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(DOTTRINA PAOLINA) – estratto da  » L’UOMO SECONDO LA BIBBIA »

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CAPITOLO NONO

IL NUOVO ADAMO

(DOTTRINA PAOLINA) – estratto da  » L’UOMO SECONDO LA BIBBIA »

estratto da  » L’UOMO SECONDO LA BIBBIA » – A. Gelin – Edizioni Ligel 1968

(Libera traduzione del testo francese)

Il personaggio di Adamo è collegato dalla Bibbia a tutta la storia della salvezza. Ne è come la bozza. Ma non sarebbe dare ad Adamo tutto il suo valore se lo si considerasse soltanto come un inizio; è un “tipo„ normativo, colui che ci presenta, realizzato in sé, ciò che il Signore attende da noi tutti: essere realmente la sua immagine. “Tipo„ normativo anche in un’altra direzione di pensiero che San Paolo ci rivelerà. Questo capitolo sarà una meditazione di san Paolo: è lui che ci ha detto chiaramente che il primo Adamo era il “tipo„ di un nuovo Adamo. Il Cristo Gesù è il “tipo„ dell’uomo biblico nella sua perfezione: c’è soltanto un uomo biblico, il Cristo. Adamo è il “tipo„ imperfetto di Cristo. Studiamo dunque il messaggio lasciato da san Paolo. E poiché questo originale teologo è come un genio assimilatore, all’ascolto di tutte le correnti e di tutte le vibrazioni dei mondi religiosi in cui si è formato e riformato (1), occorre riflettere inizialmente su ciò che ha potuto preparare nel pensiero di Paolo questa dottrina dei due Adamo.
I. GLI ANTECEDENTI DELLA DOTTRINA DEL NUOVO ADAMO
1. Attenzione accordata al personaggio Adamo nei circoli apocalittici.
I circoli apocalittici hanno molto riflettuto su Adamo. Ed è proprio nel loro ambiente che Paolo si è formato. La sua teologia, così come la si può riconoscere nei suoi scritti, è una teologia “apocalittica„. I circoli apocalittici avevano studiato il peccato di Adamo: era uno dei loro centri d’interesse. Essi hanno ribadito in termini a volte patetici un legame tra l’errore del primo padre e la situazione spirituale dell’umanità. Adamo, per loro, è un esempio, un cattivo esempio: è la facilità a lasciarsi trascinare da questo istinto malvagio che è in noi ed al quale egli stesso per primo ha ceduto poiché, dicono i rabbini, c’era un istinto malvagio in Adamo prima della sua colpa. È lui che ha introdotto la morte in questo mondo.
Ecco un testo ben caratteristico tratto dell’Apocalisse di Esdra (2) sulla conseguenza di Adamo: “Se il primo uomo Adamo ha peccato e ha fatto venire la morte su tutti in modo inopportuno, purtroppo anche su quelli che sono nati da lui, ogni uomo prepara per la sua anima la punizione futura ed a sua volta ciascuno sceglie per sé le glorie future „. Di conseguenza, Adamo fu causa soltanto per la sua anima; quanto a noi, ciascuno è a sua volta Adamo per sé.
C’è una presa di posizione molto netta: Adamo ha precipitato l’umanità in una cascata di disgrazie, con il fatto di avere peccato, con il fatto che è un esempio e che, per la sua colpa, l’umanità si trova indebolita. Queste disgrazie sono principalmente la morte ed altri mali che vengono elencati: non si parla più l’ebraico come all’inizio (L’Apocalisse di Esdra è scritta in greco. Ndt), si sanno meno cose rispetto all’inizio, ecc.… In fondo, nulla di più di quanto ci dica la Genesi.
Un’altra apocalisse di quei tempi, quella di Baruc, ci parla allo stesso modo. C’è dunque un’attenzione speciale rivolta ad Adamo nei cerchi apocalittici, nel momento in cui scrive Paolo: in particolare un chiarimento ed una riflessione sulla sua colpa. Da osservare del resto che il mistero del male è toccato soltanto superficialmente e che la dottrina del peccato non è per niente nella linea del nostro dogma cattolico del peccato originale, così come lo intendiamo partendo da San Paolo: ciascuno, secondo queste apocalissi, deve “giocare le sue carte„. “Ciascuno è Adamo per sé „. Adamo è soltanto un esempio che trascina ed una causa di debolezza per l’umanità.
2. L’idea dei “due Adamo„ nella speculazione di Filone.
Filone è un pensatore ebraico della “Dispersione„ che vive ad Alessandria. La sua speculazione si situa 40 anni prima della nostra era, quindi mentre Gesù è a Nazareth. Filone speculerà sui due resoconti della Genesi. Per introdurci al suo pensiero è curioso ricordare che uno scienziato come Lecomte du Noüy (1883-1947) (che nulla ha a che fare, ovviamente, con la critica biblica) ci ha presentato nel suo libro L’Avenir de l’esprit (Il futuro dello spirito), una distinzione simile a quella di Filone. Rileggiamo inizialmente la Bibbia: un primo testo della Genesi (quello che abbiamo collegato alla fonte P, fonte sacerdotale) ci trasmette solennemente la creazione del mondo intero, in un ordine qualitativo, in modo da presentarci alla fine la nascita di Adamo ed Eva come il vertice, l’apogeo della creazione: il suo re è introdotto per ultimo. Egli ci è presentato come immagine di Dio, tra Dio al quale non è identico e gli animali su cui deve predominare. E poi un secondo racconto molto psicologico, ma anche per certi versi molto ingenuo, ci rappresenta, al capitolo 2, Adamo creato, modellato da Dio e che poi prende moglie (la donna tratta del suo fianco): noi diciamo in modo critico che questo racconto appartiene al ciclo J, al ciclo jahvista, cioè alla prima sintesi storica trasmessa dalla Bibbia.
Ecco ora le “spiegazioni„ di Lecomte du Noüy a questa lettura. Il “primo Adamo„ era soltanto un abbozzo: era un essere inferiore creato soltanto per gli istinti di procreazione e di conservazione; non era ancora un uomo. Il “secondo Adamo„ al contrario, a cui Yahvé mette a disposizione un’opzione morale, è l’uomo capace di responsabilità, l’uomo vero.
Filone diceva già qualcosa d’analogo, ma in senso inverso. “Il primo Adamo„ (l’Adamo del capitolo primo), è l’uomo ad immagine di Dio, il “secondo Adamo„ (quello del capitolo due), è l’uomo modellato dalla terra. Il primo è l’uomo celeste (“ouranios„), il secondo è l’uomo terrestre. Filone ha comunque abbastanza diversificato le sue spiegazioni. Ma si vede bene che c’era una speculazione adamologica che affermava: il primo è l’uomo celeste, l’ideale dell’uomo, una specie di “idea platonica„ dell’uomo, che è stato creato; ed il secondo, l’uomo empirico, meno perfetto, terrestre, è creato in seguito come padre degli uomini. C’è dunque in Filone una distanza “cronologica„ tra il primo uomo, l’uomo celeste ed il secondo uomo, l’uomo terrestre. Forse troveremo qualcosa di ciò in San Paolo.
3. Il Vecchio Testamento ci presenta un’escatologia dell’uomo?
Il Vecchio Testamento ci ha fatto attendere un personaggio concepito come rappresentante ideale dell’umanità, l’Uomo con la U maiuscola? Sembra proprio che all’epoca di san Paolo l’espressione “l’Uomo„ fosse una designazione messianica.
Ecco un testo chiaramente contemporaneo di Paolo, quello di Ebrei 2,6 e seguenti. Noi sappiamo come l’autore rifletta sul famoso Salmo 8: “Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio (un « élohim »), … tutto hai posto sotto i suoi piedi “(in particolare le bestie). Si riconoscono del resto là i commentari di Genesi 1,26. Ma questo salmo è citato da Ebrei 2, per applicarlo a Cristo:
Anzi, in un passo della Scrittura qualcuno ha dichiarato: Che cos’è l’uomo perché di lui ti ricordi o il figlio dell’uomo perché te ne curi? Di poco l’hai fatto inferiore agli angeli, di gloria e di onore l’hai coronato e hai messo ogni cosa sotto i suoi piedi. Avendo sottomesso a lui tutte le cose, nulla ha lasciato che non gli fosse sottomesso. Al momento presente però non vediamo ancora che ogni cosa sia a lui sottomessa. Tuttavia quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti. Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza.
(Eb 2,6-10).
È Gesù, l’Uomo per eccellenza. Ma nel Vecchio Testamento troviamo anche questo stesso titolo come messianico. La traduzione dei Settanta parla dell’arrivo di un uomo: “Una stella spunta da Giacobbe e un Uomo sorge da Israele„ (Nm 24,7 e 17) (3). “Un uomo„: designazione messianica! Si ricollegherebbe a Genesi 1, 26, 27? al Salmo 8? Non ci sarebbero in questo Salmo 8, considerato come un salmo reale, le tracce di un’attesa, ovvero: un giorno sarà realizzato questo Uomo che attendiamo e che sarà il re perfetto di tutta la creazione?
Alcuni esegeti contemporanei, come Bentzen, hanno pensato che il Figlio dell’uomo di Daniele (7, 13) sarebbe come una rinascita dell’antica figura di questo dominatore della creazione (delle bestie in particolare). Non è anche lui vincitore delle bestie che simbolizzano i quattro imperi? (Impero di Babilonia, regno dei Medi, regno dei Persiani, regno di Alessandro Magno. Ndt). Questa figura, perlomeno, si prestava ammirevolmente a diventare una figura messianica personale e questa interpretazione è stata ratificata da Gesù che si è chiamato “il figlio dell’uomo„. Figlio dell’uomo, designazione misteriosa che corrispondeva ad Uomo (con la U maiuscola): ovvero, un membro dell’umanità, un figlio di Adamo, che avrebbe realizzato con un’eccellenza particolare, ciò che ci si attendeva fin dall’origine di questo Adamo, re del paradiso.
4. Il tema “dei due Adamo„ nella tradizione sinottica.
Ultima constatazione, probabilmente più pratica: il tema dei “due Adamo„ non è stato inventato da San Paolo; lo vediamo emergere chiaramente dalla primissima tradizione sinottica.
È Marco 1,13 che ci ricorda che Gesù visse fra le bestie selvagge, gli stessi che rispettavano Adamo, secondo le apocalissi. Vivere fra le bestie selvagge è una caratteristica messianica (in riferimento del resto al tema del Paradiso). Il capitolo 11 di Isaia ci garantisce che nei tempi messianici sarà come nel Paradiso: le bestie saranno tutte addomesticate, esse si capiranno tutte tra di loro:
Il lupo dimorerà insieme con l’agnello;
il leopardo si sdraierà accanto al capretto;
il vitello e il leoncello pascoleranno insieme
e un piccolo fanciullo li guiderà (4).
La mucca e l’orsa pascoleranno insieme;
i loro piccoli si sdraieranno insieme.
Il leone si ciberà di paglia, come il bue (5).
Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera;
il bambino metterà la mano
nel covo del serpente velenoso (6).
(Is 11,6-8).
Così si presenta Cristo in san Marco: è fra le bestie selvagge, a seguito di una prova da cui, a differenza di Adamo, egli è uscito vittorioso. È così che apre una nuova era, è così che riprende vittoriosamente l’avventura del primo uomo.
In san Luca è da osservare che la tentazione messianica descritta al capitolo 4 segue immediatamente la genealogia di Gesù che si conclude così: “Gesù era figlio di Giuseppe…, figlio di Adamo, figlio di Dio„ (Lc 3,23;38). “Figlio di Adamo, figlio di Dio„: questa giustapposizione della tentazione e di questa denominazione è estremamente suggestiva. Il Padre Lagrange ha detto: “Si dovrebbe capire, da ciò che precede, che Gesù era un secondo Adamo, ben superiore al primo (7). „ Forse san Luca, che ha tanto ricevuto da San Paolo, a sua volta gli ha trasmesso qualcosa: non soltanto una specie di conciliazione che derivava dal suo carattere così umanistico, ma anche alcune caratteristiche teologiche primitive. D’altronde tutto ciò non deve per niente per ridurre al minimo ciò che la presentazione paolina del nuovo Adamo avrà di originale: poiché san Paolo non ci presenterà il Cristo “nuovo Adamo„ soltanto in questo quadro simbolico (ed anche un po’ mitologico) della vittoria sulle bestie.
II. PRINCIPALI TESTI PAOLINI SUL TEMA DEL NUOVO ADAMO
1. La prima epistola ai Corinzi (15, 21-22, 45-49).
a) L’occasione dell’epistola. Prima di abbordare questo passaggio per il nostro scopo, proviamo ad indicare l’occasione. Si tratta di una controversia sulla resurrezione. Ma a partire da una situazione molto concreta (del resto ci sono soltanto situazioni concrete in 1 Cor). La cristianità di Corinto era molto toccata, intorno al 55, dal numero di decessi verificatisi. A seguito di questi decessi giudicati prematuri si introdussero un certo numero di pratiche e si manifestò fra i Corinzi una certa mentalità. Alcuni, ricordandosi che il battesimo introduceva alla vita risuscitata, come dice Paolo (Rm 6), ricevevano il battesimo a beneficio delle loro morti. Altri, ricordandosi di essere greci e ragionando come gli Ateniesi il giorno in cui Paolo aveva parlato loro di “resurrezione dai morti„ (At 17,18), facevano fatica ad ammettere, sebbene cristiani, l’idea biblica di resurrezione: che ci si parli d’immortalità, bene! ma non di resurrezione (8). Era davanti al loro ellenismo impenitente che Paolo si trovava: “Come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti? „ (1 Cor 15,12). Ci si immagina abbastanza bene nelle opinioni dei Corinzi questa punta di fiera ironia che noi troveremo negli gnostici, gli intellettuali. E si comprende la risposta di Paolo.
b) La solidarietà con Cristo. La risposta di Paolo consisterà nell’affermare vigorosamente la solidarietà totale del cristiano con Cristo. C’è soltanto un valore assoluto nel mondo spirituale, è Cristo Gesù. Noi siamo partecipi del suo destino. Il suo destino è allo stesso tempo esempio e fonte: noi vi dobbiamo partecipare. Il cristianesimo si definisce in termini di “koinonia„ (— di comunione): ecco perché la formula “in Christo„ basta per Paolo a designare l’associazione più intima concepibile del cristiano con Cristo spirituale che vivifica. Di conseguenza occorre passare per dove Cristo è passato. E’ risuscitato sì o no? È la sola questione che importa poiché condiziona tutto: la nostra fede ed il nostro destino; ciò che spiega l’insistenza di Paolo in questo capitolo 15: Cristo è risuscitato, noi risusciteremo. Se noi risuscitiamo, è poiché Cristo è risuscitato, se pensiamo che Cristo non sia risuscitato, la nostra fede è senza contenuto, essa è vuota (versetto 14). Negare il fatto fondamentale della Pasqua, è pretendere di conservare un’apparenza di fede, una fede senza contenuto.
Il capitolo 15 è di un’importanza eccezionale. Si tratta di eliminare con vigore una certa interpretazione platonica del nostro destino personale, una certa mentalità pre-gnostica. Paolo ha visto Cristo risuscitato: la sua testimonianza e la sua catechesi non sono inferiori a quelle degli altri Apostoli. Egli lo ha visto, sul cammino di Damasco, egli ha realizzato questo contatto inaudito con il Cristo glorioso. Lo ha visto e si serve, per descrivere questa visione, delle espressioni correnti nella tradizione farisaica (che non è senza legame con il libro di Daniele 12): i risorti hanno una specie di corpo che non è più il corpo terrestre (1 Cor 15,35;44).
c) Il parallelismo Adamo-Cristo. Ma Paolo supererà questa fase della semplice risposta alle difficoltà concrete per allargare la sua visione in una vasta antitesi. Ammiriamo qui questo doppio – genio di Paolo: genio storico e genio antitetico armoniosamente associati. Con lui non si resta mai fermi ad una piccola idea episodica: immediatamente la situa in una grandiosa visione storica e, per collegarla meglio, si serve del sua genio antitetico di “professore„. Ed ecco questa costruzione paolina.
