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TESSALONICA E LA PRIMA LETTERA AI TESSALONICESI (MEDITAZIONE NELLA CHIESA CATTOLICA)

http://www.gliscritti.it/lbibbia/grecia2002/texts/tessa1.htm

TESSALONICA E LA PRIMA LETTERA AI TESSALONICESI (MEDITAZIONE NELLA CHIESA CATTOLICA)

La prima lettera ai Tessalonicesi è scritta da Paolo da Atene (“Abbiamo deciso di restare soli ad Atene ed abbiamo inviato Timoteo per confermarvi ed esortarvi nella vostra fede”, 1 Tess 3, 1, come anche “così da diventare modello a tutti i credenti che sono nella Macedonia e nell’Acaia”, 1 Tess 1, 7). Paolo vi è giunto, come poi vedremo, poiché si è dovuto allontanare, scacciato, da Tessalonica e da Berea. Siamo prima, quindi, del suo arrivo a Corinto, dove sarà condotto davanti al proconsole Gallione che fu proconsole dell’Acaia negli anni 51/52 o 52/53. Gallione era fratello del filosofo Seneca. Sappiamo con certezza gli anni del suo proconsolato a Corinto da una iscrizione ritrovata a Delfi, nella quale è l’imperatore Claudio che, volendo dichiarare la sua benevolenza verso l’oracolo di Apollo Pizio, ci lascia anche testimonianza di Gallione, definito “suo proconsole ed amico”, e della datazione del suo incarico (“Claudio acclamato imperatore per la ventiseiesima volta”, il che corrisponde agli anni che abbiamo già indicato). Questo elemento è importantissimo, perché ci fornisce una delle date certe della cronologia neotestamentaria. Paolo giunge quindi da Atene a Corinto in un lasso di tempo che può andare dal 51 al 52 d.C. e la prima lettera ai Tessalonicesi, che è scritta poco prima di questo evento, viene così ad essere datata fra il 50 ed il 51 d.C. e risulta così essere, probabilmente, il primo scritto neotestamentario in ordine cronologico.
Leggiamo i primi due capitoli della lettera:
Paolo, Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicesi che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: grazia a voi e pace! Ringraziamo sempre Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere, continuamente memori davanti a Dio e Padre nostro del vostro impegno nella fede, della vostra operosità nella carità e della vostra costante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo. Noi ben sappiamo, fratelli amati da Dio, che siete stati eletti da lui. Il nostro vangelo, infatti, non si è diffuso fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con potenza e con Spirito Santo e con profonda convinzione, come ben sapete che siamo stati in mezzo a voi per il vostro bene. E voi siete diventati imitatori nostri e del Signore, avendo accolto la parola con la gioia dello Spirito Santo anche in mezzo a grande tribolazione, così da diventare modello a tutti i credenti che sono nella Macedonia e nell’Acaia. Infatti la parola del Signore riecheggia per mezzo vostro non soltanto in Macedonia e nell’Acaia, ma la fama della vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, di modo che non abbiamo più bisogno di parlarne. Sono loro infatti a parlare di noi, dicendo come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, che ci libera dall’ira ventura.
Voi stessi infatti, fratelli, sapete bene che la nostra venuta in mezzo a voi non è stata vana. Ma dopo avere prima sofferto e subìto oltraggi a Filippi, come ben sapete, abbiamo avuto il coraggio nel nostro Dio di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte. E il nostro appello non è stato mosso da volontà di inganno, né da torbidi motivi, né abbiamo usato frode alcuna; ma come Dio ci ha trovati degni di affidarci il vangelo così lo predichiamo, non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori. Mai infatti abbiamo pronunziato parole di adulazione, come sapete, né avuto pensieri di cupidigia: Dio ne è testimone. E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né da altri, pur potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cristo. Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari. Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunziato il vangelo di Dio. Voi siete testimoni, e Dio stesso è testimone, come è stato santo, giusto, irreprensibile il nostro comportamento verso di voi credenti; e sapete anche che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, incoraggiandovi e scongiurandovi a comportarvi in maniera degna di quel Dio che vi chiama al suo regno e alla sua gloria. Proprio per questo anche noi ringraziamo Dio continuamente, perché, avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l’avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete. Voi infatti, fratelli, siete diventati imitatori delle Chiese di Dio in Gesù Cristo, che sono nella Giudea, perché avete sofferto anche voi da parte dei vostri connazionali come loro da parte dei Giudei, i quali hanno perfino messo a morte il Signore Gesù e i profeti e hanno perseguitato anche noi; essi non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini, impedendo a noi di predicare ai pagani perché possano essere salvati. In tal modo essi colmano la misura dei loro peccati! Ma ormai l’ira è arrivata al colmo sul loro capo. Quanto a noi, fratelli, dopo poco tempo che eravamo separati da voi, di persona ma non col cuore, eravamo nell’impazienza di rivedere il vostro volto, tanto il nostro desiderio era vivo. Perciò abbiamo desiderato una volta, anzi due volte, proprio io Paolo, di venire da voi, ma satana ce lo ha impedito. Chi infatti, se non proprio voi, potrebbe essere la nostra speranza, la nostra gioia e la corona di cui ci possiamo vantare, davanti al Signore nostro Gesù, nel momento della sua venuta? Siete voi la nostra gloria e la nostra gioia.
Vorrei sottolineare innanzitutto la consapevolezza di S.Paolo di annunciare il “Vangelo”. Al v.1, 5 troviamo “il nostro vangelo”, al v. 2,2 “il vangelo di Dio”, al v. 2, 8 ancora “il vangelo di Dio”, al v. 2, 9 ancora la stessa espressione, al v. 3, 6 che non abbiamo letto troviamo “il lieto annunzio della vostra fede”, riferito alla notizia che la fede dei tessalonicesi continua salda e viva. Nelle lettere paoline troviamo il sostantivo “vangelo” più che non il verbo “evangelizzare”. Di tutte le presenze del termine “vangelo” nel Nuovo Testamento ben il 79% è nel corpus paolinum. E’ tipico di Paolo l’uso del sostantivo, anche per molte altre espressioni (vedi, ad esempio, la prevalenza della parola “fede” sul verbo “credere”). E’ anche la fatica del concetto che Paolo insegna ala Chiesa di tutti i tempi. In 2 Tim 4, 13 troviamo l’invito: “Portami i libri e le pergamene”, rivolto a Timoteo, perché Paolo possa ancora servirsene nelle nuove tappe del suo ministero. Nelle lettere non troviamo il racconto della vita di Cristo. Per Paolo certo al vita di Cristo è un fatto assolutamente reale, ma essa è data già per conosciuta. La parola “vangelo” non ha ancora il senso che avrà poi di “scritto che narra la vita di Gesù”. Esprime invece, semplicemente il “lieto annunzio che Cristo è morto e risorto per te”. Questo è il vangelo e Paolo a più riprese lo annuncia e lo ripete. L’accento è tutto sulla morte e sulla resurrezione (non ci si sofferma sui particolari, sulle parole di Gesù o sui suoi miracoli). Ma non solo! E’ la morte e la resurrezione “per”. Cristo è morto e risorto “per i nostri peccati”. Ecco tutto il vangelo, espresso in pochissime parole Ricordo un ragazzo molto disturbato mentalmente che pure mi diceva con verità e semplicità: “Lo sai, io credo questo: se tu credi che Gesù è morto per te, sei salvo”. Ecco tutto il vangelo.
Non possiamo non notare anche le espressioni paoline che sottolineano due aspetti complementari ed ugualmente essenziali dell’amore dell’apostolo e di ogni amore: quelli materni e quelli paterni, quelli femminili e quelli maschili. Rileggiamo i versetti 2, 7-8 e 2, 11:
Siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari… E sapete anche che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, incoraggiandovi e scongiurandovi a comportarvi in maniera degna di quel Dio che vi chiama al suo regno e alla sua gloria. Proprio per questo anche noi ringraziamo Dio
In queste espressioni vediamo tutta la dolcezza e la disponibilità con cui una madre è disposta a perdere la propria vita perché una creatura possa vivere, come tutta la forza e la chiarezza con cui un padre deve indicare quale è il cammino da percorrere, divenendo punto di riferimento per il figlio.
La comunità cristiana di Tessalonica è nata da pochissimo (la lettera ce la mostra solo alcuni mesi dopo la sua nascita), ma già la sua vita fa parlare di sé:
E voi siete diventati imitatori nostri e del Signore, avendo accolto la parola con la gioia dello Spirito Santo anche in mezzo a grande tribolazione, così da diventare modello a tutti i credenti che sono nella Macedonia e nell’Acaia. Infatti la parola del Signore riecheggia per mezzo vostro non soltanto in Macedonia e nell’Acaia, ma la fama della vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, di modo che non abbiamo più bisogno di parlarne. Sono loro infatti a parlare di noi, dicendo come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, che ci libera dall’ira ventura.
Ancora una volta ci misuriamo con il dono della fede che non si arresta, ma continuamente genera altri credenti. E’ il bene che, se vero, non può non diffondersi. “Bonum diffusivum sui”.

