore il richiamo loro rivolto da Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Tertio millennio adveniente: « È giusto pertanto che, mentre il secondo Millennio del cristianesimo volge al termine, la Chiesa si faccia carico con più viva consapevolezza del peccato dei suoi figli nel ricordo di tutte quelle circostanze in cui, nell’arco della storia, essi si sono allontanati dallo spirito di Cristo e del suo Vangelo, offrendo al mondo, anziché la testimonianza di una vita ispirata ai valori della fede, lo spettacolo di modi di pensare e di agire che erano vere forme di antitestimonianza e di scandalo ».(1)
Il secolo attuale è stato testimone di un’indicibile tragedia, che non potrà mai essere dimenticata: il tentativo del regime nazista di sterminare il popolo ebraico, con la conseguente uccisione di milioni di ebrei. Uomini e donne, vecchi e giovani, bambini ed infanti, solo perché di origine ebraica, furono perseguitati e deportati. Alcuni furono uccisi immediatamente, altri furono umiliati, maltrattati, torturati e privati completamente della loro dignità umana, e infine uccisi. Pochissimi di quanti furono internati nei campi di concentramento sopravvissero, e i superstiti rimasero terrorizzati per tutta la vita. Questa fu la Shoah: uno dei principali drammi della storia di questo secolo, un fatto che ci riguarda ancora oggi.
Dinanzi a questo orribile genocidio, che i responsabili delle nazioni e le stesse comunità ebraiche trovarono difficile da credere nel momento in cui veniva perpetrato senza misericordia, nessuno può restare indifferente, meno di tutti la Chiesa, in ragione dei suoi legami strettissimi di parentela spirituale con il popolo ebraico e del ricordo che essa nutre delle ingiustizie del passato. La relazione della Chiesa con il popolo ebraico è diversa da quella che condivide con ogni altra religione.(2) Non è soltanto questione di ritornare al passato. Il futuro comune di ebrei e cristiani esige che noi ricordiamo, perché « non c’è futuro senza memoria ».(3) La storia stessa è memoria futuri.
Nel rivolgere questa riflessione ai nostri fratelli e sorelle della Chiesa cattolica sparsi nel mondo, chiediamo a tutti i cristiani di unirsi a noi nel riflettere sulla catastrofe che colpì il popolo ebraico, e sull’imperativo morale di far sì che mai più l’egoismo e l’odio abbiano a crescere fino al punto da seminare sofferenze e morte.(4) In modo particolare, chiediamo ai nostri amici ebrei, « il cui terribile destino è divenuto simbolo dell’aberrazione cui può giungere l’uomo, quando si volge contro Dio »,(5) di predisporre il loro cuore ad ascoltarci.

II. Che cosa dobbiamo ricordare
Nel dare la sua singolare testimonianza al Santo di Israele ed alla Torah, il popolo ebraico ha grandemente patito in diversi tempi ed in molti luoghi. Ma la Shoah fu certamente la sofferenza peggiore di tutte. L’inumanità con cui gli ebrei furono perseguitati e massacrati in questo secolo va oltre la capacità di espressione delle parole. E tutto questo fu fatto loro per la sola ragione che erano ebrei.
La stessa enormità del crimine suscita molte domande. Storici, sociologi, filosofi politici, psicologi e teologi tentano di conoscere di più circa la realtà e le cause della Shoah. Molti studi specialistici rimangono ancora da compiere. Ma un simile evento non può essere pienamente misurato attraverso i soli criteri ordinari della ricerca storica. Esso richiama ad una « memoria morale e religiosa » e, in particolare tra i cristiani, ad una riflessione molto seria sulle cause che lo provocarono. Il fatto che la Shoah abbia avuto luogo in Europa, cioè in paesi di lunga civilizzazione cristiana, pone la questione della relazione tra la persecuzione nazista e gli atteggiamenti dei cristiani, lungo i secoli, nei confronti degli ebrei.

III. Le relazioni tra ebrei e cristiani
La storia delle relazioni tra ebrei e cristiani è una storia tormentata. Lo ha riconosciuto il Santo Padre Giovanni Paolo II nei suoi ripetuti appelli ai cattolici a considerare il nostro atteggiamento nei confronti delle nostre relazioni con il popolo ebraico.(6) In effetti il bilancio di queste relazioni durante i due millenni è stato piuttosto negativo.(7)
Agli albori del cristianesimo, dopo la crocifissione di Gesù, sorsero contrasti tra la Chiesa primitiva ed i capi dei giudei ed il popolo ebraico i quali, per ossequio alla Legge, a volte si opposero violentemente ai predicatori del Vangelo e ai primi cristiani. Nell’impero romano, che era pagano, gli ebrei erano legalmente protetti dai privilegi garantiti loro dall’Imperatore e le autorità in un primo tempo non fecero distinzione tra le comunità giudee e cristiane. Ben presto, tuttavia, i cristiani incorsero nella persecuzione dello Stato. Quando, in seguito, gli imperatori stessi si convertirono al cristianesimo, dapprima continuarono a garantire i privilegi degli ebrei. Ma gruppi esagitati di cristiani che assalivano i templi pagani, fecero in alcuni casi lo stesso nei confronti delle sinagoghe, non senza subire l’influsso di certe erronee interpretazioni del Nuovo Testamento concernenti il popolo ebraico nel suo insieme. « Nel mondo cristiano — non dico da parte della Chiesa in quanto tale — interpretazioni erronee e ingiuste del Nuovo Testamento riguardanti il popolo ebreo e la sua presunta colpevolezza sono circolate per troppo tempo, generando sentimenti di ostilità nei confronti di questo popolo ».(8) Tali interpretazioni del Nuovo Testamento sono state totalmente e definitivamente rigettate dal Concilio Vaticano II.(9)
Nonostante la predicazione cristiana dell’amore verso tutti, compresi gli stessi nemici, la mentalità prevalente lungo i secoli ha penalizzato le minoranze e quanti erano in qualche modo « differenti ». Sentimenti di antigiudaismo in alcuni ambienti cristiani e la divergenza che esisteva tra la Chiesa ed il popolo ebraico, condussero a una discriminazione generalizzata, che sfociava a volte in espulsioni o in tentativi di conversioni forzate. In una larga parte del mondo « cristiano », fino alla fine del XVIII secolo, quanti non erano cristiani non sempre godettero di uno status giuridico pienamente garantito. Nonostante ciò, gli ebrei diffusi in tutto il mondo cristiano rimasero fedeli alle loro tradizioni religiose ed ai costumi loro propri. Furono per questo considerati con un certo sospetto e diffidenza. In tempi di crisi come carestie, guerre e pestilenze o di tensioni sociali, la minoranza ebraica fu più volte presa come capro espiatorio, divenendo così vittima di violenze, saccheggi e persino di massacri.
Tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX secolo, gli ebrei avevano generalmente raggiunto una posizione di uguaglianza nei confronti degli altri cittadini nella maggioranza degli Stati, e un certo numero di loro giunse a ricoprire ruoli influenti nella società. Ma in questo stesso contesto storico, in particolare nel XIX secolo, prese piede un nazionalismo esasperato e falso. In un clima di rapido cambiamento sociale, gli ebrei furono spesso accusati di esercitare un’influenza sproporzionata rispetto al loro numero. Allora cominciò a diffondersi in vario grado, attraverso la maggior parte d’Europa, un antigiudaismo che era essenzialmente più sociopolitico che religioso.
Nello stesso periodo, cominciarono ad apparire delle teorie che negavano l’unità della razza umana, affermando una originaria differenza delle razze. Nel XX secolo, il nazionalsocialismo in Germania usò tali idee come base pseudo-scientifica per una distinzione tra le così dette razze nordico-ariane e presunte razze inferiori. Inoltre, una forma estremistica di nazionalismo fu stimolata in Germania dalla sconfitta del 1918 e dalle condizioni umilianti imposte dai vincitori, con la conseguenza che molti videro nel nazionalsocialismo una soluzione ai problemi del Paese e perciò cooperarono politicamente con questo movimento.
La Chiesa in Germania rispose condannando il razzismo. Tale condanna apparve per la prima volta nella predicazione di alcuni tra il clero, nell’insegnamento pubblico dei Vescovi cattolici e negli scritti di giornalisti cattolici. Già nel febbraio e marzo 1931, il Cardinale Bertram di Breslavia, il Cardinale Faulhaber ed i Vescovi della Baviera, i Vescovi della Provincia di Colonia e quelli della provincia di Friburgo pubblicarono lettere pastorali che condannavano il nazionalsocialismo, con la sua idolatria della razza e dello Stato.(10) L’anno stesso in cui il nazionalsocialismo giunse al potere, il 1933, i ben noti sermoni d’Avvento del Cardinale Faulhaber, ai quali assistettero non soltanto cattolici, ma anche protestanti ed ebrei, ebbero espressioni di chiaro ripudio della propaganda nazista antisemitica.(11) A seguito della Kristallnacht, Bernard Lichtenberg, prevosto della Cattedrale di Berlino, elevò pubbliche preghiere per gli ebrei. Egli morì poi a Dachau ed è stato dichiarato Beato.
Anche il Papa Pio XI condannò il razzismo nazista in modo solenne nell’Enciclica Mit brennender Sorge,(12) che fu letta nelle chiese di Germania nella Domenica di Passione del 1937, iniziativa che procurò attacchi e sanzioni contro membri del clero. Il 6 settembre 1938, rivolgendosi ad un gruppo di pellegrini belgi, Pio XI asserì: « L’antisemitismo è inaccettabile. Spiritualmente siamo tutti semiti ».(13) Pio XII, fin dalla sua prima enciclica, Summi Pontificatus,(14) del 20 ottobre 1939, mise in guardia contro le teorie che negavano l’unità della razza umana e contro la deificazione dello Stato, tutte cose che egli prevedeva avrebbero condotto ad una vera « ora delle tenebre ».(15)

