Archive pour novembre, 2013

Martyrdom of Saint Andrew

Martyrdom of Saint Andrew dans immagini sacre Martyrdom_of_andrew

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Publié dans:immagini sacre |on 29 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

LA VITA DI SANT’ ANDREA APOSTOLO – 30 NOVEMBRE

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LA VITA DI SANT’ ANDREA APOSTOLO  – 30 NOVEMBRE  

S. Andrea Apostolo, nacque a Betsaida sulle rive del Lago omonimo in Galilea nel 6 secolo A.C.. Tra gli apostoli è il primo che incontriamo nei Vangeli: il pescatore Andrea. Il Vangelo di Giovanni ce lo mostra con un amico mentre segue la predicazione del Battista; il quale, vedendo passare Gesù da lui battezzato il giorno prima, esclama: “Ecco l’agnello di Dio!”. Parole che immediatamente spingono Andrea e il suo amico verso Gesù: lo raggiungono, gli parlano e Andrea corre poi a informare il fratello: “Abbiamo trovato il Messia!”. Poco dopo, ecco pure Simone davanti a Gesù; il quale fissando lo sguardo su di lui, disse: “Tu sei Simone, figlio di Giovanni: ti chiamerai Cefa”. Questa è la presentazione. Poi viene la chiamata. I due fratelli sono tornati al loro lavoro di pescatori sul “Mare di Galilea”: ma lasciano tutto di colpo quando arriva Gesù e dice: “Seguitemi, vi farò pescatori di uomini. Dopo la passione e la risurrezione, Andrea andò a predicare la fede cristiana nella provincia che gli era toccata in sorte, la Scizia d’Europa, l’attuale Ucraina; quindi percorse l’Epiro e la Tracia e con la predicazione e i miracoli convertì a Gesù Cristo una moltitudine innumerevole. Giunto a Patrasso, città dell’Acaia, fece abbracciare a molti la verità del Vangelo e non esitò a riprendere coraggiosamente il proconsole Egea, che resisteva alla predicazione evangelica, rimproverandogli di voler essere il giudice degli uomini, mentre i demoni lo ingannavano fino a fargli misconoscere il Cristo Dio, Giudice di tutti gli uomini.   Egea adirato gli disse di smettere di esaltare il Cristo che, nonostante i buoni propositi dei sui atti non riuscì ad evitare la crocifissione dei Giudei. Andrea non curante delle parole di Egea continuava a predicare che Gesù Cristo si era Lui stesso offerto alla Croce, per la salvezza del genere umano, Egea lo interrompe con un discorso empio e lo avverte di pensare alla sua salvezza, invitandolo a riconoscere gli dei offrendo loro dei sacrifici. Andrea gli disse: “Per me, c’è un Dio onnipotente, solo e vero Dio, al quale sacrifico tutti i giorni, non già le carni dei tori né il sangue dei capri, ma l’Agnello senza macchia immolato sull’altare; e tutto il popolo partecipa alla sua carne e l’Agnello che è sacrificato rimane integro e pieno di vita”.  Egea, fuori di sé dalla collera, lo fece gettare in prigione. Il popolo ne avrebbe facilmente tratto fuori il suo Apostolo se quest’ultimo non avesse calmato la folla, scongiurandola di non impedirgli di giungere alla corona del martirio. Poco dopo, condotto davanti al tribunale, Andrea continuava ad esaltare il mistero della Croce e rimproverava ancora al Proconsole la sua empietà, Egea esasperato ordinò che lo si mettesse in croce, per fargli imitare la morte di Cristo. Fu allora che, giunto sul luogo del martirio e vedendo la croce, Andrea esclamò da lontano: “O buona Croce che hai tratto la tua gloria dalle membra del Signore, Croce lungamente bramata, ardentemente amata, cercata senza posa e finalmente preparata ai miei ardenti desideri, toglimi di mezzo agli uomini e restituiscimi al mio Signore affinché per te mi riceva Colui che per te mi ha riscattato”. Fu dunque infisso alla croce, sulla quale rimase vivo per tre giorni, senza cessar di predicare la fede di Gesù Cristo e passò così a Colui del quale si era augurato di imitare la morte. Andrea morì il 30 Novembre del 64 D.C.

I Sacerdoti e i Diaconi dell’Acaia, che hanno scritto la sua Passione, attestano che hanno visto e sentito tutte quelle cose così come le hanno narrate. Le sue ossa furono trasportate e custodite a Costantinopoli, sotto l’imperatore Costanzo. Nel 1204 fu indetta la IV Crociata e il cardinale Pietro Capuano, che seguiva Papa Innocenzo III in qualità di legato, accarezzò l’idea di fare dono alla sua città di origine, Amalfi, delle Reliquie dell’apostolo Andrea, custodite nella basilica costantiniana dei Santi Apostoli.

Tutte le reliquie conosciute attribuite a Sant’Andrea sono dislocate in alcuni punti fondamentali della sua venerazione: nella Basilica di Sant’Andrea a Patrasso, in Grecia, nel Duomo di Sant’Andrea di Amalfi, nella Cattedrale di Santa Maria a Edinburgo, in Scozia e nella Chiesa di Sant’Andrea e Sant’Alberto a Varsavia in Polonia.   Andrea è Santo Patrono in Scozia, in Russia, in Romania, in Grecia, a Luqa (Malta) ad Amalfi. Nella sua fatica apostolica il Santo portò e diffuse la fede di Cristo in molteplici parti del mondo. Sono molte infatti le testimonianze ed i centri di devozione al Santo: da Amalfi, con la venerazione delle reliquie preso l’omonima Cattedrale, alla Romania dove Andrea pellegrino diffuse instancabilmente la fede. In Scozia dove, alla metà del secolo X, Andrea divenne il Santo Patrono ed una testimonianza di devozione al santo è presente nella bandiera nazionale scozzese con la croce decussata o Croce di Sant’Andrea, simbolo del suo martirio. Ed infine in Ucraina dove l’Apostolo avrebbe viaggiato nel sud, lungo il Mar Nero, ed avrebbe profetizzato la nascita di città all’insegna del cristianesimo. La presenza della stessa croce è una delle tre componenti della bandiera della Gran Bretagna, Union Jack, che fonde la simbologia di San Giorgio della bandiera d’Inghilterra, di San Patrizio della bandiera dell’Irlanda del Nord e di Sant’Andrea appunto della bandiera della Scozia.