 

Publié dans:Lettera ai Tessalonicesi - prima |on 22 janvier, 2019 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA CRISTIANA – 9. L’ELMO DELLA SPERANZA (1TS 5,4-11)

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2017/documents/papa-francesco_20170201_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA CRISTIANA – 9. L’ELMO DELLA SPERANZA (1TS 5,4-11)

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 1° febbraio 2017

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nelle scorse catechesi abbiamo iniziato il nostro percorso sul tema della speranza rileggendo in questa prospettiva alcune pagine dell’Antico Testamento. Ora vogliamo passare a mettere in luce la portata straordinaria che questa virtù viene ad assumere nel Nuovo Testamento, quando incontra la novità rappresentata da Gesù Cristo e dall’evento pasquale: la speranza cristiana. Noi cristiani, siamo donne e uomini di speranza.
È quello che emerge in modo chiaro fin dal primo testo che è stato scritto, vale a dire la Prima Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi. Nel passo che abbiamo ascoltato, si può percepire tutta la freschezza e la bellezza del primo annuncio cristiano. Quella di Tessalonica è una comunità giovane, fondata da poco; eppure, nonostante le difficoltà e le tante prove, è radicata nella fede e celebra con entusiasmo e con gioia la risurrezione del Signore Gesù. L’Apostolo allora si rallegra di cuore con tutti, in quanto coloro che rinascono nella Pasqua diventano davvero «figli della luce e figli del giorno» (5,5), in forza della piena comunione con Cristo.
Quando Paolo le scrive, la comunità di Tessalonica è appena stata fondata, e solo pochi anni la separano dalla Pasqua di Cristo. Per questo, l’Apostolo cerca di far comprendere tutti gli effetti e le conseguenze che questo evento unico e decisivo, cioè la risurrezione del Signore, comporta per la storia e per la vita di ciascuno. In particolare, la difficoltà della comunità non era tanto di riconoscere la risurrezione di Gesù, tutti ci credevano, ma di credere nella risurrezione dei morti. Sì, Gesù è risorto, ma la difficoltà era credere che i morti risorgono. In tal senso, questa lettera si rivela quanto mai attuale. Ogni volta che ci troviamo di fronte alla nostra morte, o a quella di una persona cara, sentiamo che la nostra fede viene messa alla prova. Emergono tutti i nostri dubbi, tutta la nostra fragilità, e ci chiediamo: «Ma davvero ci sarà la vita dopo la morte…? Potrò ancora vedere e riabbracciare le persone che ho amato…?». Questa domanda me l’ha fatta una signora pochi giorni fa in un’udienza, manifestando un dubbio: “Incontrerò i miei?”. Anche noi, nel contesto attuale, abbiamo bisogno di ritornare alla radice e alle fondamenta della nostra fede, così da prendere coscienza di quanto Dio ha operato per noi in Cristo Gesù e cosa significa la nostra morte. Tutti abbiamo un po’ di paura per questa incertezza della morte. Mi viene alla memoria un vecchietto, un anziano, bravo, che diceva: “Io non ho paura della morte. Ho un po’ di paura a vederla venire”. Aveva paura di questo.
Paolo, di fronte ai timori e alle perplessità della comunità, invita a tenere salda sul capo come un elmo, soprattutto nelle prove e nei momenti più difficili della nostra vita, «la speranza della salvezza». È un elmo. Ecco cos’è la speranza cristiana. Quando si parla di speranza, possiamo essere portati ad intenderla secondo l’accezione comune del termine, vale a dire in riferimento a qualcosa di bello che desideriamo, ma che può realizzarsi oppure no. Speriamo che succeda, è come un desiderio. Si dice per esempio: «Spero che domani faccia bel tempo!»; ma sappiamo che il giorno dopo può fare invece brutto tempo… La speranza cristiana non è così. La speranza cristiana è l’attesa di qualcosa che già è stato compiuto; c’è la porta lì, e io spero di arrivare alla porta. Che cosa devo fare? Camminare verso la porta! Sono sicuro che arriverò alla porta. Così è la speranza cristiana: avere la certezza che io sto in cammino verso qualcosa che è, non che io voglia che sia. Questa è la speranza cristiana. La speranza cristiana è l’attesa di una cosa che è già stata compiuta e che certamente si realizzerà per ciascuno di noi. Anche la nostra risurrezione e quella dei cari defunti, quindi, non è una cosa che potrà avvenire oppure no, ma è una realtà certa, in quanto radicata nell’evento della risurrezione di Cristo. Sperare quindi significa imparare a vivere nell’attesa. Imparare a vivere nell’attesa e trovare la vita. Quando una donna si accorge di essere incinta, ogni giorno impara a vivere nell’attesa di vedere lo sguardo di quel bambino che verrà. Così anche noi dobbiamo vivere e imparare da queste attese umane e vivere nell’attesa di guardare il Signore, di incontrare il Signore. Questo non è facile, ma si impara: vivere nell’attesa. Sperare significa e implica un cuore umile, un cuore povero. Solo un povero sa attendere. Chi è già pieno di sé e dei suoi averi, non sa riporre la propria fiducia in nessun altro se non in sé stesso.
Scrive ancora san Paolo: «Egli [Gesù] è morto per noi perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui» (1 Ts 5,10). Queste parole sono sempre motivo di grande consolazione e di pace. Anche per le persone amate che ci hanno lasciato siamo dunque chiamati a pregare perché vivano in Cristo e siano in piena comunione con noi. Una cosa che a me tocca tanto il cuore è un’espressione di san Paolo, sempre rivolta ai Tessalonicesi. A me riempie della sicurezza della speranza. Dice così: «E così per sempre saremo con il Signore» (1 Ts 4,17). Una cosa bella: tutto passa ma, dopo la morte, saremo per sempre con il Signore. È la certezza totale della speranza, la stessa che, molto tempo prima, faceva esclamare a Giobbe: «Io so che il mio redentore è vivo […]. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno» (Gb 19,25.27). E così per sempre saremo con il Signore. Voi credete questo? Vi domando: credete questo? Per avere un po’ di forza vi invito ad dirlo tre volte con me: “E così per sempre saremo con il Signore”. E là, con il Signore, ci incontreremo.

GLI ULTIMI TEMPI – CF. SAN PAOLO AI TESSALONICESI, I EPISTOLA 4:16-17

http://camcris.altervista.org/ultimitempi.html

(non c’è l’autore, ma il sito propone testi ottimi, potrebbe essere chiesa orientale)

GLI ULTIMI TEMPI – CF. SAN PAOLO AI TESSALONICESI, I EPISTOLA 4:16-17

Il Signore Gesù scenderà dal cielo con grido di comando, e prima risusciteranno i credenti morti. Poi i corpi dei veri cristiani, ancora in vita, saranno trasformati e portati insieme ai credenti risorti sulle nuvole a incontrare il Signore nell’aria per essere sempre con Lui.
Dio ha preannunciato che le condizioni dell’umanità peggioreranno al punto che Egli interverrà con i terribili giudizi descritti nell’Apocalisse.
Già oggi il quadro della nostra società corrisponde alla seguente profezia dell’apostolo Paolo: « Negli ultimi giorni verranno tempi difficili, perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, irreligiosi, insensibili, sleali, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene, traditori, sconsiderati, orgogliosi, amanti del piacere anziché di Dio, aventi l’apparenza della pietà, mentre ne hanno rinnegato la potenza », cioè porteranno il nome di cristiani senza esserlo (II Timoteo 3:1-5).
La nostra società è invasa da un’ondata di sporcizia e degenerazione morale. Ciò che è perverso agli occhi di Dio diventa sempre più accettato dal mondo. Gli ambienti religiosi non sono da meno; esistono delle associazioni di preti e pastori omosessuali, e in molti ambienti le relazioni prematrimoniali non vengono più definite come fornicazione. Gesù predisse che al suo ritorno la situazione sulla terra sarebbe stata come nei giorni prima del diluvio (Matteo 24:37).
È doloroso che dopo tanto progresso in tutti i campi l’uomo sia moralmente a questo livello. Se sfogliamo le pagine della storia rimaniamo inorriditi nel considerare le atrocità commesse per falsi ideali.

IL RITORNO DI GESÙ CAMBIERÀ LA SITUAZIONE UMANA
Il mondo fisico non finirà così presto come certi falsi profeti predicono, però la società, in contrasto con il pensiero di Dio, verrà radicalmente abbattuta. « Il Signore Gesù apparirà dal cielo con gli angeli della sua potenza, in un fuoco fiammeggiante, per far vendetta di coloro che non conoscono Dio, e di coloro che non ubbidiscono al vangelo del nostro Signore Gesù. Essi saranno puniti di eterna rovina, respinti dalla presenza del Signore e dalla gloria della sua potenza » (II Tess. 1:7-9; cfr. Apoc. 19:11-15).
« Quando diranno: Pace e sicurezza, allora una rovina improvvisa verrà loro addosso, come le doglie alla donna incinta; e non scamperanno » (I Tess. 5:3).

