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GENESI 22, L’EPISTOLA AGLI EBREI, E UNA ERMENEUTICA BASATA SULLA FEDE

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GENESI 22, L’EPISTOLA AGLI EBREI, E UNA ERMENEUTICA BASATA SULLA FEDE

[conferenza tenuta al Pontificio Istituto Biblico dal R.P. James Swetnam, S.J., il 5 novembre 2003, a conclusione della sua attività di insegnamento accademico]

Uno dei testi fondamentali nell’Antico Testamento, sia in se stesso che nell’interpretazione degli autori cristiani, è il racconto del sacrificio di Isacco da parte di Abramo in Genesi 22,1-18. Footnote Il presente studio cercherà: 1) di capire il significato di Genesi 22,1-18 (Parte I); 2) di vedere come l’epistola agli Ebrei interpreti Genesi 22,1-18 (Parte II); 3) di indicare come il libro del Cardinale John Henry Newman, Grammatica dell’assenso, possa giustificare una ermeneutica centrata sulla fede, con riferimento all’esegesi sviluppata nelle prime due parti precedenti (Parte III).
Parte I. Genesi 22,1-18
Il sacrificio di Isacco da parte di Abramo è stato un vero e proprio pomo della discordia nella storia recente della ricerca biblica. Footnote Con l’Illuminismo il sacrificio di Isacco è stato spesso visto come azione immorale. Footnote Ma tale giudizio negativo era per lo più basato su interpretazioni del sacrificio di Abramo che non tengono conto del contesto. Nel modo in cui Genesi 22 viene interpretato come parte del testo canonico dell’Antico Testamento soltanto o dell’Antico e Nuovo Testamento insieme, in varie tradizioni religiose, i versi non presentano a questo proposito alcun problema insolubile. Footnote
Ci sono tre categorie generali la cui pertinenza sembra essere utile in una breve discussione sulle implicazioni di Genesi 22,1-18 nel testo canonico dell’Antico Testamento: 1) l’alleanza; 2) il sacrificio; 3) la fede. Prese insieme, queste tre categorie permettono di entrare nel testo in modo appropriato.
A. L’ alleanza
Per capire bene il sacrificio di Isacco da parte di Abramo è molto importante tener conto del ruolo dell’alleanza nel testo canonico. Genesi 22,1 afferma che Dio “mette alla prova” (ebr.:nsh, gr.: peirazein) Abramo. Cioè, Dio prepara una prova per verificare se il suo figlio è “fedele” (ebr.: n’mn, gr. pistos). Footnote Il testo di Genesi 22 è il culmine di una progressione che consiste in una chiamata, una promessa, e un’alleanza con giuramento. Footnote La chiamata si trova in Genesi 12,1-3, ed è composta di tre elementi che comportano ciascuno una benedizione: 1) una benedizione che riguarda una terra e una nazione (12,1-2a), 2) una benedizione che riguarda una dinastia (12,2b), e 3) una benedizione che riguarda il mondo intero (12,3 insieme con 12,2). Footnote Queste tre benedizioni sembrano corrispondere ai tre episodi di alleanza nei capitoli 15, 17 e 22 della Genesi. Footnote In Genesi 15 l’episodio con la divisione degli animali indica un’alleanza nella quale i discendenti di Abramo vivranno come nazione in una terra stabilita. In Genesi 17 l’enfasi viene posta sul “nome” di Abramo che sarà reso grande: si tratta cioè di una dinastia. E in Genesi 22,16-18, il punto culminante, si tratta di una benedizione per tutte le nazioni. Footnote Genesi 22,1-18 può essere quindi visto come il punto culminante della vita di Abramo, così come viene presentata nel testo canonico della Sacra Scrittura. Dopo questo episodio, Abramo compare nella narrazione soltanto in relazione alla morte di Sara (Genesi 23) e al matrimonio di Isacco (Genesi 24). La sua vita e il suo destino considerati nei suoi rapporti con Dio, sono delineati in Genesi 22. Footnote Il giuramento di Dio fatto ad Abramo in Genesi 22 può essere considerato il punto culminante e conclusivo di tutta questa serie di episodi che toccano l’alleanza. Footnote Il giuramento, incorpora, per così dire, il risultato positivo della prova di Abramo nella benedizione data a tutte le nazioni, in modo tale che la fede di Abramo ormai fa parte del destino della sua discendenza. Footnote
Il contesto di alleanza in Genesi 22 è fondamentale per capire il significato del brano. Si tratta, cioè, della prova della fede di Abramo nel Dio dell’alleanza e nella fedeltà di questo Dio nel concedere le benedizioni promesse, nonostante l’evidente contraddizione fra queste promesse e l’ordine di uccidere Isacco. Inoltre, Abramo era sicuramente consapevole che si trattava di una prova, che si trovava di fronte a un dilemma cruciale in cui era secondario il suo affetto filiale. Ad essere in gioco era il senso di un’esistenza centrata su Dio non soltanto per Abramo stesso, ma anche per Isacco e per tutti coloro che dovevano dipendere da lui nei loro rapporti con Dio. Footnote In altre parole: il comando di Dio ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco era una questione della massima importanza, sia per Abramo sia per Dio stesso. Footnote
Che il comando di Dio ad Abramo fosse una questione seria per Dio stesso così come per Abramo non è stato forse notato abbastanza. Quando infatti Dio dà il comando ad Abramo, implicitamente mette a rischio tutto il progetto della sua alleanza con lui. Dal punto di vista narrativo Dio sta aspettando il risultato della reazione libera di Abramo a tale prova: un rifiuto di Abramo di sacrificare Isacco avrebbe indicato che Abramo non aveva superato la prova della sua fede. Footnote Di consequenza, il progetto di alleanza e tutti gli aspetti connessi erano presumibilmente destinati al fallimento, e la storia della salvezza avrebbe dovuto subire una svolta radicale.
B. Il sacrificio
Una seconda grande prospettiva a partire dalla quale Genesi 22 deve essere interpretato è quella del sacrificio. C’è qui una connessione tra sacrificio e il luogo in cui si svolge l’azione di Genesi 22. C’è fondato motivo di identificare il luogo (ebr.: mryh – “Moria”) menzionato nel versetto 2 con Gerusalemme. Footnote Se quest’interpretazione è vera, allora Genesi 22 diventa il testo fondamentale dell’Antico Testamento per capire il sacrificio di animali come praticato nel tempio di Gerusalemme. Inoltre, questo spiegherebbe perché il Pentateuco parli così poco del significato di tali sacrifici. Footnote Il tipo principale di sacrificio indicato nei libri del Levitico e del Deuteronomio è l’olocausto (ebr.: ‘lh, gr.: olokaustôma, olokauston). Footnote Questo tipo di sacrificio è precisamente quello che Dio chiede ad Abramo per Isacco, e quello che Abramo effettivamente compie con l’ariete alla fine del racconto (Genesi 22,2.13). Footnote
La categoria del sacrificio nell’interpretazione di Genesi 22 non ha sempre ricevuto la rilevanza che merita. Questa mancanza d’attenzione all’aspetto di sacrificio distorce l’esegesi del capitolo che deve aver guidato generazioni di fedeli lettori israeliti. Inoltre, questa mancanza distorce la possibile pertinenza che Genesi 22 deve avere per il lettore contemporaneo del testo canonico. Mostrando esattamente come il sacrificio possa avere influenza sull’esistenza umana come personificata in Abramo, Genesi 22 è di cruciale importanza per capire la rivelazione di Dio nella Bibbia.
C. La fede
Le prospettive riguardanti alleanza e sacrificio indicano la centralità della fede nella risposta di Abramo a Dio. Alleanza e sacrificio trovano il loro centro in Dio così come egli si manifesta ad Abramo (alleanza) e come Abramo risponde al comando di Dio (sacrificio). Ciò che motiva Abramo è la fede. Footnote Aver fede significa considerare Dio come affidabile (ebr.: h’myn, gr.: pisteuein), avere fiducia in lui, credere che egli manterrà i suoi impegni e onorerà i suoi doveri. Footnote Siccome la fede di Abramo era basata sulla sua alleanza con Dio, egli era consapevole di ciò che era in gioco, e sapeva non soltanto ciò che Dio si aspettava da lui (ubbidienza) ma anche ciò che Dio si aspettava da se stesso (compimento delle promesse): la sua fede era una specie di conoscenza. Ciascuno dei due conosceva i doveri di se stesso e dell’altro. È grazie a questa conoscenza che Abramo poteva resistere alla prova che Dio aveva preparato per lui: Abramo sapeva che Dio in qualche maniera avrebbe provveduto alla soluzione di quello che, al di fuori del contesto di fede, era un problema insolubile. In altre parole, le parole di Genesi 22,8 (“Dio stesso provvederà un agnello per l’olocausto”) devono essere intese non come quelle ansiose di un padre sconvolto, indirizzate ad un figlio perplesso, ma come espressione di una certezza basata sulla fede.