Cristo ricomincia tutto, rinnova tutto: egli è la grande svolta della storia universale, è “l’una volta per tutte„ della storia della salvezza. L’umanità è per strada verso il suo destino e, durante il percorso, si ricollega a due uomini di cui porta l’immagine. Intendiamoci bene: un’immagine che non è semplicemente una copia limitata, bensì una forza che deriva dall’originale e che spinge a riprodurlo. Noi portiamo dentro di noi l’immagine dell’uomo terrestre e portiamo dentro di noi l’immagine dell’uomo celeste, come un dinamismo che trasforma. Noi non portiamo queste due immagini in sovrimpressione, bensì ci sottoponiamo al dinamismo vincitore della più forte. Il primo uomo, il secondo uomo: il primo introduce la morte nel mondo; il secondo vince la morte con la sua resurrezione. Adamo è incapace per sua natura di farci accedere ad una “economia„ di resurrezione: questa è caratteristica del secondo Adamo. Ma leggiamo il testo:
“Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita “(1 Cor 15,21-22).
Sta scritto infatti (Cfr. Gn 2,7) che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente (psyché), ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita (pneuma). Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale. Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste (1 Cor 15,45-49).
Riprendiamo più chiaramente questo parallelo: un uomo — un altro uomo; Adamo — Cristo; il primo Adamo — l’ultimo Adamo; un “essere vivente„ — uno “spirito datore di vita„. Il primo uomo che appartiene alla terra, che è di sostanza terrestre, fatto di terra, “di fango„ — il secondo uomo che appartiene al mondo celeste; il primo uomo che ha per caratteristica la carne, il sangue, la corruzione, tutto ciò che non è adatto al regno celeste — il secondo che è adatto e ci adatta a quel Regno. Questo passaggio traduce dunque, in modo ammirevolmente concentrato, il potere che ha il Cristo di conformare i credenti al suo corpo glorioso.
d) Le intenzioni profonde di Paolo. Quali sono, riassumendo, le intenzioni profonde di Paolo?
- Questo parallelismo risponde inizialmente alla tendenza innata del genio di Paolo verso l’universale. Quando i Giudei attendevano il Messia, lo hanno salutato come figlio di Davide. È esatto e Paolo lo sa bene, proprio lui che dirà ai Romani: “Cristo Gesù è nato dalla discendenza di Davide„ (Rm 1,3). Ma, parlando così, si rischiava di rappresentare in modo troppo ristretto l’opera di Gesù. Gesù nel mondo non prende origine soltanto da questo piccolo popolo giudaico, egli non è semplicemente il figlio di Davide. L’epistola agli Ebrei ha detto, forse fin da quel tempo (poiché questa epistola è molto vecchia), che Cristo è una replica di Melchìsedek. Ma Melchìsedek era un pagano: egli viveva prima che fosse organizzata l’istituzione teocratica e levitica di Israele; era il rappresentante di un sacerdozio umano, naturale. Ed è sorprendente constatare che si sia collegato Cristo, più che al sacerdozio aaronico, più che ad Israele, ad una figura pagana (monoteistico del resto). Paolo fa ancora meglio: tramite Davide, tramite Melchìsedek, egli si ricollega al primo uomo, risale fino ad Adamo. E’ quello un modo di coinvolgere l’universalismo: ci sono due poli nell’umanità, Adamo ed il nuovo Adamo. Ed ecco d’un tratto i titoli messianici tradizionali non aboliti, ma allargati, approfonditi e Cristo messo al suo posto unico.
- Seconda intenzione, accessoria a quella: forse un’intenzione polemica contro una speculazione del genere filoniano. Se non mira in modo particolare a Filone, per lo meno ad una mentalità simile. Ricordiamo l’essenziale della speculazione del filosofo giudeo di Alessandria: c’è il primo Adamo, Adamo ideale, immagine di Dio; dopo viene l’Adamo empirico di cui conosciamo le avventure grazie ai capitoli 2 e 3 della Genesi. Dice san Paolo: “Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale „ (1 Cor 15,46), è l’Adamo terrestre, l’Adamo “di fango„ e colui che viene per secondo, è l’Adamo spirituale, l’Adamo vivente immagine di Dio (eikôn), il Cristo. Viene cronologicamente per secondo, dopo alcune migliaia di anni (9) di una storia umana della salvezza. La speculazione filoniana è capovolta.
- Terza intenzione di Paolo: sottolineare l’importanza della resurrezione in questo parallelo: il nuovo Adamo è il risuscitato. Ed è perché è risuscitato che è diventato il nuovo Adamo. Egli appartiene di conseguenza al mondo celeste dove può attirarci. Il versetto 47: “Il secondo uomo viene dal cielo„, non è un’allusione all’Incarnazione. Questo versetto deve leggersi nella prospettiva di Rm 8,11: “E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi „. La resurrezione ed il dono dello Spirito che è collegato ad essa, fonti di vita nuova per l’umanità: ecco la verità che San Paolo ha intenzione di sottolineare.
- La quarta intenzione di Paolo è un’intenzione spirituale pratica. Noi non porteremo soltanto l’immagine dell’Adamo celeste alla Parusia, ma possiamo già, come anticipazione, essere gente sublime, abitanti del cielo. Poiché la vita della grazia è già la gloria del cielo: la Parusia sarà soltanto la rivelazione di questo stato invisibile ma reale: “E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste „ (1 Cor 15,49.
Ecco le quattro intenzioni principali di San Paolo: intenzione di rimettere Cristo al suo posto, in un universalismo straordinario, connotato del resto da questo titolo “Adamo„; intenzione secondaria di polemica contro Filone; intenzione di ribadire che, se Cristo è questo “pneuma„ che vivifica, capace di conformarci a lui, lo è in quanto risuscitato; intenzione morale infine: stimolarci a vivere fin d’ora nello stato portato dal secondo Adamo, ad abitare il cielo.
2. L’epistola ai Romani (5, 12-21).
Riguardo al testo precedente, ricordiamo che l’occasione era una controversia sulla resurrezione, ma, parlandoci, Paolo (che fa una ricapitolazione, come osserva san Giovanni Crisostomo) non aveva potuto impedire di evocare “per vie traverse„ tutta l’economia cristiana. In Romani 5, quest’economia cristiana è abbordata per sé stessa, nella sua ampiezza. Paolo vuole intraprendere una sintesi, una vasta relazione globale. Egli ne ha il tempo; è in un periodo di tranquillità. La seconda epistola ai Corinzi è stata appena scritta e, a Corinto, si sta godendo tre mesi di pace. Egli fa dei piani di viaggio (gli Atti ce ne parlano) e fa anche una messa a punto dottrinale: ci darà il quadro panoramico della storia della salvezza, un quadro che è in sostanza una meditazione sulla Scrittura. E, ciò che è notevole, non si vede emergere nessun testo preciso, tanto la Scrittura è diventata la sua carne ed il suo sangue (come sarà il caso di san Bernardo). Lui la conosce a memoria ed è capace di svelare il senso profondo della storia della salvezza.
È un teologo geniale che ci dà nella lettera ai Romani la sua sintesi di soteriologia, la sua sintesi sul mistero della nostra salvezza:
Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato… Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosé anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti. E nel caso del dono non è come nel caso di quel solo che ha peccato: il giudizio infatti viene da uno solo, ed è per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute, ed è per la giustificazione. Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo.
Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti. (Rm 5,12-19).
Non voglio “disquisire„ su questo testo, ma semplicemente indicarne il movimento:
a) Il “peso„ e lo “slancio„. Si tratta di confrontare due economie, l’economia che chiamerei “del peso„ e quella che chiamerei “dello slancio„? L’economia del “peso„, quella di Adamo; l’economia dello “slancio„, quella di Cristo. Esse sono tutte e due caratterizzate da una solidarietà e da una sorta di fecondità ecumeniche: voglio dire che tutti vi partecipano. Ma in senso opposto. La fecondità di Adamo è, se si può dire, la “fecondità „ del peccato (occorrerebbe quasi mettere: Peccato): noi assistiamo allo scatenarsi della potenza “Peccato„, che è dotata di un tipo d’esistenza reale, come nel Vecchio Testamento. Questa potenza è all’opera nell’umanità, è un orribile “peso„ che trascina tutti gli uomini e che è iniziato e messo in circolazione dal peccato primordiale di uno solo che ci costituisce tutti in modo misterioso solidali della sua colpa: il Peccato prende origine in Adamo.
A lato c’è l’economia dello “slancio„, rispetto alla quale l’altra era tipica in senso opposto. Anche là c’è una fecondità che deriva da un’unica fonte e fecondità “ecumenica„. Ma questo parallelismo è in realtà un parallelismo di superiorità perché la grazia è un contributo divino, mentre il peccato era di contributo diabolico. C’era il polo negativo, ecco ora l’umanità polarizzata positivamente. Il punto di partenza della ricostruzione era certamente più difficoltoso di quello della decadenza. Ma la grazia è un contributo divino: accanto ai numerosi peccati, c’è Dio all’opera in Cristo.
Ecco lo straordinario talento antitetico di Paolo che vuole elaborare uno schema di questo parallelismo il più perfetto possibile: Adamo fonte — Cristo fonte. Per lasciare ad Adamo il suo ruolo di fonte, egli non ha esaminato da dove venisse la potenza Peccato, ha depurato completamente la “fonte„, perché Adamo deve essere in contrasto perfetto e in esatto “repoussoir„ (9 bis) con Cristo: l’ombra di Adamo è su Cristo e la luce di Cristo illumina per contrasto la figura primitiva di Adamo. Non ci si sorprenda più di tanto: Paolo sapeva bene che Adamo non era solo, che il demonio era all’opera nel suo peccato (Cfr. “per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo„ Sap 2,24); ci sono anche presso di lui allusioni al ruolo di Eva (2 Cor 11,3): lui sapeva bene che lei era lì per qualche motivo (10). Lui sa il ruolo del demonio e sa il ruolo di Eva. Ma c’è nel suo parallelismo che sembra ignorare queste “pressioni„ subite da Adamo, qualcosa di arduo e di spontaneo che appartiene al “genere letterario„ che Paolo ha adottato: voleva presentarci in vigoroso contrasto queste due fonti, feconde diversamente, feconde in senso opposto, ma feconde per tutta la razza umana.
b) L’obbedienza di Cristo. Seconda caratteristica essenziale (si dovrebbe piuttosto dire esistenziale) è la definizione del nuovo Adamo (sempre in contrasto con il vecchio Adamo), partendo dal suo atteggiamento; ciò viene alla fine del resoconto (Rm 5,19). Il nuovo Adamo si definisce tramite la sua obbedienza e si oppone con ciò alla disobbedienza del suo “tipo„. Il cristianesimo primitivo è stato unanime nel vedere nell’obbedienza l’atteggiamento costante di Cristo a partire dalla sua entrata nel mondo (Eb 10,9). Egli viene per obbedire ed Eb 5,8 è particolarmente suggestivo in questo senso: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì „. La sua missione è una missione d’obbedienza: il quarto Vangelo ripete costantemente che Cristo è venuto a compiere gli ordini di suo Padre. Obbedienza di Cristo nell’agonia: “Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu„ (Mc 14,36). Obbedienza di Cristo sulla Croce: “Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!» „ (Gv 19,30).
Paolo coglie volentieri l’obbedienza di Cristo al suo più alto grado di perfezione, cioè sulla Croce (il testo seguente lo mostrerà): la Croce è il massimo dell’obbedienza, un momento in cui Cristo si manifesta interamente. Noi conosciamo questi momenti nelle nostre vite. Le occasioni d’eroismo non sono di tutti i giorni, ma ci sono dei momenti in cui ci si dona ed in cui ci si rivela a fondo. Per San Paolo, la vita di Cristo è centrata su quest’atto d’obbedienza della Croce. La vita di Adamo, secondo la Scrittura, è centrata sulla sua disobbedienza.
San Paolo aveva dunque due intenzioni: sottolineare ed illustrare con un contrasto la fecondità ecumenica di Cristo, fonte unica della salvezza, insistere in seguito sul segno distintivo della sua vita quaggiù, ricondotto all’unità dell’atto della Croce che è un atto d’obbedienza.
3. Filippesi 2,6-11.
Questo testo famoso è in tutte le testimonianze: “Si è umiliato, si è annientato, “svuotò„ sé stesso… Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome “. È l’epopea di Cristo: dal cielo all’annientamento; dell’annientamento all’esaltazione. L’epopea di Adamo la si indovina in filigrana, è come sottostante. Adamo, al contrario di Cristo, ha voluto elevarsi indebitamente, mentre era soltanto un uomo; di conseguenza è stato precipitato nella disgrazia. Questa prospettiva è quella di san Tommaso e di questo grande esegeta cattolico, di supposta simpatia giansenista del XVII° secolo, Estio (Willem Hessels van Est, 1542-1613. Ndt), che non si è molto impegnato come commentatore di San Paolo.
Cosa si può prendere in considerazione di questo testo? Il processo di auto-glorificazione del primo Adamo è opposto al processo di “povertà„ del secondo: “egli ha impoverito sé stesso„. Da ricco si è fatto “povero„. È tutta quest’idea dello “anawa„, della povertà spirituale, dell’apertura a Dio e dell’umiltà che trova là il suo significato. Ho quasi voglia di dire: è tutto il subconscio di Paolo che vi affiora. La sua vita non è stata forse una lotta per l’umiltà contro l’auto-glorificazione? Una parola ritorna continuamente presso di lui, è “glorificarsi„; la ripete incessantemente: “Non occorre glorificarsi, occorre glorificarsi nella Croce di Cristo„. Si direbbe un’ossessione presso di lui, un’ossessione da cui vuole liberarsi dispiegandola a gran giorno: non glorificarsi! È la testimonianza di un dramma… e di una vittoria, grazie a Cristo!
III. IL TEMA DEL “NUOVO UOMO„
Il tema del “nuovo uomo„ è una designazione concreta della natura umana rinnovata dall’influenza di Cristo che vivifica: noi siamo uniformati a Cristo risuscitato, siamo uomini nuovi. Mons. Cerfaux ha detto in modo splendido: “L’espressione uomo nuovo è una metamorfosi (In francese un “avatar”. Ndt) dell’espressione nuovo Adamo„. Cristo non è chiamato da nessuna parte in San Paolo il “nuovo uomo„: la prima volta che è nominato così è nelle epistole di sant’Ignazio d’Antiochia, non molto tempo dopo, è vero. Ma infine, Adamo vuole dire uomo. Questo tema del “nuovo uomo„ si colloca in tre sfere:
a) La sfera sacramentale. Il “nuovo uomo„ è formato nel battesimo
(Rm 6,6; Gal 6,15).
b) La sfera etica. La vera rinascita dell’uomo è ora garantita grazie a Cristo: questa rifusione messianica dell’uomo annunciata dai profeti che doveva consistere nell’infusione di un cuore nuovo, di uno spirito nuovo (Geremia — Ezechiele — Salmo 51). È l’influenza di Cristo che si spiegherà nell’uomo nuovo, o piuttosto che farà dispiegare nell’uomo nuovo l’immagine di Dio: “Vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo (uomo), che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato „ (Col 3,9-10) (11).
L’essenziale è di coincidere con il nuovo uomo che è in noi, con il Cristo in procinto di trasformarci. Come? L’epistola al Colossesi ce lo dice, come pure l’epistola agli Efesini: “Ora invece gettate via anche voi tutte queste cose: ira, animosità, cattiveria, insulti e discorsi osceni… vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo …„. (Col 3,8-11) (12). È il programma cristiano, il programma di questo Adamo ad immagine di Dio che noi realizziamo.
c) La sfera ecclesiastica. L’epistola agli Efesini (2, 14 ss) presenta bene quest’aspetto comunitario: le due parti dell’umanità, Giudei e pagani, formano un Uomo nuovo collettivo.
Così è tutto un programma di rinnovamento profondo che sta alla base dell’espressione “Nuovo Adamo„, “Nuovo uomo„. L’uomo biblico ha trovato in Cristo il suo modello, il suo appoggio, la sua perfezione.