I SEGNI CHE ANNUNCIANO IL RITORNO DI GESÙ CRISTO
La seconda venuta di Gesù sarà caratterizzata da vari segni tutti predetti da Lui stesso. Prima di enumerarli vogliamo richiamare l’attenzione su un fatto importante. Nessun avvenimento di grande importanza, o castigo (il diluvio, la distruzione di Sodoma, la caduta di Babilonia, quella di Gerusalemme, ecc.) si è verificato nella storia senza che Dio non lo avesse predetto molto tempo prima, per dare agli uomini il tempo di ravvedersi della loro condotta e sfuggire così al suo giusto giudizio.
Anche oggi, prima della manifestazione della Sua ira, Dio avverte l’umanità per mezzo della Sua Parola di ravvedersi, e invita a convertirsi a Gesù e a riceverLo come Salvatore e Signore (Atti 17:30-31).

1. L’APOSTASIA FINALE
Gesù introdusse il discorso del suo ritorno con l’avvertimento: « Guardate che nessuno vi seduca. Poiché molti verranno nel mio nome, dicendo: « Io sono il Cristo ». E ne sedurranno molti. … Sorgeranno falsi cristi e falsi profeti, e faranno grandi segni e prodigi da sedurre, se fosse possibile, anche gli eletti. Ecco, ve l’ho predetto » (Matteo 24:4-5, 11, 24-25). Secondo la predizione di Gesù ci saranno negli ultimi tempi dei movimenti che nel Suo nome faranno segni e prodigi. Molti pretenderanno di poter entrare nel Regno dei cieli perché avranno profetizzato, cacciato demoni e fatto molte opere potenti nel nome di Gesù, ma Egli dichiarerà loro che non li ha mai conosciuti (Matteo 7:22).
L’apostolo Paolo predisse: « Quel giorno non verrà se prima non sia venuta l’apostasia e non sia stato manifestato l’uomo del peccato, il figlio della perdizione » (II Tessalonicesi 2.3). Egli scrisse ancora che si avrebbe dato retta a spiriti seduttori e a dottrine di demoni (I Timoteo 4:1).
Assistiamo ad una crescente nascita di nuove religioni. Dottrine di demoni fanno strage fra gli abitanti della terra, senza risparmiare il popolo di Dio.

Si insegna:
tutte le religioni sono sorte per volontà di Dio e portano a Dio;
ma Gesù ha detto: « Io sono la via, la verità e la vita, nessuno viene al Padre se non per mezzo di me » (Giovanni 14:6);
l’uomo è fondamentalmente buono, deve solo imparare a controllare la propria mente;
ma Dio dichiara: « Non c’è sulla terra nessun uomo giusto che faccia il bene e non pecchi mai » (Ecclesiaste 7:20); « Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio » (Romani 3:23); « Le vostre iniquità vi hanno separato dal vostro Dio; i vostri peccati gli hanno fatto nascondere la faccia da voi, per non darvi più ascolto » (Isaia 59:2);
ci sono diversi mediatori tra gli uomini e Dio;
ma è scritto: « C’è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù » (1 Timoteo 2:5);
si può essere salvati mediante religioni, devozione ai santi defunti, praticando opere buone;
ma la Bibbia avverte: « In nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati » (Atti 4:12); « È per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti » (Efesini 2:8,9);
Cristo è un simbolo, un’esperienza cosmica o mistica;
ma la Bibbia dichiara: « Nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra, e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre » (Filippesi 2:10,11);
non esiste una vita dopo la morte, né una punizione eterna;
ma Dio ne ha parlato largamente nelle Sacre Scritture, e Gesù stesso ha parlato più volte e in modo molto chiaro sia dell’inferno che della resurrezione;
si insegna anche che noi siamo Dio, il divino è dappertutto e lo si può raggiungere con la meditazione;
chi è ammalato è inevitabilmente in peccato o manca di fede;
la consultazione di oroscopi e cartomanti per conoscere il futuro;
radioestesia, pranoterapia, omeopatia, agopuntura, yoga, ecc. per riacquistare la salute;
l’uso del pendolo, talismani, medagliette, amuleti, filtri d’amore, cristalli, magia « bianca »;
la possibilità di soccorrere i morti con preghiere rivolte ad altri morti, buone opere e messe;
le nuove rivelazioni, segreti e apparizioni mistiche « cristiane » che verrebbero da Dio;
e molte altre dottrine simili.
Anche la partecipazione a sedute spiritiche trasmesse in TV, la visione di film e trasmissioni anche per ragazzi, che attingono all’occulto, alla magia e al paganesimo, preparano l’anima di grandi e piccoli all’invasione demoniaca. Il proliferare incontrollato e sempre crescente di tali insegnamenti è un’ulteriore conferma del fatto che stiamo vivendo negli ultimi tempi, e che dunque Gesù sta per ritornare.

2. GUERRE
Gesù proseguì poi dicendo: « Voi udrete parlare di guerre e di rumori di guerre; guardate di non turbarvi, infatti bisogna che questo avvenga, ma non sarà ancora la fine. Perché insorgerà nazione contro nazione e regno contro regno » (Matteo 24.6-7).
Dal 1945-1978, in 33 anni, vi sono stati 133 conflitti militari.
Dal 1978-1987, in soli 9 anni, ci sono state circa 70 guerre locali, cioè il 50% in più del periodo precedente.
Ai nostri giorni, aumentano esponenzialmente il terrorismo, le guerre, e conflitti di ogni tipo.

3. MOVIMENTI INSURREZIONALI
Le agitazioni e le guerre etniche dei popoli sono un segno dei tempi profetizzati dal Signore.
Gesù disse una parabola: « Osservate il fico e tutti gli altri alberi. Quando cominciano a germogliare, voi riconoscete da voi stessi che l’estate è ormai vicina. Così anche voi, quando vedete accadere queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino » (Luca 21:29-31) .
Il fico è il simbolo del popolo d’Israele, mentre gli altri alberi sono il simbolo delle nazioni (Ezechiele 31). Il ritorno d’Israele nella Palestina dopo 2000 anni di dispersione e l’indipendenza di molti stati afro-asiatici sono già fatti storici. Da ciò sappiamo che il Regno di Dio è vicino.
Gesù predisse che « Gerusalemme sarà calpestata dalle nazioni finché i tempi delle nazioni siano compiuti » (Luca 21:24). Nell’anno 1967 Israele riconquistò Gerusalemme. Il tempo delle nazioni sta per finire.
L’ultima guerra sarà particolarmente disastrosa. La terza parte degli uomini (che sarebbero oggi circa due miliardi) sarà uccisa nel conflitto (Apocalisse 9:18).

4. CARESTIE
Gesù predisse delle carestie (Matteo 24:7; vedi anche Apocalisse 6:5-6).
Il mondo è diviso in due parti. Mentre nell’occidente gli uomini hanno abbondantemente da mangiare, altrove esiste una miseria cronica. Giorno dopo giorno muoiono di fame e malattie intorno alle 140.000 persone.
Questa situazione si inasprirà nel prossimo futuro, dato che i popoli poveri, i quali già oggi non possono nutrirsi in modo sufficiente, si moltiplicano più rapidamente di quelli ricchi.

5. TERREMOTI
L’aumento dei terremoti è impressionante. Secondo la statistica dell’osservatorio di Strasburgo risulta che
nel XVII secolo furono registrati – 378 terremoti (il che non esclude che se ne verificarono altri, che non sono stati registrati.
nel XVIII secolo – 640 terremoti
nel XIX secolo (fino al 1930) – 2119 terremoti.
Oggi non si fa più in tempo di contarli. Inoltre gli alluvioni, i tifoni, gli uragani seminano sempre più stragi, rovine e lutti.
« …tutto questo non sarà che principio di dolori » (letteralmente: doglie di parto – Matteo 24.8). Le doglie aumentano d’intensità man mano che si avvicina l’ora del parto.

6. L’ANTICRISTO
Secondo la profezia biblica dovrà sorgere l’ultimo impero della storia, che raggrupperà gli Stati europei. Poi si manifesterà il grande dittatore degli ultimi tempi: l’Anticristo che governerà per sette anni.
Il mondo lo acclamerà come liberatore. Egli stabilirà un patto di « pace » con le nazioni ed il popolo d’Israele, ingannato da lui, lo acclamerà come Messia e come Cristo. Dopo tre anni e mezzo romperà questo patto e rivelerà la sua natura satanica. Allora ci sarà una grande tribolazione, un periodo di persecuzioni, di fame, di pestilenze e terremoti. L’Anticristo obbligherà tutti a portare un marchio sulla mano destra o sulla fronte, senza il quale nessuno potrà comprare o vendere. Coloro che rifiuteranno di portarlo saranno uccisi. Ma chiunque accetterà quel marchio (il nome dell’Anticristo o il suo numero, che è 666) sarà eternamente condannato da Dio (Daniele 9:24-27; Matteo 24:15, 21-22; Apocalisse 13:11-18; 14:9-11; II Tessalonicesi 2:8).
Ai nostri giorni (2000) siamo già nella piena formazione degli Stati Uniti d’Europa come unità politica, economica e militare.
In questo tempo, nel momento stabilito dal Signore, si dovrà compiere il meraviglioso avvenimento conosciuto come rapimento della Chiesa, ossia la sparizione istantanea di coloro che sono fedeli a Cristo e alla sua Parola.
I segni che caratterizzano il ritorno del Signore, si adempiono davanti agli occhi nostri con ritmo crescente, perciò non c’è tempo da perdere. Come l’apostolo Pietro esortiamo: « Salvatevi da questa perversa generazione » (Atti 2:40).