Quindi nel ricercare la pertinenza di Genesi 22 per il lettore di oggi, la fede è l’elemento più importante. Essa fornisce le basi per il significato religioso del testo originale e per l’importanza di quel testo per il lettore di oggi—o per il lettore di ogni tempo. Footnote Di conseguenza, qualsiasi tentativo di interpretare Genesi 22, se vuole affrontare la pertinenza del testo per il mondo contemporaneo, deve basarsi sulla fede di Abramo.
Ci sono però due possibili modi di approccio alla fede di Abramo da parte del lettore contemporaneo. Il lettore può mettersi di fronte al testo nella prospettiva di fede di Abramo, o al di fuori di essa. Può cioè condividere in quanto possibile la fede di Abramo, vivendo con lui gli avvenimenti di Genesi 22, o può rimanere come spettatore di questi avvenimenti. La sfida ermeneutica di Genesi 22 sta proprio qui.
Non c’è niente nel testo che costringa il lettore a scegliere di partecipare alla fede di Abramo, a incorporare (per così dire) la fede di Abramo nella propria fede. L’atteggiamento assunto dipende dalla libera scelta del lettore. La libertà di Dio nel chiamare Abramo e nel metterlo alla prova, la libertà di Abramo nel rispondere a questa chiamata e a questa prova, vengono rispecchiate nella libertà del lettore di fronte al testo, nella sua forma attuale. Ovviamente questo non riguarda solo Genesi 22; è una scelta che si presenta ad ogni lettore della Bibbia di fronte a qualsiasi testo. Ma in Genesi 22 questa scelta si presenta con una immediatezza quasi unica.
Parte II. L’epistola agli Ebrei e Genesi 22
L’epistola agli Ebrei presta una particolare attenzione a Genesi 22. Questa particolare attenzione può servire da guida nel comprendere come i primi cristiani interpretavano questo testo chiave nella loro comprensione della realtà di Gesù Cristo.
A. L’epistola agli Ebrei e la fede di Abramo
L’epistola agli Ebrei mette in rilievo la fede di Abramo nella sua esegesi di Genesi 22:
17Per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, 18 del quale era stato detto: In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome. 19Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe e fu come un simbolo (Ebrei 11,17-19). Footnote
Il testo, teologicamente parlando, è suggestivo. Si mette in grande rilievo la “fede” (pistis). Nel capitolo 11 dell’epistola la fede viene attribuita a diversi eroi dell’Antico Testamento, e viene descritta in 11,2-3.6. Footnote Il verbo “offrire [in sacrificio]” ricorre due volte nel versetto 17. La prima volta viene usato nel tempo perfetto (prosenênochen, “offrì” nella traduzione della CEI, ma meglio “ha offerto”), cioè la disposizione d’Abramo a sacrificare suo figlio è il punto chiave di Genesi 22 che l’autore vuole scegliere come base per la sua interpretazione di tutto il testo. La seconda volta il verbo viene usato nel tempo imperfetto (prosepheren, “cercava di offrire”). Questo imperfetto conativo descrive come Abramo stava per essere messo alla prova (peirazomenos). I termini della prova sono espressi con chiarezza: Abramo stava offrendo il suo “unico figlio” (monogenê), proprio “che aveva ricevuto le promesse” (ho tas epaggelias anadexamenos). E si specifica quale fosse la promessa: “. . . del quale era stato detto: In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome” (pros hon elalêthê hoti en Isaac klêthêsetai soi sperma). Queste osservazioni indicano che l’autore dell’epistola ha letto il testo di Genesi 22 con cura, e che ha capito i parametri della prova con precisione. Ciò che segue è una straordinaria interpretazione del ragionamento che sta dietro la fede di Abramo in Dio: “. . . Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti” (logisamenos hoti kai ek nekrôn egeirein dunatos ho theos).
Il modo quasi ovvio in cui l’autore dell’epistola attribuisce ad Abramo la fede nella risurrezione dai morti non deve nascondere le implicazioni di ciò che viene affermato. Innanzitutto, il ragionamento di Abramo sembra essere ben fondato e verosimile, data la sua precedente fede nella nascita di Isacco dal suo corpo “morto” e dall’utero “morto” di Sara. Footnote Data la fede eroica manifestata in Genesi 22 non c’è niente di arbitrario o forzato in questa esegesi. Se la promessa di Dio di una discendenza per mezzo di Isacco (v. 18) doveva essere accettata con fede senza riserva, e se il comando di sacrificare Isacco era, per Abramo, richiesto da Dio, la fede nella risurrezione dei morti sembra essere una conclusione legittima, anzi, forse l’unica conclusione possibile. Inoltre, l’attribuzione ad Abramo della fede nella risurrezione dai morti è degna di nota. Abramo è all’inizio della fede dell’Antico Testamento, e questa fede è stata tradizionalmente compresa come agnostica riguardo alla risurrezione dai morti. Footnote Nel testo di Ebrei un autore cristiano, che ha studiato profondamente le radici veterotestamentarie della sua fede cristiana, dichiara apertamente che Abramo credeva nella risurrezione dai morti. Footnote Infine, se l’atteggiamento interiore di Abramo nel sacrificare il proprio figlio Isacco è da capire come paradigmatico per l’atteggiamento interiore per i successivi sacrifici nell’Antico Testamento, questa espressione dell’autore dell’epistola è veramente impressionante. L’autore dell’epistola sembra attribuire questo atteggiamento, almeno in modo implicito, a tutti coloro che offrivano sacrifici nell’Antico Testamento.
Ciò che sembra accadere in Ebrei 11,19 è che l’autore, guidato dalla sua fede nella risurrezione di Gesù (cfr. Ebrei 13,20), proietta questa fede nel mondo di Abramo. Ma questo modo di procedere non fa violenza al testo di Genesi nel capitolo 22. Inoltre, questa attribuzione ad Abramo della fede nella risurrezione si adatta al contesto della fede eroica del patriarca come descritta in Genesi 22. La seconda parte di Ebrei 11,19 conferma l’opinione che l’autore dell’epistola metteva in relazione la reintegrazione di Isacco con la risurrezione di Gesù, perché dice che tale reintegrazione fu un “simbolo” della risurrezione di Gesù. Footnote
B. L’epistola agli Ebrei e il giuramento fatto ad Abramo
L’epistola agli Ebrei fa allusione al sacrificio di Isacco nel versetto 6,14, citando il testo di Genesi 22,17. È utile conoscere il contesto di questa citazione.
13Quando infatti Dio fece la promessa ad Abramo, non potendo giurare per uno superiore a sé, giurò per se stesso, 14dicendo: Ti benedirò e ti moltiplicherò molto. 15Così, avendo perseverato, Abramo conseguì la promessa. 16Gli uomini infatti giurano per qualcuno maggiore di loro e per loro il giuramento è una garanzia che pone fine ad ogni controversia. 17Perciò Dio, volendo mostrare più chiaramente agli eredi della promessa l’irrevocabilità della sua decisione, intervenne con un giuramento 18perché grazie a due atti irrevocabili, nei quali è impossibile che Dio mentisca, noi che abbiamo cercato rifugio in lui avessimo un grande incoraggiamento nell’afferrarci saldamente alla speranza che ci è posta davanti (Ebrei, 6,13-18).
Questi sei versetti, Ebrei 6,13-18, vengono citati per appoggiare l’esortazione dell’autore ai suoi lettori di mostrarsi diligenti e pronti ad imitare gli eredi delle promesse e ricevere le promesse per mezzo della fede e della perseveranza. Così si spiega la presenza di “infatti” all’inizio del versetto 16.