NOTE SUL SITO

2.4 IL PERDONO IN SAN PAOL0 (STRALCIO DI UNA TESI DI LAUREA)

http://www.collevalenza.it/Riviste/2003/Riv0803/Riv0803_03.htm

2.4 IL PERDONO IN SAN PAOL0 (STRALCIO DI UNA TESI DI LAUREA)

P. Sante Pessot fam

Il perdono e il suo valore educativo

Estratto dalla Tesi di Laurea presso la UNIVERSITA’ PONTIFICIA SALESIANA

Facoltà di Teologia – Dipartimento di Pastorale Giovanile e Catechetica

Roma 2002

A questo punto del nostro lavoro riteniamo opportuno inserire un capitolo riguardante la riflessione paolina sul perdono. Essa ci dà uno sguardo d’insieme sulla riflessione che hanno fatto la prime comunità sul perdono e le modalità di realizzarlo. Notiamo innanzitutto che il termine perdono non è molto presente nel vocabolario paolino. Paolo usa il verbo aphie¯mi – il verbo usato normalmente nel Nuovo Testamento per “perdonare” – solo cinque volte, e in quattro di esse non significa perdonare ma “rilasciare”, solo due volte il sostantivo aphesis, mentre più usato è il verbo charizomai, che significa dare liberamente e gratuitamente o rimettere, perdonare, scusare. Probabilmente l’uso di questo termine è dovuto alla sua assonanza con il concetto di grazia charis, e perché egli fa riferimento, soprattutto alle persone, piuttosto che ai peccati. A proposito di un individuo castigato, scrive ai Corinzi, che quell’uomo è stato punito abbastanza e che ora dovreste perdonarlo e confortarlo (cfr.: 2Cor 2,6-7). A mano a mano che la sua argomentazione procede Paolo afferma che il perdono è parte fondamentale della vita cristiana. “A chi voi perdonate perdono anch’io; perché quello che io ho perdonato, se ebbi qualcosa da perdonare, l’ho fatto per voi davanti a Cristo” (2Cor 2,10). È nello stile del mondo alimentare il rancore per le offese ricevute, è invece nello stile di coloro che sono stati perdonati da Cristo, perdonare con liberalità le offese ricevute. La motivazione di un simile comportamento è enunciata esplicitamente da Paolo, quando scrive ai Colossesi: “Perdonatevi scambievolmente… come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi” (Col 3,13). Paolo esprime lo stesso concetto in Efesini: “perdonatevi a vicenda, come Dio ha perdonato a voi ” (Ef 4,31). In questo caso si sottolinea l’importanza dell’opera di Cristo, per il processo del perdono. Il perdono in Cristo significa perdono a causa di quello che Cristo è e fa(1). C’è un altro testo in cui Paolo usa il verbo charizomai, ma lo fa in riferimento al perdono divino. L’apostolo parla dello stato di morte dei peccatori e prosegue: “Con lui (Cristo) Dio ha dato vita anche a voi, …perdonandoci tutti i peccati” (Col 2,13) Ciò significa chiaramente che è l’opera di Cristo che causa il perdono, anche se non ci viene detto in che maniera. Infine Paolo fa molto uso del concetto di remissione. Lo considera tuttavia importante e parla di Cristo “nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia” (Ef 1,7). Così si vede che il perdono dei peccati deriva dalla morte espiatrice del salvatore.
Per Paolo, dunque, il perdono è importante, anche se non vi fa spesso riferimento con una terminologia fissa. Ma lo considera tanto importante che, grazie a quello che Cristo ha fatto, i peccati dei credenti non sono più messi a loro carico. E lo considera tanto importante che i credenti devono tradurlo nel loro modo di vivere, perdonando le offese che ricevono dagli altri. Cosa ancora più importante, il perdono rivela qualche elemento del carattere di Dio: è un Dio che manda suo Figlio a morire su una croce per realizzare il perdono. Il che significa lo stabilirsi di una calda relazione personale con il Dio che perdona(2).
Non si può dire che Paolo trascuri questo tema, ma sicuramente ne tratta meno di quanto ci si potrebbe aspettare. Diversamente, invece, per quanto riguarda il tema della riconciliazione, che noi abbiamo detto essere una conseguenza del perdono. L’ espressione migliore che san Paolo usa per esprimere la redenzione operata da Gesù Cristo e dalla sua morte in croce è costituita dalla parola “riconciliazione”, nella quale l’iniziativa parte da Dio, ma nello stesso tempo, l’uomo, prigioniero di se stesso e della propria colpa, è invitato ad accettare l’offerta divina di amore e a riconciliarsi con Dio. Dio non ha bisogno di riconciliarsi con l’uomo. Infatti egli è sempre il Dio che ama e che propone la riconciliazione. Non è stato Dio ad allontanarsi dall’uomo: è stato invece l’uomo ad allontanarsi da Dio. Nella morte di Gesù, Dio ha invitato gli uomini ad abbandonare il loro distacco e il loro isolamento e a rivolgersi di nuovo all’amore e quindi anche alla vita, guardando all’amore infinito di Dio, reso visibile sulla croce. È Dio che agisce. Tuttavia, la riconciliazione non si limita a ricostituire in modo puramente esteriore la comunità con noi: nella riconciliazione Dio trasforma e rinnova l’uomo nella sua totalità. San Paolo ce lo dimostra nel famoso brano della seconda Lettera ai Corinzi: “Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con se mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione” (2Cor 5,17-18).
E così che san Paolo descrive la situazione in 2Cor 5,19-20: “È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”. Il messaggio cristiano è essenzialmente servizio della riconciliazione e annuncio della riconciliazione. È la supplica insistente agli uomini: “Rinunciate alla vostra vita senza senso, abbandonate la vostra chiusura e il vostro accecamento e rivolgetevi a Dio, che vi ha dimostrato il suo amore in Cristo e che oggi vi invita a rinnovarvi grazie al suo amore”.
Paolo ha interpretato il proprio ruolo come quello di servitore della riconciliazione. Egli implora un atteggiamento di riconciliazione da parte dei Corinzi, che avevano litigato tra di loro e con lui. E’ nella riconciliazione che si ha la prova se essi considerano seriamente Cristo e il suo amore, così come è stato loro rivelato nella sua morte in croce(3).