IV. Antisemitismo nazista e la Shoah
Non si può ignorare la differenza che esiste tra l’antisemitismo, basato su teorie contrarie al costante insegnamento della Chiesa circa l’unità del genere umano e l’uguale dignità di tutte le razze e di tutti i popoli, ed i sentimenti di sospetto e di ostilità perduranti da secoli che chiamiamo antigiudaismo, dei quali, purtroppo, anche dei cristiani sono stati colpevoli.
L’ideologia nazionalsocialista andò anche oltre, nel senso che rifiutò di riconoscere qualsiasi realtà trascendente quale fonte della vita e criterio del bene morale. Di conseguenza, un gruppo umano, e lo Stato con il quale esso si era identificato, si arrogò un valore assoluto e decise di cancellare l’esistenza stessa del popolo ebraico, popolo chiamato a rendere testimonianza all’unico Dio e alla Legge dell’Alleanza. A livello teologico non possiamo ignorare il fatto che non pochi aderenti al partito nazista non solo mostrarono avversione all’idea di una divina Provvidenza all’opera nelle vicende umane, ma diedero pure prova di un preciso odio nei confronti di Dio stesso. Logicamente, un simile atteggiamento condusse pure al rigetto del cristianesimo, e al desiderio di vedere distrutta la Chiesa o per lo meno sottomessa agli interessi dello Stato nazista.
Fu questa ideologia estrema che divenne la base delle misure intraprese, prima per sradicare gli ebrei dalle loro case e poi per sterminarli. La Shoah fu l’opera di un tipico regime moderno neopagano. Il suo antisemitismo aveva le proprie radici fuori del cristianesimo e, nel perseguire i propri scopi, non esitò ad opporsi alla Chiesa perseguitandone pure i membri.
Ma ci si deve chiedere se la persecuzione del nazismo nei confronti degli ebrei non sia stata facilitata dai pregiudizi antigiudaici presenti nelle menti e nei cuori di alcuni cristiani. Il sentimento antigiudaico rese forse i cristiani meno sensibili, o perfino indifferenti, alle persecuzioni lanciate contro gli ebrei dal nazionalsocialismo quando raggiunse il potere?
Ogni risposta a questa domanda deve tener conto del fatto che stiamo trattando della storia di atteggiamenti e modi di pensare di gente soggetta a molteplici influenze. Ancor più, molti furono totalmente ignari della « soluzione finale » che stava per essere presa contro un intero popolo; altri ebbero paura per se stessi e per i loro cari; alcuni trassero vantaggio dalla situazione; altri infine furono mossi dall’invidia. Una risposta va data caso per caso e, per farlo, è necessario conoscere ciò che precisamente motivò le persone in una specifica situazione.
All’inizio, i capi del Terzo Reich cercarono di espellere gli ebrei. Sfortunatamente, i Governi di alcuni Paesi occidentali di tradizione cristiana, inclusi alcuni del Nord e Sud America, furono più che esitanti ad aprire i loro confini agli ebrei perseguitati. Anche se non potevano prevedere quanto lontano sarebbero andati i gerarchi nazisti nelle loro intenzioni criminali, i capi di tali nazioni erano a conoscenza delle difficoltà e dei pericoli a cui erano esposti gli ebrei che vivevano nei territori del Terzo Reich. In quelle circostanze, la chiusura delle frontiere all’immigrazione ebraica, sia che fosse dovuta all’ostilità antigiudaica o al sospetto antigiudaico, a codardia o limitatezza di visione politica o a egoismo nazionale, costituisce un grave peso di coscienza per le autorità in questione.
Nelle terre dove il nazismo intraprese la deportazione di massa, la brutalità che accompagnò questi movimenti forzati di gente inerme, avrebbe dovuto suscitare il sospetto del peggio. I cristiani offrirono ogni possibile assistenza ai perseguitati, e in particolare agli ebrei?
Molti lo fecero, ma altri no. Coloro che aiutarono a salvare quanti più ebrei fu loro possibile, sino al punto di mettere le loro vite in pericolo mortale, non devono essere dimenticati. Durante e dopo la guerra, comunità e personalità ebraiche espressero la loro gratitudine per quanto era stato fatto per loro, compreso anche ciò che Pio XII aveva fatto personalmente o attraverso suoi rappresentanti per salvare centinaia di migliaia di vite di ebrei.(16) Molti Vescovi, preti, religiosi e laici, sono stati per tale ragione onorati dallo Stato di Israele.
Nonostante ciò, come Papa Giovanni Paolo II ha riconosciuto, accanto a tali coraggiosi uomini e donne, la resistenza spirituale e l’azione concreta di altri cristiani non fu quella che ci si sarebbe potuto aspettare da discepoli di Cristo. Non possiamo conoscere quanti cristiani in paesi occupati o governati dalle potenze naziste o dai loro alleati, constatarono con orrore la scomparsa dei loro vicini ebrei, ma non furono tuttavia forti abbastanza per alzare le loro voci di protesta. Per i cristiani questo grave peso di coscienza di loro fratelli e sorelle durante l’ultima guerra mondiale deve essere un richiamo al pentimento.(17)
Deploriamo profondamente gli errori e le colpe di questi figli e figlie della Chiesa. Facciamo nostro ciò che disse il Concilio Vaticano II con la Dichiarazione Nostra aetate, che inequivocabilmente afferma: « La Chiesa… memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo e da chiunque ».(18)
Ricordiamo e facciamo nostro quanto Papa Giovanni Paolo II, nel rivolgersi ai capi della comunità ebraica di Strasburgo nel 1988 affermò: « Ribadisco nuovamente insieme con voi la più ferma condanna di ogni antisemitismo e di ogni razzismo, che si oppongono ai principi del cristianesimo ».(19) La Chiesa cattolica, pertanto, ripudia ogni persecuzione, in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo, perpetrata contro un popolo o un gruppo umano. Essa condanna nel modo più fermo tutte le forme di genocidio, come pure le ideologie razziste che l’hanno reso possibile. Volgendo lo sguardo su questo secolo, siamo profondamente addolorati per la violenza che ha colpito gruppi interi di popoli e di nazioni. Ricordiamo in modo particolare il massacro degli armeni, le vittime innumerevoli nell’Ucraina degli anni ’30, il genocidio degli zingari, frutto anch’esso di idee razziste, e tragedie simili accadute in America, in Africa e nei Balcani. Né vogliamo dimenticare i milioni di vittime dell’ideologia totalitaria nell’Unione Sovietica, in Cina, in Cambogia ed altrove. Neppure possiamo dimenticare il dramma del Medio Oriente, i cui termini sono ben noti. Anche mentre noi facciamo la presente riflessione, « troppi uomini continuano ad essere vittime dei propri fratelli ».(20)

V. Guardando insieme ad un futuro comune
Guardando al futuro delle relazioni tra ebrei e cristiani, in primo luogo chiediamo ai nostri fratelli e sorelle cattolici di rinnovare la consapevolezza delle radici ebraiche della loro fede. Chiediamo loro di ricordare che Gesù era un discendente di Davide; che dal popolo ebraico nacquero la Vergine Maria e gli Apostoli; che la Chiesa trae sostentamento dalle radici di quel buon ulivo a cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico dei gentili (cfr Rm 11,17-24); che gli ebrei sono nostri cari ed amati fratelli, e che, in un certo senso, sono veramente i « nostri fratelli maggiori ».(21)
Al termine di questo Millennio la Chiesa cattolica desidera esprimere il suo profondo rammarico per le mancanze dei suoi figli e delle sue figlie in ogni epoca. Si tratta di un atto di pentimento (teshuva): come membri della Chiesa, condividiamo infatti sia i peccati che i meriti di tutti i suoi figli. La Chiesa si accosta con profondo rispetto e grande compassione all’esperienza dello sterminio, la Shoah, sofferta dal popolo ebraico durante la seconda Guerra Mondiale. Non si tratta di semplici parole, bensì di un impegno vincolante. « Rischieremmo di far morire nuovamente le vittime delle più atroci morti, se non avessimo la passione della giustizia e se non ci impegnassimo, ciascuno secondo le proprie capacità, a far sì che il male non prevalga sul bene, come è accaduto nei confronti di milioni di figli del popolo ebraico… L’umanità non può permettere che ciò accada di nuovo ».(22)
Preghiamo che il nostro dolore per le tragedie che il popolo ebraico ha sofferto nel nostro secolo conduca a nuove relazioni con il popolo ebraico. Desideriamo trasformare la consapevolezza dei peccati del passato in fermo impegno per un nuovo futuro nel quale non ci sia più sentimento antigiudaico tra i cristiani e sentimento anticristiano tra gli ebrei, ma piuttosto un rispetto reciproco condiviso, come conviene a coloro che adorano l’unico Creatore e Signore ed hanno un comune padre nella fede, Abramo.
Infine, invitiamo gli uomini e le donne di buona volontà a riflettere profondamente sul significato della Shoah. Le vittime dalle loro tombe, e i sopravvissuti attraverso la vivida testimonianza di quanto hanno sofferto, sono diventati un forte grido che richiama l’attenzione di tutta l’umanità. Ricordare questo terribile dramma significa prendere piena coscienza del salutare monito che esso comporta: ai semi infetti dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo non si deve mai più consentire di mettere radice nel cuore dell’uomo.