Che l’autore di Ebrei abbia in mente Genesi 22 si nota non soltanto dalla citazione di Genesi 22,17 in Ebrei 6,14, ma anche dall’allusione al giuramento di Genesi 22,16 in Ebrei 6,13. Questo fa pensare che per l’autore di Ebrei il giuramento ha una stretta relazione con la benedizione e la moltiplicazione della discendenza di Abramo. Il significato dei “due atti irrevocabili” menzionati in Ebrei 6,18 è molto discusso. Footnote Il testo di Ebrei 6,13-14 sembra dare una prima indicazione per la soluzione del problema: i “due atti irrevocabili” sono il giuramento di Genesi 22,16 e la promessa di Genesi 22,17. Questi due atti vengono messi insieme in Ebrei così come lo sono in Genesi. Le parole della promessa sono chiare—parlano della moltiplicazione della discendenza di Abramo. Footnote Il giuramento serve a rafforzare la promessa; così che quando Abramo riceve la promessa a conclusione della sua eroica perseveranza dopo il comando di sacrificare Isacco (6,15), la promessa è rinforzata da un giuramento. Abramo viene presentato come uno che ha “ricevuto” la promessa. Ma è evidente dal modo in cui l’autore dell’epistola usa le parole epitugchanô e komizô che anche se Abramo ha “ricevuto” (epitugchanô – 6,15; cfr. 11,33) la promessa rinforzata da un giuramento dopo il sacrificio di Isacco, egli non ha “ricevuto” (komizô) ciò che viene promesso—la discendanza. L’autore di Ebrei fa uso del verbo komizô per indicare la ricezione di ciò che viene promesso—cfr. 11,13.39. Footnote L’intenzione dell’autore dell’epistola viene manifestata dalla quarta e ultima ricorrenza di komizô: in 11,19 egli dice che Abramo ricevette (komizô) Isacco dopo il sacrificio “come simbolo” (en parabolêi). In altre parole, l’oggetto della promessa ad Abramo dopo il sacrificio di Isacco—discendenza—viene ricevuto soltanto con la venuta di Cristo: Cristo stesso è questa discendenza.
Se il contenuto della promessa ad Abramo è Cristo, il giuramento fatto da Dio in Genesi è un giuramento che al livello più profondo si riduce a un’azione simbolica che prefigura la concessione definitiva della cosa promessa che è Cristo. Si spiega così perché l’autore di Ebrei enfatizzi il giuramento fatto da Dio a Gesù al momento della risurrezione (cfr. 7,20-21). Questo giuramento fu prefigurato dal giuramento di Dio dopo il sacrificio di Isacco come Cristo fu prefigurato da Isacco. Questo è il giuramento che risulta nella concessione di ciò che fu promesso—la discendenza che è Cristo. Footnote
Identificando il giuramento del Salmo 110,4 con il compimento del giuramento di Genesi 22,16 e collocando il giuramento nel contesto esplicito della moltiplicazione della discendenza ad Abramo, l’autore dell’epistola ha effettuato una trasformazione profonda nella natura di questa discendenza. Adesso, la vera e definitiva discendenza di Abramo viene non tramite il suo figlio fisico, Isacco, ma tramite il suo figlio spirituale, Gesù Cristo, del quale Isacco fu un “simbolo”, proprio in riferimento alla risurrezione di Gesù (e, nel contesto di Ebrei, in riferimento anche al giuramento del Salmo 110,4 che viene menzionato con la risurrezione). L’autore dell’epistola agli Ebrei pensa che questa discendenza possa essere descritta meglio ricorrendo alla figura veterotestamentaria di Melchisedek, nel cui contesto Gesù Cristo emerge come il definitivo sovrano sacerdote. Come sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek, Gesù Cristo rimpiazza il sommo sacerdozio levitico che aveva dato finora identità ai discendenti di Abramo (cfr. Ebrei 7,11). Questo nuovo sommo sacerdote è il Figlio di Dio stesso (Ebrei 7,3). Footnote Egli è la fonte della speranza definitivamente migliore, che è la causa dell’incoraggiamento dei destinatari. Colui per mezzo del quale Dio ha fatto il mondo (Ebrei 1,2) è colui per mezzo del quale Dio benedice in modo definitivo e moltiplica la discendenza di Abramo. Sul fondamento del sacerdozio di Cristo viene creato un nuovo popolo (cfr. Ebrei 7,12), un popolo esteso a tutto il genere umano. Per mezzo di un figlio spirituale, che trascende il tempo, la discendenza di Abramo si estende a tutti gli uomini di tutti i tempi, prima di Abramo e dopo di Abramo. Così l’autore dell’epistola interpreta Genesi 22,17, con la sua promessa che Dio benedirà e moltiplicherà la discendenza di Abramo.
C. L’epistola agli Ebrei e la pertinenza della fede
Come, davanti a Genesi 22, al lettore è richiesta una scelta ermeneutica, così gli è richiesta ugualmente una scelta ermeneutica davanti all’interpretazione di Genesi 22 nell’epistola agli Ebrei. Egli può scegliere di condividere o meno la fede che l’autore dell’epistola aveva nella pertinenza cristiana di Genesi 22. Può cioè scegliere di essere coinvolto nei ruoli di Abramo e di Cristo in Genesi 22 come visti dall’autore di Ebrei, o può rimanere un semplice spettatore. Questa è la sfida ermeneutica di Genesi 22 come presentata nella epistola agli Ebrei.
Ogni lettore dell’epistola agli Ebrei si avvicina al testo con un insieme di preconcezioni, allo stesso modo in cui ogni lettore si avvicina a Genesi con un insieme di preconcezioni. E tali preconcezioni determinano in gran parte la sua scelta ermeneutica. Un cristiano che lascia penetrare la propria fede in ogni aspetto della sua vita si identificherà automaticamente con la fede dell’autore dell’epistola. Per un tale credente il credere di Abramo in Genesi 22 si colloca nella stessa categoria della fede che l’autore di Ebrei ha in Cristo che dà al racconto di Genesi 22 una nuova dimensione. Secondo l’interpretazione dell’autore, con l’avvento di Cristo il racconto di Genesi 22 assume un significato più profondo: la fede di Abramo diventa una fede nel potere di Dio di fare risorgere dai morti, e il giuramento fatto ad Abramo trova il suo compimento nel giuramento fatto da Dio a Gesù al momento della sua risurrezione affinché il suo sacerdozio terreno diventi un sacerdozio secondo l’ordine di Melchisedek, cioè un sacerdozio che trascende i limiti umani
Un’ultima verità, anch’essa cruciale per la fede di Abramo come vista dall’autore dell’epistola agli Ebrei, deve essere notata: l’ubbidienza di Abramo viene premiata da Dio con il dono di Isacco come simbolo della risurrezione di Gesù. Così la fede di Abramo rientra nella Provvidenza Divina nel portare a compimento il ruolo di Cristo come sommo sacerdote per tutta l’umanità. Secondo Ebrei 11,17-19 Abramo ricevette Isacco come “simbolo” (parabolên), Footnote cioè ricevette Isacco come simbolo della realtà escatologica che è Gesù risorto. Footnote La ragione di Abramo viene espressa in Ebrei 11,19a: “Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti”. Poi, il testo continua, “per questo (hothen) lo riebbe e fu come un simbolo”. Footnote In altre parole, la fiducia di Abramo viene premiata con il dono non soltanto di Isacco ma di Gesù che viene prefigurato da Isacco. Siccome Ebrei 11,17-19 si trova in una sezione dove la fede viene presentata come risultato di un premio da parte di Dio che “ricompensa” (misthapodothês – cfr. Ebrei 11,6), se ne deduce che il dono supremo della risurrezione di Gesù e tutto ciò che ne consegue è in un certo senso un “premio” per la fedeltà di Abramo che ha superato la prova imposta da Dio. Footnote Così il giuramento di Dio come ultimo atto di Genesi 22 contiene qualche cosa di nuovo per l’autore di Ebrei: il ruolo della fede di Abramo entra nel dono del Gesù risorto e di conseguenza in tutto ciò che questo dono significa per il mondo, come già sottolineato sopra. Dio ha riconosciuto la fede nell’alleanza di Abramo ed ha risposto nel linguaggio della sua fedeltà all’alleanza. Footnote Ma lo fa in un modo completamente inaspettato.