2.5 Conclusione
A questo punto vorremmo dare una sintesi di quanto emerso, nel corso di questa seconda parte del nostro capitolo, riguardante la radicale novità del perdono di Cristo.
Cristo ha descritto il perdono come l’elemento centrale della comunità cristiana, come si nota chiaramente nella sua formulazione del Padre Nostro. In esso l’autenticità della nostra preghiera viene subordinata alla nostra disponibilità a perdonarci a vicenda. “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori… Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,12.14-15).
La disponibilità a perdonare richiesta dal Padre non è un tratto felice del nostro carattere o una disposizione psicologica acquisita. Al cuore c’è un atteggiamento religioso radicato di un Dio sommamente capace di perdonare. Per questo il Nuovo Testamento continua a rapportare il nostro perdono al perdono di Dio. Ora il nostro perdono non è più una condizione per meritare il perdono di Dio, è un paradigma per esso o piuttosto qualcosa di concomitante ad esso. Ma nel suo commento alla preghiera, che segue immediatamente, Matteo parla specificamente della richiesta di perdono, ponendola in rilievo, e la riformula “se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; me se voi non perdonerete agli uomini neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14-15). Invece nella lettera ai Colossesi capovolge il discorso. Essa fa del perdono la conseguenza del perdono che abbiamo ricevuto da Gesù, il cui perdonare deve essere un modello per noi: “Anche voi dovete perdonare come il Signore vi ha perdonato” (Col 3,13). Ci chiediamo quindi: Il perdono umano e il perdono divino come si rapportano?
Le formulazioni del Nuovo Testamento alquanto confuse e piuttosto conflittuali, indicano, credo un rapporto di mutua interdipendenza dialettica radicato nel perdono illimitato di Dio.
Ogni perdono, come ogni Amore, di cui il perdono è una forma particolare, ha origine da Dio, che ha amato e ci ha perdonato per primo (1Gv 4,7.21; Lc 7,47; Mt 18,23-35). Quando amiamo (e perdoniamo) il prossimo, l’amore di Dio (e il suo perdono) è reso perfetto in noi. La nostra esperienza di amare e di perdonare è aumentata e intensificata. Se ci rifiutassimo di perdonare il prossimo, non potremmo più fare esperienza dell’amore di Dio, non perché Dio smetta di amare o di perdonare (non lo può fare perché è l’amore perdonante), ma perché la nostra mancata risposta al suo perdono, ci chiude al suo perdono e al suo amore. Il perdono umano, che ha origine dall’esperienza perdonante di Dio, si nutre di questa esperienza, creando nuove possibilità di perdono. Il perdono umano è così, sia una conseguenza del nostro essere perdonati da Dio, sia una condizione per esso(4).
Perdonarci a vicenda non è dover compiere una prestazione eccessiva, che Gesù ci domanda, ma è invece espressione della riconoscenza, per il perdono infinito che riceviamo da Dio. In questa parabola Gesù doveva mettere a confronto, in modo così chiaro il debito infinito, che abbiamo nei confronti di Dio e quel poco di cui noi siamo debitori gli uni verso gli altri, per mostrarci che non vi è motivo per non perdonarci a vicenda. Non potremo mai rifondere a Dio ciò che gli dobbiamo.
Giorno dopo giorno diventiamo debitori nei confronti di Dio. Ci ribelliamo a lui, lo dimentichiamo e ci rivolgiamo ad altri dèi: il denaro, la fama, la carriera. E nonostante tutto Dio non ci abbandona. Chi vive il perdono di Dio con il cuore non può non perdonare chi lo ha ferito. Il perdono non è per lui una richiesta da adempiere per obbligo, ma una risposta al perdono vissuto in prima persona.
Secondo Matteo il perdono è l’espressione concreta di una comunità umana e cristiana. Senza perdono si ha soltanto un atteggiamento di calcolo reciproco, si ha un circolo vizioso di vendetta e risposta alla vendetta. Così anche la Lettera ai Colossesi interpreta il perdono come il fondamento della comunità cristiana: “Sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi” (Col 3,13). Il perdono che i cristiani hanno ricevuto da Cristo deve plasmare anche la loro vita in comune. Soltanto in questo modo possono amarsi come Cristo li ha amati: “Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione” (Col 3,14). L’amore unisce in noi le diverse parti, facendo di noi persone che possono accettare completamente se stesse. E collega i gruppi in contrasto all’interno di una comunità portandoli all’unità. Non esiste amore senza perdono.
E non può esistere una comunità se i suoi componenti non sono sempre disposti a perdonarsi vicendevolmente.
In base alla prospettiva cristiana in cui ci muoviamo, l’esperienza del perdono si muove su due ambiti: perdonare è prima di tutto un dono: il fatto del perdono ci rivela Dio come evento di misericordia. Inoltre perdonare comporta un impegno: i gesti di perdono si attualizzano e concretizzano nella chiesa, come testimone di perdono e al servizio della riconciliazione(5).
Gesù scatena la dinamica del processo di conversione. L’esperienza del perdono è un’esperienza dinamica. Quando Gesù perdona, mobilita la persona, suscita in essa un ritorno all’autenticità nell’universo relazionale dell’uomo con se stesso, con gli altri uomini, col mondo e con Dio. Ci sembra di poter dire che Gesù punta su una nuova logica interrelazionale: L’orizzonte valutativo in cui Gesù si muove, fa piazza pulita dei presupposti della normale logica interumana. Molte volte risulta sconcertante. Gesù non viene compreso: la logica che regola le relazioni interumane si regge con la legge del più forte o, nel migliore dei casi, con la legge della reciprocità, dell’equivalenza, come norma di giustizia. Gesù invece, ci guida con una logica di sovrabbondanza. Si pone con ciò in risalto che il suo modo di essere giusto, consiste nella misericordia.

1 MORRIS L., “Perdono” in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, Cinisello Balsamo, Paoline, 1999, pp. 1171-1173 [a cura di Romano Penna].
2 Ibidem, 173.
3 GRUN, L’arte…, 19-21.
4PRABHU G. – S., “Come noi perdoniamo i nostri debitori”, in “Concilium” 2 (1986), pp.249.
5RUBIO MIGUEL, La virtù cristiana del perdono, in “Concilium” (1986) , p. 107.

PAOLO E LE ETÀ DELLA VITA

https://letterepaoline.net/2008/10/03/le-eta-della-vita/

PAOLO E LE ETÀ DELLA VITA

[Tutto il mondo è teatro. / E gli uomini e le donne puri istrioni tutti: / hanno le loro entrate e uscite di scena, / e ognuno fa diverse parti nella vita, / che è un dramma in sette atti] (William Shakespeare, Come vi pare, atto II, scena 7; trad. it. di Cesare Vico Lodovici).

Chi non ricorda questi versi immortali del grande Shakespeare? Nella sua pregevole Vita di Paolo, l’esegeta domenicano Jerome Murphy O’Connor parte proprio da qui per calcolare, almeno approssimativamente, la data di nascita dell’apostolo. Paolo, infatti, nella lettera inviata all’amico Filemone definisce se stesso come presbytes, cioè “anziano”: ma a quale età poteva corrispondere, nel I secolo, questa parola? Murphy O’Connor, per risolvere il problema, si appoggia alla testimonianza del filosofo ebreo Filone di Alessandria, contemporaneo di Paolo, che distingue le età nella vita dell’uomo sulla base del numero 7 (secondo venerande tradizioni che giungeranno appunto fino a Shakespeare). Questo è il lungo passo citato dallo studioso, tratto dal De opificio mundi di Filone: «[Le] età dell’uomo […], dall’infanzia alla vecchiaia, si misurano nel modo seguente: durante i primi sette anni si ha lo spuntare dei denti; nel secondo settennio cade il momento della capacità procreativa [dagli 8 ai 14 anni]; nel terzo la crescita della barba [15-21] e nel quarto l’aumento della forza fisica [22-28]; nel quinto il tempo delle nozze [29-35]; nel sesto raggiunge il suo culmine la capacità di comprensione [36-42]; nel settimo si verifica il miglioramento e lo sviluppo insieme dell’intelletto e della parola [43-49]; nell’ottavo il perfezionamento dell’uno e dell’altra [50-56]; nel nono subentrano calma e pacatezza perché ormai le passioni si sono di molto pacate [57-63]; nel decimo infine giunge il termine desiderabile della vita, allorché gli organi del corpo sono ancora in buone condizioni: una lunga vecchiaia infatti di solito li fiacca e li distrugge l’uno dopo l’altro» (Opif., XXXV, § 103). Converrebbe a questo punto citare il famoso versetto dei Salmi (90,10), secondo il quale «Gli anni della nostra vita sono in sé settanta, ottanta per i più robusti», ma sarebbe troppo banale, e Filone infatti non lo fa. Il suo discorso prosegue invece con la citazione di alcuni versi del greco Solone (635-560 a.C.), e si conclude con alcune parole attribuite ad Ippocrate: «Queste età dell’uomo le descrisse anche Solone, il legislatore d’Atene, nei seguenti versi elegiaci: Il bimbo piccolino, cui ancora infante è spuntata la corona dei denti, li perde entro i primi sette anni di vita; quando poi il dio ha fatto scorrere il secondo settennio, egli manifesta i segni della pubertà incipiente; nel terzo settennio, mentre le sue membra continuano a crescere, il mento gli si copre di barba e il suo volto perde floridezza; nel quarto settennio ognuno eccelle in forza, ed è in questa che gli uomini riconoscono i segni del valore virile; nel quinto è tempo che l’uomo pensi alle nozze e cerchi una discendenza di figli per il futuro; nel sesto la mente dell’uomo giunge alla formazione piena ed egli non aspira più come prima a realizzare opere impossibili; nel settimo e ottavo settennio è di estrema eccellenza quanto a intelletto e a parola, e questi due periodi assommano a quattordici anni; nel nono l’uomo ha ancora intatta la forza, ma si fanno più deboli in lui, di fronte a manifestazioni di grande virtù, la parola e il sapere. Se poi qualcuno, compiuta la vita entro i giusti limiti, giunge al decimo settennio, il destino di morte non lo coglie fuori tempo. Solone dunque suddivide la vita umana nei citati dieci settenni. Il medico [Pseudo] Ippocrate, invece, dice che le età sono sette: del bambino, del fanciullo, dell’adolecente, dell’uomo giovane, dell’uomo maturo, dell’anziano, del vecchio, e che queste età si misurano per periodi di sette anni, ma non in successione continua. Sono queste le sue parole: “Nella natura dell’uomo vi sono sette periodi, che io chiamo età, quelle del bambino, del fanciullo, dell’adolescente, dell’uomo giovane, dell’uomo maturo, dell’anziano, del vecchio. Si è bambini [il termine usato è paidion] fino alla caduta dei denti, a sette anni; fanciulli [pais] fino all’emissione del seme, a due volte sette anni; adolescenti [meirakion] fino a che il mento si copre di barba, a tre volte sette anni; giovani [neaniskos] fino alla crescita completa di tutto il corpo, a quattro volte sette anni; uomini maturi [aner] fino a quarantanove anni, cioè a sette volte sette anni; anziani [presbytes] fino a cinquntasei, ossia a sette volte otto anni; da quel momento si è vecchi [geron]”» (Opif., XXXV-XXXVI, §§ 104-105, trad. Clara Kraus Reggiani). La scansione delle età riportata da Filone e dalle sue auctoritates è certamente “ideale”, basata tutta com’è sul valore del numero 7. Per ottenere un quadro forse più aderente alla realtà dei circoli farisaici cui appartenne Paolo, ma cronologicamente posteriore a lui, ci si può rifare allora ai Pirqe’ Avot (le “Massime dei Padri”), il trattato che apre il corpus rabbinico della Mishnah, codificato tra la fine del II secolo e l’inizio del III. In esso (al paragrafo 5,27) si stabilisce il percorso ordinario dell’educazione farisaica, che comprendeva all’età di cinque anni lo studio delle Scritture, a dieci lo studio della legge orale, a tredici l’accettazione dei precetti (con l’ingresso ufficiale nell’Alleanza: il bar mitzvah); a quindici la discussione sopra la Mishnah, a diciotto il tempo buono per sposarsi, a venti quello per procurarsi da vivere, e così via, fino a considerare il traguardo dei sessanta anni (l’anzianità: ziqnah), dei settanta (quando spuntano i capelli grigi), degli ottanta (età di rinnovato vigore), dei novanta (età adatta «per ritirarsi») e persino dei cento (in cui «si è come già morti e fuori dal mondo»). Dalla narrazione degli Atti degli apostoli apprendiamo che, fra le altre cose, durante la lapidazione del proto-martire Stefano, avvenuta al più tardi allorché Marcello era procuratore della Giudea (anni 36-37), «i testimoni deposero le loro vesti ai piedi di un giovane (neanías) chiamato Saulo» (At 7,58): ma è un’indicazione che Murphy O’Connor non considera, preferendo appoggiarsi esclusivamente ai dati offerti o desumibili dall’epistolario paolino. Così, tutto dipende dalla sua datazione della lettera a Filemone: se la stesura di questo testo viene precocemente stabilita al 53, allora è da qui che andranno detratti gli anni che facevano di un uomo un presbytes, e che stando alle informazioni di Filone risultavano tra i 50 e i 56. Ma è proprio una tale datazione precoce, proposta da Murphy O’Connor, a creare più difficoltà di quante ne potrebbe risolvere.