16 Marzo 1998.

Cardinale Edward Idris Cassidy
Presidente

Pierre Duprey
Vescovo tit. di Thibar
Vice-Presidente

Remi Hoeckman O.P.
Segretario

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CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, OMELIA, 2006 – 1 COR – BIBLICA – SACRAMENTARIA

http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccatheduc/documents/rc_con_ccatheduc_doc_20060918_collegio-s-paolo_it.html  

CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA

CELEBRAZIONE EUCARISTICA PER I PARTECIPANTI AL SEMINARIO DI AGGIORNAMENTO PER I VESCOVI DEI TERRITORI DIPENDENTI DALLA CONGREGAZIONE PER L’EVANGELIZZAZIONE DEI POPOLI -

1 COR – BIBLICA – SACRAMENTARIA

OMELIA DEL CARD. ZENON GROCHOLEWSKI

Pontificio Collegio di San Paolo Apostolo, Roma

Lunedì, 18 settembre 2006

In questi giorni di preghiera e di riflessione siamo desiderosi di essere illuminati e rafforzati, per saper dedicarci con tutte le forze ed efficacemente al servizio del Signore. In tale prospettiva la comune celebrazione dell’Eucaristia non è qualcosa accanto, ma svolge un ruolo rilevante. Proprio alla Celebrazione Eucaristica vorrei dedicare la mia breve riflessione. Le odierne letture (lunedì della 24 sett. del T.O. anno pari), infatti, ci suggeriscono qualche considerazione al riguardo.

1. L’esame di coscienza per come celebriamo l’Eucaristia Nella prima lettura (1 Cor 11, 17-26) san Paolo si dimostra amareggiato a motivo del fatto che i Corinzi, per le loro divisioni, per il comportamento scorretto e soprattutto per la mancanza di carità, per egoismo, profanano il loro « mangiare la cena del Signore », profanano la Celebrazione Eucaristica. Ci impressionano i fatti denunciati che hanno accompagnato tali celebrazioni, come la golosità e l’ubriachezza. Sono quindi dure le parole di san Paolo: « Fratelli, non posso lodarvi per il fatto che le vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio [...] Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo! ». Nel seguito del brano che abbiamo ascoltato, san Paolo continua:  « Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore ». Di conseguenza, l’Apostolo invita a fare l’esame di coscienza: « Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna » (1 Cor 11, 27-29). Noi, celebrando oggi l’Eucaristia, certamente non meritiamo un rimprovero per i fatti scandalosi descritti da san Paolo. Forse ci sono, però, altre mancanze nei nostri cuori che fanno sì che il nostro atteggiamento non corrisponda pienamente a quello che dovrebbe caratterizzare ogni ministro sacro nella celebrazione dell’Eucaristia. Il grave rimprovero di san Paolo ai Corinzi, comunque, ci suggerisce di esaminare la coscienza e di riflettere sull’incidenza dell’Eucaristia sul nostro ministero episcopale. L’Esortazione Apostolica Post-sinodale Pastores gregis « sul Vescovo servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo » (16 ottobre 2003), osserva:  « l’Eucaristia è al centro della vita e della missione del Vescovo, come di ogni sacerdote » (n. 16a). Anzi, dice: « Tra tutte le incombenze del ministero pastorale del Vescovo, l’impegno per la celebrazione dell’Eucaristia è il più cogente e importante [!] » (n. 37d), sia per quanto riguarda la propria celebrazione sia per quanto concerne il compito di provvedere affinché i fedeli abbiano la possibilità di partecipare fruttuosamente alle degne celebrazioni eucaristiche. Infatti, se nell’Eucaristia è realmente presente il Mistero Pasquale, da cui nacque la Chiesa, di cui la Chiesa vive, si nutre e si edifica (cfr Enc. Ecclesia de Eucharistia); se « l’Eucaristia è fonte e culmine di tutta la vita cristiana »; se « tutti i sacramenti, come pure tutti i ministeri ecclesiastici e le opere ecclesiastiche di apostolato, sono strettamente uniti alla sacra Eucaristia e ad essa sono ordinati » (CCC, n. 1324); allora non ci può essere una cosa più importante per un Vescovo che l’Eucaristia, qualsiasi dimensione della sua vita e del suo apostolato prendiamo in considerazione. Quindi anche nell’aspetto delle vocazioni agli Ordini Sacri, per le quali preghiamo nell’odierna Messa in modo del tutto particolare, l’Eucaristia rimane « fonte e culmine » del nostro operato e della nostra preoccupazione in questo campo. Con l’Eucaristia, infatti, per renderla quello che essa deve essere nella nostra vita e nel nostro apostolato, dobbiamo misurarci ogni giorno di nuovo. Pertanto, mentre siamo sempre pieni di stupore di fronte al mistero che celebriamo, all’inizio di ogni Santa Messa invochiamo la misericordia del Signore su di noi. Sia fatto questo sempre con serietà e riflessione, allo scopo di rendere costantemente più perfetta la nostra celebrazione.

2. La carità la fede e l’umiltà Vediamo che cosa ci dice a tale riguardo il Vangelo che abbiamo ascoltato (Lc 7, 1-10)! Esso non parla dell’Eucaristia, ma della guarigione del servo di un centurione pagano. Nondimeno questa scena del Vangelo getta pure una luce sull’atteggiamento necessario per una degna e fruttuosa celebrazione dell’Eucaristia, tanto più che prima di assumere il Corpo e Sangue di Cristo durante la Messa ripetiamo proprio le parole del centurione, un po’ parafrasate:  « Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa:  ma dì soltanto una parola e io sarò salvato ». Il racconto di Luca è molto significativo. Egli espone gli elementi dell’atteggiamento del centurione che gli hanno guadagnato la benevolenza di Gesù. Essi appaiono progressivamente in due distinti momenti. Nel primo momento, gli anziani dei Giudei, mandati dal centurione a Gesù, intercedono per lui dicendo:  « Egli merita che tu gli faccia questa grazia [...], perché ama il nostro popolo, ed è stato lui a costruirci la sinagoga ». Il primo elemento, quindi, che capta la benevolenza di Gesù è la bontà, la carità che il centurione ha esercitato. Dopo questa raccomandazione, quindi, Gesù si incammina verso la casa del centurione. San Paolo nella prima lettura rimproverava ai Corinzi proprio la mancanza di carità. La carità, l’amore di Dio e dei fratelli ci ottiene la benevolenza del Signore anche nel nostro accostamento all’Eucaristia. Si deve avere presente a tale riguardo che l’Eucaristia racchiude il più grande atto d’amore di Dio verso di noi. L’amore quindi ci predispone per la fruttuosa celebrazione dell’Eucaristia e questa, dal canto suo, celebrata degnamente, ci fa crescere nell’amore. Ecco, il primo aspetto dell’atteggiamento corretto, ricavato dall’odierno Vangelo, nel celebrare degnamente l’Eucaristia: l’amore, la carità. Nel secondo momento, quando già i protagonisti della scena dell’odierno Vangelo erano non molto distanti dalla casa del centurione, accade una cosa straordinaria, che suscita l’ammirazione di Gesù. Il centurione manda alcuni amici a dire a Gesù:  « Signore, non stare a disturbarti, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo non mi sono neanche ritenuto degno di venire da te, ma comanda con una parola e il mio servo sarà guarito. Anch’io infatti sono uomo sottoposto a un’autorità, e ho sotto di me dei soldati; e dico all’uno: Va ed egli va, e a un altro:  Vieni, ed egli viene, e al mio servo: Fa questo, ed egli lo fa ». L’Evangelista nota:  « All’udire questo Gesù restò ammirato e rivolgendosi alla folla che lo seguiva disse: « Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande! »". E il servo all’istante è stato guarito. Quante volte, del resto, Gesù ha compiuto miracoli scorgendo e premiando la fede! La fede costituisce certamente un atteggiamento che permette a Dio di colmarci dei suoi doni. Senza la fede, comunque, neppure si capisce l’Eucaristia. Mi permetto qui ripetere le parole di san Paolo citate all’inizio:  « chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore [ossia senza la fede eucaristica], mangia e beve la propria condanna ». In ogni caso, non c’è alcun dubbio che quanto più grande è la nostra fede in Gesù, nell’Eucaristia, tanto più degna e più fruttuosa sarà la nostra celebrazione, tanto essa sarà più incisiva sull’efficacia del nostro apostolato. Non è difficile scorgere che la fede del centurione è unita con una impressionante umiltà:  « Signore, non stare a disturbarti, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto; [...] non mi sono neanche ritenuto degno di venire da te ». Commovente umiltà! C’è stretta relazione fra fede e umiltà. Mentre la superbia è un ostacolo perché la fede possa crescere in noi, la vera fede ci rende umili. Di questa realtà Maria è il più brillante esempio e manifestazione. Le parole prima della comunione, quindi, « Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa:  ma dì soltanto una parola e io sarò salvato » non siano mai una formalità sulla nostra bocca, ma un sentito respiro del cuore, una consapevolezza, un impegno.