Un ultimo passo è necessario per delineare una soddisfacente ermeneutica di Ebrei: occorre esplorare i presupposti che spingono il lettore cristiano a credere in una interpretazione cristiana della fede di Abramo.
Parte III. Le precomprensioni della fede cristiana e il libro Grammatica dell’assenso del Cardinale Newman
Nessuno si accosta a un testo scritto senza precomprensioni. Se questo è vero per qualsiasi testo scritto, lo è ancora di più per un testo religioso come la Bibbia. Ed è vero, in particolare, per il capitolo 22 della Genesi e per la sua interpretazione cristiana nell’epistola agli Ebrei. Sopra abbiamo notato che l’unico modo appropriato per una corretta interpretazione di Genesi 22 è quello che tiene conto del suo posto nel più ampio contesto della Scrittura. Infatti il sacrificio di Isacco da parte di Abramo per l’autore di Genesi 22 era da comprendersi in un contesto molto più ampio del testo stesso. Footnote E questo contesto più ampio comprende questioni di culto e di morale talmente importanti che Genesi 22 è stato al centro delle discussioni delle relazioni dell’uomo con Dio. Footnote Data la natura fondamentale delle questioni coinvolte in Genesi 22, è impossibile che il lettore si accosti a questo testo senza precomprensioni o preconcezioni. Tali precomprensioni possono essere quelle di un credente o di un non credente; ma, quale che sia la loro natura, esse sono presenti e tale presenza deve essere presa seriamente in considerazione, perché incide inevitabilmente nella interpretazione del testo biblico.
Sopra abbiamo notato, in funzione dell’ermeneutica contemporanea, che l’atteggiamento ermeneutico dipende da una scelta: il lettore sceglie il suo approccio al testo. Footnote Tale scelta, però, non avviene in un vuoto di valori: è inevitabile che alla base dell’atteggiamento ermeneutico del lettore ci siano le sue precomprensioni. Di conseguenza la scelta di un determinato atteggiamento ermeneutico deve essere valutato alla luce delle sue precomprensioni.
È in questo contesto che sembra appropriato il riferimento al libro di John Henry Newman, Grammatica dell’assenso, Footnote terminato dal Newman nel gennaio del 1870. Footnote L’intuizione fondamentale che permise all’autore di portare a termine il suo libro è quella che costituisce il nucleo del libro stesso: l’atto dell’assenso della persona umana non è il risultato di un atto riflesso che si chiama certezza, ma l’atto che risulta da una varietà di cause concomitanti che operano in ciò che il Newman chiama il “senso illativo”. Footnote Il senso illativo, per Newman, è l’uso personale della ragione per una questione concreta. Footnote Egli insiste sulla natura personale di tale uso della ragione, Footnote citando come autorità in questo senso Aristotele e la Scrittura. Footnote Data la natura personale di tale uso della ragione in riferimento a una realtà concreta, il ruolo della coscienza nella religione è per Newman inevitabile:
La grande maestra di religione che portiamo in noi è… la coscienza. Essa è la nostra guida personale; io me ne servo perché mi servo di me stesso; non potrei pensare con altra testa dalla mia, come posso respirare solo con i mie polmoni. Nessun altro mezzo di conoscenza è così alla mia portata. Footnote
Degno di nota è l’uso del termine “conoscenza” nell’ultima frase: in merito alla religione, la coscienza è uno strumento di conoscenza. Ne consegue che la Sacra Scrittura non è una pura raccolta di verità astratte, ma un insegnamento autorevole.
Le Scritture parlano in questo senso dalla prima all’ultima riga. La Rivelazione non è una pura raccolta di verità, o un testo filosofico o un testo dato al sentimento, allo spirito religioso, o una fiumana di massime morali… è un insegnamento autorevole che fa da testimone a se stesso e mantiene la sua unità in contrasto con la congerie d’opinioni ammassata tutto intorno; un insegnamento che parla a tutti gli uomini, sempre e ovunque nello stesso modo, ed esige d’essere ascoltato con intendimento da coloro a cui è rivolto: è una dottrina, una disciplina e una devozione largita direttamente dall’alto.Footnote
Questo punto di vista è, naturalmente, il risultato dell’uso da parte dello stesso Newman della propria coscienza come strumento di conoscenza. Egli giunge alla convinzione di questo senso globale grazie, in parte, alla guida personale della sua coscienza, e a tale convinzione egli dà un reale assenso. Footnote Newman conclude la sua opera presentando le ragioni per credere nella Chiesa cattolica come dono provvidenziale di Dio da accettare con fede. Footnote Una fede, comunque, che è associata a un insieme di probabilità che danno la certezza risultante dall’uso legittimo del senso illativo.
Conclusione
Siamo partiti con una presentazione, nella I Parte, di Genesi 22 con le sfide connesse con l’interpretazione. Date le espliciti connessioni con l’alleanza e il culto, è stata presentata un’esegesi basata sull’accettazione dell’alleanza e del culto come parte di quell’ordinamento religioso di cui l’Antico Testamento è una testimonianza scritta. È stato detto che la risposta appropriata a Genesi 22 è una risposta di fede, una fede che rispecchi quella del protagonista del racconto, Abramo. Il contenuto stesso di Genesi 22 suggerisce questa interpretazione di fede, ma si tratta di una lettura che considera la fede come causa conveniente, non come causa costringente. È stato anche detto che l’accettazione di Genesi 22 in uno spirito di fede è frutto di un’ermeneutica di libera scelta.
Nella II parte è stata suggerita un’interpretazione di Genesi 22 così come vista dall’autore dell’epistola agli Ebrei. Questa interpretazione ruota intorno alla fede di Abramo e al giuramento di Dio fatto allo stesso patriarca dopo che questi ha superato la prova. Il giuramento di Dio in Genesi 22, secondo l’autore di Ebrei, conferisce a Cristo un ruolo che trasforma la discendenza fisica di Abramo a un livello che trascende quello fisico e comprende così tutta l’umanità. Come nel testo originale di Genesi 22, anche nella sua interpretazione in Ebrei la fedeltà di Abramo diventa parte della benedizione espressa dal giuramento. L’interpretazione data dall’autore di Ebrei era vista in funzione della sua fede in Gesù Cristo. Ed è stato indicato come fosse opportuna una lettura del testo accompagnata dalla fede, ma, anche qui, la fede era considerata come il risultato di un’ermeneutica di libera scelta. La fede veterotestamentaria del credente ebreo era incorporata nella fede neotestamentaria del cristiano.
Infine, nella III parte, è stato fatto il tentativo di basare questa ermeneutica di scelta esegetica su un’ermeneutica di precomprensioni/preconcezioni esegetiche. Si è fatto riferimento al libro di John Henry Newman, Grammatica dell’assenso, per mostrare come il “senso illativo” proposto dall’autore fosse un elemento fondamentale per comprendere le precomprensioni di un credente cristiano (nel caso di Newman, del credente cattolico). Data l’importanza della coscienza nella formazione della precomprensione che sta alla base della fede cristiana, diventa qui ugualmente chiaro il ruolo della scelta morale.
Tutto sommato, è l’esegeta come persona a essere responsabile dell’atteggiamento ermeneutico per l’interpretazione di un determinato testo della Scrittura, prima di tutto in considerazione della precomprensione che guida la sua scelta verso un certo tipo di approccio, poi in considerazione della scelta stessa. È evidente che Genesi 22 presenta Abramo come uomo di fede; è evidente anche che l’epistola agli Ebrei presenta Abramo, in Genesi 22, come un uomo di fede, considerando Gesù Cristo come il compimento di quella fede. Ma se l’esegeta debba mettersi in sintonia o meno con questa fede è una questione che dipende dalla sua scelta, una scelta al tempo stesso remota e prossima.