SAN PAOLO: ANTESIGNANO DELLO SPIRITO EUROPEO?

http://www.filosofico.net/sanpaolocatalano.htm

SAN PAOLO: ANTESIGNANO DELLO SPIRITO EUROPEO?  

di Emanuela Catalano  

La seguente disamina verterà sulle relazioni esistenti tra le origini del primissimo Cristianesimo, in particolar modo tra il suo sistematizzatore Saulo di Tarso e l’odierno processo di unificazione dell’Europa. Il tema apparentemente non presenta immediati punti di contatto con l’attualità; se però riflettiamo sullo sforzo paolino di rendere universale quella che fino ad allora era una religione marcatamente nazionalista ecco che iniziano a delinearsi alcuni spunti di riflessione utili ad una analisi approfondita delle radici e dello spirito che da sempre ha animato i nostri legislatori e costituzionalisti. Il richiamo a San Paolo diviene perciò imprescindibile, un punto di riferimento affascinante ed ineludibile al tempo stesso per chiunque voglia interrogarsi sul senso del nostro tempo. Qual è il nesso dunque, il collegamento fra San Paolo, le sue Lettere[1], la sua predicazione ai gentili, la sua missione evangelizzatrice in poche parole e l’attuale processo di integrazione europea, nonché la stessa identità europea? Vedremo come lo sforzo intrapreso da Paolo, attuatosi fra l’altro proprio nell’area soggetta all’odierno processo di riunificazione, sia in realtà all’origine della costituzione di quell’humus socio-culturale comune che è alla base dell’implicito pensiero collettivo dell’Europa. Paolo è di una lungimiranza straordinaria se consideriamo il fatto che questioni da lui trattate duemila anni or sono si apprestano a tornare di grande attualità, non solo sotto il profilo teologico ma anche filosofico-politico. Egli fu un uomo del suo tempo, abituato a muoversi con grande libertà all’interno delle province dell’Impero romano; ebreo della diaspora, era orgoglioso di essere cittadino romano. Emerge il ritratto di un uomo colto, che parla ben quattro lingue[2] e che si dichiara pronto a spostarsi per terra e per mare, affermando a più riprese di volersi spingere fino alle estremità della Terra allora conosciuta per adempiere al disegno che Dio aveva tracciato su di lui: il suo è già un universalismo interiore, oltre che geografico. Paolo prende le mosse da Israele per estendere il suo discorso in direzione di una prospettiva più ampia e di ben più vasto raggio. Certamente non avrebbe mai potuto immaginare che il tempo dell’attesa escatologica, così centrale nella semantica del primo Cristianesimo, si potesse protrarre fino all’inverosimile: egli credeva davvero che il tempo stesse per terminare[3]. All’interno dell’excursus paolino, si passa così dall’iniziale elezione di Israele, da un nazionalismo settario, ad un allargamento ai pagani sino a comprendere l’intero genere umano, dal momento che il Messia di cui egli recava notizia non era venuto a dividere ulteriormente bensì ad abbattere tutti i muri della separazione, avendo Dio stesso elargito la sua promessa di salvezza eterna a tutte le genti. Leggiamo nelle Scritture: «Frattanto questo Vangelo del regno sarà annunziato in tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti; e allora verrà la fine» (Mt 24, 14)[4]. In poche parole, chiunque avesse avuto fede in Lui, nella sua morte e resurrezione, a prescindere dalle differenze di razza, di sesso, lingua, cultura, credo religioso, usi e costumi, sarebbe stato salvato: «Dio vi scelse come primizia per la salvezza attraverso la santificazione dello Spirito e la fede della verità» (II Tes 2, 13)[5]. Da qui, si comprende anche la necessità impellente di vigilare costantemente – si pensi all’importanza che il tema della veglia, dell’attesa riveste in certi autori, sto pensando in particolare allo scrittore ceco Franz Kafka – o ancora, a Pascal, che afferma che il “Cristo è in agonia fino alla fine del mondo e che in questo frattempo non dobbiamo dormire”[6]. Il dramma dell’attesa è costituito dal fatto che non sappiamo quando e dove il Messia verrà, anzi a complicare le cose – per citare Benjamin – “ogni istante diviene quella piccola porta attraverso la quale il Messia potrà entrare”[7], dal momento che Egli verrà “come un ladro nella notte” (II Tes 5, 2). Che senso aveva promettere la salvezza ad un popolo – innalzarlo al rango di popolo eletto, modello per le altre nazioni – per poi assistere al suo annientamento nelle camere a gas? Fin dagli esordi della sua storia, Israele fa sfoggio di un privilegio, il cosiddetto “vanto” dell’elezione, condizione della sua “separatezza” (e dunque perdizione?) essendo nota la tendenza degli ebrei a vivere isolati dagli altri popoli. La loro Torah costituisce infatti una siepe, una parete divisoria, finalizzata ad evitare qualsiasi tipo di contaminazione da altri elementi, considerati estranei o comunque “impuri”[8]. Ed è proprio in virtù di questa separatezza che Paolo va a predicare fra i gentili, i pagani per intenderci (etnos in greco), elargendo il dono della salvezza a tutta l’umanità. È noto che il giudaismo, a differenza del cristianesimo, non nasce e si sviluppa come fenomeno di proselitismo. Leggiamo in Mt 10, 15: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele». È soltanto in un secondo momento che prevarrà l’opinione secondo la quale gli apostoli, illuminati dallo Spirito Santo, sarebbero stati testimoni dell’unico Dio «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della Terra» (At 1, 8). E ancora: «Sia, dunque, noto a voi che questa salvezza di Dio viene ora rivolta ai pagani ed essi l’ascolteranno» (At 28, 28). Gli ebrei, colpevoli di non aver riconosciuto in Gesù il Messia che tanto attendevano, sarebbero forse stati ulteriormente messi alla prova da Dio (mi riferisco alla prima terribile prova cui fu sottoposto il patriarca Abramo)? Una prova che aveva come obiettivo quello di suscitare la gelosia di Israele. Oppure era necessario che il “resto” di cui parla Isaia fosse sacrificato in nome della redenzione degli altri, fino alla successiva, perentoria affermazione, secondo la quale “tutto Israele sarà salvato”? ma perché ciò accadesse era prima necessario che tutti rientrassero all’interno del disegno soteriologico finale, che tutti i popoli venissero cioè  ricompresi nell’imperscrutabile piano divino e che la salvezza fosse estesa loro senza distinzioni. Ecco l’elemento sovversivo della predicazione di Paolo: era davvero rivoluzionario per un ebreo di quel tempo pensare di poter diffondere la lieta novella fuori dai ristretti confini dell’ebraismo, di varcare le rigide mura del separatismo ebraico. Una delle peculiarità di Israele era proprio il vanto di cui dicevamo, il fatto che, in quanto popolo eletto, ‘scelto’ direttamente da Dio, gli ebrei si reputassero gli unici detentori del sapere e della rivelazione e per tale motivo i soli destinatari della promessa di salvezza escatologica finale. Paolo invece credeva si dovesse annunciare la buona novella anche ai goyim, e per questo andò a predicare il Vangelo in quelle che oggi sono la Macedonia, la Turchia e la Grecia, manifestando più volte l’intimo desiderio di «spingersi fino alle estremità della terra allora conosciuta» (At 13, 47), nella convinzione che anche coloro che non erano ebrei sarebbero diventati membri del nuovo Israele, anche se non osservavano rigorosamente la legge di Mosè. Per l’ebraismo questo punto costituisce l’aspetto fondamentale e dirimente della questione: per questa ragione diventa essenziale comprendere come Paolo operò ed effettuò questo passaggio, al prezzo della sua stessa vita, divenendo l’architrave del Cristianesimo nascente. Egli prende le mosse dalla circoncisione, rituale basilare dell’ebraismo ma in Deut 10, 16 compare per la prima volta l’espressione «circoncisione del cuore», che sarà ripresa a sua volta dal profeta Geremia: «Dentro di loro pianterò la mia Legge, scrivendola nei loro cuori» (Ger 31, 33). Vediamo come questa pratica, da semplice segno esteriore, tangibile, della carne diventi simbolo di qualcosa di “interiore”, di un’alleanza che scaturisce dall’intimità del singolo[9]. Per Paolo «non si è giudei manifesti nella carne, e la circoncisione non è quella manifesta nella carne. Si è giudei nel segreto, e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito, non nella lettera» (Rom 2, 28-29). Un simile modo di pensare metteva chiaramente in discussione quello che era stato uno dei capisaldi della religione ebraica e destituiva di senso la principale motivazione del loro vanto, il loro esclusivismo, frutto del fatto che gli ebrei si considerassero il popolo eletto par excellence – poiché Dio aveva scelto proprio loro, un loro avo, per stipulare il suo patto – essendo essi gli unici custodi della promessa della salvezza eterna. Paolo non mancherà di polemizzare contro questo vanto, proprio a partire dai suoi discorsi sulla circoncisione, richiamandosi a quanto scritto: «Il Signore vi ha amati e vi ha scelti, non perché eravate un popolo più numeroso di tutti gli altri, anzi siete inferiori a tanti altri come numero; ma è per l’amore che vi porta e per mantenere il giuramento fatto ai vostri padri» (Deut 7, 7). La conclusione che avrebbe tratto da questo suo insolito modo di pensare riguarda il fatto che i gentili, convertiti al nuovo messaggio evangelico, non avrebbero più necessitato della circoncisione, dal momento che «la circoncisione non è nulla, né il prepuzio: bensì la nuova creatura» (Gal 6, 15). È di conseguenza in Abramo che Paolo riconosce il vero progenitore del popolo ebraico. Al di là del racconto biblico e della sua storia, notiamo come egli, nel corso del suo ragionamento, ignori i primi versetti e concentri piuttosto la sua attenzione su un passo immediatamente antecedente a quello della promessa: «Abramo credette a Dio, e ciò gli fu accreditato a giustizia» (Gen 15, 6). Ecco il momento decisivo in cui Jahweh stabilisce il suo patto di alleanza con Abramo. La circoncisione era per gli ebrei il segno tangibile nella carne del patto con il loro Dio e chi non era circonciso, come abbiamo visto, non poteva appartenere al popolo di Israele. Il passo in questione è di una intensità e di una difficoltà ermeneutica senza pari: quando fu considerato giusto Abramo? Secondo Paolo, questo accadde prima della rivelazione della Legge, che cronologicamente viene fatta risalire a circa quattrocento anni dopo questi avvenimenti con Mosè, sul Monte Sinai. Abramo ebbe fede, credette nell’impossibile[10], «e credeva che Egli fosse giusto con lui», poiché si ricordava della promessa che Egli gli aveva fatto: «In te tutti i gentili saranno benedetti» (Gen 18, 18)[11]. Paolo può dirsi convinto che «un patto già confermato da Dio non viene infirmato dalla Legge sopraggiunta dopo quattrocento anni, al punto da dissolvere la promessa stessa» (Gal 3, 18). La circoncisione comportava tra l’altro, per chi decideva di sottoporsi ad essa, una totale sottomissione e l’impegno di osservare ‘tutta’ la Torah. Il presupposto sconcertante è che non esiste in realtà un solo uomo in grado di osservare la Legge in tutte le sue disposizioni, «nemmeno i circoncisi osservano la Legge» (Gal 6, 13); ciascuno perciò è colpevole, poiché non esiste un solo individuo che abbia fatto tutto ciò che è prescritto dalla