Conclusione L’amore vero del Signore e dei fratelli, la fede viva che esige di essere sempre di più rafforzata e maturata nei nostri cuori, e l’umiltà da conquistare giorno per giorno, a motivo dell’egoismo che in minore o maggiore grado c’è in ogni cuore umano, ci predispongono alla benevolenza del Signore; ci predispongono alla degna e fruttuosa celebrazione dell’Eucaristia, ossia alla degna e fruttuosa celebrazione del più grande avvenimento della nostra vita; al vivere in modo consapevole ed efficace ciò che è « fonte e culmine » della nostra esistenza sacerdotale e del nostro apostolato.

Signore, sia questa celebrazione per noi un momento di crescita!

Il compito dell’uomo nel divino governo del mondo – Mesrop armeno, Secondo discorso

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20030214_mesrop-armeno_it.html

Il compito dell’uomo nel divino governo del mondo

Mesrop armeno, Secondo discorso

« Il Creatore ha ordinato anche l’impegno di curare le sue creature, sia le visibili che le invisibili. Al di sopra di tutte quelle visibili egli ha posto l’uomo, padrone e dominatore delle realtà terrene, artista e costruttore, con la sua intelligenza. Dio ha creato dal nulla tutte le cose e su di esse ha posto e innalzato l’uomo quale re, perché così egli, il Creatore, fosse riconosciuto e per sempre glorificato, perché l’uomo, cioè, conoscesse la sua gloria, avendolo egli innalzato dalla bassezza a un onore che supera quello di tutte le altre creature. Con il suo ingegno costruttore, che ha ricevuto dal Creatore, l’uomo sa usare di tutti gli esseri, animati e inanimati, e così tutto ciò che egli, con pieno dominio, adopera per le sue necessità o per le sue costruzioni, per ornamento o anche per sfoggio, rivela in tutto l’opera della sua saggezza. Ma nel possesso di questo suo dominio regale, egli deve sempre glorificare il suo benefattore; infatti, gli uomini sono giunti allo stesso onore degli spiriti incorporei e immortali: Dio li ha resi saggiatori e panegiristi della sua creazione, che per sempre lo devono lodare con l’osservanza della legge, affinché, per mezzo della loro libera volontà, sempre e con fermezza credano nella verità e pongano sempre la dovuta distinzione fra il Creatore e le creature, fra il sostentatore e gli esseri sostentati, tra l’elargitore di vita e tutti i viventi, perché egli sazia i bisogni di tutto il creato.

Ed è ben conveniente pregarlo in ogni tempo, ottenere con suppliche la custodia delle essenze spirituali e corporee, rendersi collaboratori della sua benefica volontà e restar puri dal peccato, davanti alla benefica bontà di Dio. Secondo questo modello, dobbiamo passare dalla corruzione al bene, dal disprezzo alla gloria, dalla schiavitù alla libertà dei figli di Dio, crescendo nella vera fede nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, per diventare eredi del regno celeste e dell’eterna beatitudine. È lui infatti il Creatore di tutto, che degli spiriti ha fatto suoi servi, e delle schiere celesti, fiamme di fuoco. E l’uomo, formato dalla terra, egli lo sostiene in vita, elargendogliene i mezzi. Coloro poi che hanno ricevuto l’annuncio degli angeli, vengono dagli angeli educati alla vita spirituale, secondo la provvidenza di Dio, che al bisogno ha elargito la legge. »

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San Paolo, il cristianesimo e l’Europa moderna : L’insospettabile vantaggio di essere in pochi

 dal sito:

http://www.cmc.milano.it/Archivio/2011/Articoli/090508RiesnerOsservatore.pdf

(da L’Osservatore Romano 8 maggio 2009)

San Paolo, il cristianesimo e l’Europa moderna

L’insospettabile vantaggio di essere in pochi

Il Centro Culturale di Milano ha ospitato il 6 maggio una conferenza intitolata:  « Dalla terra alle Genti:  san Paolo fondatore del cristianesimo o apostolo di Gesù? ». Ne pubblichiamo un estratto.