CHE COSA BISOGNA FARE?
Occorre:
Ravvedersi dei propri peccati confessandoli a Gesù e chiederne il perdono,
accettare la salvezza che Egli ti offre grazie al suo sacrificio sulla croce,
e fare di Lui il Signore della propria vita, seguendoLo giorno per giorno.
Con questo atto di fede in Gesù Cristo puoi ricevere la vita eterna e diventare un figlio di Dio (Giovanni 1:12; 3:36).
Che tu possa aprire il tuo cuore all’amore di Gesù Cristo, che ti ama ed è morto per pagare con il suo sangue anche il debito dei tuoi peccati!
Solamente accettando Gesù come Salvatore e vivendo per Lui, potrai sfuggire ai terribili giudizi che si profilano all’orizzonte e ad una eternità ancora più terribile.
Se lo Spirito Santo ha svegliato la tua coscienza non ignorare il suo ammonimento finché non hai realizzata la salvezza in Gesù Cristo, l’Unico che ti può salvare.

 

Publié dans:Lettera ai Tessalonicesi - prima |on 14 novembre, 2016 |Pas de commentaires »

LA PREGHIERA APOSTOLICA – II PARTE – PRIMA LETTERA AI TESSALONICESI – STANISLAO LYONNET

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=124524

LA PREGHIERA APOSTOLICA – II PARTE – PRIMA LETTERA AI TESSALONICESI – STANISLAO LYONNET,

L’efficacia della preghiera e la sua necessità vanno cercate in un’azione che essa esercita non su Dio, ma su «colui stesso che prega». Dio è sempre disposto a colmarci dei suoi doni; ma noi non sempre siamo pronti ad accoglierli: la preghiera ce ne rende capaci.

Il lettore che dia una scorsa alle lettere di San Paolo rimane probabilmente sorpreso dal posto che vi occupa la preghiera, specialmente quell’aspetto particolare di essa che si potrebbe chiamare la preghiera apostolica: questa, essendo essenzialmente legata all’apostolato, non solo da esso trae la sua origine e trova in esso il suo alimento, ma lo prepara, lo accompagna, e persino lo supplisce (1).
S. Paolo, per limitarci a un esempio, nei cinque capitoli della prima lettera indirizzata alla comunità di Tessalonica, ricorda questa preghiera non meno di cinque volte:
Rendiamo grazie a Dio in ogni istante per voi tutti, quando vi ricordiamo nelle nostre preghiere. Ripensiamo senza posa, alla presenza del nostro Dio e Padre, all’attività della vostra fede, alla fatica della vostra carità, alla costanza della vostra speranza, che sono l’opera di nostro Signore Gesù Cristo (1,2-3). Ecco perché noi pure non cessiamo di render grazie a Dio, perché voi, una volta ricevuta la parola di Dio…, l’avete accolta non come una parola d’uomo, ma, quale essa è realmente, la parola di Dio (2,13).
Come potremmo rendere a Dio grazie sufficienti riguardo a voi, per tutta la gioia di cui voi ci fate lieti davanti al nostro Dio? Notte e giorno gli domandiamo con estrema insistenza di rivedere il vostro volto e di poter completare ciò che ancora manca alla vostra fede (3,9-10).
E alle preghiere di Paolo i fedeli devono aggiungere le proprie: Pregate senza posa. In ogni cosa state nell’azione di grazie… Pregate anche per noi (5, 17-25 ) (2).
Preghiere di ringraziamento o di domanda; preghiere di Paolo o dei fedeli: tutte sono preghiere ‘apostoliche’; ogni volta ne viene specificato l’oggetto: si tratta sempre del regno di Dio che dev’essere incrementato.
La preghiera di Paolo non solo è incessante, continua, come deve essere quella di ogni cristiano «notte e giorno» (1Tess. 2,9), – ma si rivolge a Dio con estrema insistenza: l’avverbio, intraducibile («supereccessivamente»), creato probabilmente dall’Apostolo, è usato un po’ più avanti nella stessa lettera (5, 13) per dire la stima in cui i cristiani devono tenere i loro superiori, e in Ef. 3,20 per qualificare la potenza di Dio, capace di esaudirci «infinitamente più di quanto noi possiamo domandare o concepire». È chiaro che qui
Paolo vuol esprimere qualcosa dell’intensità della sua supplica.
Già questo suggerisce che per lui la preghiera è una specie di lotta, di combattimento che l’uomo ingaggia con Dio. Certo è che in altri passi San Paolo non ha esitato ad usare tale termine. Alla fine della lettera ai Romani, riprendendo dopo lunghe esposizioni teologiche il tono confidenziale dell’amicizia, confessa ai fedeli di Roma l’inquietudine che lo tormenta. Li supplica che preghino secondo le sue intenzioni, affinché sfugga alle imboscate dei Giudei, e perché le elemosine raccolte con tanta cura tra le chiese dei gentili siano accettate di buon grado dalla chiesa-madre di Gerusalemme: «Ve lo domando, o fratelli, per il Signore nostro Gesù Cristo e per la carità dello Spirito, lottate con me nelle preghiere che per me indirizzate a Dio» (Rom. 15,30).
Nella lettera ai Colossesi lo stesso verbo caratterizza la preghiera di Epafra, il fondatore della chiesa di Colossi (Col. 1,17), per quelli che ha istruito: «Epafra, vostro compatriota, vi saluta: questo servitore del Cristo Gesù non cessa di lottare per voi nelle sue preghiere, affinché voi siate fermi, perfetti e decisi in tutti i voleri divini» (Col. 4,12). Anche all’inizio del capitolo secondo in un contesto simile ritorna la stessa immagine. Tutto effettivamente, e in special modo il passo parallelo di 4,12, fa capire che Paolo intende parlare dell’attività apostolica che egli, come Epafra, esercita per mezzo della preghiera. Prigioniero a Roma e lontano da Colossi, che è nell’Asia Minore, egli ha cura di informare i suoi destinatari che non cessa di essere attivamente il loro apostolo: «Poiché desidero che voi sappiate quale lotta io combatto per voi e per quelli di Laodicea – ai quali chiede che la sua lettera sia trasmessa (4, 16) e per tanti altri che non mi hanno mai visto con i loro occhi» (2, I). Paolo sicuramente concorre alla loro «edificazione nel Cristo» con tutta la sua vita di prigioniero e segnatamente con le sofferenze. che per essi sopporta «completando nella sua carne ciò che manca alle tribolazioni del Cristo per il suo Corpo che è la Chiesa» (Col. 1,24). Ma in tale attività apostolica del «prigioniero» la preghiera ha il suo posto, come l’aveva in quella di Epafra. Orbene, anche qui Paolo parla di una lotta che l’apostolo sostiene con Dio per la salvezza delle anime che gli sono affidate.
Concezione ardita, ma perfettamente in accordo con l’insegnamento del vangelo, quale si ha, per esempio, nella parabola dell’amico importuno (Lc. 11, 5-8), la quale non dimentichiamolo, appare come un commento del Pater, cioè dell’insegnamento di Cristo sulla preghiera (3). E il Cristo non faceva altro che riprendere a sua volta la dottrina che la Bibbia si sforzava di inculcare fin dall’inizio. Si pensi alla preghiera di Abramo in favore di Sodoma e Gomorra, la prima che si incontri, come se dovesse servire da modello a tutte le altre (Cen. 18,17-39), oppure alla grande preghiera di Mosè (Es. 32, 11 – 14 e 30-32), quando, «prostrato davanti a Jahvé per quaranta giorni e quaranta notti senza mangiar pane né bere acqua» (Deut. 9,18 e 25), intercede per il popolo di Israele. Cristo, novello Mosè, inaugurerà lui pure la sua carriera messianica, subito dopo il battesimo, con un soggiorno misterioso di quaranta giorni e quaranta notti nel deserto, nel digiuno e – senza dubbio nella preghiera; soggiorno che S. Matteo chiaramente accosta alla solenne intercessione di Mosè sul Sinai nell’atto di concludere la prima alleanza (Mt.4,2).
Né Cristo né San Paolo hanno esitato a insegnare che Dio vuol essere quasi importunato dalle nostre preghiere e lasciarsi strappare a viva forza, si direbbe, ciò che gli domandiamo. Così facendo essi si sono tenuti nello spirito della più pura tradizione biblica, che non rifugge dai paragoni più audaci. Si pensi che i Padri hanno visto nella lotta di Giacobbe coll’angelo di Jahvé raccontata nel Genesi (32,23-33) una immagine dell’efficacia della preghiera.
Non bisogna però dimenticare che si tratta di espressioni paraboliche, di cui si deve precisare il significato. Col pretesto della fedeltà alla Scrittura si potrebbe lasciar capire che l’uomo con la preghiera si propone di piegar Dio a volere ciò che prima non voleva, come se la creatura potesse esercitare un’azione su Dio stesso, o come se Dio non fosse il padre pieno di amore, sempre disposto a dare ai suoi figli ciò che loro conviene (4), infinitamente più sollecito del loro vero bene che di nutrire gli uccelli del cielo o vestire i gigli del campo (5). Ciò equivarrebbe ad attentare a due prerogative del «Dio vivente», la trascendenza e l’amore, che la Bibbia presa nel suo insieme – poiché il Nuovo Testamento spiega l’Antico – sembra gelosa di salvaguardare più di ogni altra cosa.
Se Paolo, fedele all’insegnamento di Cristo e della Bibbia, si compiace di designare la preghiera come una lotta che l’uomo sostiene con Dio, lo fa sicuramente per sottolineare la necessità. Orbene, è possibile fare ciò senza togliere nulla né alla trascendenza di Dio né al suo amore. Il problema non è solo di oggi, e già in passato eccellenti soluzioni furono proposte soprattutto da parte di Sant’ Agostino. Il suo insegnamento fu poi ripreso da San Tommaso in formule di particolare limpidezza; per esempio nel Compendio di Teologia rimasto incompiuto, in cui verso la fine spiega insieme «la necessità della preghiera e la differenza tra la preghiera che si rivolge a Dio e quella che si rivolge a un uomo»:
Rivolta a un uomo la preghiera si presenta anzitutto per esprimere il desiderio di colui che prega e la sua indigenza e in secondo luogo per piegare il cuore di colui che si prega fino a farlo cedere. Quando invece si prega Dio…, non intendiamo manifestare i nostri bisogni o i nostri desideri a lui, che conosce tutto… Ancor meno intendiamo piegare con parole umane la volontà divina a volere ciò che prima non voleva… Ma, per ottenere qualcosa da Dio, la preghiera è necessaria all’uomo in ragione di colui stesso che prega per mezzo di essa egli si rende capace di ricevere (6).
L’efficacia della preghiera e la sua necessità vanno cercate in un’azione che essa esercita non su Dio, ma su «colui stesso che prega». Dio è sempre disposto a colmarci dei suoi doni; ma noi non sempre siamo pronti ad accoglierli: la preghiera ce ne rende capaci.
Perciò non si deve temere di essere importuni. Infine la sola cosa che possiamo domandare nelle nostre preghiere è il pieno compimento della volontà divina: «venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà»; ma, proprio perché essa si compia, non è indifferente che noi preghiamo, perché ciò costituisce la parte di collaborazione della nostra libertà, che Dio rispetta sempre in modo sovrano.
Naturalmente ciò che San Tommaso afferma della preghiera che il cristiano indirizza a Dio per se stesso si applica a ciò che l’apostolo indirizza a Dio per le anime a lui affidate; Dio vuole servirsi di noi per l’espansione del suo regno e cioè, concretamente, per procurare la salvezza e la santificazione dei nostri fratelli, specialmente di quelli di cui ci ha fatti responsabili a un titolo particolare. Ora noi, così come siamo, non siamo strumenti adatti ad essere utilizzati da Dio: la preghiera – ogni preghiera, ma specialmente quella che indirizziamo a Dio per queste anime – permette a lui di servirsi di noi per comunicar loro i suoi doni secondo il piano della sua sapienza.
È pur vero che la preghiera possiede ugualmente un’efficacia generale in virtù della comunione dei santi, ma ciò che abbiamo detto ci fa comprendere meglio, mi sembra, perché San Paolo attribuisce tale posto alla preghiera di intercessione – azione di grazia e di domanda, correlative l’una dell’altra – e perché nella sua fedeltà alla più pura tradizione biblica egli la concepisce volentieri come una lotta che l’Apostolo combatte con Dio in favore della missione stessa che gli ha assegnato. Quindi la preghiera, essendo effetto essa stessa della grazia di Dio, non esercita su di lui alcuna pressione, non mira affatto a cambiare la volontà di Dio, che non può essere se non una volontà d’amore, ma ha per fine di rendere lo strumento apostolico atto a compiere la parte di strumento di Dio e di permettere così a Dio di realizzare in noi e nell’umanità intera i suoi disegni d’amore. Una tale preghiera, lungi dall’entrare in conflitto con le «necessità dell’azione», trova piuttosto in questa la sua ragion d’essere: parte integrante quale essa è del nostro compito apostolico, se manchiamo ad essa manchiamo alla parte più importante del nostro dovere di apostoli.