Legge. Viene da domandarsi allora per quale motivo Dio avesse voluto dare queste disposizioni all’uomo, conscio del fatto che egli non sarebbe stato mai in grado di corrispondere pienamente ad esse. Leggiamo in Deut 27, 26 l’opinione secondo la quale chi trasgredisce anche uno solo dei precetti della Torah è maledetto[12]. Paolo stesso confessava di non essere stato in grado, nemmeno quando era uno zelante fariseo, di osservare ‘tutta’ la Legge. Da tutto questo discorso è possibile evincere il carattere assolutamente transitorio della legge, e la conseguente portata universale della predicazione del Messia, considerato il fine ma anche la fine della legge: egli giunge non per invalidare la legge, abolirla, inficiarla, bensì per “sospenderla”[13], completandola ed ampliandola. Diventava pertanto necessario passare dall’osservanza scrupolosa dei precetti ad una nuova legge, che è quella della fede nel Messia Gesù venuto a predicare l’amore universale. Ed è precisamente in virtù di tale interpretazione che Paolo poté tracciare una nuova storia della salvezza, la cui dimensione soteriologica si estendesse a tutti, senza distinzione alcuna di sesso o di razza. Non la nascita dunque ma la morte e la resurrezione del Cristo costituiscono la chiave di volta della prospettiva universalistica dal momento che essa – la resurrezione – è promessa a tutti, senza eccezione. Chiunque crederà in questo evento sarà salvato, non trattandosi più di una questione di popolo, di sangue, di razza bensì di FEDE per l’appunto e di Amore. Da qui la sostituzione della vecchia legge con quella nuova. La fedeltà ad un simile evento avrebbe eliminato i particolarismi settari e comunitari; l’enunciato “Cristo è risorto” – un evento singolare per intenderci – concerne dunque le leggi dell’universalità in generale. Un pensiero universale, partendo dalla proliferazione mondana delle alterità, produce come risultato la scomparsa delle categorie di ebreo, greco, uomo, donna, schiavo, libero, ecc. L’universale è lo Stesso che sussume in sé le varie alterità e non nega le particolarità che anzi continuano a sussistere. Ogni particolarità è un conformismo: si tratta in definitiva non di fuggire il mondo ma di convivere con esso (vedi 1 Cor 9, 19 sgg). Le differenze non si possono negare ma soltanto trascendere, attraverso la benevolenza nei riguardi di costumi ed opinioni diverse dalle proprie. In Rom 14, 1, si parla di “discernimento delle differenze” – una filosofia può contestare le varie opinioni, la fede no ed è proprio questo che la caratterizza e la contraddistingue. Mentre in Rom 2, 10, leggiamo un’espressione utile a smentire chiunque abbia tacciato Paolo di presunto antisemitismo: “per il giudeo prima”, in essa notiamo la posizione primaria dell’ebreo nel movimento che attraversa tutte le differenze per costruire l’universale. In Abramo vi è così un’anticipazione di ciò che potremmo definire universalismo del sito ebraico, dal momento che la sua promessa si riferisce a tutti i gentili e non alla sola discendenza ebraica. Le differenze dunque esistono, non si possono negare ma sono indifferenti, la vera universalità le fa venir meno ed esse possono accogliere la verità che le attraversa, sottraendole ad ogni forma di particolarismo e fondando per la prima volta nella storia la possibilità di una predicazione universale (1 Cor 14, 7). Gli uomini non dovranno più sentirsi apolidi quindi, senza patria ma figli del medesimo spirito europeo. Tutti siamo chiamati oggi a rispondere al compito che ci attende, contribuendo attivamente alla creazione e consolidazione di questo spirito, al rafforzamento dei principi della Rivoluzione francese, all’abbattimento delle frontiere[14], allo sviluppo di “nuovi” valori che, figli laici di quelli ereditati dalla bimillenaria riflessione cristiana, siano capaci di trarre l’Europa, e l’Occidente in genere, dalla crisi nichilistica oggi in atto. Urge, ancora, la necessità di partecipare ai cambiamenti che da anni ormai interessano il mondo nel quale viviamo, cooperando alla crescita ”morale” del nostro continente affinché ciascuno di noi possa sentirsi oltre che italiano, francese, rumeno, bulgaro, greco, anche e soprattutto eticamente europeo. È, perciò, necessario un mutamento delle coscienze: ed è Gadamer a ricordarci che «è probabilmente un privilegio dell’Europa il fatto di aver saputo e dovuto imparare, più di altri paesi, a convivere con la diversità»[15]. Il progetto di unificare popoli tra loro non omogenei è un esperimento unico nel suo genere. Preservare le differenze nel pieno rispetto della loro dignità significa mantenere aperti ampi varchi di libertà, perché l’Europa è una e molte al contempo, in un nuovo intendimento della sua identità e del senso di appartenenza. È dunque auspicabile che, alla raggiunta unità politica di questa compagine di stati, si aggiunga presto un’unità spirituale, compito ben più arduo in quanto coinvolge l’essere umano nella sua essenza più intima. Il limes della vecchia Europa è andato allargandosi ed ampliandosi, fino a lambire gli ultimi stati appartenenti all’ex blocco sovietico. Con l’ingresso di Bulgaria e Romania infatti il processo di integrazione si fa sempre più concreto e realizzabile. L’Europa dei ventisette è oramai una realtà di fatto; resta da verificare il processo nella fattispecie concreta ed effettualità storica, il che dipende dalle condizioni nelle quali versano i singoli paesi. Nel preambolo del Trattato costituzionale[16] sono delineati il ruolo centrale della Costituzione, già espressa dallo storico greco Tucidide e l’idea secondo la quale l’Europa sarebbe portatrice di valori universali, quali la civiltà, l’umanesimo, l’eguaglianza, la libertà, il rispetto dei vari credo religiosi, la possibilità di professare liberamente la propria fede nonché la rilevanza dell’immenso patrimonio culturale, artistico e umanistico. In particolare, si legge che la Costituzione si ispira alle “eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello stato di diritto”. I legislatori si dicono convinti che “l’Europa ormai riunificata dopo esperienze dolorose, intende avanzare sulla via della civiltà, del progresso e della prosperità per il bene di tutti i suoi abitanti, compresi i più deboli e bisognosi”. È stato ribadito come “i popoli d’Europa, pur restando fieri della loro identità e della loro storia nazionale, siano decisi a superare le antiche divisioni e, uniti in modo sempre più stretto, a forgiare il loro comune destino”, certi che l’Europa offra loro le migliori possibilità di proseguire, nel rispetto dei diritti di ciascuno e nella consapevolezza della loro responsabilità nei confronti della generazioni future e della terra, la grande avventura che fa di essa uno “spazio privilegiato della speranza umana”. Manca però il riferimento alle radici cristiane di cui tanto si è discusso, anche se sono accennati il concetto di ‘persona’, che è già idea cristiana e quello di ‘diritto’, che rimanda invece allo ius romano. Considerato in una prospettiva più ampia, ciò potrebbe significare la necessaria apertura dell’Europa alle altre confessioni religiose, essendo insita nel progetto, sin dalle sue origini, la coesistenza delle tre grandi religioni del Libro: è un fatto congenito che l’Europa debba vivere confrontandosi con la diversità, l’altro, l’estraneo. Consapevole del suo ruolo cardine, essa dovrà allora assurgere al suo compito – che non è più quello di mera appendice degli Stati Uniti – bensì quello di porsi come mediatore etico del delicatissimo dialogo e confronto tra Usa e mondo islamico, smussandone le tensioni. In tale ottica, più che di scontro di civiltà sarebbe opportuno parlare di incomprensione e nessun altro meglio dell’Europa, grazie alla sua straordinaria ricchezza interiore, avrà la forza di porsi come garante di un diverso assetto politico-istituzionale nei rapporti internazionali. L’“unità nella diversità” è il motto dell’Europa, nella quale unità e diversità procedono all’unisono, nel pieno rispetto delle differenze e nel mantenimento delle varie identità. È questa la sfida più grande che ciascuno di noi ha il compito e il dovere di portare avanti, facendosi carico di tutta la problematicità che questa reca con sé. L’Europa è e rimane lo spazio della speranza umana: solo interrogando le proprie radici, essa non dimenticherà il suo passato ed è proprio da questa capacità di autocritica che deriva il vantaggio della cultura europea. L’iniziale supremazia, per via degli avvenimenti che hanno funestato il secolo scorso, si è trasformata in una presa di coscienza del suo ruolo e della necessità di dialogare con le altre culture. Credo quindi, con Husserl, che l’Europa sia anzitutto un’idea da realizzare: solo quando i cittadini avranno preso pienamente coscienza del loro essere europei e superato le barriere mentali del nazionalismo, sarà possibile auspicare la completa riuscita e realizzazione del processo di unificazione europea. Un grandissimo passo in questa direzione è stato compiuto, ma molto rimane ancora da fare e proprio San Paolo può fungere da guida e da maestro: ascoltando le sue parole, il suo insegnamento, qualcosa potremmo ancora imparare. La sua missione non mirava ad erigere differenze, a scavare solchi di separazione, ma ad abbattere tutte le disuguaglianze, le diversità, poiché il Cristo stesso era venuto a far crollare tutti i muri della separazione, «non essendovi distinzione alcuna d’aspetto davanti a Dio» (Rom 2, 11). La Legge era stata per troppo tempo considerata come una siepe, una parete divisoria tra il mondo ebraico ed il variegato universo dei gentili:  «Adesso invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani siete diventati vicini per il sangue del Cristo. Egli infatti è la nostra pace; ha fatto dei due uno, ha abbattuto la parete dello sbarramento, l’inimicizia, e nella sua carne ha dissolto la legge dei comandamenti con i loro decreti. Così, facendo pace, dei due creò un uomo solo e nuovo; li riconciliò entrambi in un unico corpo per Dio mediante la croce, uccidendo con essa l’inimicizia»[17].  E questa situazione sarebbe durata fino a quando il Messia non avrebbe fatto «dei due uno». Non vi sarebbe più stata in tal modo nessuna differenza tra giudei e greci, maschio e femmina. Ciò significa che la linea di demarcazione tra pagani ed ebrei sarà abolita una volta per tutte e che gli uomini saranno salvati in virtù della fede in Cristo Gesù, a prescindere dalle distinzioni di razza, fede, cultura, lingua, religione, essendo il vangelo «potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, il giudeo anzitutto e anche il greco» (Rom 1, 16) e Dio stesso potrà essere conosciuto solo in quanto gli uomini cammineranno l’uno accanto all’altro. Si passa così da uno stato di chiusura nazionalistica ad uno di “apertura universalistica”, poiché il disegno soteriologico nel piano divino ingloberà tutti i gentili. Israele però aveva peccato e si rifiutava di accettare il Vangelo; scrive Paolo:  «Una parte di Israele si è irrigidita, fino a che non sia entrata la pienezza delle genti. Così tutto Israele sarà salvato, come sta scritto: Uscirà da Sion il liberatore, e stornerà le empietà da Giacobbe. E questo è il mio patto con loro, quando eliminerà i loro peccati»[18].  