Nell’attribuire un atteggiamento ermeneutico alla scelta personale, non bisogna dimenticare la tendenza del testo stesso: il testo stesso è un invito a condividere la fede dell’autore. È chiaro, dal modo in cui Genesi 22 è costruito e dal modo in cui l’epistola agli Ebrei considera Genesi 22 alla luce di Gesù Cristo, che gli autori di questi testi erano credenti e che li hanno scritti per altri credenti, attuali o potenziali. L’autore dell’epistola agli Ebrei parla spesso di “noi”, cioè di “noi credenti” (cf. 1,2; 2,3; 3,6; ecc.): è un credente, e credenti sono anche i suoi destinatari. Nel loro livello profondo questi testi invitano a condividere la fede dei loro protagonisti, non ad essere dei semplici spettatori di questa fede. Come osserva Kierkegaard in merito al testo biblico sull’obolo della vedova (Marco 12,41-44), accettare il racconto così com’è, cioè presupponendo la fede della vedova, trasforma l’offerta in qualcosa di “molto di più”. Questa è la sfida di Genesi 22, come appare sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento.
… colui che con “simpatia” accetta il libro e gli riserva un posto d’onore, colui che, con “simpatia”, accettandolo, fa di questo libro, attraverso se stesso e attraverso la sua accoglienza, ciò che il tesoro fece del soldo della vedova: santifica l’offerta, gli dà significato, e la trasforma in “molto di più”

GENESI 22, L’EPISTOLA AGLI EBREI, E UNA ERMENEUTICA BASATA SULLA FEDE

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GENESI 22, L’EPISTOLA AGLI EBREI, E UNA ERMENEUTICA BASATA SULLA FEDE

[conferenza tenuta al Pontificio Istituto Biblico dal R.P. James Swetnam, S.J., il 5 novembre 2003, a conclusione della sua attività di insegnamento accademico]

Uno dei testi fondamentali nell’Antico Testamento, sia in se stesso che nell’interpretazione degli autori cristiani, è il racconto del sacrificio di Isacco da parte di Abramo in Genesi 22,1-18. Footnote Il presente studio cercherà: 1) di capire il significato di Genesi 22,1-18 (Parte I); 2) di vedere come l’epistola agli Ebrei interpreti Genesi 22,1-18 (Parte II); 3) di indicare come il libro del Cardinale John Henry Newman, Grammatica dell’assenso, possa giustificare una ermeneutica centrata sulla fede, con riferimento all’esegesi sviluppata nelle prime due parti precedenti (Parte III). Footnote
Parte I. Genesi 22,1-18
Il sacrificio di Isacco da parte di Abramo è stato un vero e proprio pomo della discordia nella storia recente della ricerca biblica. Footnote Con l’Illuminismo il sacrificio di Isacco è stato spesso visto come azione immorale. Footnote Ma tale giudizio negativo era per lo più basato su interpretazioni del sacrificio di Abramo che non tengono conto del contesto. Nel modo in cui Genesi 22 viene interpretato come parte del testo canonico dell’Antico Testamento soltanto o dell’Antico e Nuovo Testamento insieme, in varie tradizioni religiose, i versi non presentano a questo proposito alcun problema insolubile. Footnote
Ci sono tre categorie generali la cui pertinenza sembra essere utile in una breve discussione sulle implicazioni di Genesi 22,1-18 nel testo canonico dell’Antico Testamento: 1) l’alleanza; 2) il sacrificio; 3) la fede. Prese insieme, queste tre categorie permettono di entrare nel testo in modo appropriato.
A. L’ alleanza
Per capire bene il sacrificio di Isacco da parte di Abramo è molto importante tener conto del ruolo dell’alleanza nel testo canonico. Genesi 22,1 afferma che Dio “mette alla prova” (ebr.:nsh, gr.: peirazein) Abramo. Cioè, Dio prepara una prova per verificare se il suo figlio è “fedele” (ebr.: n’mn, gr. pistos). Footnote Il testo di Genesi 22 è il culmine di una progressione che consiste in una chiamata, una promessa, e un’alleanza con giuramento. Footnote La chiamata si trova in Genesi 12,1-3, ed è composta di tre elementi che comportano ciascuno una benedizione: 1) una benedizione che riguarda una terra e una nazione (12,1-2a), 2) una benedizione che riguarda una dinastia (12,2b), e 3) una benedizione che riguarda il mondo intero (12,3 insieme con 12,2). Footnote Queste tre benedizioni sembrano corrispondere ai tre episodi di alleanza nei capitoli 15, 17 e 22 della Genesi. Footnote In Genesi 15 l’episodio con la divisione degli animali indica un’alleanza nella quale i discendenti di Abramo vivranno come nazione in una terra stabilita. In Genesi 17 l’enfasi viene posta sul “nome” di Abramo che sarà reso grande: si tratta cioè di una dinastia. E in Genesi 22,16-18, il punto culminante, si tratta di una benedizione per tutte le nazioni. Footnote Genesi 22,1-18 può essere quindi visto come il punto culminante della vita di Abramo, così come viene presentata nel testo canonico della Sacra Scrittura. Dopo questo episodio, Abramo compare nella narrazione soltanto in relazione alla morte di Sara (Genesi 23) e al matrimonio di Isacco (Genesi 24). La sua vita e il suo destino considerati nei suoi rapporti con Dio, sono delineati in Genesi 22. Footnote Il giuramento di Dio fatto ad Abramo in Genesi 22 può essere considerato il punto culminante e conclusivo di tutta questa serie di episodi che toccano l’alleanza. Footnote Il giuramento, incorpora, per così dire, il risultato positivo della prova di Abramo nella benedizione data a tutte le nazioni, in modo tale che la fede di Abramo ormai fa parte del destino della sua discendenza. Footnote
Il contesto di alleanza in Genesi 22 è fondamentale per capire il significato del brano. Si tratta, cioè, della prova della fede di Abramo nel Dio dell’alleanza e nella fedeltà di questo Dio nel concedere le benedizioni promesse, nonostante l’evidente contraddizione fra queste promesse e l’ordine di uccidere Isacco. Inoltre, Abramo era sicuramente consapevole che si trattava di una prova, che si trovava di fronte a un dilemma cruciale in cui era secondario il suo affetto filiale. Ad essere in gioco era il senso di un’esistenza centrata su Dio non soltanto per Abramo stesso, ma anche per Isacco e per tutti coloro che dovevano dipendere da lui nei loro rapporti con Dio. Footnote In altre parole: il comando di Dio ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco era una questione della massima importanza, sia per Abramo sia per Dio stesso. Footnote
Che il comando di Dio ad Abramo fosse una questione seria per Dio stesso così come per Abramo non è stato forse notato abbastanza. Quando infatti Dio dà il comando ad Abramo, implicitamente mette a rischio tutto il progetto della sua alleanza con lui. Dal punto di vista narrativo Dio sta aspettando il risultato della reazione libera di Abramo a tale prova: un rifiuto di Abramo di sacrificare Isacco avrebbe indicato che Abramo non aveva superato la prova della sua fede. Footnote Di consequenza, il progetto di alleanza e tutti gli aspetti connessi erano presumibilmente destinati al fallimento, e la storia della salvezza avrebbe dovuto subire una svolta radicale.
B. Il sacrificio
Una seconda grande prospettiva a partire dalla quale Genesi 22 deve essere interpretato è quella del sacrificio. C’è qui una connessione tra sacrificio e il luogo in cui si svolge l’azione di Genesi 22. C’è fondato motivo di identificare il luogo (ebr.: mryh – “Moria”) menzionato nel versetto 2 con Gerusalemme. Footnote Se quest’interpretazione è vera, allora Genesi 22 diventa il testo fondamentale dell’Antico Testamento per capire il sacrificio di animali come praticato nel tempio di Gerusalemme. Inoltre, questo spiegherebbe perché il Pentateuco parli così poco del significato di tali sacrifici. Footnote Il tipo principale di sacrificio indicato nei libri del Levitico e del Deuteronomio è l’olocausto (ebr.: ‘lh, gr.: olokaustôma, olokauston). Footnote Questo tipo di sacrificio è precisamente quello che Dio chiede ad Abramo per Isacco, e quello che Abramo effettivamente compie con l’ariete alla fine del racconto (Genesi 22,2.13). Footnote
La categoria del sacrificio nell’interpretazione di Genesi 22 non ha sempre ricevuto la rilevanza che merita. Questa mancanza d’attenzione all’aspetto di sacrificio distorce l’esegesi del capitolo che deve aver guidato generazioni di fedeli lettori israeliti. Inoltre, questa mancanza distorce la possibile pertinenza che Genesi 22 deve avere per il lettore contemporaneo del testo canonico. Mostrando esattamente come il sacrificio possa avere influenza sull’esistenza umana come personificata in Abramo, Genesi 22 è di cruciale importanza per capire la rivelazione di Dio nella Bibbia.