I DOMENICA DI AVVENTO “A” : RISCOPRIRE L’AVVENTO

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I DOMENICA DI AVVENTO “A” -  OMELIA

(IS 2,1-5; SAL 121; RM 13,11-14; MT 24,37-44)

RISCOPRIRE L’AVVENTO

La liturgia della Chiesa ci invita a riscoprire da oggi, nell’inizio di un nuovo anno liturgico, una dimensione fondamentale della vita: l’attesa. Essa è parte integrante della nostra vita, a partire dal quotidiano: attendiamo che termini l’orario di lavoro, che giunga l’ora di pranzo; a metà giornata, o al termine di essa, pensiamo al ritorno a casa per rivedere gli affetti a noi cari; infine, attendiamo di coricarci, e il riposo notturno è attesa del giorno successivo. Ci sono poi altri tipi di attesa: la data del matrimonio, il 18° compleanno, la nascita di un figlio, il giorno in cui vedremo che il nostro pargolo cominci a camminare con le proprie gambe, il momento in cui inizierà a balbettare “mamma” e “papà”. Anche per i credenti c’è un’attesa, quella del giorno ultimo: non sappiamo quando avverrà, ma questo non conta, perché Dio ci chiede di non attendere il “quando”, ma il “come”, preparandoci cioè al momento presente. Il nuovo anno liturgico, pertanto, inizia con l’“Avvento”, tempo di grazia –  ricordando l’attesa che per secoli ha coinvolto il popolo di Israele e l’umanità intera – per prepararci non solo al Natale, ma alla vigilanza costante. Ci faremo accompagnare dal libro che apre il Nuovo Testamento: il Vangelo di Matteo. Siamo al capitolo 24, nella sezione che Gesù dedica proprio ai discorsi “escatologici”, sui tempi ultimi. Appare una verità di fondo, necessaria per i credenti di ieri e di oggi: non si tratta di guardare con indifferenza e superficialità a un momento ritenuto lontano, ma ad essere consapevoli che Dio cerca la nostra prontezza nel quotidiano, già da ora. Lo successione del brano odierno riflette l’intera opera del primo Vangelo: esempio e insegnamento, per due volte. Dall’arca di Noè all’avvertimento che la salvezza non riguarderà tutti, dall’esempio del padrone di casa al monito di essere vigilanti. Molti di noi conoscono la vicenda del patriarca: siamo abituati a immaginare questo curioso personaggio che riesce a convincere la propria famiglia a costruire un’arca, tra il sarcasmo dei suoi contemporanei. Il significato però non è affermare il motivo per cui la specie umana e quelle animali sopravvivono, ma – come spiega lo stesso Gesù – il fatto che nel momento del giudizio non tutti saranno pronti, presi – come vediamo anche adesso – nel proprio attivismo sfrenato, o nella vita dedicata all’ozio, o alla certezza che Dio non c’entra affatto con la nostra vita. Il primo richiamo sembra quindi richiamare l’attenzione (o vigilanza) sulla lettura e sull’approfondimento della Scrittura, per non fermarsi al singolo episodio – come quello di Noè – ma comprendendone il profondo significato e il reale insegnamento per la vita. Nel testo della prima lettura, da molti considerato il vero inizio del libro del profeta Isaia, nonostante la collocazione del testo al secondo e non al primo capitolo, parla della moltitudine dei popoli che confluisce verso il monte Sion. Tra le possibili interpretazioni, molti hanno visto in questo monito la potenza della Parola divina, capace di illuminare ogni credente, di condurre alla vera pace (forgeranno le spade in vomeri, le lance in falci), di guidare tutti verso una luce che non tramonta. Facciamo il passo successivo: come detto, lo schema di Matteo si ripete, riportandoci un esempio tratto dalla vita concreta, seguito da una deduzione finale, che ne costituisce l’insegnamento. Anche qui siamo portati a immaginare la figura – forse anche poco simpatica – del ladro che improvvisamente sfonda la porta di casa e viene a derubarci. Perché un esempio del genere? Anche qui siamo chiamati a riflettere e a non fermarci al nostro immaginario. Un ladro capace ha la perspicacia di intuire il momento propizio per operare un furto. È il momento in cui sa che il padrone di casa può abbassare la guardia. Anche noi, come quel padrone, possiamo vivere, nell’arco della vita o nella semplice quotidianità, momenti in cui abbassiamo la guardia. Può essere la noia della vita quotidiana, l’esistenza vissuta senza valori e senza Dio, la certezza che ormai nessuno può toccare ciò che abbiamo costruito e che sappiamo come affrontare e superare ogni ostacolo. Ecco il secondo richiamo, dopo quello sulla Parola: quando ci sembrerà che Dio ormai non possa più far parte della nostra vita, giunge la sua venuta, improvvisa e sorprendente. Come ci troverà? Sicuramente distratti, lontani da Lui. Come evitare questo? Vegliando e stando pronti, ci ricorda il Vangelo, cioè non abbandonando la preghiera (ricordate Gesù che rimprovera i suoi discepoli prediletti sul monte degli ulivi perché dormono anziché pregare come lui per vegliare e non cadere in tentazione?) e tenendosi pronti nella testimonianza quotidiana, fatta anche di piccoli gesti di carità che esprimono la nostra fede e rivelano la nostra speranza. Qualche anno dopo, san Paolo tradurrà in esortazioni concrete il monito di Cristo. Scrivendo ai Romani, l’apostolo non si ferma all’invito di “svegliarsi dal sonno”, ma chiarisce che si tratta di abbandonare tutto ciò che ha a che fare con la “carne”, cioè col peccato: l’ubriachezza, che altera e mortifica l’intelligenza; le impurità, che deturpano il corpo; le contese e le gelosie, che rovinano la serenità propria e i rapporti interpersonali. La liturgia odierna ci ha indicato tutto quello che ci occorre: la meditazione della Scrittura, per tradurla concretamente. Il Signore ci invita a far tesoro del tempo di Avvento, attendendo non solo i progetti di breve o lunga scadenza, ma accogliendo Colui che da senso alla nostra esistenza, l’Unico che potrà donarci quella vita che non ha fine.