Non tutti gli ebrei infatti avevano riconosciuto in Gesù di Nazareth il Messia che tanto attendevano: abbiamo detto di come Dio avesse indurito i loro cuori, per salvarne poi qualcuno; parlando degli ebrei in particolare Paolo li definisce:  «questi uccisori del Signore Gesù e dei profeti, nostri persecutori, spiacenti a Dio, avversi a tutti gli uomini; essi ci impediscono di parlare ai gentili affinché siano salvi, così completando sempre la misura dei loro peccati. Ma l’ira li ha finalmente raggiunti»[19].  Dio avrebbe allora ripudiato il suo popolo? «Non sia mai» (Rom 11, 1) risponde l’apostolo che istituisce, attraverso una bellissima metafora, il parallelismo tra il popolo di Israele ed i rami di un albero:  «Ed anche loro, se non persisteranno nell’incredulità, verranno innestati, poiché Dio ha il potere d’innestarli nuovamente. Se tu infatti sei stato reciso dall’olivastro a cui eri connaturato, e innestato innaturalmente in un olivo ben formato, quanto più essi, che vi sono connaturati, saranno innestati nel proprio olivo»[20].  In realtà, tutto ciò era funzionale al disegno divino: per la caduta di pochi, molti si salvarono, dal momento che lo stesso Paolo si rivolge ai pagani e va a predicare alle genti, nella speranza di suscitare la gelosia di Israele. E conclude: «Dio infatti ha rinchiuso tutti nell’incredulità, per usare a tutti misericordia» (Rom 11, 32). Subentra a questo punto il famoso “resto” di cui parlava Isaia, per cui solo nel momento in cui rimarrà un resto davvero irriducibile, ebbene solo allora tutti saranno inglobati nella salvezza ed Israele sarà salvato. Nell’iniziale schema escatologico, l’essere un popolo “eletto” significava che questo popolo sarebbe stato il primo a salvarsi; adesso invece, in virtù di un paradossale capovolgimento, questo resto sarà l’ultimo, nel senso che prima verranno compresi i gentili e, solo in un secondo momento, Israele entrerà a far parte della promessa. Per spiegare meglio questo concetto, Paolo ricorre all’immagine del rapporto intercorrente tra le molta membra del corpo ed il corpo mistico del Cristo, il quale è capo dell’unica Chiesa e solo Signore:  «Come infatti il corpo è unico con molte membra, e tutte le membra del corpo, pur molte, sono un unico corpo, così anche il Cristo. Tutti noi siamo stati immersi nell’acqua in un unico Spirito per formare un unico corpo, sia giudei sia greci, sia servi sia liberi. […] Anzi, le membra del corpo apparentemente più delicate sono le più necessarie, e a quelle da noi giudicate più vili nel corpo attribuiamo un pregio assai maggiore, e le nostre parti indecorose non hanno bisogno di nulla. Ma Dio fuse il corpo attribuendo assai maggior pregio al membro che ne mancava, per impedire scissioni nel corpo stesso, e invece le membra si preoccupino l’una dell’altra. Così, se un membro soffre, soffrono con quello tutte le altre membra, e se un membro è glorificato, tutte le altre ne gioiscono con lui»[21]. Insistiamo sul termine ‘tutto’ per ribadire la sua importanza all’interno del nostro discorso[22]. La chiesa cattolica fonda se stessa in quanto ekklesia, a confermare il carattere universale della chiamata. Nelle Scritture, leggiamo: «In te verranno benedette tutte le nazioni» (Gn 12, 3) e Paolo commenta così queste parole: «così che quanti procedono dalla fede sono benedetti con Abramo fedele» (Gal 3, 9): già queste frasi sono anticipatrici dell’universalismo salvifico mediante Abramo. Da qui si capisce il perché dell’iniziale elezione di Israele e della sua successiva perdizione: Dio – dicevamo – non aveva scelto questo popolo in quanto migliore degli altri ma la sua elezione sarebbe stata il preludio della futura salvezza generale. L’elezione dei pagani è partecipazione all’elezione di Israele e Paolo precisa:  «Non tutti i discendenti di Israele sono infatti il vero Israele; né per essere discendenza d’Abramo sono tutti suoi figli, bensì in Isacco verrà chiamata la tua discendenza: ossia, non i figli della carne sono i figli di Dio, ma i figli della promessa saranno considerati come discendenza»[23]. Non i figli discendenti da Ismaele ma quelli discendenti da Isacco sarebbero stati davvero liberi ed eredi della promessa. I popoli, pervenuti finalmente alla salvezza, smuoveranno l’Israele disperso nella diaspora dell’incredulità e lo indurranno a ritornare a Sion[24]. La salvezza, che deriva da un dono [karisma] puro ed assolutamente gratuito, potrà essere elargita agli uomini solo se tutti, pagani ed ebrei, torneranno a volgersi a Sion. Nel precetto universale dell’amore è riassunto il principio del monoteismo assoluto e della necessità di prestare obbedienza ai comandamenti divini. A Paolo spetta in definitiva il merito di aver reso “universale”[25] il messaggio cristiano, facendolo uscire dai ristretti confini della Palestina, per giungere a tutte le genti. «Ciò nonostante, Dio aveva stretto un’alleanza con Israele per unirsi di nuovo, tramite questo popolo, con tutta l’umanità»[26], è il commento di Bouwman a questo proposito. Quando, alla fine delle sue riflessioni teologiche, Paolo proclamò la salvezza dell’Israele empirico degli ultimi tempi – ad avviso di Gnilka – stava in realtà professando la propria fede nella fedeltà a Dio (Rom 11, 28) e dichiarava la propria convinzione che l’inizio del popolo di Dio e la sua fine fossero identici, vale a dire sono costituite da Israele[27]. Gerusalemme, la città santa, si trova quindi all’inizio ed alla fine del percorso di salvezza e, alla fine dei tempi, tutti avranno libero accesso alla Gerusalemme celeste, “liberata” per dirla con Torquato Tasso, in riferimento alle lotte tra cristiani e musulmani che la insanguinarono nel Medioevo per la riconquista del santo sepolcro, eppure la storia sembra destinata a ripetersi ineluttabilmente, a scorrere nel suo essere sempre uguale a se medesima, come se gli uomini non avessero tratto nulla dagli insegnamenti del passato, considerando che anche oggi i combattimenti che lacerano il mondo sembrano identici a quelli che si perpetrarono ottocent’anni fa. Alla domanda nietzscheana dell’uomo folle “Dov’è Dio?” dovremmo piuttosto chiederci che fine abbia fatto l’uomo, nella sua umanità ed in ciò che connota propriamente la sua essenza più intima, perché è lui che, in riferimento ai massacri, alle ingiustizie perpetrate nel tempo, alle aberrazioni di quest’ultimo secolo in particolar modo, ha permesso tutto ciò. Dove regna il peccato, lì sovrabbonderà la grazia: il riferimento è allo scempio delle guerre, alle migliaia di donne, uomini, bambini, massacrati inutilmente e disumanamente, come pecore destinate al macello. Ciò vuol dire, al di là dei conflitti che hanno insanguinato il teatro della scena storica, delle lotte fratricide, tra fratelli appunto, poiché Dio si era rivelato ad Abramo ed in lui aveva promesso la salvezza a tutti, non si capisce bene per quale motivo le tre grandi religioni del Libro, cristianesimo, ebraismo ed islam, abbiano perduto di vista il loro punto comune mentre hanno invece insistito sulle differenze e sugli elementi di discontinuità, facendo leva su quest’ultime per muoversi guerra a vicenda. Se tutti devono la propria origine alla medesima fonte divina – se le tre grandi religioni monoteistiche derivano veramente dallo stesso Libro – che senso avrebbe questo continuare a farsi la guerra senza pervenire mai alla stipulazione di un accordo, senza una pace che sia per così dire duratura, “perpetua” per dirla con Kant? E perché in seguito al crollo di un muro vergognoso si è assistiti sgomenti ed impassibili all’edificazione di un altro muro altrettanto doloroso[28]? Dio che creò ogni cosa, compresi gli uomini, non lascerà che nulla di ciò che Gli appartenga possa smarrirsi; per dirla con Sanders: «Tutti noi e l’intera creazione appartengono a Lui»[29]. Lo stesso Isaia mette in bocca al suo Signore le seguenti parole: «Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato a quelli che non si rivolgevano a me, mentre di Israele dice: «Tutto il giorno ho steso le mani verso un popolo disobbediente e ribelle!» (Is 65, 1-2). Sulla scia di Paolo perciò non possiamo che tentare di ripensare ad una torah prima del Sinai[30], che si rivolga a ciò che esisteva prima della legge mortifera delle opere e della carne, e che torni a guardare non più a Mosè bensì ad Abramo ed all’incondizionato gesto d’amore che questi compì nel momento in cui ricevette la chiamata di Dio. Solo volgendosi indietro nel passato sarà possibile recuperare quell’autentico spirito di pace e fratellanza indispensabile per una pacifica convivenza e coesistenza delle molteplicità. Paolo parla di legge della promessa, in un contesto di “sospensione della legge”, che torni a dirigersi verso quell’incredibile promessa fattagli da Dio, alla quale egli tuttavia credette, “sperando contro ogni speranza” e pronto ad accogliere l’evento dell’impossibile. Perché, per riprendere l’annuncio del profeta Abdia, è da Sion che proverrà la salvezza: «Ma sul monte Sion vi sarà una porzione salva e sarà un luogo santo» (Abdia 1, 17). Siamo in presenza di un uomo, avanti negli anni, e di una donna, per di più sterile; eppure Abramo e Sara credettero, al di là di ogni logica e buon senso. È questo il gesto più inaudito ed incomprensibile per la sensibilità di noi uomini contemporanei; ed è da questa fede nella follia che bisogna ripartire. Ognuno di noi è chiamato, convocato da Dio a porsi su questa strada e a corrispondere al suo appello. Forse, ad avviso di Paolo, è proprio questo che ci viene richiesto: dare prova di una simile fede, prova terribile e difficile insieme ma non impossibile dal momento che solo la speranza, la fede e l’amore potranno far crollare, una volta per sempre, tutti i muri della separazione, di odio e di violenza che si erigono quotidianamente fra gli uomini, poiché, per dirla con Paolo, «uno solo è il Signore, una la fede» (Ef 4, 5) e noi tutti, a prescindere dalle apparenti differenze, «siamo stati fidanzati ad un unico sposo» (II Cor 11, 2). In un’epoca come la nostra, è necessario capire e recepire il messaggio di Paolo nella sua interezza e straordinaria attualità, comprendendo l’urgenza con la quale bisogna agire per abbattere tutte queste pareti di sbarramento. Per cui, nel momento in cui calerà il sipario e la promessa troverà finalmente la sua attuazione ed il suo compimento, quel che resterà sarà solo agape, nel suo dominio assoluto ed incontrastato. Ci piace pensare che tutto questo discorso non sia solo una mera utopia o un sogno irrealizzabile che svanirà non appena le parole non troveranno adempimento o riscontro nella realtà dei fatti ma che veramente, nel futuro regno messianico, letto oggi in una chiave secolarizzata, gli uomini possano imparare a riconoscersi come fratelli e, guidati dallo spirito della pace e dell’amore, sappiano dare vita ad una nuova comunità messianica di “eletti”, guidati dalla speranza e dallo spirito di “fratellanza, uguaglianza e libertà” e, con gli occhi infine scevri di pregiudizi ed inimicizia e di avversione l’uno per l’altro, al di là degli odi etnici e di razza contemporanei, ritrovare infine quell’elemento di comunione e di coesione che ci accomuna tutti quanti.

