ILDEFONSO SCHUSTER – MF 30 AGOSTO – INOS BIFFI
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ILDEFONSO SCHUSTER – MF 30 AGOSTO
NON BASTA LA DOTTRINA
INOS BIFFI, L’OSSERVATORE ROMANO 19 GENNAIO 2008
TEOLOGIA
Uno dei compiti principali del pastore d’anime, o diciamo semplicemente del sacerdote, è quello di presiedere e di iniziare alla liturgia. Ma questo è possibile solo se, a sua volta, egli è stato introdotto alla sua comprensione, o alla sua teologia e spiritualità; solo se ha capito il mistero che è chiamato a celebrare e illustrare, facendone il cuore stesso del suo ministero.
Possiamo ancora una volta ricordare il diffuso affanno con cui si va alla ricerca di strategie inedite per l’evangelizzazione e la formazione cristiana: in realtà la più efficace, la più valida e, aggiungiamo, la più nuova rimane quella che da sempre accompagna, per istituzione divina, la vita della Chiesa, cioè la celebrazione dei santi misteri, che segue e traduce l’evangelizzazione e l’accoglienza della fede.
Se la liturgia risulta priva d’interesse e non avvincente, la ragione non sta nel contenuto che si sia logorato: l’occhio e la sensibilità della fede lo avverte sempre vivido ed esuberante.
Solo che quest’occhio e questa sensibilità devono anzitutto contrassegnare lo spirito e lo stile di colui che celebra.
Penso, in questo momento, a un grande liturgo che la Chiesa ebbe nel secolo passato, il cardinale Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano, che edificava solo al vederlo celebrare. « La sua presenza dava a ogni celebrazione guidata da lui il senso quasi fisicamente percepibile della realtà salvifica che l’azione sacra efficacemente evocava. Non era un colosso, eppure la sua presidenza veniva percepita come qualcosa di determinante e di intenso.
La gente semplice correva a contemplare quest’uomo esiguo e fragile che, nelle vesti del liturgo, diventava un gigante. I suoi gesti erano sempre sciolti e misurati: non c’era niente di teatrale nella sua attitudine. Eppure il suo era davvero uno spettacolo, al tempo stesso spontaneo e affascinante. Intento insieme e assorto, era agli occhi di tutti un testimone eloquente dell’invisibile.
Si immergeva con naturalezza nel mondo del trascendente; tanto da sembrare più spaesato fuori, nella dimensione comune e secolare dell’esistenza. Non aveva bisogno di attardarsi nelle locuzioni e nei gesti per dare spessore e significanza ai riti. Nessuno era più sollecito di lui, che si muoveva entro i sacri misteri con la disinvoltura di chi si sente a casa. Niente perciò di quanto poteva dire o fare acquistava agli occhi dei fedeli maggiore rilevanza di questo « magistero visivo ».
Ciò che contava, ciò che era più prezioso, ciò che in definitiva si iscriveva nei cuori, era la sua testimonianza sacerdotale, che diventava per tutti la più autentica e valida delle « mistagogie »; diventava cioè un invito discreto ed efficace a entrare esistenzialmente nello splendore e nella gioia del mistero della salvezza » (cardinale Giacomo Biffi).
Ora, la prima condizione perché questo avvenga è la formazione teologica del presbitero, esattamente centrata sui punti fondamentali del dogma cristiano, da cui è generata la pietà.
L’impegno principale negli anni della preparazione al ministero non deve essere, infatti, quello di addestrare ai rapporti pre-pastorali, ma quello di iniziare – in un clima di silenzio, di studio prolungato e rigoroso e di orazione – all’assimilazione e alla contemplazione del mistero cristiano. Il resto verrà e sarà fecondo a suo tempo. Oggi, con discutibili e autorizzate motivazioni di avviamento all’apostolato, i seminaristi appaiono troppo distratti.
