BRANO BIBLICO SCELTO – GALATI 3,26-29
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BRANO BIBLICO SCELTO – GALATI 3,26-29
Fratelli, 26 tutti voi siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, 27 poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo.
28 Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.
29 E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa.
COMMENTO
L’unità dei credenti in Cristo
La seconda sezione della lettera ai Galati (3,1 – 4,31) si divide in due parti che trattano rispettivamente il tema biblico di Abramo (3,6-29) e quello della libertà e dell’adozione filiale (4,1-31). Il brano liturgico è la conclusione della prima parte di questa sezione. In essa Paolo vuole dimostrare che eredi di Abramo e delle promesse a lui conferite non si diventa mediante la legge, come i galati erano portati a pensare. La legge ha una funzione subordinata rispetto alla discendenza, in quanto custodisce l’uomo con precetti e norme fino alla venuta del Cristo (cfr. 3,19.24); è lui che ci libera dallo stato di minorità e ci rende partecipi della figliolanza divina ed eredi della promessa (3,14.18.22.24). Inoltre la legge non ha la funzione di dare la vita (cfr. 3,21) né di educare l’uomo a raggiungerla, ma di tenerlo rinchiuso sotto il peccato in attesa della giustificazione (3,22).
Paolo descrive il ruolo della legge paragonandola a un «pedagogo». Nell’antichità il «pedagogo» non era un educatore, ma uno schiavo che custodiva momentaneamente il bambino, imponendogli precetti e facendoglieli osservare con castighi e punizioni: la sua funzione era quindi ausiliaria nei confronti dei genitori, limitata nel tempo (finché il bambino era minorenne), senza un ruolo propriamente educativo, che competeva invece al maestro. Egli dunque, pur attribuendo alla legge un ruolo negativo, riconosce che essa se non altro ha fatto sentire all’uomo peccatore il bisogno di quella giustificazione che viene attuata da Dio non mediante la legge, ma in virtù della fede.
Paolo conclude la sua esposizione con queste parole: «Venuta poi la fede, non siamo più sotto il pedagogo» (v. 25). Con la venuta del Cristo la nostra dipendenza dalla legge-pedagogo è finita per sempre. Da questa premessa egli trae una conclusione che si articola in tre momenti: il battesimo ci trasforma in figli di Dio (vv. 26-27); ciò comporta la caduta delle barriere (v. 28); essi sono diventati discendenza di Abramo (v. 29).
Figli di Dio in forza del battesimo (vv. 26-27)
Per esprimere la liberazione dalla legge Paolo si rifà a un rito del battesimo: «Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo» (vv. 26-27). La dignità più alta conferita a chi crede in Cristo, Figlio di Dio, consiste nel diventare «figli di Dio». Per esprimere questo concetto, Paolo passa dalla prima persona plurale (v. 25: «non siamo più sotto un pedagogo»), alla seconda persona (v. 26: «Tutti siete figli di Dio … »): la venuta di Cristo ha portato dunque un cambiamento che riguarda non solo coloro che per nascita sono discendenti di Abramo, ma potenzialmente tutti gli esseri umani. Ciò avviene mediante il battesimo che rappresenta l’espressione pubblica dell’adesione di fede a Cristo. La fede cristiana infatti non è un’adesione soltanto mentale al mistero di Cristo, ma coinvolge anche il corpo del credente, facendolo diventare membro del corpo di Cristo e unendolo al mistero della sua morte e risurrezione (cfr. Rm 6,3-14). Diversamente dalla circoncisione, il battesimo non è un semplice rito, ma il segno di un rapporto esistenziale che si instaura tra due persone, quella del credente e quella di Cristo.