  NOTE SUL SITO  

LA CROCE COME SACRIFICIO (su Paolo)

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LA CROCE COME SACRIFICIO (su Paolo)

dal Numero 38 del 27 settembre 2015

di Paolo Risso

Gesù Cristo non ha lasciato indifferenti gli uomini del suo tempo né i posteri. Da subito ha attirato l’amore delle anime o il loro odio. Ha affascinato e influenzato persino gli intellettuali dell’Impero Romano, ispirando Seneca e i suoi discepoli. Per mezzo dell’Apostolo Paolo, Gesù ha pure affascinato Seneca, l’illustre Filosofo e consigliere di Nerone, e gli amici stoici del suo salotto. Attorno al 58 d.C. di Gesù già si parlava nei giardini imperiali (gli “horti sallustiani”), come scrive Seneca nella sua Prima Lettera a Paolo. Gesù da subito ha attirato a Sé i cuori. Gesù è presente negli scritti di Seneca, difficile negarlo.

Regolo “crocifisso” Nell’Epistula 81,10 Seneca riporta un pensiero che colpisce: «Il sapiente gode più nel dare che nel ricevere». Il quale dissolve ogni dubbio, perché esso è letteralmente una citazione di san Paolo che salutando i fratelli di Efeso, prima di partire, ricorda loro una parola di Gesù non riportata dai Vangeli: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Seneca ha sentito questo dalla voce di san Paolo o addirittura ha letto gli Atti, che furono scritti nel 62 d.C.? È possibile o pressoché certo. Nell’Epistula 88,30 Seneca scrive: «L’umanità di ogni uomo [humanitas] vieta la superbia nei rapporti sociali, vieta l’avarizia; con tutti si mostra amabile e cordiale nelle parole, nelle azioni, nei sentimenti; non c’è male che non stimi suo, e dei suoi beni ama soprattutto quello che può giovare al prossimo». Ma questo non risente forse dell’“inno alla carità” di san Paolo, nella 1Cor 13,4-8: «La carità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si compiace della Verità»? Non sappiamo che cosa d’altro, oltre le Lettere di san Paolo, Seneca abbia letto dei testi cristiani: possibilissimo e molto probabile che avesse letto il Vangelo di san Marco, scritto a Roma tra il 42 e il 50, e diffuso sicuramente, come diremo a suo tempo, nei circoli culturali dell’Urbe. È certo che Seneca conobbe il Cristianesimo, non fosse altro perché era un intellettuale aperto a tutte le novità, che apparivano a Roma e nel suo vastissimo Impero, ormai cosmopolita. «Roma – scriverà Rutilio Namaziano – già aveva cominciato a fare dell’Orbe [del mondo allora conosciuto] un’unica Urbe» (o una sola città, o quasi). Ma c’è di più. È notissimo a tutti che il supplizio della croce, derivato, pare, dai Persiani o dai Parti, e applicato con macabra soddisfazione dai conquistatori romani, come deterrente, agli schiavi malfattori e a chi veniva giudicato meritevole di questa orribile pena, era ritenuto la più grave infamia. Cicerone nelle sue orazioni contro Verre (le “Verrinae”) definisce la Croce: «Summum extremumque supplicium» (il sommo ed estremo supplizio). Ora Seneca in due passi delle sue Consolationes evocò in modo velato la crocifissione e il sepolcro vuoto di un “Giusto” che assumeva, diversamente dalla cultura corrente, il senso non più dell’infamia, ma del sacrificio per gli altri. L’illustre Storica del Cristianesimo, Marta Sordi, nel suo testo Seneca e i cristiani, racconta che un altro Scrittore dell’epoca «Silio Italico nei suoi “Punica”, rivela un ripensamento della croce, che da strumento per una morte infamante, diventa strumento di glorioso martirio e simbolo di vittoria sugli aguzzini cartaginesi per il più grande eroe romano, Attilio Regolo» (p. 122). Nell’Epistula 98,12 e nel De Providentia III, 9-10, lo stesso Seneca è il primo a parlare di crocifissione per Attilio Regolo, il Comandante romano caduto prigioniero dei Cartaginesi, al centro della I guerra punica (264-241 a.C.). Collegando il martirio di Regolo alla croce, Seneca così trasfigura un supplizio ignominioso in un martirio eroico, di gloria. È qualcosa di stupefacente, un “novum”, una novità che entra nella cultura romana. Da chi poteva venire, se non da Gesù, per il quale subire la croce era dare la vita per la salvezza del mondo? Solo da Lui, il Crocifisso del Calvario, tramite san Paolo, che affermava di conoscere solo Gesù e Lui crocifisso (cf. 1Cor 2,2), poteva venire un’idea così: per cui l’infamia diventa sacrificio di redenzione. Sempre nel I secolo, lo Scrittore storico Marco Manilio presenta un nuovo modo di interpretare il mito di Andromeda, dove la ragazza viene crocifissa ed ella accetta il supplizio con dignità, nobiltà e pudore. «È una novità inusitata – commenta Ilaria Ramelli – dal momento che fino ad allora la croce aveva avuto un connotato ignobile e osceno». In una parola, è Gesù che con la sua novità assoluta, fin da subito, penetra nella cultura alta di Roma, perché il destino di Roma era ed è quello di reggere i popoli con la Verità, la Carità e la Croce di Lui, il divino Maestro crocifisso e risorto, l’unico Salvatore e Re dell’umanità. L’“Impero della Lupa” sui popoli doveva presto diventare l’“Impero dell’Agnello divino”, Gesù!

Ercole, a immagine di Gesù Del tempo di Seneca c’è una Tragedia, Hercules Oetaeus, che ha analogie forti con il racconto evangelico della Passione di Gesù, segno di quanto fascino aveva la storia di Gesù per Seneca – o forse per un suo discepolo (lo Pseudo-Seneca, come inclina a pensare Ilaria Ramelli) – e per l’ambiente stoico del I secolo. Il protagonista della Tragedia è l’antico eroe Ercole, ma rimodellato sulla traccia di Gesù, fino a rappresentare di Ercole la sua morte e la sua risurrezione. Morte e risurrezione, per il paganesimo (e anche per noi oggi) è novità assoluta, tant’è vero che i sapienti dell’Areopago di Atene a Paolo che parla loro di un Maestro morto e risorto, dicono con aria beffarda: «Su questo ti sentiremo un’altra volta» (At 17,32). Le parole “crocifissione-morte-risurrezione” sono quanto di più cristologico esista. Così nell’Hercules Oetaeus, Ercole invoca sovente il “Padre” (Pater noster), e alla fine sottostà a un tradimento simile a quello di Giuda verso Gesù. Anche Ercole si crede abbandonato dal Padre Celeste, prega e grida sul luogo della sua morte, muore mentre le tenebre coprono la terra e il terremoto la scuote. Accanto a lui morente, c’è sua madre e lui conclude la vita con il grido “peractum est”, simile al “Consummatum est” di Gesù. Anche nell’Oetaeus lo strumento di morte diventa mezzo di esaltazione al cielo e di vittoria. Il protagonista, dopo la sua morte, si trasfigura e ascende al cielo. In una parola, Ercole, il nuovo eroe, presentato a immagine di Gesù, è il benefattore dell’umanità, il salvatore perfino nel mondo dei morti così che il coro conclusivo della Tragedia lo identifica e lo acclama come Dio. Che cosa dire? Lamento che l’autore della Tragedia, sia Seneca sia un altro storico della sua scuola, certamente conosceva i Vangeli e ne ricalca il racconto e lo adatta al personaggio di Ercole. A leggerlo con attenzione si può affermare che l’autore ha letto non solo il Vangelo di Marco, ma anche di Giovanni, ma questo non deve essere detto secondo certi autori di oggi per i quali il Vangelo di Giovanni non può essere stato scritto prima del 100 d.C. Ora è accertato che il Vangelo di Giovanni è stato scritto prima dell’anno 70, così che Seneca o lo Pseudo-Seneca poteva averlo letto (cf. A. T. Robinson, The Priority of John, SMC Press, Londra 1985). Ma questo, secondo i novatori, non va detto e se il fatto disturba le loro teorie, peggio per il fatto, che dunque va ignorato e non considerato. Da parte sua, il pensiero cristiano fece sua questa idea di Ercole come prefigurazione di Gesù: lo dicono i primi Autori cristiani ed è raffigurato nelle catacombe. Ed è così evidente che chi assisteva alla rappresentazione dell’Hercules senechiano, o anche solo lo leggeva, quasi d’istinto era portato a pensare a Gesù il Maestro crocifisso e risorto, la cui conoscenza aveva invaso Roma sempre di più dal 35 d.C., anno del “Senato consulto” provocato da Tiberio, che di Gesù era stato informato in modo così impressionante da Pilato, da volerlo proclamare Dio.

“Il Pesce” bollito Più giovane di Seneca è lo Scrittore satirico Giovenale (55-127 circa d.C.), ragazzino al tempo di Nerone, ma giovane adulto al tempo dell’Imperatore Domiziano (81-96 d.C.) altrettanto persecutore dei Cristiani. In una sua Satira, evoca con orrore la carneficina dei Cristiani fatta da Nerone nel 64, dove tanti innocenti furono crocifissi o arsi vivi come torce nei giardini imperiali (Satira I, 155-157). Nella Satira IV, Giovenale racconta il martirio dell’Apostolo ed Evangelista Giovanni, a Roma, sotto l’Imperatore Domiziano. Secondo un’antica tradizione fondatissima, Giovanni il prediletto di Gesù venne a Roma, predicò il Vangelo, ma fu catturato e immerso in una giara colma di olio bollente, in cui avrebbe dovuto morire interamente cotto, ma invece ne uscì fresco e vegeto più di prima. Questo martirio inflitto ma mancato dell’Apostolo Giovanni, era ricordato nel calendario liturgico vigente prima della riforma liturgica del 1969 al 6 maggio, e nel secondo Notturno del Mattutino se ne leggeva il racconto scritto da san Girolamo, nel libro Adversus Jovinianum: «Tramanda Tertulliano che Giovanni, infilato a forza in una giara di olio bollente, ne uscì più vivo di quanto era entrato» («Missus in ferventis olei dolium, purior et vegetior exivit quam intravit»). Ora di questa singolare avventura non ne parlano solo Tertulliano e Girolamo ma lo stesso Giovenale, Autore pagano, che poté anche aver assistito allo spettacolo tremendo di “san Giovanni Bollito”. Scrive pertanto Giovenale nella Satira IV: «La vittima da arrostire è un grosso “pesce”» (spatium admirabile rhombi), ma i Cristiani, già ai tempi di Giovenale, si chiamavano “pesci”, perché la parola in greco che indica il pesce è IXTYS, che sono le iniziali della Professione di Fede cristiana “Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore”. Giovenale scrive che la vittima è una bestia straniera che viene da lontano via mare [peregrina est belua]. È stata catturata a causa di spie e da Ancona portata a Roma dove viene convocato il senato e decisa la sua sorte. La “bollitura” del grosso pesce – l’illustre cristiano – avverrà a Porta Latina, ma si dovette costruire una “padella” che lo contenesse. Ilaria Ramelli, da vera “signora” della storia cristiana, nel suo libro I cristiani e l’impero romano (Marietti 1820, Genova 2011, pp. 80-85), dà tutte le ragioni dell’identificazione del “pesce” con l’Apostolo san Giovanni nella Satira IV di Giovenale, il quale, pur con il suo stile beffardo, si scaglia contro Domiziano, chiamato il “calvo Nerone” che con la sua prepotenza si è arrogato il potere degli dèi, ciò che non è lecito a un uomo, anche sul Trono imperiale. Prossimamente racconteremo altre cose che affermano la presenza di Gesù nella cultura pagana del I-II secolo, ma quanto abbiamo raccontato e documentato fin qui basta a confondere coloro che dicono come la cultura ufficiale di Roma ignorò Gesù e la nascita della Chiesa. Non è vero, anche se qualcuno che lo afferma pretende di avere molti studi. Gesù, appena arrivato sulla terra, ha cominciato a disturbare, Erode il grande, i farisei e i sadducei, gli intellettuali, poi Erode il piccolo, Caifa e il sinedrio, Pilato e il pretorio, su su fino a Roma e oltre. Disturba anche adesso. Insomma ha cominciato subito ad affascinare e a conquistare una moltitudine di anime o a essere odiato, ma ignorato mai. Lui è il Presente, il Vincitore che dilaga. Nessuno lo farà mai tacere. Non toccate il Cristo. Non provate a scoronarlo né a detronizzarlo. Ché la prima e l’ultima parola è la Sua, anzi è Lui stesso: Gesù Cristo! Lui solo!

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