di Rainer Riesner
Università di Dortmund (Germania)
Il Nuovo Testamento è caratterizzato dalla presenza di due grandi teologi, Giovanni e Paolo. Il pensiero teologico di Giovanni è meditativo, e ha influenzato profondamente fino a oggi le Chiese orientali. Paolo ha posto al servizio della fede anche un acuto conflitto di natura logica, ispirando lo stesso Agostino, in qualità di uno dei maggiori pensatori dell’antichità cristiana.
Paolo ricevette la propria formazione teologica presso la scuola del famoso rabbino Gamaliele il Vecchio (Atti, 22, 3). Nel i secolo i letterati ebrei prendevano parte apertamente ai dibattiti intellettuali del loro tempo. All’epoca del figlio di Gamaliele si dissertava non solo dell’Antico Testamento ma anche della « saggezza greca » (Talmud babilonese, Sota 49b; Baba Kama 83a).
Paolo, nella sua veste di cristiano, non dimenticò quanto aveva appreso da Gamaliele. Nelle sue lettere, l’apostolo si serviva delle tecniche logiche e retoriche all’epoca riconosciute e comunemente utilizzate.
I grandi teologi corrono sempre il rischio di soccombere al fascino del proprio pensiero o di un sistema di pensiero altrui. Il più grande studioso della Bibbia nell’ambito della chiesa antica, al contempo eminente filosofo, era Origene. Anche egli era soggetto al rischio, e in alcuni punti è effettivamente caduto in questa trappola, di privilegiare il proprio pensiero teologico rispetto alla tradizione della fede generalmente riconosciuta. Anche Paolo è stato spesso dipinto come un pensatore solitario, isolato dal cristianesimo originario, anche se il giudizio a tal proposito non è stato affatto unanime. Per alcuni, egli è il precursore dell’indipendenza del pensiero teologico nei confronti della tradizione ecclesiastica. Secondo l’opinione di altri, con la sua complicata teologia Paolo avrebbe invece deturpato il semplice insegnamento di Gesù, trasformandolo in un cristianesimo dogmatico. Anche oggi Gesù e Paolo vengono spesso contrapposti. Ma Paolo non credette solo a Gesù crocifisso e risorto. L’apostolo sapeva anche molte cose sulla predicazione di Gesù, e le espone in vari punti delle proprie lettere. E ciò lo si nota solo sapendo come gli scribi ebrei solitamente citano i testi sacri. Li conoscono perfettamente a memoria, e spesso è loro sufficiente una sola parola chiave per ricordarli. Quando Paolo parlava di « fede » che « muove le montagne » (1 Corinzi, 13, 2), si riferiva naturalmente alle parole pronunciate da Gesù (Matteo, 17, 20).
Ma per Paolo era anche estremamente importante essere in accordo con la tradizione di fede tramandata dalla comunità originaria di Gerusalemme. Quando alcuni nella comunità di Corinto palesarono pensieri errati in merito alla risurrezione dei morti, l’apostolo ricordò la formula di professione della fede che aveva insegnato loro. Questa formula non era frutto del suo pensiero, bensì della tradizione (1 Corinzi, 15, 1-5).
Risale con molta probabilità alla comunità originaria che si era raccolta intorno all’apostolo Pietro a Gerusalemme (cfr. 1 Corinzi, 15, 5-11). Da quando, sulla via per Damasco, Gesù risorto era apparso a Paolo nella sua magnificenza divina, all’apostolo parve chiaro che non si poteva più parlare di Gesù come di un semplice essere umano (2 Corinzi, 4, 1-6). Ma anche in questo caso, per Paolo era essenziale non propugnare da solo questa sostanziale convinzione cristologica. Nella lettera ai Filippesi citò un brano (Filippesi, 2, 6-11) la cui forma linguistica indica che originariamente era formulato in una lingua semitica. In questo punto si parla chiaramente della divinità di Gesù (Filippesi, 2, 6). Secondo fonti affidabili del patriarca Girolamo, i genitori di Paolo erano originari di Giscala (De viris illustribus, 5), una roccaforte degli zeloti nell’Alta Galilea (Giuseppe Flavio, Bellum Judaicum, ii, 585 e seguenti). Se un fariseo come Paolo e altri devoti ebrei palestinesi riconobbero in Gesù il vero Dio, questo fatto non può essere spiegato con l’antico sincretismo, ma solo con la realtà della risurrezione di Gesù.
Ai cristiani di Corinto, fin troppo affascinati dai doni carismatici, Paolo dovette ricordare il fondamento della tradizione di fede e l’importanza della ragione (1 Corinzi, 14, 19). Ma Paolo non riduce la fede cristiana alla ragione e alla tradizione. Proprio nei confronti dei Corinzi, Paolo lascia intravedere la propria esperienza spirituale, nella quale non mancavano né la preghiera in lingue straniere infusa dallo Spirito Santo (1 Corinzi, 14, 18), né le visioni celestiali (2 Corinzi, 12, 1-4). Paolo ha anche parlato apertamente del suo miracoloso dono apostolico (2 Corinzi, 12, 12). La storia intellettuale europea degli ultimi due secoli è caratterizzata da grandi mutazioni. In alcuni momenti le tradizioni erano prive di valore, mentre in altri rappresentavano tutto. A epoche caratterizzate dal razionalismo hanno fatto seguito epoche dominate da una grande irrazionalità. Il nostro tempo è segnato dal fatto che viviamo tutto contemporaneamente, e anche i cristiani e le Chiese non ne sono immuni. Paolo può insegnarci il giusto equilibrio fra tradizione di fede, pensiero razionale ed esperienza spirituale personale.
Quando Paolo giunse ad Atene si arrabbiò per l’antico sincretismo, dominato da un mondo di idoli imperscrutabili (Atti, 17, 16). Ma non inneggiò all’assalto dei templi pagani e nemmeno invitò a boicottarli. Piuttosto, propugnò la fede nell’unico Dio, rivelatosi in Gesù Cristo, servendosi esclusivamente della forza di convincimento delle parole, nella sinagoga, nelle discussioni con i filosofi e durante l’interrogatorio del consigliere ateniese Areopago (Atti, 17, 17). Si auspicherebbe che i cristiani seguissero sempre questo esempio dell’apostolo, invece di cedere alla tentazione di sostituire il convincimento con la coercizione. È anche evidente l’elevato valore attribuito da Paolo alla coscienza umana, pur se debole e ingannevole (Romani, 14; 1 Corinzi, 8-10).
Del resto, anche prima dell’illuminismo, singoli cristiani avevano fatto proprio l’impulso alla libertà di fede e di coscienza proclamata da Paolo. Nel 1610 il cristiano evangelico Thomas Helwys pubblicò uno scritto che non solo si faceva paladino della tolleranza nei confronti dei protestanti, ma che sostanzialmente richiedeva quanto segue:  « Il re non deve ergersi a giudice fra Dio e l’uomo. Che si tratti di eretici, turchi, ebrei o altro, non spetta al potere temporale comminare seppur minime pene per tale ragione » (A Short Declaration of the Mystery of Iniquity, ristampa 1998). Pensieri di questo genere vennero portati in America dai profughi religiosi, contribuendo a far sì che la Costituzione degli Stati Uniti del 1787, quindi ancora prima della rivoluzione francese, proclamasse la libertà di fede e di coscienza. Uno dei nostri scopi precipui nell’Europa moderna consiste proprio nel difendere entrambi questi ideali, e nel far ciò dovremo tenere presente sempre più che la libertà di fede e di coscienza vale anche per i cristiani.
La nostra epoca presenta delle similitudini con quella dell’apostolo Paolo, nel senso che non è più considerato ovvio essere un cristiano. La fede cristiana viene percepita come una delle tante offerte proposte nel mercato delle religioni. Inoltre, notiamo una sempre maggiore ostilità nei confronti del cristianesimo. La rivendicazione della verità religiosa viene considerata arrogante e molti precetti etici sono ritenuti oppressivi. Tuttavia, il fatto che essere cristiani non sia più scontato, presenta anche dei vantaggi. I cristiani devono nuovamente concentrarsi sulla particolarità e unicità della loro fede. Pertanto, fra i cristiani appartenenti a Chiese molto diverse, che non vogliono semplicemente adeguarsi allo spirito del tempo, cresce la consapevolezza di condividere elementi in comune. Una tale comunanza di intenti, che fortunatamente viene continuamente sottolineata anche da Papa Benedetto, si fonda sulla consapevolezza che l’Europa necessita di una nuova evangelizzazione! L’apostolo Paolo può fungere da esempio in tal senso? Paolo è riuscito a ispirarci con la sua fede e il suo coraggio. La sfida che ha affrontato era estremamente più grande di quella che sta di fronte a noi. Cos’era una manciata di cristiani in confronto al potente impero romano e all’affascinante cultura pagana dell’ellenismo? Dal punto di vista umano, niente! Ma Paolo ha contrapposto a tale punto di vista la propria convinzione:  « Tutto posso in colui che mi dà la forza » (Filippesi, 4, 13). Questa frase non è stata scritta da Paolo in un momento qualsiasi, ma durante la sua prigionia. L’apostolo sperimentò allora la stessa situazione condivisa oggi dai cristiani in molti Paesi del mondo:  si può imprigionare chi annuncia il Vangelo, ma non il Vangelo (Filippesi, 1, 12-14).
Paolo si è affidato alla potenza di Dio e dello Spirito Santo, ma questo non gli ha impedito di operare nella sua missione in modo strategico e metodico. Solo due indicazioni a tale proposito. Paolo si è concentrato sulle città di provincia come Salonicco, Corinto ed Efeso. Credeva, a ragione, che in seguito alla costituzione di comunità in questi punti nevralgici per le comunicazioni il Vangelo potesse diffondersi nelle regioni limitrofe. Tuttavia, queste regioni erano molto distanti dal punto di vista geografico, cosicché sussisteva il rischio di uno sviluppo non omogeneo. L’apostolo lo scongiurò recandosi in visita in questi luoghi, inviando lettere e collaboratori. L’organizzazione di un collegamento fra così tanti collaboratori e gruppi era per l’epoca un enorme impegno dal punto di vista logistico. Uno studioso inglese definisce questo fenomeno come The Holy Internet (M. A. Thompson, in:  R. Bauckham, The Gospels for All Christians, 1998, 49-70). Questo ci fornisce un’importante indicazione. Non si tratta solo di emulare i metodi missionari di Paolo. Grazie alla radio, alla televisione e in particolare a internet, abbiamo a disposizione delle opportunità di comunicazione con le quali possiamo raggiungere anche le persone che vivono nei paesi più remoti. Paolo si complimenterebbe di cuore con noi per questa modernità, se concordiamo con lui su di un punto:  esiste solo « un Vangelo di Gesù Cristo » (Galati, 1, 8) ed « è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo e poi del Greco » (Romani, 1, 16). Anche oggi non sussiste alcun motivo per vergognarsi di questo Vangelo.

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10 AGOSTO : SAN LORENZO – PROTO DIACONO DELLA CHIESA ROMANA

dal sito:

http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cclergy/documents/rc_con_cclergy_doc_19022000_slor_it.html    
 