Per parlare del battesimo, Paolo non usa l’espressione «battezzare in Cristo», ma dice letteralmente «battezzare a Cristo ». Cristo, cioè, non è presentato come l’elemento in cui il credente viene immerso, ma come la persona alla quale il battesimo fa aderire. L’immersione si fa «nell’acqua» (Mt 3,11; cfr. 1 Cor 10,2) o «nello Spirito» (Mt 3,11; 1 Cor 12,13) in vista dell’unione «a Cristo». Il battesimo però non opera soltanto un cambiamento di relazione, ma anche un cambiamento nell’essere, che Paolo esprime con il verbo «rivestire». L’espressione «vi siete rivestiti di Cristo » non è troppo felice, perché suggerisce un cambiamento soltanto esterno, superficiale. Ma qui come in altri testi del Primo Testamento (ad esempio Is 61,10; Sal 132,16), la metafora del vestito è usata per esprimere l’idea di un cambiamento interiore. Il rivestirsi di Cristo implica dunque una trasformazione profonda che si riflette nell’identità stessa della persona (cfr. 1Cor 6,11).
La caduta delle barriere (v. 28)
Il rivestirsi di Cristo comporta conseguenze di ordine comunitario che Paolo esprime con una frase programmatica: «Non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (v. 28). Con queste parole egli proclama l’abolizione, in Cristo, di tre barriere che dividono gli esseri umani, sul piano religioso, tra giudeo e greco, sul piano civile, tra schiavo e uomo libero, sul piano sessuale, tra maschio e femmina.
Sul piano religioso non c’è più «giudeo né greco». È questa la prima e la più importante delle barriere abbattute dal battesimo. Essa non riguarda il piano culturale, per il quale la coppia sarebbe, come in Rm 1,14, greco e barbaro (con la preminenza al greco), ma quello religioso, nel quale il giudeo riteneva di avere il primo posto. In quanto membro del popolo eletto, il giudeo si considerava privilegiato (cfr. Rm 2,17-20) e guardava con disprezzo il gentile (il non giudeo, chiamato «greco» perché si prendeva in considerazione solo il mondo ellenistico), considerato per definizione idolatra e peccatore (cfr. Gal 2,15; Ef 2,11-12). Per un giudeo come Paolo, dichiarare che questa distinzione religiosa fondamentale non esiste più rappresentava il colmo della sovversione in materia di religione. È facile perciò capire come Paolo abbia provocato l’ostilità accanita dei giudei e dei giudaizzanti. In Cristo, la distinzione è superata, perché chi è unito nella fede a Gesù risorto appartiene a una terza categoria, che è una «nuova creazione» (Gal 6,15), ugualmente accessibile al greco e al giudeo, dato che la sola condizione per entrarvi è la fede in Cristo morto e risorto.
La seconda barriera riguarda non tanto il piano civile, ma piuttosto quello sociale: «non c’è schiavo né libero». La distinzione tra schiavi e cittadini liberi era fondamentale per tutta l’organizzazione della società nel mondo greco-romano. Gli uomini liberi godevano di tutti i diritti politici e civili; gli schiavi erano privi di diritti e di dignità. Negare questa distinzione costituiva quindi ugualmente una presa di posizione sovversiva. In questo caso, Paolo menziona al primo posto lo schiavo, perché vuole mettere in risalto il superamento di questa condizione di oppressione, indegna di una persona umana. In Cristo risorto, ogni credente gode della piena dignità dell’uomo, perché in lui, uomo perfetto, si attua la sua vera vocazione che consiste nel dominio del mondo (cfr. Gn 1,26).
Si noti però che Paolo non nega soltanto la schiavitù, ma nega anche la condizione libera. Non dice: «Non c’è più schiavo, tutti sono liberi!», come ci si aspetterebbe; ma dice: «Non c’è schiavo né libero ». Il suo punto di vista non è quindi quello di una riforma della società, di una correzione delle ingiustizie. È un punto di vista più profondo; Paolo vuole definire la condizione dell’uomo in Cristo e precisamente a questo livello afferma che la condizione civile dell’individuo non ha alcun riflesso, non esiste. Altrove dice: «Lo schiavo che è stato chiamato nel Signore è un liberto affrancato del Signore; similmente chi è stato chiamato da libero, è schiavo di Cristo» (1Cor 7,22-23). Quindi in Cristo il credente è allo stesso tempo libero e schiavo oppure né schiavo né libero. C’è una relativizzazione radicale di queste categorie. Siccome questa relativizzazione non si attua sul piano terreno, non è possibile trarne conseguenze immediate per le strutture politiche e sociali. Importante è invece il cambiamento di mentalità e di comportamento, come indica chiaramente la Lettera a Filemone. Certo il cambiamento di mentalità produce necessariamente un cambiamento progressivo delle strutture, ma come conseguenza, non come punto di partenza.
