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I DOMENICA DI AVVENTO “A” - OMELIA
(IS 2,1-5; SAL 121; RM 13,11-14; MT 24,37-44)
RISCOPRIRE L’AVVENTO
La liturgia della Chiesa ci invita a riscoprire da oggi, nell’inizio di un nuovo anno liturgico, una dimensione fondamentale della vita: l’attesa. Essa è parte integrante della nostra vita, a partire dal quotidiano: attendiamo che termini l’orario di lavoro, che giunga l’ora di pranzo; a metà giornata, o al termine di essa, pensiamo al ritorno a casa per rivedere gli affetti a noi cari; infine, attendiamo di coricarci, e il riposo notturno è attesa del giorno successivo. Ci sono poi altri tipi di attesa: la data del matrimonio, il 18° compleanno, la nascita di un figlio, il giorno in cui vedremo che il nostro pargolo cominci a camminare con le proprie gambe, il momento in cui inizierà a balbettare “mamma” e “papà”. Anche per i credenti c’è un’attesa, quella del giorno ultimo: non sappiamo quando avverrà, ma questo non conta, perché Dio ci chiede di non attendere il “quando”, ma il “come”, preparandoci cioè al momento presente. Il nuovo anno liturgico, pertanto, inizia con l’“Avvento”, tempo di grazia – ricordando l’attesa che per secoli ha coinvolto il popolo di Israele e l’umanità intera – per prepararci non solo al Natale, ma alla vigilanza costante. Ci faremo accompagnare dal libro che apre il Nuovo Testamento: il Vangelo di Matteo. Siamo al capitolo 24, nella sezione che Gesù dedica proprio ai discorsi “escatologici”, sui tempi ultimi. Appare una verità di fondo, necessaria per i credenti di ieri e di oggi: non si tratta di guardare con indifferenza e superficialità a un momento ritenuto lontano, ma ad essere consapevoli che Dio cerca la nostra prontezza nel quotidiano, già da ora. Lo successione del brano odierno riflette l’intera opera del primo Vangelo: esempio e insegnamento, per due volte. Dall’arca di Noè all’avvertimento che la salvezza non riguarderà tutti, dall’esempio del padrone di casa al monito di essere vigilanti. Molti di noi conoscono la vicenda del patriarca: siamo abituati a immaginare questo curioso personaggio che riesce a convincere la propria famiglia a costruire un’arca, tra il sarcasmo dei suoi contemporanei. Il significato però non è affermare il motivo per cui la specie umana e quelle animali sopravvivono, ma – come spiega lo stesso Gesù – il fatto che nel momento del giudizio non tutti saranno pronti, presi – come vediamo anche adesso – nel proprio attivismo sfrenato, o nella vita dedicata all’ozio, o alla certezza che Dio non c’entra affatto con la nostra vita. Il primo richiamo sembra quindi richiamare l’attenzione (o vigilanza) sulla lettura e sull’approfondimento della Scrittura, per non fermarsi al singolo episodio – come quello di Noè – ma comprendendone il profondo significato e il reale insegnamento per la vita. Nel testo della prima lettura, da molti considerato il vero inizio del libro del profeta Isaia, nonostante la collocazione del testo al secondo e non al primo capitolo, parla della moltitudine dei popoli che confluisce verso il monte Sion. Tra le possibili interpretazioni, molti hanno visto in questo monito la potenza della Parola divina, capace di illuminare ogni credente, di condurre alla vera pace (forgeranno le spade in vomeri, le lance in falci), di guidare tutti verso una luce che non tramonta. Facciamo il passo successivo: come detto, lo schema di Matteo si ripete, riportandoci un esempio tratto dalla vita concreta, seguito da una deduzione finale, che ne costituisce