[1]. Nella rivista «Christus» n. 10 (1958), pp. 222-229, si troverà un’esposizione un po’ più ampia delle stesse idee.
[2]. Vedere anche, tra i molti altri esempi, 2 Tess. 1,3 e 11; 2,13; 3,12; oppure 2 Cor. 1,2-4 e 11; 2,14; 8,16; 9,15; 12,7-9; 13,7-9 e 14.
[3]. Lc.11,1-4. La stessa dottrina si trova anche nell’episodio della Cananea, Mc. 7,24-30; Mt.15,2I-28.
[4]. Lc. 11,11-13; Mt.7,9-11.
[5]. Lc. 12,22-31; Mt.6,25-34.
[6]. Compendium Theologiae II 2.

(L’autore) Stanislao Lyonnet, Dieci meditazioni su San Paolo – autore: Stanislao Lyonnet

Publié dans:Lettera ai Tessalonicesi - prima |on 17 octobre, 2016 |Pas de commentaires »

PRIMA LETTERA AI TESSALONICESI – COMMENTO

http://www.homolaicus.com/nt/vangeli/lettere_tessalonicesi.htm

PRIMA LETTERA AI TESSALONICESI – COMMENTO

(sul sito c’è il testo)

COMMENTO

La I lettera ai Tessalonicesi è la più antica (1) di quelle di Paolo di Tarso, essendo stata scritta tra il 51 e il 52, dopo che in quella località (Tessalonica, Salonicco) la chiesa fu fondata nel corso del secondo viaggio missionario dell’apostolo, avvenuto tra il 49 e il 53 (cfr At 17,1-10). Probabilmente Paolo si trovava a Corinto, dove aveva incontrato Gallione, fratello maggiore di Seneca, dopo il discorso all’Areopago di Atene, e prese la decisione di scriverla solo dopo aver ottenuto notizie da Timoteo che l’aveva raggiunto, insieme a Sila, proprio da Tessalonica. E sarà proprio Timoteo a consegnarla a quei neo-convertiti. La lettera evita i toni apologetici come quella ai Galati e la seconda ai Corinti, manca di temi dottrinali come quella ai Romani e agli Efesini e non costituisce neppure una risposta a quesiti precisi, come la prima ai Corinti. Il motivo di fondo è quello di precisare il tema della parusia e, in particolare, il rapporto che avrebbe dovuto esserci tra vivi e morti. Ma evidentemente il suo contenuto non fu capito granché, visto che ad essa Paolo fece seguire, dopo qualche mese, una seconda lettera. La città di Tessalonica, ai tempi di Paolo, viveva uno dei periodi di maggiore floridezza economica. Conquistata dai romani nel 168 a.C., era diventata, nel 146 a.C., capitale di uno dei quattro distretti romani di Macedonia, ed era governata da un proconsole. Veniva considerata la città più fiorente della Grecia, anche perché col suo porto dominava l’Egeo. Nel 42 a.C., dopo la battaglia di Filippi, s’era guadagnata il titolo di « città libera » (con un proprio dèmos, assemblea cittadina, una propria bulè, senato, e propri politarchi, magistrati), essendosi schierata a favore di Ottaviano e Antonio contro Cassio e Bruto. Durante la permanenza nella città, Paolo, insieme a Sila e Timoteo, predicò inizialmente (gli Atti parlano di tre sabati) nella sinagoga, la principale in quella parte di Macedonia, ma a causa dell’immediata e forte opposizione da parte degli ebrei, fu costretto ad andarsene soltanto dopo pochi mesi, trovando rifugio a Berea (Verria), a circa 80 km da Tessalonica. Il privilegio di « città libera » imponeva infatti l’obbligo morale di un lealismo oltre ogni sospetto, per cui si comprendeva bene l’allarme generale tra le autorità e la popolazione di fronte a un’accusa di insubordinazione politica e di alto tradimento. Il contenuto della sua predicazione ci è noto proprio attraverso gli Atti: secondo un’interpretazione (naturalmente distorta) delle Scritture, egli sosteneva, sulla scia di Pietro, che il messia, nella persona di Gesù, doveva necessariamente morire per poi risorgere (« essere ridestato da Dio »), al fine di liberare gli uomini dall’oppressione (dare loro « salvezza », soteriologia). Questa tesi (kerigma) fu accolta da pochi giudei, ma da molti greci, anche tra le donne aristocratiche. La cosa fece andare su tutte le furie gli ebrei, che vedevano perdere consensi e soprattutto perché non potevano accettare l’idea di una fine del primato storico-politico d’Israele. Decisero quindi di denunciarlo, dopo aver fatto irruzione nella casa di un loro concittadino, Giasone, che probabilmente costituiva la base della missione dell’apostolo. L’accusa era quella di agire contro i decreti dell’imperatore, in quanto veniva a questi contrapposto un nuovo sovrano, Gesù. I politarchi (giudici della città) rimasero molto turbati e decisero di espellere immediatamente tutti i missionari. In questa lettera, scritta per infondere fiducia ai neo-convertiti, che evidentemente avevano subìto vessazioni dopo la partenza forzata dell’apostolo, si usa, per la prima volta, il termine « Cristo » come nome proprio di persona e non più come « qualifica politica »(1,1.3). Lo stesso appellativo di « Signore », che i pagani usavano in senso « politico » e che i Settanta avevano dato solo a Jahvè, qui viene usato in un’accezione esclusivamente « religiosa », essendo associato all’idea di « dio-padre », e attribuito unicamente al Cristo. Paolo tuttavia, provenendo da un ambiente intriso profondamente di aspettative politiche, quale quello giudeo-farisaico, pur compiacendosi che i tessalonicesi abbiano abbandonato i loro « idoli »(1,9), non si accontenta di anteporre alla loro religione (2) una nuova religione, ma è convinto che la sua nuova religione abbia un contenuto anche politico, in quanto il Cristo risorto, in virtù appunto della propria resurrezione, dovrà liberare coloro che credono in lui « dall’ira imminente »(1,10). Se è vero quel che dice Pietro, e cioè che Cristo è risorto, allora deve apparire del tutto normale un suo « imminente » ritorno, altrimenti non avrebbe avuto senso morire in croce: sarebbe stato sufficiente morire di vecchiaia, di morte naturale, semplicemente per far credere nell’esistenza di un aldilà. Viceversa, un uomo che pretende di porsi come « liberatore nazionale », che si fa uccidere senza poter dimostrare che aveva politicamente e umanamente ragione, quando in realtà avrebbe potuto farlo tranquillamente, avendo fatto capire, con la resurrezione, ch’era più che un uomo, non può non tornare, a tempi brevi, in maniera trionfale, facendo giustizia dei propri nemici. Questa convinzione non l’aveva solo Paolo, ma anche Pietro e altri apostoli ancora, con la differenza che mentre per Pietro e gli altri discepoli, presenti a Gerusalemme, Cristo sarebbe dovuto tornare per liberare la Palestina dai romani e costruire un nuovo regno davidico, per Paolo invece Cristo avrebbe dovuto abbattere l’intero impero romano, creando un nuovo regno in cui la differenza tra ebreo e pagano sarebbe scomparsa. Paolo in sostanza era convinto che se davvero il Cristo era risorto, non avrebbe avuto alcun senso che un avvenimento così straordinario dovesse restare circoscritto entro gli angusti confini di Israele, anche perché erano stati proprio i giudei a