La terza e ultima barriera è la più audace di tutte, perché riguarda la differenza sessuale e va direttamente contro il testo della Genesi sulla creazione. L’espressione è qui un po’ diversa dalle precedenti: fra i due termini, anziché mettere la negazione «né», Paolo ha messo la congiunzione coordinativa «e». Il motivo sta probabilmente nel riferimento spontaneo, da parte dell’Apostolo, all’espressione di Gn 1,27 e 5,2: «Maschio e femmina li creò ». Nel testo di Paolo come nei Settanta i due nomi sono al neutro: letteralmente, «non c’è maschile e femminile». Dio ha creato l’uomo «maschio e femmina»; Paolo, invece, ha l’audacia di proclamare: «Non c’è maschio e femmina». L’affermazione di Paolo è in armonia con le parole di Gesù, riferite dai sinottici, circa il modo di esistenza degli uomini dopo la risurrezione (Mt 22,30 «Alla risurrezione non si prende moglie né marito ma si è come angeli nel cielo»). La differenza è che Gesù parla della situazione dopo la risurrezione, Paolo invece parla della situazione dei credenti adesso. Egli ritiene che i credenti abbiano già parte alla vita di Cristo risorto e si trovano quindi già adesso al di là della morte. Orbene, al di là della morte l’unione sessuale non esiste più. Quindi al livello più profondo dell’essere cristiano, non c’è «maschio e femmina».
È evidente che questa negazione non vale al livello biologico. Paolo sa bene che il battesimo non sopprime i sessi né l’istinto sessuale, e che i credenti continuano ad avere rapporti sessuali nel matrimonio (cfr. 1Cor 7,3-5). Egli infatti dice: «Tuttavia nel Signore né la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna» (1Cor 11,11). Quindi anche «nel Signore» c’è un livello dove la distinzione uomo-donna va riconosciuta e costituisce la base di una relazione necessaria, nel senso di una interdipendenza reciproca. Senza la donna, l’uomo non può vivere in Cristo e neppure la donna senza l’uomo. L’uomo e la donna hanno bisogno l’uno dell’ altra per ricevere pienamente la grazia di Cristo. Il fatto che l’unità di fondo non escluda ruoli diversi fa sì che questo testo non possa essere usato per affermare la possibilità anche per le donne di accedere al sacerdozio. Paolo chiaramente non ha in mente questo problema. Tuttavia è lecito pensare che, se si fosse posto il problema, egli non lo avrebbe risolto nel senso di una esclusione.
L’eliminazione di queste barriere ha luogo, secondo Paolo, «in Cristo Gesù». È nel Cristo risorto, cioè nella comunità, che è corpo di Cristo, che le distinzioni accennate non trovano più posto.
L’unità in Cristo (v. 29)
Alla negazione delle distinzioni corrisponde, in positivo, l’unità di tutti in Cristo: «Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa» (v. 29). Nei vv. 26 e 27 Paolo ha insistito sulla pluralità dei figli. Ma c’è un solo Cristo. Se tutti vengono rivestiti di Cristo, siccome Cristo non è diviso, tutti diventano un solo uomo in Cristo: quindi la pluralità si risolve in unità. La filiazione divina dei credenti non è possibile se non nel Figlio unico e per questa ragione va di pari passo con l’unità. I galati erano preoccupati di assicurarsi l’unione con Abramo al fine c garantirsi il beneficio delle promesse fatte ad Abramo e di ottenere l’eredità promessa. I giudaizzanti pretendevano che per conseguirla fosse indispensabile accettare la circoncisione richiesta in Gn 17,9-14. Paolo invece dimostra che la fede in Cristo e il battesimo stabiliscono stretti legami tra i credenti e Abramo, legami più forti di quelli che derivano dalla circoncisione. Grazie alla fede e al battesimo, i credenti sono di Cristo, e siccome Cristo è l’unica discendenza per la quale valga la promessa, i credenti sono in Cristo «discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa». La dimostrazione è complete È stata piuttosto movimentata, non manca però di solidità.