Dialogando con i piccoli Iniziamo dicendo che da oggi mancano quattro domeniche al Natale: questo tempo è chiamato “Avvento” ed è anche l’inizio dell’anno liturgico. Facciamo riferimento alla vicenda di Noè, riportata nel Vangelo: di chi parla Gesù? Chi è Noè? Perché ha costruito l’arca? Gli altri, che erano distratti, sono stati sorpresi? Come se ne sono accorti? Passiamo a esempi quotidiani: in questa settimana avete avuto sorprese? Qualche esempio: una visita improvvisa, un litigio che non avremo voluto, un bel regalo, … Perché dire questo? Per far comprendere come noi conosciamo la nostra vita e quello che ci accadrà, ma non possiamo prevedere tutto. Possiamo fare anche il seguente esempio: aspettiamo la visita di un amico. Intanto ci sistemiamo la camera, e magari anche la casa, per fare in modo che tutto sia  a posto. Passa il tempo, e questo amico non si fa vedere, allora ci restiamo male, ritorniamo al disordine che abbiamo sempre avuto … a un certo punto, però, la sorpresa! L’amico viene, magari non da solo, e vede … il nostro disordine. Ma non ci eravamo preparati? Sì, ma non ci abbiamo creduto più di tanto, perciò il nostro amico non avrà visto il nostro impegno per mettere tutto in ordine, ma il disordine che abbiamo sempre avuto e che per un attimo avevamo messo da parte.