giustiziarlo. Cioè, in sostanza, ed è in questa alternativa radicale che sta racchiusa tutta la biografia politica dell’apostolo Paolo, o i cristiani andavano perseguitati, poiché demotivavano la resistenza armata da parte degli ebrei, con la loro idea di attendere passivamente la parusia del Cristo, oppure, se avevano davvero ragione, non potevano averla solo per i destini di Israele, in quanto l’avvenimento che andavano predicando doveva per forza riguardare l’intero genere umano. Paolo è assolutamente convinto che la seconda strada, da lui scelta negli anni 34-36, sia quella più giusta, quella più logica e naturale, quella più conseguente alla tesi petrina della « morte necessaria », e si serve delle persecuzioni subite a titolo dimostrativo (2,2): a Filippi fu addirittura incarcerato e fustigato. Sostiene, non senza una certa fanatica autoesaltazione, di essere non solo un « inviato di Dio »(2,9.13), ma anche un « apostolo di Cristo »(2,6), non meno degli altri discepoli più vicini al messia, anche se questa sua qualifica gli verrà sempre contestata dalla comunità di Gerusalemme, la quale però, vedendo il suo grande zelo a favore dell’idea di resurrezione, sarà anche disposta a cercare dei compromessi per favorirlo nella sua predicazione, che in teoria avrebbe dovuto essere rivolta esclusivamente ai « gentili » o ai « non circoncisi », ma che nella realtà si rivolgeva anche ai giudeo-ellenisti, agli ebrei della diaspora. In quanto giudeo predicava anzitutto ai giudei, nelle loro sinagoghe, ma, essendo convinto che non l’avrebbero ascoltato, approfittava subito del loro diniego per rivolgersi ai pagani, più sensibili a credere in fatti miracolosi e straordinari o in concezioni spiritualistiche, come appunto la resurrezione e l’aldilà. La sconfitta culturale che subirà ad Atene, in mezzo a un consesso di intellettuali, sarà tutto sommato un fatto isolato, che lo indurrà a rivolgersi unicamente a un uditorio più popolare. Quando scrive questa epistola Paolo ha già rotto definitivamente con l’ebraismo classico, al punto che arriva a dichiarare ch’egli non farà nulla per il suo paese nel caso in cui venga distrutto da Roma (2,16): i giudei sono « nemici di tutti gli uomini »(2,15). La rottura è non solo politica, avendo essi ucciso il messia e i profeti, ma anche ideologica, poiché i giudei non hanno più alcun titolo per ritenersi migliori degli altri popoli. Infatti, se possono essere migliori di quei pagani dediti ai piaceri e alla cupidigia (4,5s.), non sono certo migliori dei neo-cristiani di origine pagana, che sul piano etico si sforzano di condurre una vita irreprensibile, anzi sono « modello » per tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia. Paolo stesso aveva cercato di dar loro il buon esempio, alternando la predicazione al lavoro manuale (2,9), per non essere a nessuno di peso e per distinguersi dai filosofi e predicatori girovaghi, che spesso agivano a scopo di lucro. Qui il suo antisemitismo e antigiudaismo è così forte che si sente in dovere di affermare che la generazione dei tessalonicesi a lui coeva vedrà il ritorno trionfale del Cristo (2,19) « con tutti i suoi santi » (3,13). E’ quasi fuori di sé. E’ convinto che prima risorgeranno quelli che sono già morti (come primo segno della parusia), poi sarà la volta dei viventi (tra cui lui stesso), che però, non essendo ancora morti, saranno « rapiti insieme con loro [coi defunti], sulle nuvole, a incontrare il Signore nell’aria »(4,16ss.). Una sorta di spiritualizzazione della politica ai limiti del patologico. Cristo doveva tornare per dimostrare che senza di lui i giudei non sarebbero mai stati in grado di liberarsi dei romani e per dimostrare che, avendolo ingiustamente ucciso, sotto la denominazione di « nemico » non andava messo solo il romano oppressore e l’ebreo collaborazionista, ma anche il giudeo qua talis, fanaticamente legato alle proprie leggi e tradizioni. Il loro primato di « nazione santa », di « popolo eletto » era finito: ora il nuovo regno sarebbe stato « universale », « cosmico ». Come Pietro aveva ingannato i soli ebrei, così Paolo stava ingannando ebrei e pagani. Questi due apostoli, della prima e dell’ultima ora, erano così convinti della verità del loro nuovo vangelo, pur nella disperazione d’essere usciti politicamente sconfitti dagli eventi, che non s’accorgevano neppure di apparire seguaci di idee irrazionalistiche. Paolo, come già i sinottici, si rende conto, in questa lettera, della difficoltà di precisare il momento esatto della parusia, per cui si limita soltanto ad affermare che quando ufficialmente si proclamerà « pace e sicurezza »(5,3), allora avverrà d’improvviso il ritorno trionfale del Cristo, paragonabile al furto di un ladro notturno, alle doglie di una donna incinta. Vuole a tutti i costi porre delle antitesi paradossali, per meglio indurre il lettore a stare sempre vigile, a non fidarsi mai di quello che vede. Per « vigilanza » non si deve intendere una preparazione politico-militare attiva, come chiedeva Giovanni nella sua Apocalisse, scritta nell’imminenza dello scoppio della guerra giudaica. Le armi dei cristiani al seguito di Paolo sono semplicemente « spirituali »: la corazza della fede e dell’amore, l’elmo della speranza nella salvezza (5,8). Si tratta di attendere con pazienza, senza far nulla di violento; anzi, qualunque forma di persecuzione subìta va considerata come un segno favorevole alla parusia. La liberazione non può essere compiuta che da Cristo risorto, poiché s’egli non ha potuto compierla da vivo, usando gli strumenti della democrazia, è stato solo per dimostrare che il primato d’Israele era finito, ovvero che la società ebraica non era in grado di far valere un maggior senso della libertà e della giustizia sociale rispetto alle altre nazioni. I giudei, il popolo politico più irriducibile della storia, non sapendo riconoscere il valore dei propri liberatori nazionali, arrivando persino a consegnarli al peggiore nemico, hanno fatto il loro tempo, sono giunti al collasso storico-nazionale, non hanno titoli per opporsi legittimamente all’imperialismo romano. E’ dunque giusto che vengano spazzati via dalla parusia del messia redivivo (3). Non si può transigere con loro: o si pentono di quello che hanno fatto e credono nella resurrezione, che apre la strada all’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte a dio; o è meglio rivolgersi esclusivamente ai pagani, considerando finita la pretesa specificità ebraica. In questo Paolo era molto più risoluto di Pietro, e se in tutto quello ch’egli scrisse in questa lettera ci sarà qualcosa di « imminente », sarà soltanto la rottura tra i due, almeno finché Pietro non si deciderà di abbandonare per sempre Gerusalemme.