Per esprimere l’unità di tutti i credenti in Cristo, Paolo non usa il neutro come Giovanni che parla di «una cosa sola» (Gv 17,11.21.22), ma il maschile, «uno solo». Questo maschile è difficile da interpretare. Il testo più illuminante in proposito è quello di Ef 2,15 dove si parla di «un solo nuovo uomo in Cristo» e si dichiara che Cristo ha annullato la legge, la quale costituiva una separazione tra giudei e gentili, «per creare in se stesso dei due un solo uomo nuovo … e per riconciliare tutti e due a Dio in un solo corpo». Per dire «uomo» la parola greca usata qui è anthropos, che designa l’essere umano in genere e vale per i due sessi come Mensch in tedesco. Tutti i battezzati dunque formano un solo anthropos, il quale non è separabile da Cristo ma non si confonde nemmeno con la persona di Cristo. Si tratta di un mistero che non si può comprendere concettualmente. In 1Cor 12,27 Paolo lo esprimere con l’espressione «corpo di Cristo»: «Voi siete corpo di Cristo e sue membra ciascuno per la sua parte». Più tardi, le Lettere agli Efesini e ai Colossesi parleranno di Cristo come capo del corpo, che è la Chiesa.
Linee interpretative
Paolo considera l’esperienza fatta dal popolo giudaico sotto la legge come una lunga parentesi tra la promessa conferita ad Abramo e la sua realizzazione in Cristo. In tal modo egli afferma che la legge rientra anch’essa nel piano di Dio, ma le riconosce un ruolo secondario e negativo, quello cioè di far sì che, concretizzandosi in trasgressioni specifiche, il peccato appaia come tale, per quello che è. L’esistenza sotto la legge viene così a coincidere con l’esistenza sotto il peccato: in nessun modo la legge può dare la vita, in quanto questa deriva solo dalla realizzazione della promessa che ha avuto luogo in Cristo.
Quando dunque presenta la legge come «il nostro pedagogo verso Cristo», l’apostolo intende sottolineare ancora una volta questo ruolo negativo della legge: Cristo è il vero maestro che dà la vita, la legge è solo uno schiavo che tiene sotto di sé un altro schiavo, l’uomo peccatore. La legge non ha dunque il compito di preparare l’uomo alla venuta di Cristo, portandolo progressivamente all’incontro con lui ma piuttosto rappresenta un cammino alternativo all’esperienza della fede, che deve essere abbandonato quanto prima se si vogliono ottenere i frutti della sua redenzione: «Venuta la fede, non siamo più sotto il pedagogo». In questa prospettiva ha un’importanza determinante il battesimo che, diversamente dalla circoncisione, stabilisce un rapporto personale del credente con Cristo e in tal modo lo trasforma nell’intimo, facendo sì che ne assimili la mentalità e i comportamenti.
L’esclusione della legge come strumento di giustificazione non può non avere profondi riflessi di carattere morale e pastorale. Il più importante è la caduta delle barriere che dividono l’umanità in comportamenti stagno. Nel battesimo la fede rivela dunque la sua capacità non solo di assimilare l’uomo a Cristo, ma anche di incorporarlo alla comunità dei credenti, nella quale si prefigura e si anticipa la riconciliazione finale di tutta l’umanità. Nella vita sociale, è vero, permangono ancora le barriere create dal peccato, e il cristiano deve tenerne conto, senza però lasciarsi condizionare da esse (cfr. 1Cor 7,17-24): ma egli vive e opera nella convinzione che quanto egli sperimenta nella comunità dei credenti anticipa già nell’oggi quello che sarà il destino futuro di tutta l’umanità (cfr. Rm 8,24-25). Paolo dunque non ha un progetto di trasformazione sociale, ma ne pone le premesse in modo tale che il rinnovamento dei rapporti umani non sia solo esterno, ma parta dal profondo del cuore.