l’insegnamento. Anche qui siamo portati a immaginare la figura – forse anche poco simpatica – del ladro che improvvisamente sfonda la porta di casa e viene a derubarci. Perché un esempio del genere? Anche qui siamo chiamati a riflettere e a non fermarci al nostro immaginario. Un ladro capace ha la perspicacia di intuire il momento propizio per operare un furto. È il momento in cui sa che il padrone di casa può abbassare la guardia. Anche noi, come quel padrone, possiamo vivere, nell’arco della vita o nella semplice quotidianità, momenti in cui abbassiamo la guardia. Può essere la noia della vita quotidiana, l’esistenza vissuta senza valori e senza Dio, la certezza che ormai nessuno può toccare ciò che abbiamo costruito e che sappiamo come affrontare e superare ogni ostacolo. Ecco il secondo richiamo, dopo quello sulla Parola: quando ci sembrerà che Dio ormai non possa più far parte della nostra vita, giunge la sua venuta, improvvisa e sorprendente. Come ci troverà? Sicuramente distratti, lontani da Lui. Come evitare questo? Vegliando e stando pronti, ci ricorda il Vangelo, cioè non abbandonando la preghiera (ricordate Gesù che rimprovera i suoi discepoli prediletti sul monte degli ulivi perché dormono anziché pregare come lui per vegliare e non cadere in tentazione?) e tenendosi pronti nella testimonianza quotidiana, fatta anche di piccoli gesti di carità che esprimono la nostra fede e rivelano la nostra speranza. Qualche anno dopo, san Paolo tradurrà in esortazioni concrete il monito di Cristo. Scrivendo ai Romani, l’apostolo non si ferma all’invito di “svegliarsi dal sonno”, ma chiarisce che si tratta di abbandonare tutto ciò che ha a che fare con la “carne”, cioè col peccato: l’ubriachezza, che altera e mortifica l’intelligenza; le impurità, che deturpano il corpo; le contese e le gelosie, che rovinano la serenità propria e i rapporti interpersonali. La liturgia odierna ci ha indicato tutto quello che ci occorre: la meditazione della Scrittura, per tradurla concretamente. Il Signore ci invita a far tesoro del tempo di Avvento, attendendo non solo i progetti di breve o lunga scadenza, ma accogliendo Colui che da senso alla nostra esistenza, l’Unico che potrà donarci quella vita che non ha fine.
Dialogando con i piccoli Iniziamo dicendo che da oggi mancano quattro domeniche al Natale: questo tempo è chiamato “Avvento” ed è anche l’inizio dell’anno liturgico. Facciamo riferimento alla vicenda di Noè, riportata nel Vangelo: di chi parla Gesù? Chi è Noè? Perché ha costruito l’arca? Gli altri, che erano distratti, sono stati sorpresi? Come se ne sono accorti? Passiamo a esempi quotidiani: in questa settimana avete avuto sorprese? Qualche esempio: una visita improvvisa, un litigio che non avremo voluto, un bel regalo, … Perché dire questo? Per far comprendere come noi conosciamo la nostra vita e quello che ci accadrà, ma non possiamo prevedere tutto. Possiamo fare anche il seguente esempio: aspettiamo la visita di un amico. Intanto ci sistemiamo la camera, e magari anche la casa, per fare in modo che tutto sia a posto. Passa il tempo, e questo amico non si fa vedere, allora ci restiamo male, ritorniamo al disordine che abbiamo sempre avuto … a un certo punto, però, la sorpresa! L’amico viene, magari non da solo, e vede … il nostro disordine. Ma non ci eravamo preparati? Sì, ma non ci abbiamo creduto più di tanto, perciò il nostro amico non avrà visto il nostro impegno per mettere tutto in ordine, ma il disordine che abbiamo sempre avuto e che per un attimo avevamo messo da parte.