C. La fede
Le prospettive riguardanti alleanza e sacrificio indicano la centralità della fede nella risposta di Abramo a Dio. Alleanza e sacrificio trovano il loro centro in Dio così come egli si manifesta ad Abramo (alleanza) e come Abramo risponde al comando di Dio (sacrificio). Ciò che motiva Abramo è la fede. Footnote Aver fede significa considerare Dio come affidabile (ebr.: h’myn, gr.: pisteuein), avere fiducia in lui, credere che egli manterrà i suoi impegni e onorerà i suoi doveri. Footnote Siccome la fede di Abramo era basata sulla sua alleanza con Dio, egli era consapevole di ciò che era in gioco, e sapeva non soltanto ciò che Dio si aspettava da lui (ubbidienza) ma anche ciò che Dio si aspettava da se stesso (compimento delle promesse): la sua fede era una specie di conoscenza. Ciascuno dei due conosceva i doveri di se stesso e dell’altro. È grazie a questa conoscenza che Abramo poteva resistere alla prova che Dio aveva preparato per lui: Abramo sapeva che Dio in qualche maniera avrebbe provveduto alla soluzione di quello che, al di fuori del contesto di fede, era un problema insolubile. In altre parole, le parole di Genesi 22,8 (“Dio stesso provvederà un agnello per l’olocausto”) devono essere intese non come quelle ansiose di un padre sconvolto, indirizzate ad un figlio perplesso, ma come espressione di una certezza basata sulla fede.
Quindi nel ricercare la pertinenza di Genesi 22 per il lettore di oggi, la fede è l’elemento più importante. Essa fornisce le basi per il significato religioso del testo originale e per l’importanza di quel testo per il lettore di oggi—o per il lettore di ogni tempo. Footnote Di conseguenza, qualsiasi tentativo di interpretare Genesi 22, se vuole affrontare la pertinenza del testo per il mondo contemporaneo, deve basarsi sulla fede di Abramo.
Ci sono però due possibili modi di approccio alla fede di Abramo da parte del lettore contemporaneo. Il lettore può mettersi di fronte al testo nella prospettiva di fede di Abramo, o al di fuori di essa. Può cioè condividere in quanto possibile la fede di Abramo, vivendo con lui gli avvenimenti di Genesi 22, o può rimanere come spettatore di questi avvenimenti. La sfida ermeneutica di Genesi 22 sta proprio qui.
Non c’è niente nel testo che costringa il lettore a scegliere di partecipare alla fede di Abramo, a incorporare (per così dire) la fede di Abramo nella propria fede. L’atteggiamento assunto dipende dalla libera scelta del lettore. La libertà di Dio nel chiamare Abramo e nel metterlo alla prova, la libertà di Abramo nel rispondere a questa chiamata e a questa prova, vengono rispecchiate nella libertà del lettore di fronte al testo, nella sua forma attuale. Ovviamente questo non riguarda solo Genesi 22; è una scelta che si presenta ad ogni lettore della Bibbia di fronte a qualsiasi testo. Ma in Genesi 22 questa scelta si presenta con una immediatezza quasi unica. Footnote
Parte II. L’epistola agli Ebrei e Genesi 22
L’epistola agli Ebrei presta una particolare attenzione a Genesi 22. Questa particolare attenzione può servire da guida nel comprendere come i primi cristiani interpretavano questo testo chiave nella loro comprensione della realtà di Gesù Cristo.
A. L’epistola agli Ebrei e la fede di Abramo
L’epistola agli Ebrei mette in rilievo la fede di Abramo nella sua esegesi di Genesi 22:
17Per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, 18 del quale era stato detto: In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome. 19Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe e fu come un simbolo (Ebrei 11,17-19). Footnote
Il testo, teologicamente parlando, è suggestivo. Si mette in grande rilievo la “fede” (pistis). Nel capitolo 11 dell’epistola la fede viene attribuita a diversi eroi dell’Antico Testamento, e viene descritta in 11,2-3.6. Footnote Il verbo “offrire [in sacrificio]” ricorre due volte nel versetto 17. La prima volta viene usato nel tempo perfetto (prosenênochen, “offrì” nella traduzione della CEI, ma meglio “ha offerto”), cioè la disposizione d’Abramo a sacrificare suo figlio è il punto chiave di Genesi 22 che l’autore vuole scegliere come base per la sua interpretazione di tutto il testo. La seconda volta il verbo viene usato nel tempo imperfetto (prosepheren, “cercava di offrire”). Questo imperfetto conativo descrive come Abramo stava per essere messo alla prova (peirazomenos). I termini della prova sono espressi con chiarezza: Abramo stava offrendo il suo “unico figlio” (monogenê), proprio “che aveva ricevuto le promesse” (ho tas epaggelias anadexamenos). E si specifica quale fosse la promessa: “. . . del quale era stato detto: In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome” (pros hon elalêthê hoti en Isaac klêthêsetai soi sperma). Queste osservazioni indicano che l’autore dell’epistola ha letto il testo di Genesi 22 con cura, e che ha capito i parametri della prova con precisione. Ciò che segue è una straordinaria interpretazione del ragionamento che sta dietro la fede di Abramo in Dio: “. . . Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti” (logisamenos hoti kai ek nekrôn egeirein dunatos ho theos).
Il modo quasi ovvio in cui l’autore dell’epistola attribuisce ad Abramo la fede nella risurrezione dai morti non deve nascondere le implicazioni di ciò che viene affermato. Innanzitutto, il ragionamento di Abramo sembra essere ben fondato e verosimile, data la sua precedente fede nella nascita di Isacco dal suo corpo “morto” e dall’utero “morto” di Sara. Footnote Data la fede eroica manifestata in Genesi 22 non c’è niente di arbitrario o forzato in questa esegesi. Se la promessa di Dio di una discendenza per mezzo di Isacco (v. 18) doveva essere accettata con fede senza riserva, e se il comando di sacrificare Isacco era, per Abramo, richiesto da Dio, la fede nella risurrezione dei morti sembra essere una conclusione legittima, anzi, forse l’unica conclusione possibile. Inoltre, l’attribuzione ad Abramo della fede nella risurrezione dai morti è degna di nota. Abramo è all’inizio della fede dell’Antico Testamento, e questa fede è stata tradizionalmente compresa come agnostica riguardo alla risurrezione dai morti. Footnote Nel testo di Ebrei un autore cristiano, che ha studiato profondamente le radici veterotestamentarie della sua fede cristiana, dichiara apertamente che Abramo credeva nella risurrezione dai morti. Footnote Infine, se l’atteggiamento interiore di Abramo nel sacrificare il proprio figlio Isacco è da capire come paradigmatico per l’atteggiamento interiore per i successivi sacrifici nell’Antico Testamento, questa espressione dell’autore dell’epistola è veramente impressionante. L’autore dell’epistola sembra attribuire questo atteggiamento, almeno in modo implicito, a tutti coloro che offrivano sacrifici nell’Antico Testamento.
Ciò che sembra accadere in Ebrei 11,19 è che l’autore, guidato dalla sua fede nella risurrezione di Gesù (cfr. Ebrei 13,20), proietta questa fede nel mondo di Abramo. Ma questo modo di procedere non fa violenza al testo di Genesi nel capitolo 22. Inoltre, questa attribuzione ad Abramo della fede nella risurrezione si adatta al contesto della fede eroica del patriarca come descritta in Genesi 22. La seconda parte di Ebrei 11,19 conferma l’opinione che l’autore dell’epistola metteva in relazione la reintegrazione di Isacco con la risurrezione di Gesù, perché dice che tale reintegrazione fu un “simbolo” della risurrezione di Gesù. Footnote
B. L’epistola agli Ebrei e il giuramento fatto ad Abramo
L’epistola agli Ebrei fa allusione al sacrificio di Isacco nel versetto 6,14, citando il testo di Genesi 22,17. È utile conoscere il contesto di questa citazione.