Possibile conclusione: come possiamo prepararci a ricevere Gesù? Dopo aver ascoltato qualche risposta, possiamo concludere: leggendo la Bibbia, non dimenticando la preghiera, facendo la carità. L’attesa cristiana: riflessione sulla seconda lettura La lettera ai Romani, “perla” del Nuovo Testamento, riesce a illuminare il cuore del credente per vivere senza fronzoli ma con estrema chiarezza un tempo di grazia, l’Avvento, che all’apparenza potrebbe dir nulla al nostro vissuto quotidiano. Il testo che abbiamo ascoltato è tratto dal capitolo tredicesimo: siamo nella seconda parte della lettera, dedicata, come in molti altri caso dell’epistolario paolino, alle questioni “parenetiche”, o esortative, o morali. Nel capitolo precedente, dedicato al “culto spirituale”, l’apostolo ha raccomandato ciò che molti credenti troppo spesso dimenticano: offrire i propri corpi. Il cristianesimo non è solo questione di “anima” o di spirito, ma un farsi trasformare da Dio nella completezza della persona, anche nella parte fisica. Il testo odierno ci aiuta a comprendere come fare. Seguire Gesù significa “svegliarsi dal sonno”. A una prima lettura, fermandoci al senso letterale, sembrerebbe quasi che l’autore voglia toglierci qualche ora di riposo, magari per dedicarci alla preghiera. In realtà, il richiamo di Paolo non riguarda la scansione del tempo, ma l’essenza della vita cristiana: svegliarsi dal sonno non della notte ma del peccato, per abbandonare cioè il torpore e la mediocrità della vita quotidiana, riscoprendo ogni giorno il “kairos” (termine originale greco), il tempo favorevole. Esso altro non è che quella occasione, costante, per incontrare Gesù Cristo nel tempo presente. Se ci illudiamo di poter abbassare la guardia perché ormai siamo credenti “maturi” e provati più volte nella fede, l’apostolo ci ricorda che è necessaria la vigilanza costante su se stessi, “più di quanto diventammo credenti”. A differenza dei primi cristiani, che furono battezzati in età adulta, noi abbiamo ricevuto il dono della luce in anticipo, per poter sperimentare da subito la grandezza e la ricchezza dello Spirito Santo che può rinnovare continuamente la nostra vita. L’invito dell’apostolo è attualissimo: per alcuni si tratta di non ricadere da quei peccati da cui ci siamo allontanati nel momento della conversione in età adulta, per altri consiste nel non illudersi di esser giunti a chissà quale tappa di “santità”, per taluni invece può consistere nell’abbandonare il vecchio stile di vita. L’autore della lettera lo paragona all’abbandono delle “tenebre”, simbolo del male, per indossare le “armi della luce”, per permettere cioè a Cristo di illuminare la nostra vita. Gli esempi pratici non mancano. Un primo riferimento è per la vita spirituale: legarsi o restare impigliati ai vizi, o farsi travolgere dall’ozio, è un modo concreto per abbandonare la fede, lasciandone spegnere la fiamma, gradatamente, nell’abbandono quotidiano della propria persona, attraverso la costante rovina dei vizi. Orge e ubriachezze sono il male contro la speranza, perché ci allontanano dalla vita nello Spirito ricevuto nel battesimo. L’apostolo, scrivendo duemila anni or sono, fa riferimento all’ubriachezza; noi, oggi, abbiamo solo l’imbarazzo della scelta. Un secondo monito è per la cura del corpo: l’impurità, o le varie forme di lussuria, non sono una dichiarazione personale di indipendenza e di emancipazione, come molti, anche tra i credenti, purtroppo pensano, ma l’inizio di uno stile di vita che rischia di rovinare, a volte irrimediabilmente, la dignità del corpo. Impurità e licenze possono considerarsi il male contro la fede, perché riducono la nostra vita a una sola dimensione, quella corporea Un terzo richiamo, infine, è per il bene dell’anima: san Paolo fa riferimento a contese e gelosie; le prima riescono a portare un tale livello di discordia da negare il saluto tra persone che hanno vissuto in amicizia, anche profonda per anni; le seconde (le gelosie) ci portano invece a non apprezzare i doni che Dio (e a volte chi ci è accanto) fa alla nostra vita, perché riteniamo continuamente che la vera felicità sia altrove, negli oggetti, negli affetti o nelle attestazioni di successo che altri hanno, che vorremmo avere ma che, se otteniamo, non riuscirebbero a colmare il vuoto di un cuore ormai votato solo al male altrui. Contese e gelosie sono pertanto il male contro la carità, perché non ci permettono di vivere nello spirito comunitario voluto dal Signore. L’alternativa a tutto questo, seguendo l’immagine di purificazione nel battesimo, tanto cara a Paolo, è quella di “rivestirsi” di Cristo. Abbandonare i desideri del peccato, chiedendo l’aiuto al Maestro disceso sulla terra, è ciò che salva il credente dalla perdizione quotidiana. Un grande santo, Agostino di Ippona, si convertì proprio leggendo queste parole, in un momento di profondo dolore; si era reso conto che non riusciva in alcun modo a liberarsi dai legacci della vita di peccato, in particolare dalla lussuria, fin quando, dopo tante lacrime versate, ebbe in dono quella parola che cambiò definitivamente la sua vita: “rivestiti di Cristo”. San Paolo, nella seconda lettura, ci offre alcune indicazioni pratiche. Attraverso la sua penna, Gesù ci chiama a seguire la sua luce, per illuminare la nostra mente e il nostro cuore, trasformando la nostra esistenza quotidiana, troppo spesso affezionata a tante forme di peccato, in “vita nuova”, capace di intravedere quella luce che illumina la nostra vita fino alla salvezza nella santità. “Verbum Domini”: riflessione sulla prima lettura Il libro del profeta Isaia è uno dei testi che più ricorre nel tempo di Avvento. Il motivo è il seguente: non si tratta solo del personaggio che più parla delle realtà future, ma di colui che maggiormente riesce a porre l’attenzione sugli elementi fondamentali dell’Avvento. Il punto di partenza per vivere questo periodo di preparazione al Natale è in parte racchiuso nel testo della prima lettura. Avvento significa “venuta” del Signore: realtà futura, che è possibile sperimentare già ora, nel tempo presente. Vediamo come. La visione del profeta inizia con la seguente descrizione: il monte del tempio del Signore, alla fine dei giorni, sarà elevato sulla cima dei monti, e sarà più alto di ogni colle. Si tratta della realtà futura, eterna, definitiva, che i profeti chiamano “Sion”, Giovanni evangelista definisce “Gerusalemme celeste”, e noi “Paradiso”. Fermandoci a tale descrizione, il lettore può avere un’idea, più o meno chiara, di come sarà la vita eterna, ma il profeta, subito dopo, per bocca di Dio, ci invita a non fissare gli occhi solo in alto. L’invito del paragrafo seguente è collettivo: “venite, saliamo al monte del Signore”. Il verbo, avrete notato, è al plurale: Dio vuole che ci salviamo insieme, che andiamo in Paradiso insieme, che non ci ostacoliamo reciprocamente nel cammino di santità. La vita eterna è un dono che il Signore riserva a tutta l’umanità; nello stesso tempo, vuole che ciascuno si salvi anche grazie al prossimo, e non a suo scapito. Realtà futura e impegno comunitario al presente. Dio non si accontenta di indicarci la meta e la via, ma vuol farci vedere anche lo “strumento” principale per giungere alla vita eterna. Da Sion e da Gerusalemme uscirà la “parola del Signore”: Isaia sta parlando della Torah, della Legge racchiusa nei primi cinque libri della Bibbia; noi abbiamo lo stesso tesoro, l’Antico Testamento, completato dalla Rivelazione in Cristo, che costituisce il Nuovo Testamento. Per accedere alle realtà future e renderle presente nel tempo odierno ci viene chiesto di seguire la Parola di Dio: è un impegno concreto, nonché un affascinante stimolo, per iniziare al meglio l’anno liturgico. Quello che noi celebriamo solennemente (alcune chiese particolari celebrano proprio oggi la domenica del “Verbum Domini”, della Parola del Signore) o che teniamo in bella mostra presso i nostri scaffali, può finalmente diventare la guida fondamentale di una vita nella fede. Torniamo al testo in questione: salire verso il monte del Signore non è solo un tempo lontano, ma una realtà che si realizza già al presente, vivendo nell’ascolto del messaggio divino. La Parola, però, si rende concreta non solo quando la leggiamo, o la meditiamo, ma quando porta a scelte concrete, anche a livello mondiale. Il frutto più bello è quello della “Pace”, quella che viene da Dio. Non si tratta solo di fondere le armi in attrezzi da lavoro (spade in vomeri e lance in falci), ma di ritrovare in Dio quel “modus vivendi” che non ha bisogno di imporre la violenza, l’oppressione e la morte. L’inizio del libro del profeta Isaia, primo testo dell’Avvento e di questo nuovo anno liturgico, ci rimanda a un percorso, verso il monte di Sion, attraverso la Parola, che proviene da Sion, cioè da Dio, per vivere nella pace, nell’immagine dei popoli che non avranno più bisogno di esercitarsi nell’arte della guerra. L’invito finale, alla “casa di Giacobbe”, cioè a ciascun credente, è quello di camminare nella “luce del Signore.” Ritroviamo, nell’ultimo versetto, l’invito che caratterizza il tempo di preparazione al Natale: “vieni”. Andiamo dunque incontro al Signore, cercando nel tempo presente il monte di Sion, il Dio di Gesù, costruendo la pace secondo quanto indica la Parola di Dio, in attesa della vita vera, quella che viene da Dio, e che non avrà mai fine. 

1 DICEMBRE 2013 | 1A DOMENICA DI AVVENTO A : ATTESA DI GESÙ – VIGILANZA

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1 DICEMBRE 2013  |  1A DOMENICA DI AVVENTO A | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

ATTESA DI GESÙ – VIGILANZA

(vedete spesso che metto gli stessi nomi, o, almeno la stessa provenienza per le Omelie, io ne leggo molte prima di scegliere e queste sembrano, a mio parere, quelle che offrono sia una preparazione alla messa sia una meditazione omiletica di grande livello, a me piacciono!)