(1) Secondo alcuni esegeti la più antica è quella dei Galati, che risalirebbe alla fine del primo viaggio missionario. (2) Nella cosmopolitica Tessalonica, punto d’incontro tra oriente e occidente, dominava il più ampio sincretismo religioso, coi culti pagani di Serapis, Cibele, Dioniso, Cabiro, ma anche di Roma e di Augusto, ivi incluse varie divinità greco-italiche, quali Diana, Atena, Afrodite, i XII Dèi… La scelta a favore di questa città doveva apparire, agli occhi di Paolo, di natura strategica, in quanto da qui facilmente la predicazione si sarebbe irradiata nelle province orientali dell’impero. (3) Si noti in tal senso che il termine « parusia » non ha lo stesso significato che aveva nel mondo pagano, ove s’intendeva l’arrivo solenne di un esercito, guidato da un generale o da un sovrano, cui faceva seguito l’accoglienza festosa da parte degli alti dignitari della città. Qui il significato è più bellicoso: è una resa dei conti nei confronti dei propri nemici. Ogniqualvolta si parla nelle lettere paoline di « giorno del Signore », di « quel giorno » o semplicemente « il giorno », di « giorno dell’ira », « giorno del giudizio », « giorno della rivelazione », s’intende sempre qualcosa attinente a un evento di tipo escatologico, in uno scenario di catastrofe cosmica. Tuttavia, col passare degli anni, Paolo sarà costretto a trasformare il suo concetto di « parusia imminente » in « parusia ritardata » (a tale scopo, tra i segni premonitori, si sentirà indotto ad aggiungere, nella lettera ai Romani e nella seconda ai Corinti, anche quello della conversione degli ebrei al cristianesimo!). In particolare, proprio dalla seconda lettera ai Corinti, accanto all’escatologia di carattere schiettamente apocalittico e collettivo, Paolo inserirà con insistenza l’idea di una escatologia più individuale, in cui diventava possibile incontrarsi col Cristo dopo morti. Il termine « parusia » ricorre quattro volte nel cap. 24 del vangelo di Matteo e due volte nella lettera di Giacomo. Anche alcuni scrittori latini parlavano di « imminenza della fine »: Lucrezio, Livio, Ovidio, Seneca ecc. L’allontanarsi sempre più netto della parusia obbligherà i Padri della chiesa a concentrarsi sui destini dell’anima nell’aldilà.

 

SAN PAOLO TEOLOGO: SPIRITO, ANIMA E CORPO (1 TS 5,23)

http://bibbia.verboencarnado.net/2016/01/17/san-paolo-teologo-spirito-anima-e-corpo-1-ts-523/

SAN PAOLO TEOLOGO: SPIRITO, ANIMA E CORPO (1 TS 5,23)

  DI P. CARLOS PEREIRA,

Nella prima lettera ai Tessalonicesi, dopo aver avvertito i suoi fedeli con dei consigli diversi sulla vita spirituale e di come preservarsi dal peccato, San Paolo conclude con la seguente espressione di desiderio: Il Dio della pace, vi santifichi totalmente e tutto il vostro essere, spirito, anima e corpo, siano custoditi irreprensibili per la parusia del Signore nostro Gesù Cristo (1Ts 5,23).

            L’espressione che abbiamo messo in rilievo si legge nel greco: to pneuma kai h yuch kai to swma dove pneuma (pnéuma) significa chiaramente “spirito”, yuch (psiché) significa “anima” – più che “vita”, specialmente nel linguaggio paolino- e swma (soma) significa indubbiamente “corpo”. E’ stato suggerito, da certa parte della critica biblica, che quest’espressione venga chiamata “tricotomica” – poiché si riferisce a tre elementi- la quale rifletterebbe, in San Paolo, una mentalità filosofica di tipo neo-platonica. Come si sa perfettamente che questa divisione dell’uomo “in tre parti” è stata adottata da diverse sette eretiche, come danno testimonianza alcuni Padri della Chiesa,[1] allora la dottrina paolina sarebbe responsabile, e avrebbe facilmente derivata, in diverse posizione eterodosse che entrerebbero in conflitto con la dottrina del Nuovo Testamento, sia riguardo alla sua integrità, sia riguardo alla stessa nozione di ispirazione biblica. Inoltre, una divisione tricotomica dell’essere umano non è stata mai insegnata dalla Chiesa, che piuttosto ha seguito la dottrina aristotelica (e anche platonica) di composizione naturale dell’uomo in corpo ed anima, escludendo un terzo elemento.             Alcuni degli studiosi più notevoli di questo brano, hanno infatti dimostrato che la tricotomia (capita come una divisione “in tre parti” dell’uomo) non è biblica, è estranea a Filone e a Giuseppe Flavio (autori ebrei non cristiani), e pure estranea ai filosofi greci, Platone e Aristotele. Seguendo l’opinione di tanti Padri e scrittori antichi, si crede che qui San Paolo intende per pneuma il nuovo elemento di vita soprannaturale portato da Cristo all’uomo.[2] Ma l’enumerazione di tutti i tre elementi (spirito, anima e corpo) sembra provare che si tratti di grandezze dello stesso ordine – e non di ordine superiore l’una ed inferiore l’altra – e inoltre, l’avverbio amemptwV (amémpos) presente nel testo e che significa “irreprensibile”, difficilmente si applicherebbe all’operazione soprannaturale dello Spirito Santo in noi.            San Tommaso di Aquino commenta brevemente questo versetto, dichiarando: «Prendendo lo spunto da queste parole alcuni hanno detto che nell’uomo una cosa è lo spirito e un’altra cosa l’anima, e affermano che nell’uomo ci sono due anime, una che anima il corpo e l’altra che ragiona. Ma questa tesi viene respinta nei Dogmi ecclesiastici.            Ma occorre sapere che queste realtà non differiscono secondo l’essenza, bensì secondo la potenza. Infatti nella nostra anima ci sono certe capacità (vires) che sono atti degli organi corporei, come sono le potenze della parte sensitiva (vista, tatto, ecc.). Mentre ce ne sono altre che non sono atti di questi organi, ma prescindono da loro, come le potenze della parte intellettiva (intelligenza, volontà). E queste si dicono spirito come se fossero immateriali e in qualche modo sparate dal corpo, in quanto non sono atti del corpo e si dicono anche mente (cita anche Ef 4,23: Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente). E in quanto anima si dice anima, in quanto questo le è proprio. E qui Paolo parla propriamente. Infatti, nel peccato concorrono tre cose: la ragione, i sensi e l’azione del corpo. Egli auspica che in nessuna di esse ci sia il peccato».[3]            Rimane chiaro che per San Tommaso spirito ed anima non sono due parti diverse, ma la stessa anima in quanto esercita la sua attività propria nel primo caso (spirito), ed in quanto mette in azione le facoltà o potenze che sono legate agli organi corporali nel secondo (anima). D’altronde, per l’Aquinate spirito non sta a significare necessariamente nell’uomo l’azione della grazia o dei doni della salvezza, ma l’attività intellettuale (di intelligenza e volontà) che in se stessa appartiene all’ordine naturale.              Presentiamo un testo del padre Prat, S.J., che chiarisce molto la questione fondamentandosi nell’analisi linguistico: «Le parole anima e spirito ebbero in ebraico, come in greco e in latino, una sorte quasi uguale e nella loro evoluzione semantica seguirono una linea appena un po’ diversa. Dal significato etimologico di “soffio, aria in movimento”, vennero a significare a volta a volta il “respiro”, indice e condizione della vita, poi la “vita” stessa (come si apprezza in tanti testi paolini), poi il “principio vivente”, finalmente una “sostanza vivente” distinta della materia e superiore a questa. Ma mentre, nell’uso, lo spirito andava sempre più staccandosi della materia, l’anima, per un fenomeno inverso, tendeva ad identificarsi col principio vitale degli esseri animali. Tuttavia negli scrittori biblici la loro sinonimia generale risulta da questa triplice legge, che si corrispondono molto frequentemente in frasi parallele, che facilmente si scambiano nella stessa frase e che ricevono quasi indifferentemente gli stessi predicati. Si è affermato che il desiderio e l’appetito sensibile si attribuiscono sempre all’anima, e che né la gioia né la paura né la speranza non sono mai attribuite allo spirito. Questi sono comunque dei fatti accidentali dei quali non bisogna esagerare il valore.             Paolo, essendo solito a concentrare nel cuore tutte le manifestazioni della vita e prendendo dal vocabolario classico nuovi termini per indicare le operazioni intellettuali, assai raramente chiama anima o spirito al principio pensante. Secondo il racconto biblico, Dio, soffiando nelle narici dell’uomo un soffio di vita, ne fece “un anima vivente”, ossia, un’anima che esercita nella carne e per mezzo della carne le funzioni vitali. Quindi la carne non si concepisce senza l’anima e l’anima non si definisce senza qualche rapporto con la carne. Quando Paolo ringrazia Epafròdito di aver esposto l’anima sua per amore di lui (Fil 2,30 [25-30]), quando loda Prisca e Aquila di aver esposto la loro testa per salvare la sua anima (Rm 16, 3-4), quando assicura ai Tessalonicesi, che avrebbe voluto dare loro non soltanto il Vangelo, ma l’anima sua, come una madre la dà per il suo bambino (1Ts 2,8), è evidente che vuole parlare della vita. Perciò un gran numero di fenomeni psichici sono attribuiti indifferentemente alla carne o all’anima, perché l’anima in quanto è principio vitale, non si distingue adeguatamente dalla carne: “ogni carne” e “ogni anima” sono due espressioni equivalenti (1 Cor 1,29; Rm 13,1).[4]            Sembra pure che Paolo, se non vi è indotto da una regione di simmetria o dalla necessità di accentuare un contrasto, eviti di chiamare spirito la parte intelligente dell’uomo. Ma quando effettivamente significa in certi casi la parte pensante dell’uomo (come in 1 Cor 2,11),[5] vi è tra esso e l’anima una differenza modale che permette di dire senza tautologia: Il Dio della pace, vi santifichi totalmente e tutto il vostro essere, spirito, anima e corpo, siano custoditi irreprensibili per la parusia del Signore nostro Gesù Cristo (1Ts 5,23). Il corpo o il substrato materiale, l’anima o la vita sensibile, lo spirito o la vita intellettuale, sono tre aspetti dell’uomo, i quali riassumono tutto il suo essere e tutte le sue attività; non sono tre parti distinte del composto umano. Per cercare in queste parole la tricotomia platonica (o neoplatonica), bisogna aver dimenticato che l’antropologia dell’Apostolo si poggia notoriamente sopra la concezione scritturale, e che non si potrebbe ammettere senza inverosimiglianza, che egli se ne allontani una sola volta, in una frase incidentale, in favore di un sistema incompatibile con la teologia ebraica».[6]           In conformità con la dottrina dell’Antico Testamento – sebbene in San Paolo si mostri evidentemente con un considerevole sviluppo -, rimane saldo che: per l’anima, l’uomo ha delle affinità con le potenze superiori; con la carne contrasta invece con il puro spirito: Il mio spirito, dice il Signore, non resterà sempre nell’uomo perché questi è carne (Gen 6,3).