10 AGOSTO : SAN LORENZO – PROTO DIACONO DELLA CHIESA ROMANA

Don Francesco Moraglia

Docente di teologia sistematica

Genova

La storia della Chiesa ci ha consegnato grandi figure di vescovi e presbiteri che hanno contribuito ad illustrare sul piano teologico e pastorale il significato profondo del ministero ordinato. Per l’episcopato spiccano, fra le altre, le figure di Ireneo, Agostino, Winfrìdo-Bonifacio, Bartolomeo Las Casas, Ildefonso Schuster; per il presbiterato assumono rilievo, in epoca moderna e contemporanea, Filippo Neri, Giovanni Maria Vianney, Giovarmi Bosco, Pietro Chanel, Massimiliano Kolbe. Anche il ministero diaconale prende contorni più chiari se lo si considera alla luce delle figure dei grandi diaconi; è il caso, ad esempio, del martire Lorenzo, proto diacono della chiesa romana che, con Stefano e Filippo, è certamente una dei più famosi dell’antichità.
Il diaconato considerato in se stesso, come ministero permanente, non finalizzato al presbiterato, viene meno in occidente dopo che, fino al V secolo, era stata un’istituzione fiorente; ad iniziare da tale epoca – sostanzialmente per il maggior coinvolgimento dei presbiteri nell’attività pastorale -, il primo grado del sacramento dell’ordine si riduce a semplice tappa d’accesso al grado successivo: il presbiterato. Si può allora facilmente comprendere come mai l’istituzione diaconale, sul piano della riflessione teologica e della prassi pastorale, sia rimasta inibita, quasi fossilizzata.
A tale situazione, già nel XVI secolo, tentò dì reagire il concilio di Trento ma senza successo; bisognerà attendere il concilio Vaticano II, nella seconda metà del XX secolo, per vedere ristabilito il diaconato « come un grado proprio e permanente della gerarchia … »; il testo della costituzione dogmatica Lumen Gentium, ancora al n. 29, subito dopo l’affermazione, precedente specifica: « … col consenso del romano pontefice questo diaconato potrà essere conferito ad uomini di più matura età anche viventi nel matrimonio, e cosi pure a giovani idonei, per i quali, però, deve rimanere ferma la legge dei celibato » (EV. 1/360).
Paolo VI, nella Lettera apostolica. Sacrum diaconatus ordinem -18 giugno 1967-, ribadisce che l’ordine del diaconato « …non deve essere considerato come un puro e semplice grado di accesso a! sacerdozio; esso, insigne per l’indelebile carattere e la particolare sua grazia, di tanto si arricchisce che coloro i quali. vi sono chiamati possono in maniera stabile dedicarsi ‘ai misteri di Cristo e della Chiesa’ « (EV, 2/1369).
Già il solo fatto che nella Chiesa latina per un periodo cosi lungo – quindici secoli -, il diaconato non si sia attuato nella forma permanente, lascia intuire che sul piano della riflessione teologica e della prassi pastorale è necessario recuperare il tempo perduto attraverso una riflessione ampia da parte di tutta la comunità ecclesiale. Il diaconato permanente, infatti, costituisce un importante arricchimento per la missione della Chiesa.
Ovviamente il ripristino del diaconato permanente, autorevolmente richiesto dall’ultimo concilio, non può che avvenire in armonia e continuità con l’antica tradizione. Oltremodo significative le parole della Congregazione per l’Educazione Cattolica a della Congregazione per il Clero, nella recente dichiarazione congiunta – del 22 febbraio 1998 -, dichiarazione posta all’inizio delle: « Norme fondamentali per informazione dei diaconi permanenti » e del « Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri »; tali parole risultano chiarificatrici e in grado di orientare per il futuro; in esse si dice: « è l’intera realtà diaconale (visione dottrinale fondamentale, conseguente discernimento vocazionale e preparazione, vita, ministero, spiritualità e formazione permanente) che postula oggi una revisione del cammino dì formazione fin qui percorso, per giungere ad una chiarificazione globale, indispensabile per un nuovo impulso di questo grado dell’Ordine sacro, in corrispondenza con i voti e le intenzioni del Concilio Ecumenico Vaticano II » (Norme fondamentali per la formazione da diaconi permanenti, Direttorio per il ministero e la vita dei diaconi permanenti. Città del Vaticano l998, pag. 7).
Riprendendo quanto detto circa le grandi figure di vescovi, presbiteri e diaconi che hanno illustrato ed inciso sul ministero ordinato, determinandone una comprensione più vera ed approfondita, risulta del tutto coerente soffermarsi sulla figura del diacono Lorenzo che nella sua vicenda personale spinge a ripensare il pruno grado dei ministero ordinato che, per le vicende storiche sopramenzionate, attende ancora oggi d’essere pienamente colto e valorizzato. Si tratta di dare nuova linfa ad un ritrovato ministero diaconale inteso come ministero permanente in grado d’esprimersi con maggiore fecondità nella vita della Chiesa.
Le vicissitudini personali di san Lorenzo, arcidiacono della Chiesa di Roma, ci sono giunte attraverso un’antica tradizione già divulgata nel IV secolo; tale tradizione accolta dalla Chiesa è stata anche recepita dai testi liturgici.
Le vicende più note del martirio di Lorenzo sono descritte, con ricchezza di particolari, nella Passio Polychromì di cui abbiamo tre redazioni (V-V11 secolo); che in questo racconto siano contenuti elementi leggendari è un dato di fatto anche se talune notizie qui presentate sono note anche da testimonianze precedenti come quella di sant’Ambnogio nel De Officiis (Cfr. PL XVL 89-92).
Partiamo, con l’intento di ampliarla, dalle brevi note riportate per la festa del martire che – secondo la « Depositio martyrum » (anno 354) – cade il 10 agosto; ecco le espressioni del Messale Romano: « Lorenzo, famoso diacono della chiesa di Roma, confermò col martirio sotto Valeriano (258) il suo servizio di carità, quattro giorni dopo la decapitazione di papa Sisto II. Secondo una tradizione già divulgata nel IV secolo, sostenne intrepido un atroce martirio sulla graticola, dopo aver distribuito i beni della comunità ai poveri da lui qualificati come veri tesori della Chiesa… ». Queste note si chiudono ricordando che il nome di Lorenzo è menzionato anche nel Canone Romano.
Così la Chiesa, nei suoi testi liturgici ufficiali, fa suo quanto riferisce l’antica tradizione che, pure, conosce al suo interno versioni diverse. Qui non intendiamo entrare in merito alle ipotesi recentemente avanzate dalla critica storiografica che inclinerebbe a spostare la data del martirio di Lorenzo all’inizio del IV secolo e a caratterizzarne la figura secondo linee diverse da quelle tradizionali; per esempio, Lorenzo non sarebbe spagnolo ma romano, a tale proposito il prefazio della mensa XII del Sacramniarìo leoniano lo presenta come civis romano. Ma, come annota Paolo Toschi, tutti questi nuovi studi:  »non tolgono a priori la possibilità che in Roma esistesse una vera e propria tradizione, esposta con evidenti abbellimenti retorici da sant’Ambrogio, circa la tragica cattura e la fine di san Lorenzo proprio per mezzo del fuoco, supplizio che si sa inflitto, sempre sotto Valeriano, a san Fruttuoso e ai diaconi Eulogio e Augurio a Tarragona. D’altronde il verbo animadvertere adoperato nel decreto dì persecuzione nella redazione ciprianea può riferirsi anche ad altre forme di esecuzioni capitali oltre la ‘decollazione’ « (Bibliotheca Sanctorum, vol. … 1539).
Recepiamo, qui, il dato tradizionale così come viene riportato dai testi liturgica, limitandoci a proporlo in modo più articolato.
Così Lorenzo sarebbe nato in Spagna, ad Osca cittadina dell’Aragona che sorge alle falde dei Pirenei. Ancora giovane, per completare gli studi umanistici e teologici fu mandato nella città di Saragozza, dove conobbe il futuro papa Sisto II. Questi – originario della Grecia -, svolgeva il suo ufficio d’insegnante in quello che era, all’epoca, uno dei più noti centri di studi e, tra quei maestri, il futuro papa era uno dei più conosciuti ed apprezzati.
Da parte sua Lorenzo, che un giorno sarebbe diventato il capo dei diaconi della Chiesa di Roma, si imponeva per le sue doti umane, per la delicatezza d’animo e l’ingegno. Tra il maestro e l’allievo iniziò, cosi, una comunione e una dimestichezza di vita che, col passare del tempo, crebbe e si cementò; intanto, l’amore per Roma, centro della cristianità e città sede del Vicario di Cristo si faceva, per entrambi, più forte, fino a quando, seguendo un flusso migratorio allora molto vivace, essi lasciarono la Spagna per la città dove l’apostolo Pietro aveva posto la sua cattedra e reso la suprema testimonianza. Così maestro e allievo proprio a Roma, nel cuore della cattolicità, potevano realizzare il loro ideale di evangelizzazione e missionarietà … fino all’effusione del sangue. Quando il 30 agosto dell’anno 257, Sisto II salì il soglio di Pietro – per un pontificato che sarebbe duralo meno di un anno -, subito, senza esitare, volle accanto a sé, affidandogli il delicato incarico di proto diacono, l’antico discepolo e amico Lorenzo.
I due, infine, suggellarono la loro vita di comunione e amicizia morendo per mano dello stesso persecutore, separati solamente da pochi giorni.
Della fine di papa Sisto II abbiamo notizie in una lettera di san Cipriano, vescovo di Cartagine. Cipriano, parlando della situazione di grande incertezza e disagio in cui versavano le Chiese a causa della crescente ostilità verso i cristiani, annota: « L’imperatore Valeriano ha spedito al senato il suo rescritto col quale ha deciso che vescovi, sacerdoti e diaconi siano subito messi a morte … – poi la testimonianza di Cipriano continua – … vi comunico che Sisto ha subito il martirio con quattro diaconi il 6 agosto, mentre si trovava nella zona del cimitero. Le autorità di Roma hanno come norma che quanti vengono denunciati quali cristiani, debbano essere giustiziati e subire la confisca dei beni a beneficio dell’erario imperiale » (Lettera 80; CSEL 3,839-840).
Il cimitero a. cui allude il santo vescovo di Cartagine è quello di Callisto, dove Sisto fu catturato mentre celebrava la sacra liturgia e dove fu sepolto dopo il martirio.
Invece, per il martirio del diacono Lorenzo, abbiamo la testimonianza particolarmente eloquente di sant’Ambrogio nel De Officiis (1 41,205-207), ripresa, in seguito, da Prudenzio e da sant’Agostino, poi ancora da san Massimo di Torino, san Pier Crisologo, san Leone Magno, infine da alcune formule liturgiche contenute nei Sacramentali romani, nel Missale Gothicum e nell’Ormionale Visigotico (Bibliotheca Sanctorum, vol. …, 1538-1539).
Ambrogio si dilunga, dapprima, sull’incontro e sul dialogo fra Lorenzo e il Papa, poi allude alla distribuzione dei beni della Chiesa ai poveri, infine menziona la graticola, strumento del supplizio, rimarcando la frase con cui il proto diacono della Chiesa di Roma rivolgendosi ai suoi aguzzini dice: assum est, … versa et manduca (Cfr. Bibfiotheca Sanctorum, vol. …, col.1538-1539).
Ed è proprio il testo ambrosiano del De Officiis (cap. 41, nn.205-206-207), commovente nella sua intensità e forza espressiva, che prendiamo come riferimento; sant’Ambrogio così si esprime:
205. « … san Lorenzo, … vedendo il suo vescovo Sisto condotto al martirio, cominciò a piangere non perché quello era condotto a morire, ma. perché egli doveva sopravvivergli. Comincia dunque a dirgli a gran voce:  »Dove vai, padre, senza il tuo figlio? Dove ti affretti, o santo vescovo, senza il tuo diacono? Non offrivi mai il sacrificio senza ministro. Che ti è spiaciuto dunque in me, o padre? Forse mi hai trovato indegno? Verifica almeno se hai scelto un ministro idoneo. Non vuoi che versi il sangue insieme con te colui al quale hai affidato il sangue dei Signore, colui che hai fatto partecipe della celebrazione dei sacri misteri? Sta’ attento che, mentre viene lodata la tua fortezza, il tuo discernimento non vacilli. Il disprezzo per il discepolo è danno per il maestro. È necessario ricordare che gli uomini grandi e famosi vincono con le prove vittoriose dei loro discepoli più che con le proprie? Infine Abramo offrì suo figlio, Pietro mandò innanzi Stefano. Anche tu, o padre, mostra in tuo figlio la tua virtù; offri chi hai educato, per giungere al premio eterno in gloriosa compagnia, sicuro del tuo giudizio ».
206. Allora Sisto gli rispose: « Non ti lascio, non ti abbandono, o figlio; ma ti sono riservate prove più difficili. A noi, perché vecchi, è stato assegnato il percorso d’una gara più facile; a te, perché giovane, è destinato un più glorioso trionfo sul tiranno. Presto verrai, cessa di piangere: fra tre giorni mi seguirai. Tra un vescovo e un levita è conveniente ci sia questo intervallo. Non sarebbe stato degno di te vincere sotto la guida del maestro, come se cercassi un aiuto. Perché chiedi di condividere il mio martirio? Te ne lascio l’intera ereditò. Perché esigi la mia presenza? I discepoli ancor deboli precedano il maestro, quelli già forti, che non hanno più bisogno d’insegnamenti, lo seguano per vincere senza di lui. Cosi anche Elia lasciò Eliseo. Ti affido la successione della mia virtù ».
207. Cera fra loro una gara, veramente degna d’essere combattuta da un vescovo e da un diacono: chi per primo dovesse soffrire per Cristo. (Dicono che nelle rappresentazioni tragiche gli spettatori scoppiassero in grandi applausi, quando Pilade diceva dì essere Oreste e Oreste, com’era di fatto, affermava d’essere Oreste, quello per essere ucciso al posto di Oreste, Oreste per impedire che Pilade fosse ucciso al suo posto. Ma essi non avrebbero dovuto vivere, perché entrambi erano rei di parricidio: l’uno perché l’aveva commesso, l’altro perché era stato suo complice. Nel nostro caso) nessun desiderio spingeva san Lorenzo se non quello d’immolarsi p«r il Signore. E anch’egli, tre giorni dopo, mentre, beffato il tiranno, veniva bruciato su una graticola: ‘Questa parte è cotta, disse, volta e mangia’. Così con la sua forza d’animo vinceva l’ardore del fuoco’ » (Sant’Anabrogio, De Officiis, libri tres, Milano, Biblioteca Ambrosiana, Roma Città Nuova Editrice 1977, pp, 148-151).