I LETTURA: IL SIGNORE UNISCE TUTTI I POPOLI NELLA ACE ETERNA DEL SUO REGNO (IS. 2,1-5) Nella prima lettura il profeta prevede che « alla fine dei giorni » Gerusalemme acquisterà un ruolo di preminenza universale. Il tempio sulla cima dei monti è solo una immagine dell’interesse che il centro religioso d’Israele susciterà tra le nazioni. Tutti i popoli ne avvertiranno il richiamo e si avvieranno verso Gerusalemme per essere ivi ammaestrati da Dio: solo là potranno ricercare le sue vie e i suoi sentieri espressi della sua legge e dalla sua parola (vv. 2-3). L’esercizio del giudizio è indice di autorità. Dio diventerà il re e il Signore riconosciuto di tutti i popoli. Al riconoscimento seguirà un disarmo generale: segno e conseguenza dei tempi nuovi inaugurati dal regno pacifico di Dio su tutto l’universo. Il fatto centrale di questa escatologia è l’apertura della fede a tutti i popoli. La caduta delle frontiere religiose è preludio alla pace universale, ai rapporti umani di una convivenza pacifica e costruttiva. Ogni uomo di « buona volontà » è un cittadino della nuova Gerusalemme.

II LETTURA: LA NOSTRA SALVEZZA È VICINA (ROM. 13,11-14) « E’ ormai tempo di svegliarvi dal sonno » dice S. Paolo nella seconda lettura. E’ il sonno della tiepidezza e della negligenza, in cui, dopo il fervore dei primi giorni, molti cristiani purtroppo cadevano: la ragione di svegliarsi è questa: la salvezza che Gesù ci ha meritata, è molto più vicina a noi adesso, che quando ci siamo convertiti. Infatti ogni giorno che passa, l’uomo si avvicina sempre di più alla morte, con la quale cessa il tempo di meritare. « La notte è avanzata »: la notte rappresenta questo mondo pieno di tenebre d’ignoranza e di peccato. Essa sta per finire per noi, e si avanza « il giorno » della nostra glorificazione. Con la morte di Gesù è cominciata l’aurora di un nuovo giorno, che avrà il suo meriggio nella glorificazione dei Santi in anima e corpo. « Gettiamo perciò via le opere delle tenebre », cioè i peccati, chiamati così perché non si osa commetterli alla luce del giorno (Gv. 3,20), ma anche perché assoggettano l’uomo al principe delle tenebre ( Ef. 6,12). « Indossiamo le armi della luce »: cioè le armi, che siano convenienti al prossimo regno della luce e possano distruggere le opere delle tenebre. Queste armi non sono altro che le virtù cristiane. « Non in mezzo a gozzoviglie… »: l’Apostolo elenca sei opere delle tenebre, dalle quali deve rifuggire ogni cristiano: le prime due riguardano i vizi della gola, le altre due i peccati di lussuria e le ultime riguardano i vizi contro la carità. « Rivestitevi del Signore Gesù Cristo »: cioè delle sue virtù, del suo spirito, della sua grazia. Il cristiano si è già rivestito di Gesù nel battesimo, ma deve accrescere la grazia con l’imitazione di quelle virtù, di cui Gesù ci ha dato così sublimi esempi.

VANGELO: « VEGLIATE PER ESSERE PRONTI AL SUO ARRIVO » (MT. 24,37-44) Il brano evangelico odierno è interessato esclusivamente alla Parusia di Gesù. Il termine è greco e significa: presenza, venuta. Nel mondo greco-romano indicava la visita ufficiale e solenne del principe o dell’imperatore a qualche città. I cristiani ne hanno fatto un termine tecnico per significare la venuta gloriosa di Gesù. Il brano di Matteo mette in evidenza una delle caratteristiche della Parusia o venuta di Gesù: essa sopraggiunge improvvisa. Al suo avvento si verificherà qualcosa di simile a quello che accadde alla generazione di Noè: essa attendeva alle sue occupazioni normali e il diluvio la sorprese impreparata. Alla venuta di Gesù si determinerà una discriminazione o separazione: tra chi sarà travolto dalla repentinità della venuta e chi invece sopravvivrà ad essa. E’ evidente il senso: la venuta di Gesù è di salvezza per alcuni, ma di perdizione per altri (vv. 40.41). I due ultimi versetti tirano la morale da quanto è detto sopra. I discepoli non sanno quando viene il Signore; anzi, il Signore verrà quando meno lo immaginano. Perciò s’impone loro la necessità di vegliare, di tenersi sempre pronti. Tenersi pronti significa prendere le misure al punto che la venuta di Gesù non risulti una sorpresa. Il paragone del padre di famiglia è illuminante. Egli non sa quando viene il ladro, ma prende i provvedimenti perché la sua casa non sia rapinata.

1. OGGI INCOMINCIA UN NUOVO ANNO LITURGICO.          Gesù si rimette al nostro fianco con la sua parola, con la sua vita, con i suoi esempi; ripercorre con noi, non solo rievocativamente, ma realmente, in maniera misteriosa, ma reale, la storia della salvezza. L’anno liturgico ne scandirà le tappe: i cicli, le feste, le Domeniche. Sarà un richiamo ripetuto per le nostre anime a percorrere un’altra tappa della nostra vita a contatto intimo, personale e salvifico con Gesù, illuminati dalla sua luce, stimolati dai suoi esempi, vivificati dalla sua grazia. Ogni inizio è importante: è tempo di revisione, di bilancio preventivo, di disegni, di piani e di propositi. Come ci trova questo inizio sulla bilancia dei nostri rapporti con Dio?

2. AVVENTO: PREPARAZIONE AL NATALE. « La nostra salvezza è più vicina ora… ». Gesù si prepara a ridonarci la grazia della sua Incarnazione, della sua salvezza… Gesù ritorna alla nostra anima assetata, al mondo bisognoso di una meta, di felicità. Gesù si prepara a mostrarci il suo smisurato amore, che lo spinse a divenire nostro fratello. Il Natale tornerà a riproporci in termini drammatici il problema fondamentale della nostra vita: la scelta o il rifiuto di Dio. L’Avvento dunque è il tempo dell’attesa, del desiderio, dello svuotamento. Attesa di Gesù Salvatore, attesa di felicità. Desiderio di salvezza, desiderio di grazia sovrabbondante:  » E’ ormai tempo di risvegliarsi dal sonno… gettiamo via le opere delle tenebre » (II lettura). Risvegliare in noi le buone disposizioni a ben pensare e a operare rettamente è la più bella preparazione al Natale, insieme allo sforzo di svestirsi delle opere delle tenebre. Perché dove c’è il peccato non può venire Gesù.