13Quando infatti Dio fece la promessa ad Abramo, non potendo giurare per uno superiore a sé, giurò per se stesso, 14dicendo: Ti benedirò e ti moltiplicherò molto. 15Così, avendo perseverato, Abramo conseguì la promessa. 16Gli uomini infatti giurano per qualcuno maggiore di loro e per loro il giuramento è una garanzia che pone fine ad ogni controversia. 17Perciò Dio, volendo mostrare più chiaramente agli eredi della promessa l’irrevocabilità della sua decisione, intervenne con un giuramento 18perché grazie a due atti irrevocabili, nei quali è impossibile che Dio mentisca, noi che abbiamo cercato rifugio in lui avessimo un grande incoraggiamento nell’afferrarci saldamente alla speranza che ci è posta davanti (Ebrei, 6,13-18). Footnote
Questi sei versetti, Ebrei 6,13-18, vengono citati per appoggiare l’esortazione dell’autore ai suoi lettori di mostrarsi diligenti e pronti ad imitare gli eredi delle promesse e ricevere le promesse per mezzo della fede e della perseveranza. Così si spiega la presenza di “infatti” all’inizio del versetto 16.
Che l’autore di Ebrei abbia in mente Genesi 22 si nota non soltanto dalla citazione di Genesi 22,17 in Ebrei 6,14, ma anche dall’allusione al giuramento di Genesi 22,16 in Ebrei 6,13. Questo fa pensare che per l’autore di Ebrei il giuramento ha una stretta relazione con la benedizione e la moltiplicazione della discendenza di Abramo. Il significato dei “due atti irrevocabili” menzionati in Ebrei 6,18 è molto discusso. Footnote Il testo di Ebrei 6,13-14 sembra dare una prima indicazione per la soluzione del problema: i “due atti irrevocabili” sono il giuramento di Genesi 22,16 e la promessa di Genesi 22,17. Questi due atti vengono messi insieme in Ebrei così come lo sono in Genesi. Le parole della promessa sono chiare—parlano della moltiplicazione della discendenza di Abramo. Footnote Il giuramento serve a rafforzare la promessa; così che quando Abramo riceve la promessa a conclusione della sua eroica perseveranza dopo il comando di sacrificare Isacco (6,15), la promessa è rinforzata da un giuramento. Abramo viene presentato come uno che ha “ricevuto” la promessa. Ma è evidente dal modo in cui l’autore dell’epistola usa le parole epitugchanô e komizô che anche se Abramo ha “ricevuto” (epitugchanô – 6,15; cfr. 11,33) la promessa rinforzata da un giuramento dopo il sacrificio di Isacco, egli non ha “ricevuto” (komizô) ciò che viene promesso—la discendanza. L’autore di Ebrei fa uso del verbo komizô per indicare la ricezione di ciò che viene promesso—cfr. 11,13.39. Footnote L’intenzione dell’autore dell’epistola viene manifestata dalla quarta e ultima ricorrenza di komizô: in 11,19 egli dice che Abramo ricevette (komizô) Isacco dopo il sacrificio “come simbolo” (en parabolêi). In altre parole, l’oggetto della promessa ad Abramo dopo il sacrificio di Isacco—discendenza—viene ricevuto soltanto con la venuta di Cristo: Cristo stesso è questa discendenza.
Se il contenuto della promessa ad Abramo è Cristo, il giuramento fatto da Dio in Genesi è un giuramento che al livello più profondo si riduce a un’azione simbolica che prefigura la concessione definitiva della cosa promessa che è Cristo. Si spiega così perché l’autore di Ebrei enfatizzi il giuramento fatto da Dio a Gesù al momento della risurrezione (cfr. 7,20-21). Questo giuramento fu prefigurato dal giuramento di Dio dopo il sacrificio di Isacco come Cristo fu prefigurato da Isacco. Questo è il giuramento che risulta nella concessione di ciò che fu promesso—la discendenza che è Cristo. Footnote
Identificando il giuramento del Salmo 110,4 con il compimento del giuramento di Genesi 22,16 e collocando il giuramento nel contesto esplicito della moltiplicazione della discendenza ad Abramo, l’autore dell’epistola ha effettuato una trasformazione profonda nella natura di questa discendenza. Adesso, la vera e definitiva discendenza di Abramo viene non tramite il suo figlio fisico, Isacco, ma tramite il suo figlio spirituale, Gesù Cristo, del quale Isacco fu un “simbolo”, proprio in riferimento alla risurrezione di Gesù (e, nel contesto di Ebrei, in riferimento anche al giuramento del Salmo 110,4 che viene menzionato con la risurrezione). L’autore dell’epistola agli Ebrei pensa che questa discendenza possa essere descritta meglio ricorrendo alla figura veterotestamentaria di Melchisedek, nel cui contesto Gesù Cristo emerge come il definitivo sovrano sacerdote. Come sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek, Gesù Cristo rimpiazza il sommo sacerdozio levitico che aveva dato finora identità ai discendenti di Abramo (cfr. Ebrei 7,11). Questo nuovo sommo sacerdote è il Figlio di Dio stesso (Ebrei 7,3). Footnote Egli è la fonte della speranza definitivamente migliore, che è la causa dell’incoraggiamento dei destinatari. Colui per mezzo del quale Dio ha fatto il mondo (Ebrei 1,2) è colui per mezzo del quale Dio benedice in modo definitivo e moltiplica la discendenza di Abramo. Sul fondamento del sacerdozio di Cristo viene creato un nuovo popolo (cfr. Ebrei 7,12), un popolo esteso a tutto il genere umano. Per mezzo di un figlio spirituale, che trascende il tempo, la discendenza di Abramo si estende a tutti gli uomini di tutti i tempi, prima di Abramo e dopo di Abramo. Così l’autore dell’epistola interpreta Genesi 22,17, con la sua promessa che Dio benedirà e moltiplicherà la discendenza di Abramo.
C. L’epistola agli Ebrei e la pertinenza della fede
Come, davanti a Genesi 22, al lettore è richiesta una scelta ermeneutica, così gli è richiesta ugualmente una scelta ermeneutica davanti all’interpretazione di Genesi 22 nell’epistola agli Ebrei. Egli può scegliere di condividere o meno la fede che l’autore dell’epistola aveva nella pertinenza cristiana di Genesi 22. Può cioè scegliere di essere coinvolto nei ruoli di Abramo e di Cristo in Genesi 22 come visti dall’autore di Ebrei, o può rimanere un semplice spettatore. Questa è la sfida ermeneutica di Genesi 22 come presentata nella epistola agli Ebrei.
Ogni lettore dell’epistola agli Ebrei si avvicina al testo con un insieme di preconcezioni, allo stesso modo in cui ogni lettore si avvicina a Genesi con un insieme di preconcezioni. E tali preconcezioni determinano in gran parte la sua scelta ermeneutica. Un cristiano che lascia penetrare la propria fede in ogni aspetto della sua vita si identificherà automaticamente con la fede dell’autore dell’epistola. Per un tale credente il credere di Abramo in Genesi 22 si colloca nella stessa categoria della fede che l’autore di Ebrei ha in Cristo che dà al racconto di Genesi 22 una nuova dimensione. Secondo l’interpretazione dell’autore, con l’avvento di Cristo il racconto di Genesi 22 assume un significato più profondo: la fede di Abramo diventa una fede nel potere di Dio di fare risorgere dai morti, e il giuramento fatto ad Abramo trova il suo compimento nel giuramento fatto da Dio a Gesù al momento della sua risurrezione affinché il suo sacerdozio terreno diventi un sacerdozio secondo l’ordine di Melchisedek, cioè un sacerdozio che trascende i limiti umani
Un’ultima verità, anch’essa cruciale per la fede di Abramo come vista dall’autore dell’epistola agli Ebrei, deve essere notata: l’ubbidienza di Abramo viene premiata da Dio con il dono di Isacco come simbolo della risurrezione di Gesù. Così la fede di Abramo rientra nella Provvidenza Divina nel portare a compimento il ruolo di Cristo come sommo sacerdote per tutta l’umanità. Secondo Ebrei 11,17-19 Abramo ricevette Isacco come “simbolo” (parabolên), Footnote cioè ricevette Isacco come simbolo della realtà escatologica che è Gesù risorto. Footnote La ragione di Abramo viene espressa in Ebrei 11,19a: “Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti”. Poi, il testo continua, “per questo (hothen) lo riebbe e fu come un simbolo”. Footnote In altre parole, la fiducia di Abramo viene premiata con il dono non soltanto di Isacco ma di Gesù che viene prefigurato da Isacco. Siccome Ebrei 11,17-19 si trova in una sezione dove la fede viene presentata come risultato di un premio da parte di Dio che “ricompensa” (misthapodothês – cfr. Ebrei 11,6), se ne deduce che il dono supremo della risurrezione di Gesù e tutto ciò che ne consegue è in un certo senso un “premio” per la fedeltà di Abramo che ha superato la prova imposta da Dio. Footnote Così il giuramento di Dio come ultimo atto di Genesi 22 contiene qualche cosa di nuovo per l’autore di Ebrei: il ruolo della fede di Abramo entra nel dono del Gesù risorto e di conseguenza in tutto ciò che questo dono significa per il mondo, come già sottolineato sopra. Dio ha riconosciuto la fede nell’alleanza di Abramo ed ha risposto nel linguaggio della sua fedeltà all’alleanza. Footnote Ma lo fa in un modo completamente inaspettato.