Possibile conclusione: come possiamo prepararci a ricevere Gesù? Dopo aver ascoltato qualche risposta, possiamo concludere: leggendo la Bibbia, non dimenticando la preghiera, facendo la carità. L’attesa cristiana: riflessione sulla seconda lettura La lettera ai Romani, “perla” del Nuovo Testamento, riesce a illuminare il cuore del credente per vivere senza fronzoli ma con estrema chiarezza un tempo di grazia, l’Avvento, che all’apparenza potrebbe dir nulla al nostro vissuto quotidiano. Il testo che abbiamo ascoltato è tratto dal capitolo tredicesimo: siamo nella seconda parte della lettera, dedicata, come in molti altri caso dell’epistolario paolino, alle questioni “parenetiche”, o esortative, o morali. Nel capitolo precedente, dedicato al “culto spirituale”, l’apostolo ha raccomandato ciò che molti credenti troppo spesso dimenticano: offrire i propri corpi. Il cristianesimo non è solo questione di “anima” o di spirito, ma un farsi trasformare da Dio nella completezza della persona, anche nella parte fisica. Il testo odierno ci aiuta a comprendere come fare. Seguire Gesù significa “svegliarsi dal sonno”. A una prima lettura, fermandoci al senso letterale, sembrerebbe quasi che l’autore voglia toglierci qualche ora di riposo, magari per dedicarci alla preghiera. In realtà, il richiamo di Paolo non riguarda la scansione del tempo, ma l’essenza della vita cristiana: svegliarsi dal sonno non della notte ma del peccato, per abbandonare cioè il torpore e la mediocrità della vita quotidiana, riscoprendo ogni giorno il “kairos” (termine originale greco), il tempo favorevole. Esso altro non è che quella occasione, costante, per incontrare Gesù Cristo nel tempo presente. Se ci illudiamo di poter abbassare la guardia perché ormai siamo credenti “maturi” e provati più volte nella fede, l’apostolo ci ricorda che è necessaria la vigilanza costante su se stessi, “più di quanto diventammo credenti”. A differenza dei primi cristiani, che furono battezzati in età adulta, noi abbiamo ricevuto il dono della luce in anticipo, per poter sperimentare da subito la grandezza e la ricchezza dello Spirito Santo che può rinnovare continuamente la nostra vita. L’invito dell’apostolo è attualissimo: per alcuni si tratta di non ricadere da quei peccati da cui ci siamo allontanati nel momento della conversione in età adulta, per altri consiste nel non illudersi di esser giunti a chissà quale tappa di “santità”, per taluni invece può consistere nell’abbandonare il vecchio stile di vita. L’autore della lettera lo paragona all’abbandono delle “tenebre”, simbolo del male, per indossare le “armi della luce”, per permettere cioè a Cristo di illuminare la nostra vita. Gli esempi pratici non mancano. Un primo riferimento è per la vita spirituale: legarsi o restare impigliati ai vizi, o farsi travolgere dall’ozio, è un modo concreto per abbandonare la fede, lasciandone spegnere la fiamma, gradatamente, nell’abbandono quotidiano della propria persona, attraverso la costante rovina dei vizi. Orge e ubriachezze sono il male contro la speranza, perché ci allontanano dalla vita nello Spirito ricevuto nel battesimo. L’apostolo, scrivendo duemila anni or sono, fa riferimento all’ubriachezza; noi, oggi, abbiamo solo l’imbarazzo della scelta. Un secondo monito è per la cura del corpo: l’impurità, o le varie forme di lussuria, non sono una dichiarazione personale di indipendenza e di emancipazione, come molti, anche tra i credenti, purtroppo pensano, ma l’inizio di uno stile di vita che rischia di rovinare, a volte irrimediabilmente, la dignità del corpo. Impurità e licenze possono considerarsi il male contro la fede, perché riducono la nostra vita a una sola dimensione, quella corporea Un terzo richiamo, infine, è per il bene dell’anima: san Paolo fa riferimento a contese e gelosie; le prima riescono a portare un tale livello di discordia da negare il saluto tra persone che hanno vissuto in amicizia, anche profonda per anni; le seconde (le gelosie) ci portano invece a non apprezzare i doni che Dio (e a volte chi ci è accanto) fa alla nostra vita, perché riteniamo continuamente che la vera felicità sia altrove, negli oggetti, negli affetti o nelle attestazioni di successo che altri hanno, che vorremmo avere ma che, se otteniamo, non riuscirebbero a colmare il vuoto di un cuore ormai votato solo al male altrui. Contese e gelosie sono pertanto il male contro la carità, perché non ci permettono di vivere nello spirito comunitario voluto dal Signore. L’alternativa a tutto questo, seguendo l’immagine di purificazione nel battesimo, tanto cara a Paolo, è quella di “rivestirsi” di Cristo. Abbandonare i desideri del peccato, chiedendo l’aiuto al Maestro disceso