3. AVVENTO: ATTESA DELL’ULTIMA VENUTA DI GESÙ. Il brano evangelico, riprende il tema delle ultime domeniche dell’anno liturgico precedente. Il giudizio finale, con la venuta gloriosa di Gesù, deve rendere àlacre la nostra attesa della salvezza, più deciso il nostro sforzo, più vivo il desiderio della felicità eterna con Gesù. Sin dal primo giorno dell’anno liturgico la Chiesa risveglia la nostra tensione escatologica, finale: anima della nostra condotta, ideale supremo della nostra vita. Tutta la nostra vita è un avvento, un’ attesa giosa ed impegnata, una vigilia di festa… BN/ Qui si possono avere due conclusioni diverse…:

A) CONCLUSIONE: 4. AVVENTO: TEMPO DELLA VICINANZA DEL SIGNORE « Il Signore è vicino » ( II lettura).Il richiamo alla venuta ultima e definitiva di Gesù deve renderci più convinti della presenza del Signore accanto a noi. Gesù è già venuto! La nostra salvezza, in Gesù, si è già realizzata: noi viviamo già nel tempo della salvezza, questo è già l’ultimo tempo. Il giorno del Signore è oggi. Oggi Egli viene accanto a noi, ci sollecita, ci chiama… Oggi è Natale, è sempre Natale. Dobbiamo sempre accettare Gesù nella nostra vita! Nella nostra esistenza, in ogni momento, si realizza per noi un giudizio di salvezza o di condanna. Ecco perché dobbiamo « conoscere questo nostro tempo »: perché oggi il Signore ci chiama e ci salva. Godiamo quindi! E’ già Natale! Se lo vogliamo! Giovanni Papini, ormai vecchio, cieco e infermo, steso su una poltrona, scriveva per il Natale 1955: « E se un giorno sarai percosso e perseguitato dalla sventura e perderai salute e forza, figli e amici, e dovrai sopportare l’ottusità, la malignità e la gelidità dei vicini e dei lontani, ma nonostante tutto non ti abbandonerai a lamenti né a bestemmie e accetterai con animo sereno il tuo destino, esulta e trionfa, perché il portento che pareva impossibile è avvenuto: il Salvatore è già nato nel tuo cuore… Non sei più solo, non sarai mai più solo. Il buio della tua notte fiammeggerà come se mille stelle chiomate giungessero per festeggiare da ogni punto del cielo l’incontro della tua breve giornata umana con la divina eternità »: incontro con Gesù Salvatore (Schegge, p. 230). Cari Fratelli e Sorelle, Gesù è già nato nel nostro cuore. Non siamo più soli, non saremo mai più soli: c’è in noi Gesù. E con Lui c’è pure sempre la Sua diletta Mamma. Per noi è sempre Natale!

B) CONCLUSIONE: TUTTA LA NOSTRA VITA È UN AVVENTO, UN’ ATTESA GIOIOSA ED IMPEGNATA, UNA VIGILIA DI FESTA… Padre OLINTO MARELLA, il sacedote-filosofo di Bologna, fu l’uomo più povero e più ricco del mondo. Non possedeva un soldo e provvedeva al mantenimento di 500 « figli » della miseria. Diceva d’aver sempre passato le sue giornate ad attendere soltanto. Attendere chi? « Dio che passa e aiuta », rispondeva. Piovesse, nevicasse, tirasse vento o si soffrisse il caldo, Padre Marella stava seduto col suo cappellaccio rovesciato sulle ginocchia a raccogliere elemosine per la sua Opera: di giorno davanti a una chiesa, di sera davanti a un cinema o a un teatro. Non domandava nulla. Aspettava in silenzio: « Il mendicante di Dio non deve importunare: chi vuole aiutarmi, sa quel che deve fare senza che io glielo chieda ». Dopo la sua morte, nel luogo dove egli ha aspettato pazientemente per 30 anni, anche dieci ore al giorno, hanno messo una lapide: è « l’angolo dell’attesa di Padre Marella ». Cari fratelli e sorelle, facciamo in modo che l’ambiente in cui viviamo e lavoriamo, diventi per noi il « luogo di attesa » di Gesù e della Madonna, e quello diventerà per noi l’anticamera del Paradiso.

D. Severino GALLO sdb

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Madre di Dio

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PAPA BENEDETTO: OMELIA PRIMI VESPRI DELLA I DOMENICA DI AVVENTO 2008 (anno A, credo)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2008/documents/hf_ben-xvi_hom_20081129_vespri-avvento_it.html

CELEBRAZIONE DEI PRIMI VESPRI DELLA I  DOMENICA DI AVVENTO

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana Sabato, 29 novembre 2008 (anno A, credo) 

Cari fratelli e sorelle!