Stando alla testimonianza di sant’Ambrogio, il diacono risulta caratterizzato:
1) come colui che, costituito sacramentalmente nel servizio della offerta (diaconia), vive il suo ministero diaconale esprimendo nella martyria suprema testimonianza per Cristo -, il senso teologico del servizio della carità, attraverso l’accoglienza di quell’amore-carità più grande che è il martirio.
2) come colui che, in forza del vincolo strutturale che lo lega sacramentalmente al vescovo, (primo grado dell’ordine), vive la « comunione ecclesiale », attraverso un servizio specifico all’episcopo, proprio a partire dall’eucaristia e in riferimento ad esso.
3) come colui che, in forza del sacramento (cioè in quanto radicato nel primo grado dell’ordine), si dedica al servizio di una carità integrale a 360 gradi – quindi non solo solidarietà umana e sociale -, e così manifesta il carattere più tipico della diaconia.
Esaminiamo di seguito queste caratteristiche, incominciando dalla:
1) I1 diacono sì presenta come colui che, costituito sacramentalmente nel servizio della offerta (diaconia), vive il suo ministero diaconale esprimendo nella martyria suprema testimonianza per Cristo -, il senso teologico del servizio della carità, attraverso l’accoglienza di quell’amore-carità più grande che è il martirio.
Se la caratteristica principale che identifica il diacono, in sé, e nel suo ministero è: essere ordinato per il servizio della carità, allora la martyria – testimonianza fino all’effusione del sangue -, va considerata come espressione di un amore-carità più grande, ossia il servizio di una carità che non conosce limiti. Il ministero della carità a cui il diacono viene deputato attraverso l’ordinazione non si ferma, quindi, al servizio delle mense o, come si usava dire una volta con linguaggio catechistico» alle opere di misericordia corporali ma, neppure a quelle spirituali, piuttosto il servizio diaconale della carità deve pervenire, nell’incondizionata consegna di sé, fino all’imitazione di Cristo, il testimone fedele per antonomasia (Cfr, Ap 1,5; 3,14).
Nel caso di san Lorenzo – spiega Ambrogio « nessun desiderio lo spingeva se non quello d’immolarsi per il Signore (Cfr. Sant’Ambrogio, De Officiis, I, 41, n. 207); così, attraverso la testimonianza data innanzi ai suoi persecutori, si fa evidente che l’esercizio del ministero diaconale qui non si identifica col servizio del prossimo, ridotto alle sole necessità materiali; poiché proprio in quel gesto che esprime un amore più grande per Cristo e che porta a donare la vita, Lorenzo fa in modo che anche i suoi carnefici possano, in senso reale, fare « una qual certa » esperienza del Verbo incarnato che, alla fine, è il destino personale e comune di ogni uomo, questo è il servizio teologico della carità a cui ogni diacono deve tendere o, almeno, rimanere disponibile.
Ciò non significa che il diacono nel suo ministero esaurisca la testimonianza della carità che è, e rimane sempre, vocazione e missione di tutta la Chiesa; piuttosto si intende affermare che, in forza dell’ordinazione, il diacono porta in sé, in modo sacramentale-specifico, la « forma Christi’ » per il servizio della carità; vale a dire un « esercizio ministeriale » della carità che si attua nei confronti di Cristo e dei fratelli e che può giungere a richiedere anche il dono di sé … fino al sacrificio della vita. Chiare risuonano, allora, le parole che Lorenzo rivolge al vescovo Sisto: « infine Abramo offrì suo figlio, Pietro mandò innanzi Stefano. Anche tu, o padre, mostra in tuo figlio la virtù; orni chi hai educato, per giungere al premio eterno in gloriosa compagnia, sicuro del tuo giudizio » (Sant’Ambrogio, De Officiis, I, 41, n.205).
Giova ribadire, comunque, che la testimonianza di un « amore-carità » più grande, da parte di chi è ordinato proprio per il servizio della carità, non esimerà mai la Chiesa-Sposa dall’offrirsi a Cristo-Sposo, nel dono della « martyria » in cui, al di là di ogni reticenza e ambiguità, si manifesta il valore assoluto e l’unione inscindibile che « verità » e « carità » assumono nella vita del discepolo del Signore (Cfr. l Cor l3,4-5; Fil 4,15).
A tale proposito è utile rileggere il testo di Lumen Gentium 42, in cui si afferma: « … il martirio, col quale il discepolo è reso simile al maestro che liberamente accetta la morte per la salvezza del mondo, e a lui si conforma nell’effusione del sangue, è stimato dalla Chiesa come il dono eccezionale e la suprema prova di carità … se a pochi il martirio è concesso, devono però tutti essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini, e a seguirlo sulla via della croce attraverso le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa » (EV, 1/398).
Ora – nonostante la chiamata universale alla carità anche eroica -, un fatto rimane incontrovertibile: nella Chiesa esiste uno specifico « ministero ordinato », quindi degli uomini sacramentalmente costituiti per il servizio della carità;
2) Il diacono si presenta come colui che, in forza del vincolo strutturale che lo lega sacramentalmente al vescovo, (primo grado dell’ordine), vive la « comunione ecclesiale », attraverso un servizio specifico all’episcopo, proprio a partire dall’eucaristia e in riferimento ad essa:
Questa è l’altra caratteristica che si evince dal colloquio tra Sisto e Lorenzo presso il cimitero di Callisto; il dialogo pone in evidenza come proprio nel legame sacramentale che unisce il diacono all’episcopo, il diacono appaia « uomo della comunione » esattamente attraverso il servizio specifico a! vescovo; tale servizio, poi, si realizza, concretamente, nel fedele adempimento di ciò che l’episcopo, in virtù della pienezza del sacerdozio e del governo che ha sulla sua Chiesa – sempre nella comunione con il vescovo di Roma -, richiede al suo diacono secondo le necessità e le urgenze ecclesiali.
Nel ministero del diacono, infine, tutto ha come riferimento l’altare, in quanto nella Chiesa ogni cosa, ad iniziare dalla carità, ha la sua origine dalla SS. Eucaristia. Ecco il punto in cui la testimonianza di Ambrogio, a riguardo, si fa particolarmente significativa: « … Lorenzo … vedendo il suo vescovo Sisto condotto al martirio, cominciò … a dirgli a gran voce: ‘Dove vai, padre, senza il tuo figlio? Dove ti affretti o santo vescovo, senza il tuo diacono? Non offrivi mai il sacrificio senza ministro? … Non vuoi che versi il sangue insieme con te colui al quale hai affidato il sangue del Signore, colui che hai fatto partecipe della celebrazione dei sacri misteri? « (Sant’Ambrogio, De Officiis, 1.41, n. 205 ….).
La comunione e l’affetto tra il vescovo e il diacono, che qui si manifestano nella comune dipendenza e nel comune legame all’Eucaristia, esprimono una visione ecclesiale profondamente teologica che va oltre le concezioni che abbassano e riducono la Chiesa-Sposa, alla mera dimensione politica e sociologica, equiparandola, di fatto, ad una tra le tante istituzioni umane; cosi è necessario liberarsi da ogni prospettiva secolarizzala e secolarizzante che ineluttabilmente porta a smarrire o a compromettere il senso e la forza rigeneratrice del Mistero; il rischio è quello di vedere tanto nel papa, quanto nei vescovi, nei presbiteri e nei diaconi, altrettanti gradini di una infinita burocrazia del tutto simile a quella della pubblica amministrazione e deputata, come questa, a vigilare su un non meglio precisato buon ordine dell’insieme.