sulla terra, è ciò che salva il credente dalla perdizione quotidiana. Un grande santo, Agostino di Ippona, si convertì proprio leggendo queste parole, in un momento di profondo dolore; si era reso conto che non riusciva in alcun modo a liberarsi dai legacci della vita di peccato, in particolare dalla lussuria, fin quando, dopo tante lacrime versate, ebbe in dono quella parola che cambiò definitivamente la sua vita: “rivestiti di Cristo”. San Paolo, nella seconda lettura, ci offre alcune indicazioni pratiche. Attraverso la sua penna, Gesù ci chiama a seguire la sua luce, per illuminare la nostra mente e il nostro cuore, trasformando la nostra esistenza quotidiana, troppo spesso affezionata a tante forme di peccato, in “vita nuova”, capace di intravedere quella luce che illumina la nostra vita fino alla salvezza nella santità. “Verbum Domini”: riflessione sulla prima lettura Il libro del profeta Isaia è uno dei testi che più ricorre nel tempo di Avvento. Il motivo è il seguente: non si tratta solo del personaggio che più parla delle realtà future, ma di colui che maggiormente riesce a porre l’attenzione sugli elementi fondamentali dell’Avvento. Il punto di partenza per vivere questo periodo di preparazione al Natale è in parte racchiuso nel testo della prima lettura. Avvento significa “venuta” del Signore: realtà futura, che è possibile sperimentare già ora, nel tempo presente. Vediamo come. La visione del profeta inizia con la seguente descrizione: il monte del tempio del Signore, alla fine dei giorni, sarà elevato sulla cima dei monti, e sarà più alto di ogni colle. Si tratta della realtà futura, eterna, definitiva, che i profeti chiamano “Sion”, Giovanni evangelista definisce “Gerusalemme celeste”, e noi “Paradiso”. Fermandoci a tale descrizione, il lettore può avere un’idea, più o meno chiara, di come sarà la vita eterna, ma il profeta, subito dopo, per bocca di Dio, ci invita a non fissare gli occhi solo in alto. L’invito del paragrafo seguente è collettivo: “venite, saliamo al monte del Signore”. Il verbo, avrete notato, è al plurale: Dio vuole che ci salviamo insieme, che andiamo in Paradiso insieme, che non ci ostacoliamo reciprocamente nel cammino di santità. La vita eterna è un dono che il Signore riserva a tutta l’umanità; nello stesso tempo, vuole che ciascuno si salvi anche grazie al prossimo, e non a suo scapito. Realtà futura e impegno comunitario al presente. Dio non si accontenta di indicarci la meta e la via, ma vuol farci vedere anche lo “strumento” principale per giungere alla vita eterna. Da Sion e da Gerusalemme uscirà la “parola del Signore”: Isaia sta parlando della Torah, della Legge racchiusa nei primi cinque libri della Bibbia; noi abbiamo lo stesso tesoro, l’Antico Testamento, completato dalla Rivelazione in Cristo, che costituisce il Nuovo Testamento. Per accedere alle realtà future e renderle presente nel tempo odierno ci viene chiesto di seguire la Parola di Dio: è un impegno concreto, nonché un affascinante stimolo, per iniziare al meglio l’anno liturgico. Quello che noi celebriamo solennemente (alcune chiese particolari celebrano proprio oggi la domenica del “Verbum Domini”, della Parola del Signore) o che teniamo in bella mostra presso i nostri scaffali, può finalmente diventare la guida fondamentale di una vita nella fede. Torniamo al testo in questione: salire verso il monte del Signore non è solo un tempo lontano, ma una realtà che si realizza già al presente, vivendo nell’ascolto del messaggio divino. La Parola, però, si rende concreta non solo quando la leggiamo, o la meditiamo, ma quando porta a scelte concrete, anche a livello mondiale. Il frutto più bello è quello della “Pace”, quella che viene da Dio. Non si tratta solo di fondere le armi in attrezzi da lavoro (spade in vomeri e lance in falci), ma di ritrovare in Dio quel “modus vivendi” che non ha bisogno di imporre la violenza, l’oppressione e la morte. L’inizio del libro del profeta Isaia, primo testo dell’Avvento e di questo nuovo anno liturgico, ci rimanda a un percorso, verso il monte di Sion, attraverso la Parola, che proviene da Sion, cioè da Dio, per vivere nella pace, nell’immagine dei popoli che non avranno più bisogno di esercitarsi nell’arte della guerra. L’invito finale, alla “casa di Giacobbe”, cioè a ciascun credente, è quello di camminare nella “luce del Signore.” Ritroviamo, nell’ultimo versetto, l’invito che caratterizza il tempo di preparazione al Natale: “vieni”. Andiamo dunque incontro al Signore, cercando nel tempo presente il monte di Sion, il Dio di Gesù, costruendo la pace secondo quanto indica la Parola di Dio, in attesa della vita vera, quella che viene da Dio, e che non avrà mai fine.