Con questa liturgia vespertina, iniziamo l’itinerario di un nuovo anno liturgico, entrando nel primo dei tempi che lo compongono: l’Avvento. Nella lettura biblica che abbiamo appena ascoltato, tratta dalla Prima Lettera ai Tessalonicesi, l’apostolo Paolo usa proprio questa parola: « venuta », che in greco è « parusia » e in latino « adventus » (1 Ts 5,23). Secondo la comune traduzione di questo testo, Paolo esorta i cristiani di Tessalonica a conservarsi irreprensibili « per la venuta » del Signore. Ma nel testo originale si legge « nella venuta » (e? t? pa???s?a), quasi che l’avvento del Signore fosse, più che un punto futuro del tempo, un luogo spirituale in cui camminare già nel presente, durante l’attesa, e dentro il quale appunto essere custoditi perfettamente in ogni dimensione personale. In effetti, è proprio questo che noi viviamo nella liturgia: celebrando i tempi liturgici, attualizziamo il mistero – in questo caso la venuta del Signore – in modo tale da potere, per così dire, « camminare in essa » verso la sua piena realizzazione, alla fine dei tempi, ma attingendone già la virtù santificatrice, dal momento che i tempi ultimi sono già iniziati con la morte e risurrezione di Cristo. La parola che riassume questo particolare stato, in cui si attende qualcosa che deve manifestarsi, ma che al tempo stesso si intravede e si pregusta, è « speranza ». L’Avvento è per eccellenza la stagione spirituale della speranza, e in esso la Chiesa intera è chiamata a diventare speranza, per se stessa e per il mondo. Tutto l’organismo spirituale del Corpo mistico assume, per così dire, il « colore » della speranza. Tutto il popolo di Dio si rimette in cammino attratto da questo mistero: che il nostro Dio è « il Dio che viene » e ci chiama ad andargli incontro. In che modo? Anzitutto in quella forma universale della speranza e dell’attesa che è la preghiera, che trova la sua espressione eminente nei Salmi, parole umane in cui Dio stesso ha posto e pone continuamente sulle labbra e nei cuori dei credenti l’invocazione della sua venuta. Soffermiamoci perciò qualche istante sui due Salmi che abbiamo pregato poco fa e che sono consecutivi anche nel Libro biblico: il 141 e il 142, secondo la numerazione ebraica. « Signore, a te grido, accorri in mio aiuto; / ascolta la mia voce quando t’invoco. / Come incenso salga a te la mia preghiera, / le mie mani alzate come sacrificio della sera » (Sal 141,1-2). Così inizia il primo salmo dei primi Vespri della prima settimana del Salterio: parole che all’inizio dell’Avvento acquistano un nuovo « colore », perché lo Spirito Santo le fa risuonare in noi sempre nuovamente, nella Chiesa in cammino tra tempo di Dio e tempi degli uomini. « Signore … accorri in mio aiuto » (v. 1). E’ il grido di una persona che si sente in grave pericolo, ma è anche il grido della Chiesa fra le molteplici insidie che la circondano, che minacciano la sua santità, quell’integrità irreprensibile di cui parla l’apostolo Paolo, che deve invece essere conservata per la venuta del Signore. E in questa invocazione risuona anche il grido di tutti i giusti, di tutti coloro che vogliono resistere al male, alle seduzioni di un benessere iniquo, di piaceri offensivi della dignità umana e della condizione dei poveri. All’inizio dell’Avvento la liturgia della Chiesa fa proprio nuovamente questo grido, e lo innalza a Dio « come incenso » (v. 2). L’offerta vespertina dell’incenso è infatti simbolo della preghiera, dell’effusione dei cuori rivolti al Dio, all’Altissimo, come pure « le mani alzate come sacrificio della sera » (v. 2). Nella Chiesa non si offrono più sacrifici materiali, come avveniva anche nel tempio di Gerusalemme, ma si eleva l’offerta spirituale della preghiera, in unione a quella di Gesù Cristo, che è al tempo stesso Sacrificio e Sacerdote della nuova ed eterna Alleanza. Nel grido del Corpo mistico, riconosciamo la voce stessa del Capo: il Figlio di Dio che ha preso su di sé le nostre prove e le nostre tentazioni, per donarci la grazia della sua vittoria. Questa identificazione di Cristo con il Salmista è particolarmente evidente nel secondo Salmo (142). Qui, ogni parola, ogni invocazione fa pensare a Gesù nella passione, in particolare alla sua preghiera al Padre nel Getsemani. Nella sua prima venuta, con l’incarnazione, il Figlio di Dio ha voluto condividere pienamente la nostra condizione umana. Naturalmente non ha condiviso il peccato, ma per la nostra salvezza ne ha patito tutte le conseguenze. Pregando il Salmo 142, la Chiesa rivive ogni volta la grazia di questa com-passione, di questa « venuta » del Figlio di Dio nell’angoscia umana fino a toccarne il fondo. Il grido di speranza dell’Avvento esprime allora, fin dall’inizio e nel modo più forte, tutta la gravità del nostro stato, il nostro estremo bisogno di salvezza. Come dire: noi aspettiamo il Signore non alla stregua di una bella decorazione su un mondo già salvo, ma come unica via di liberazione da un pericolo mortale. E noi sappiamo che Lui stesso, il Liberatore, ha dovuto patire e morire per farci uscire da questa prigione (cfr v. 8). Insomma, questi due Salmi ci mettono al riparo da qualsiasi tentazione di evasione e di fuga dalla realtà; ci preservano da una falsa speranza, che forse vorrebbe entrare nell’Avvento e andare verso il Natale dimenticando la drammaticità della nostra esistenza personale e collettiva. In effetti, una speranza affidabile, non ingannevole, non può che essere una speranza « pasquale », come ci ricorda ogni sabato sera il cantico della Lettera ai Filippesi, con il quale lodiamo Cristo incarnato, crocifisso, risorto e Signore universale. A Lui volgiamo lo sguardo e il cuore, in unione spirituale con la Vergine Maria, Nostra Signora dell’Avvento. Mettiamo la nostra mano nella sua ed entriamo con gioia in questo nuovo tempo di grazia che Dio regala alla sua Chiesa, per il bene dell’intera umanità. Come Maria e con il suo materno aiuto, rendiamoci docili all’azione dello Spirito Santo, perché il Dio della pace ci santifichi pienamente, e la Chiesa diventi segno e strumento di speranza per tutti gli uomini. Amen! 