L’incontro tra papa Sisto e il diacono Lorenzo ci invita, se mai fosse il caso, a ribaltare una tale visione e a riscoprire nel cuore della Istituzione-Chiesa, sempre indispensabile, e delle strutture ecclesiali, parimenti necessarie, la realtà viva e vivificante della grazia che le anima e, insieme, ci invita a riscoprire il legame teologico che le vincola a Cristo, unico, vero Episcopo, Presbitero e Diacono. D’altra parte già nel Nuovo testamento – nella lettera ai Filippesi (Cfr. Fil 1,1) e nella prima lettera a Timoteo (Cfr. 1 Tim 3,1-13) -, troviamo associati il vescovo e il diacono; in seguito è attestato il loro stretto legame nella « Traditio Apostolica » – inizio III secolo (Ippolito di Roma?) -, dove la grazia conferita al diacono col rito di ordinazione è definita dì « semplice servizio del vescovo », senza alcun sacerdozio; pochi anni dopo – a metà del III secolo, in Siria -, la « Didascalia degli Apostoli » presenta il diacono come il « servitore del vescovo e dei poveri ».
Infine, il rapporto che lega strutturalmente il diacono al vescovo oggi viene espresso in maniera trasparente attraverso la liturgia dell’ordinazione; in questo cerimoniale, infatti, a differenza di quello dell’ordinazione dei vescovi e dei presbiteri, il gesto dell’imposizione delle mani viene compiuto unicamente dal vescovo ordinante per indicane appunto, il vincolo caratteristico e singolare che lega il diacono al vescovo.
3) II diacono si presenta come colui che, in forza del sacramento (cioè in quanto radicato nel primo grado dell’ordine), si dedica al servizio di una carità integrale a 360 gradi – quindi non solo solidarietà umana e sociale -, e così manifesta il carattere più tipico della diaconia.
Nella sua testimonianza, Ambrogio ci presenta ancora Lorenzo come colui che, m forza del sacramento ricevuto, è pienamente dedito al servizio della carità in una situazione concreta: la Roma imperiale del terzo secolo, mentre infuria la persecuzione; e in tale congiuntura, Lorenzo è chiamato a porre, dinanzi alla comunità ecclesiale e al mondo, gesti concreti destinati a trasformarsi in altrettanti segni dell’Amore-Carità di Dio, ossia di quella Carità da cui ogni cosa proviene e verso cui è incamminata; e proprio in tale servizio, il diacono esprime il ministero più tipico della sua diaconia che consiste, appunto, nel servizio della carità compiuto in forza del mandato sacramentale; insomma un’animazione che riguarda la Chiesa o settori della vita ecclesiale e che si presenta secondo i caratteri della cattolicità (kat’olon = secondo la totalità, senza escludere nulla); l’aspirazione di tale servizio è la totalità degli uomini senza eccezioni; il contenuto, un bene che risponda a tutte le attese dell’uomo – spirito, anima e corpo (Cfr. 1 Ts 5,23) – escludendo ogni parzialità e unilateralità.
Inoltre, nel testo ambrosiano si coglie un’allusione che aiuta la riflessione: Sisto, ormai prigioniero, affida a Lorenzo, il primo dei suoi diaconi, l’intera Chiesa e (gliela lascia per lo spazio di tre giorni: « … A noi, perché vecchi, è stato assegnato il percorso d’una gara più facile; a te, perché giovane, è destinato un più glorioso trionfo sul tiranno. Presto verrai, cessa di piangere: fra tre giorni mi seguirai. Tra un vescovo e un levita è conveniente ci sia questo intervallo… » (Sant’Ambrogio, De Officiis, n. 206). Lorenzo, in quei tre giorni, e come diacono, in spirito di servizio e obbedienza al suo vescovo – ormai strappato definitivamente al suo popolo -, dovrà avere cura della Chiesa, così per l’ultima volta amministrerà i beni della Sposa di Cristo e lo farà con un gesto che ha in sé la forza dì una definizione e che dice come nella Chiesa tutto sia finalizzato e assuma, valore a partire dal servizio della carità, realtà destinata a rimanere anche quando tutto sarà venuto meno e la scena di questo mondo sarà passata (Cfr. l Cor l3,8).
A chi guarda da lontano, in modo approssimativo – e, tutto sommato, superficiale -, questo gesto può sembrare legato esclusivamente alle necessità materiali e al tempo presente; si tratta, infatti, solamente della distribuzione di beni materiali a dei poveri; in realtà, l’atto che Lorenzo compie, m spirito di fedeltà alla consegna ricevuta dal vescovo e al ministero ecclesiale in cui è costituito, è un atto che lo proietta e con lui proietta tutta la Chiesa – affidatagli fino al momento del martirio -, oltre la storia, nell’escatologìa, ossia, nel « tempo » e nello « spazio » in cui Dio manifesta la pienezza della sua carità e del suo amore.
Così il diacono Lorenzo, ministro ordinato della carità, porta a termine il compito che aveva ricevuto, non solo in quanto segue il suo vescovo nel martirio ma perché attraverso il gesto col quale dona ai poveri tutte le risorse della comunità – qui espresse dai beni materiali -, manifesta come nella Chiesa, ogni cosa abbia valore se è orienta alla carità, se diventa servizio alla carità, se può trasformarsi in carità.
E tale servizio – come ricorda la prima lettera ai Tessalonicesi (Cfr. 1 Ts 5,23) -, si estende non solo al « corpo »‘ ma anche allo « spirito » e all’ »anima », cosa che sì palesa in tutta chiarezza in quella preghiera che – secondo la Passio Polychronii (gli atti del martirio di Lorenzo) -, il santo diacono volle recitare per la città di Roma prima di stendersi sulla graticola.
E la città, che gli attribuiva la definitiva vittoria sul paganesimo, lo ricambiò eleggendolo suo terzo patrono e celebrando la sua festa fin dal IV secolo, come seconda, per importanza, dopo quella dei beati apostoli Pietro e Paolo e innalzando, in onore del santo diacono, nell’antichità e nel medio evo, ben trentaquattro chiese e cappelle, segno tangibile di gratitudine verso colui che, fedele al suo ministero, era stato, in mezzo a lei, vero ministro e servitore della carità.
Ora, al termine di queste riflessioni sul ministero del « diaconato » inteso soprattutto nella sua forma « permanente », possiamo dire:
1) bisogna saper guardare con spirito critico a tutte quelle prospettive – ormai superate, in verità – che, di fatto, interpretano e presentano il diaconato come un ministero che conduce alla clericalizzazione dei laici e alla laicizzazione dei chierici, giungendo così ad indebolire l’identità d’entrambi.
2) il diacono, che si distingue dai vescovo e dal presbitero in quanto non è ordinato « ad sacerdotium, sed ad ministerium », è costituito in un grado autentico della gerarchia e non può essere compreso come puro accesso al sacerdozio.
3) il diacono è abilitato al servizio della carità in stretta dipendenza con l’Eucaristia e alla cura privilegiata dei poveri, tanto nel servizio delle mense (opere di misericordia corporali), quanto nel servizio della parola (opere di misericordia spirituali) e rimanendo aperto al servizio di un amore-carità più grande, il martirio.
Infine, l’istituto del « diaconato permanente », rappresenta e segna un importante arricchimento per la Chiesa e la sua missione anche in vista della nuova evangelizzazione che il Santo Padre continuamente richiama all’inizio del terzo millennio dell’era cristiana; ed è proprio la bellezza, la forza e l’eroicità dì figure di diaconi come san Lorenzo che aiutano a scoprire e a comprendere
meglio la peculiarità del ministero diaconale. 

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