Passando ai contenuti: il cuore di tutta la formazione teologica deve riguardare la figura di Cristo e in particolare la professione della sua divinità, tanto maggiormente necessaria, quanto più oggi rischia di essere annebbiata. Un movimento di riduzione della figura di Gesù di Nazaret nei confini puramente umani, o una specie di inquietante arianesimo sembrano serpeggiare, come se l’assoluta originalità di Cristo sia il suo essere uomo, e non invece il suo essere un vero uomo che è personalmente Dio, quindi l’unico Rivelatore e, per tutti e in ogni tempo, l’unica via di salvezza.
Del resto, è quello che immediatamente appare dai Vangeli, che nascono dallo stupore suscitato da Colui nel quale, con l’ovvia umanità, constatano una dimensione inattesa e insospettata, quella che lo colloca sul piano stesso della divinità.
Non stupisce che in questo inquietante e serpeggiante offuscamento gli stessi miracoli di Gesù siano intesi come puri simboli, a cui la stessa risurrezione del Signore viene ricondotta.
Il secondo grande dogma al quale va iniziato chi studia teologia riguarda la Chiesa, « Opera di Dio », Corpo di Cristo e suo « sacramento », e quindi sua concreta visibilità, sua iniziale e fondamentale riuscita.
Anche al riguardo non si fatica a incontrare concezioni ecclesiologiche non affatto cattoliche, che interpretano la Chiesa come un insieme di fragili ed effimeri tentativi di esperienza cristiana, differenti l’uno dall’altro, ma alla fine equivalenti, invece che l’imprescindibile e storica mediazione di salvezza per ogni uomo.
Basterebbe vedere con quale leggerezza ne viene contestata l’unità e la santità e con quale compiacenza se ne faccia oggetto di denigrazione, che parrebbe la condizione per essere « profeti », dimenticando che ogni ferita alla Chiesa tocca Gesù Cristo stesso.
Poi viene la formazione teologica relativa ai sacramenti, dove è in atto l’opera della salvezza, a motivo della presenza in essi di Gesù Cristo e del suo Spirito, dai quali i segni ricevono efficacia.
In realtà, un’autentica e stabile educazione al dogma – che non può certo equivalere a una semplice e sterile ripetizione scolastica – deve abbracciare tutte le sue branche, e quindi anche la mariologia, la dottrina del peccato originale, i « Novissimi », con la preoccupazione di ascoltare e di comprendere la splendida Tradizione della fede, che è diventato d’uso emarginare per ascoltare le voci nuove, di teologi e di filosofi, che non raramente seducono con alcune loro dottrine brillanti, ma che, a una riflessione critica, dissolvono l’originalità della Rivelazione.
Ci si potrebbe anche chiedere se riguardo appunto alla mariologia e al peccato originale l’insegnamento sia dappertutto conforme alla dottrina di fede definita.
Si avverte subito che, senza questa formazione dogmatica del pastore d’anime, anche la celebrazione risulterà alterata e priva della sua sostanza, per cui consisterà non in una celebrazione da parte della Chiesa, Sposa di Cristo, della Grazia che redime e che ricrea; né in uno sguardo ammirato e adorante del disegno divino; né in un ministero svolto in persona Christi, e che introduce nel mondo soprannaturale; né in un elogio e in un ringraziamento per l’iniziativa di Dio per la salvezza dell’uomo; equivarrà, invece, alla celebrazione di una iniziativa dell’uomo, a una sua auto-glorificazione.
Senza dubbio, pur fondamentale, l’istruzione dottrinale non basta per l’iniziazione liturgica: occorrono l’esercizio e la coltivazione del gusto e della proprietà, che nulla hanno a che fare con un superficiale liturgismo estetico, ma che sono tanto più necessari quanto più sublime è il livello sul quale i pastori d’anime saranno chiamati a operare e quanto più prezioso è il dono che passa attraverso la loro mediazione rituale.
In ogni caso, se si incontrassero dei ministri della liturgia demotivati, indifferenti, trascurati, la prima ragione andrebbe individuata in una carenza di tipo teologico, nel senso che o si è rimasti alla periferia del dogma, o lo si è per qualche verso contaminato, in particolare per quanto concerne la figura di Gesù Cristo, l’immagine della Chiesa e la concezione dei sacramenti.
Da qui la grave responsabilità di quanti sovrintendono a questa educazione teologica.
L’Osservatore Romano – 19 gennaio 2008