LA HANUKKAH DEI PATRIARCHI – RAV RICCARDO DI SEGNI

http://digilander.libero.it/parasha/varie/librohanuka/otto.htm

LA HANUKKAH DEI PATRIARCHI

RAV RICCARDO DI SEGNI

Secondo un principio stabilito dai Rabbini del Talmud, « i Patriarchi biblici osservarono l’intera Torà (che non era stata ancora promulgata), conoscendola grazie ad una sacra ispirazione », e l’intera Torà comprende, secondo Rashì (commento a Gen. 26:5), anche la tradizione rabbinica. È un principio che solleva molte perplessità, anche davanti ad esplicite contraddizioni, ma che se viene esaminato in profondità mostra una concezione della storia e della Torà particolarmente forte ed originale. Restando nell’ottica di questo principio ci si potrebbe chiedere se e quando i Patriarchi celebrarono Hanukkah. La domanda sembra apparentemente assurda; Hanukkah è una festa istituita molto più tardi, nel II secolo avanti l’era volgare, per ricordare un avvenimento storico preciso. Eppure la riflessione su questa domanda provocatoria, apparentemente senza senso, aiuta a comprendere sia le motivazioni della strana idea rabbinica sul rapporto dei Patriarchi con la Torà, che il significato profondo di Hanukkah. Il precetto fondamentale di Hanukkah, come è ben noto, è l’accensione dei lumi, preceduta dalla recitazione di benedizioni, di cui la più specifica dice: « Benedetto… il Signore… che ci hai comandato di accendere i lumi di Hanukkah ». Ma il precetto di accensione dei lumi è senza dubbio una norma rabbinica, di cui la Torà ovviamente non parla. Ma allora perché attribuire al Signore l’origine di un obbligo che è invece chiaramente di istituzione umana? Altri precetti rabbinici si segnalano per lo stesso paradosso, ma solo per questo di Hanukkah il Talmud (Shabbat 23a) si interroga (« Dove mai ci ha comandato? ») alla ricerca di una spiegazione. La risposta ‘tecnica’ è che quando i Rabbini stabiliscono una norma e danno un precetto, hanno una sorta di delega divina, per cui è come se l’ordine fosse stato dato dal Signore stesso. Eppure il fatto che proprio su questa norma di Hanukkah il Talmud sollevi una questione di legittimità, per risolverla con una generica dichiarazione di principio sull’autorità rabbinica, deve far riflettere sui significati più profondi e nascosti della festa. Hanukkah è il luogo di tanti paradossi e contraddizioni, e la sua istituzione sembra venire di necessità a colmare uno strano vuoto. Ciò perché malgrado la sua tarda istituzione i significati più o meno nascosti della festa sono tanti, di origine remota e possibilmente conflittuali. Non c’è solo l’opposizione tra la commemorazione di una rivolta militare (che portò al potere una dinastia che avrebbe perseguitato i rabbini) e un significato religioso (il miracoloso aiuto divino a chi lotta per difendere la propria identità); ma c’è anche la celebrazione di un evento del ciclo annuale (il solstizio invernale), potenzialmente carico di rischi di festa pagana; e c’è un legame con il ciclo agricolo, quello del tempo della raccolta delle olive. Di tutto questo la tradizione ha privilegiato senza dubbio l’elemento religioso, la lotta in difesa del culto monoteistico, l’eliminazione dell’idolatria, la scelta sofferta di accettazione della Torà da parte della comunità di Israele, la preparazione al servizio divino con un nuovo altare restaurato, e tutto questo nella fiducia nell’aiuto divino, che protegge il suo popolo dai suoi nemici nel momento in cui Israele torna a cercare il Signore. Nella coscienza rabbinica, ma anche nella percezione collettiva del popolo ebraico, questo tema non può essere legato ad un unico evento storico, ma rappresenta una situazione che si ripete. E allora la domanda se vi sia nella Torà e in particolare nelle storie dei Patriarchi un modello di Hanukkah antica e primordiale non è più una stranezza e un paradosso, ma una legittima richiesta di ricerca storica e ideologica. In effetti è possibile identificare una situazione con molti punti di contatto nella storia dei Patriarchi, in Genesi 35 (Parashath Wayshlach). Subito dopo il drammatico episodio di Dinà, Giacobbe riceve l’ordine di partire verso Beth El con tutta la sua famiglia; Giacobbe quindi ordina alla famiglia di « allontanare gli dei stranieri » prima della partenza. Beth El era il luogo in cui Giacobbe aveva visto in sogno la scala e dove aveva eretto una stele, giurando di trasformarla in casa divina. Al suo ritorno nella terra di Canaan giunge per Giacobbe il tempo di mantenere la promessa, ma si frappongono molti ostacoli, e per ultimo l’episodio di Dinà, con tutte le sue conseguenze: pericolo di vendetta da parte dei popoli vicini, ma anche pericolo di assimilazione e di paganesimo. « Gli dei stranieri » che Giacobbe comanda di eliminare, erano, secondo il midrash, quelli presi dal bottino di Shekhem (cft. Rashi a Gen. 35:2) il che dimostra da un lato che malgrado la circoncisione loro imposta i Sichemiti non avevano rinunciato all’idolatria (cfr. Nachai Qedumim a Gen. 34:13), e dall’altro che il pericolo di idolatria e di influenze negative esterne era forte nella stessa famiglia di Giacobbe e nella stessa terra di Canaan. Per questo Giacobbe ordina l’eliminazione dell’idolatria e la purificazione, secondo uno schema che sarà ricorrente nella Bibbia, con le stesse parole (cfr. Gios. 27:23, Giud. 10:16, I Sam. 7:3, 2 Cron. 33:15), e che rappresenta costantemente il desiderio di ritorno della comunità al Signore e la condizione per il ritorno del Signore alla protezione della sua comunità. Solo dopo questo è possibile partire per Beth El ed erigervi una casa e un altare, che sono, a confronto con la primitiva stele, il segno di un nuovo culto, in cui il popolo partecipa in comunione e riceve i precetti divini (cfr. N. Leibowitz, ‘Yiurum besefer Bereshith 270-275). Accettando questo giogo, viene in soccorso l’aiuto divino: « la paura del Signore fu sulle città… » (Gen. 35:). Malgrado gli aspetti terribili del fatto di Shekhem, e l’esplicita condanna che ne fa Giacobbe (che rappresentano un modello primordiale delle perplessità rabbiniche sul tema della violenza armata che caratterizza la rivolta dei Maccabei e il trionfo della casa Asmonea), esistono nelle motivazioni dei protagonisti delle componenti positive, come l’intenzione di lottare contro l’idolatria e in particolare contro coloro che con la forza o la seduzione vogliono conquistare le persone e le anime di Israel. Non a caso uno dei due combattenti è Levi, antenato di Pinchas e antenato dopo molti secoli della famiglia dei Maccabei. Dunque l’intero racconto è quello di una sorta di Hanukkah patriarcale, dove compare il motivo della lotta contro l’idolatria esterna ed interna, il paradosso della violenza e della sua difficile valutazione, e poi la purificazione e l’erezione dell’altare, sotto l’ala protettrice divina. Manca solo il lume, ma l’olio già c’è, nelle due prime volte che viene citato nella Bibbia: quando Giacobbe lo versa sulla stele che ha eretto a Beth El, e quando viene nuovamente versato sull’altare alla fine del racconto.

Il tema del miracolo di Hanukkah dunque è molto più antico di quello dei tempi dei Maccabei, così come l’olio che brucia in ogni hanukkià esprime una speranza sofferta e complessa, profondamente radicata nella coscienza ebraica senza limiti di tempo.

Rav Riccardo Di Segni

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