[1] Questi gruppi sarebbero: i “gnostici” (cfr. S. Ireneo, Adv. Haeres., I, 7,5); i Montanisti (cfr. Origene, Peri Archon, IV, 8,11), ed Apollinare di Laodicea (Framm. 88). [2] Così E. von Dobschutz, Ezkurs yur Trichotomie, in Meyer’s Kommentar, Gottinga, 1909; 230-2, citando a Giovanni Crisostomo, Teodoreto, l’Ambrosiastro, Pelagio e Sant’Ambrogio (In Luca, VII,190). [3] Tommaso di Aquino, Commento alla prima Lettera ai Tesslonicesi, V, lectio II [ed. Marietti – EDB: 137]. [4] In greco: Pasa yuch e pasa sarx rispettivamente. [5] Chi, tra gli uomini, conosce le cose dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui?

[6] F. Prat S.J., La Teologia di San Paolo II, Società editrice internazionale, Torino 1945, 49-50

1 TESSALONICESI 3,12-4,2

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=1%20Tessalonicesi%203

BRANO BIBLICO SCELTO

1 TESSALONICESI 3,12-4,2

Fratelli, 12  il Signore vi faccia crescere e abbondare nell’amore vicendevole e verso tutti, come è il nostro amore verso di voi, 13 per rendere saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità, davanti a Dio Padre nostro, al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi. 1 Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù: avete appreso da noi come comportarvi in modo da piacere a Dio, e così già vi comportate; cercate di agire sempre così per distinguervi ancora di più. 2 Voi conoscete infatti quali norme vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù.

COMMENTO 1 Tessalonicesi 3,12-4,2

Il comportamento cristiano La 1 Tessalonicesi contiene, dopo l’indirizzo (1,1), una prima parte che consiste in un lungo ringraziamento, intercalato da ricordi che sono a loro volta motivo di ulteriori ringraziamenti (1,2-3,13). Essa prosegue poi con una seconda parte (4,1-5,24) nella quale, dopo una breve introduzione (4,1-2) caratterizzata dall’uso dei verbi «supplicare» (erôtaô) ed «esortare» (parakaloô), si affronta una serie di temi concreti scanditi dalla ricorrenza della formula introduttoria «riguardo a» (4,9; 4,13; 5,1). La lettera termina con i saluti e gli auguri dell’apostolo (5,25-28). Il testo liturgico riporta due brani: la conclusione del ringraziamento iniziale, che consiste in una preghiera a Dio per i tessalonicesi (3,12-13), e l’introduzione alle esortazioni che costituiscono il tema della seconda parte della lettera (4,1-2). Dopo aver chiesto a Dio che gli conceda di ritornare a Tessalonica per rivedere i destinatari della lettera (cfr. 3,11), Paolo intercede per loro: «Il Signore poi vi faccia crescere e abbondare nell’amore vicendevole e verso tutti, come anche noi lo siamo verso di voi» (v. 12). Già essi hanno dato prova di un amore impegnato (cfr. 1,3), ma resta ancora molta strada da fare. L’oggetto della intercessione è la crescita e la sovrabbondanza nell’amore vicendevole e verso tutti; come modello Paolo indica ancora una volta il suo stesso amore verso di loro, fatto di dedizione incondizionata e di cura premurosa (3,12; cfr 2,7-8.11). Paolo fa poi un’altra richiesta che è collegata alla precedente in quanto ne indica la motivazione: «per rendere saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità, davanti a Dio Padre nostro, al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi» (v. 13). Lo sguardo si rivolge qui al momento della seconda «venuta» (parousia) del Signore Gesù, il quale sarà scortato dai suoi santi, cioè dalle schiere angeliche (cfr. 1Ts 2,13). Paolo chiede a Dio, in vista di quell’evento, di rendere saldi e irreprensibili i loro cuori nella santità, che già hanno ricevuto nel battesimo. Ciò deve avvenire «davanti a Dio Padre». Un vero amore fraterno, che si apre a tutti, anche a coloro che non fanno parte della comunità, rappresenta la migliore preparazione e la più solida garanzia per l’incontro decisivo dell’ultimo giorno. L’attesa della venuta finale di Cristo non consiste quindi in un pigro aspettare ma in un impegno costante per costruire rapporti nuovi basati sull’amore. In questa preghiera, che chiude la prima parte della lettera, sono segnalati quegli atteggiamenti di amore, santità e irreprensibilità che costituiranno il tema della seconda. Con il c. 4 inizia la seconda parte della lettera, intessuta di esortazioni, ammonimenti, istruzioni, parole di conforto. Paolo si introduce con queste parole: «Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù: avete appreso da noi come comportarvi in modo da piacere a Dio, e così già vi comportate; cercate di agire sempre così per distinguervi ancora di più» (v 4,1). L’intenzione parenetica appare subito in apertura nella formula «vi preghiamo (erôtômen) ed esortiamo (parakaloumen) nel Signore Gesù». In stretto collegamento con quanto ha appena detto, Paolo esorta anzitutto i tessalonicesi a progredire nel cammino già intrapreso. Essi sanno come devono comportarsi e già si comportano così: evidentemente a Tessalonica non si riscontrano inconvenienti né modi di vita riprovevoli. Perciò Paolo non deve far altro che invitarli a continuare nella strada intrapresa, incoraggiandoli a progredire sempre di più. Poi aggiunge: «Voi conoscete infatti quali norme vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù» (v 2). Essi devono essere sempre consapevoli che le norme (parangeliai, istruzioni) che lui ha dato loro provengono in altima analisi dal Signore. Questa formula non indica semplicemente che Paolo insegna con autorità ricevuta da Cristo, ma anche che trasmette l’insegnamento del Risorto, tramandato dalla tradizione e avvalorato dalla sua presenza viva e costante.

Linee interpretative I due brani che costituiscono il testo liturgico si agganciano l’un all’altro facendo da collegamento tra le due parti della lettera, il ringraziamento e le direttive pratiche. Essi hanno in comune il tema della crescita nella vita cristiana, che rappresenta il logico sviluppo del dono che i tessalonicesi hanno ricevuto nel battesimo. È in questa prospettiva che l’apostolo si sente autorizzato a dare loro degli orientamenti di vita. Nei due brani è caratteristico il passaggio dall’indicativo all’imperativo. Solo perché hanno ricevuto un dono che li ha trasformati, essi “devono” e possono ora condurre una vita diversa. La conversione deve innescare un dinamismo nuovo, che porta a un continuo progresso nel rapporto con Dio e con i fratelli. Il dono di Dio, pur essendo completamente gratuito, non esclude, anzi richiede la collaborazione dell’uomo. In altre parole, Dio non si serve dell’uomo come di uno strumento passivo; al contrario il fatto che lui intervenga per primo serve a potenziare nell’uomo l’esercizio della propria libertà e creatività. L’adesione a Cristo e alla comunità è la strada maestra di uno sviluppo integrale della persona umana.

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