Un ultimo passo è necessario per delineare una soddisfacente ermeneutica di Ebrei: occorre esplorare i presupposti che spingono il lettore cristiano a credere in una interpretazione cristiana della fede di Abramo.
Parte III. Le precomprensioni della fede cristiana e il libro Grammatica dell’assenso del Cardinale Newman
Nessuno si accosta a un testo scritto senza precomprensioni. Se questo è vero per qualsiasi testo scritto, lo è ancora di più per un testo religioso come la Bibbia. Ed è vero, in particolare, per il capitolo 22 della Genesi e per la sua interpretazione cristiana nell’epistola agli Ebrei. Sopra abbiamo notato che l’unico modo appropriato per una corretta interpretazione di Genesi 22 è quello che tiene conto del suo posto nel più ampio contesto della Scrittura. Infatti il sacrificio di Isacco da parte di Abramo per l’autore di Genesi 22 era da comprendersi in un contesto molto più ampio del testo stesso. Footnote E questo contesto più ampio comprende questioni di culto e di morale talmente importanti che Genesi 22 è stato al centro delle discussioni delle relazioni dell’uomo con Dio. Footnote Data la natura fondamentale delle questioni coinvolte in Genesi 22, è impossibile che il lettore si accosti a questo testo senza precomprensioni o preconcezioni. Tali precomprensioni possono essere quelle di un credente o di un non credente; ma, quale che sia la loro natura, esse sono presenti e tale presenza deve essere presa seriamente in considerazione, perché incide inevitabilmente nella interpretazione del testo biblico.
Sopra abbiamo notato, in funzione dell’ermeneutica contemporanea, che l’atteggiamento ermeneutico dipende da una scelta: il lettore sceglie il suo approccio al testo. Footnote Tale scelta, però, non avviene in un vuoto di valori: è inevitabile che alla base dell’atteggiamento ermeneutico del lettore ci siano le sue precomprensioni. Di conseguenza la scelta di un determinato atteggiamento ermeneutico deve essere valutato alla luce delle sue precomprensioni.
È in questo contesto che sembra appropriato il riferimento al libro di John Henry Newman, Grammatica dell’assenso, Footnote terminato dal Newman nel gennaio del 1870. Footnote L’intuizione fondamentale che permise all’autore di portare a termine il suo libro è quella che costituisce il nucleo del libro stesso: l’atto dell’assenso della persona umana non è il risultato di un atto riflesso che si chiama certezza, ma l’atto che risulta da una varietà di cause concomitanti che operano in ciò che il Newman chiama il “senso illativo”. Footnote Il senso illativo, per Newman, è l’uso personale della ragione per una questione concreta. Footnote Egli insiste sulla natura personale di tale uso della ragione, Footnote citando come autorità in questo senso Aristotele e la Scrittura. Footnote Data la natura personale di tale uso della ragione in riferimento a una realtà concreta, il ruolo della coscienza nella religione è per Newman inevitabile:
La grande maestra di religione che portiamo in noi è… la coscienza. Essa è la nostra guida personale; io me ne servo perché mi servo di me stesso; non potrei pensare con altra testa dalla mia, come posso respirare solo con i mie polmoni. Nessun altro mezzo di conoscenza è così alla mia portata. Footnote
Degno di nota è l’uso del termine “conoscenza” nell’ultima frase: in merito alla religione, la coscienza è uno strumento di conoscenza. Ne consegue che la Sacra Scrittura non è una pura raccolta di verità astratte, ma un insegnamento autorevole.
Le Scritture parlano in questo senso dalla prima all’ultima riga. La Rivelazione non è una pura raccolta di verità, o un testo filosofico o un testo dato al sentimento, allo spirito religioso, o una fiumana di massime morali… è un insegnamento autorevole che fa da testimone a se stesso e mantiene la sua unità in contrasto con la congerie d’opinioni ammassata tutto intorno; un insegnamento che parla a tutti gli uomini, sempre e ovunque nello stesso modo, ed esige d’essere ascoltato con intendimento da coloro a cui è rivolto: è una dottrina, una disciplina e una devozione largita direttamente dall’alto.Footnote
Questo punto di vista è, naturalmente, il risultato dell’uso da parte dello stesso Newman della propria coscienza come strumento di conoscenza. Egli giunge alla convinzione di questo senso globale grazie, in parte, alla guida personale della sua coscienza, e a tale convinzione egli dà un reale assenso. Footnote Newman conclude la sua opera presentando le ragioni per credere nella Chiesa cattolica come dono provvidenziale di Dio da accettare con fede. Footnote Una fede, comunque, che è associata a un insieme di probabilità che danno la certezza risultante dall’uso legittimo del senso illativo. Footnote
Conclusione
Siamo partiti con una presentazione, nella I Parte, di Genesi 22 con le sfide connesse con l’interpretazione. Date le espliciti connessioni con l’alleanza e il culto, è stata presentata un’esegesi basata sull’accettazione dell’alleanza e del culto come parte di quell’ordinamento religioso di cui l’Antico Testamento è una testimonianza scritta. È stato detto che la risposta appropriata a Genesi 22 è una risposta di fede, una fede che rispecchi quella del protagonista del racconto, Abramo. Il contenuto stesso di Genesi 22 suggerisce questa interpretazione di fede, ma si tratta di una lettura che considera la fede come causa conveniente, non come causa costringente. È stato anche detto che l’accettazione di Genesi 22 in uno spirito di fede è frutto di un’ermeneutica di libera scelta.
Nella II parte è stata suggerita un’interpretazione di Genesi 22 così come vista dall’autore dell’epistola agli Ebrei. Questa interpretazione ruota intorno alla fede di Abramo e al giuramento di Dio fatto allo stesso patriarca dopo che questi ha superato la prova. Il giuramento di Dio in Genesi 22, secondo l’autore di Ebrei, conferisce a Cristo un ruolo che trasforma la discendenza fisica di Abramo a un livello che trascende quello fisico e comprende così tutta l’umanità. Come nel testo originale di Genesi 22, anche nella sua interpretazione in Ebrei la fedeltà di Abramo diventa parte della benedizione espressa dal giuramento. L’interpretazione data dall’autore di Ebrei era vista in funzione della sua fede in Gesù Cristo. Ed è stato indicato come fosse opportuna una lettura del testo accompagnata dalla fede, ma, anche qui, la fede era considerata come il risultato di un’ermeneutica di libera scelta. La fede veterotestamentaria del credente ebreo era incorporata nella fede neotestamentaria del cristiano.
Infine, nella III parte, è stato fatto il tentativo di basare questa ermeneutica di scelta esegetica su un’ermeneutica di precomprensioni/preconcezioni esegetiche. Si è fatto riferimento al libro di John Henry Newman, Grammatica dell’assenso, per mostrare come il “senso illativo” proposto dall’autore fosse un elemento fondamentale per comprendere le precomprensioni di un credente cristiano (nel caso di Newman, del credente cattolico). Data l’importanza della coscienza nella formazione della precomprensione che sta alla base della fede cristiana, diventa qui ugualmente chiaro il ruolo della scelta morale.
Tutto sommato, è l’esegeta come persona a essere responsabile dell’atteggiamento ermeneutico per l’interpretazione di un determinato testo della Scrittura, prima di tutto in considerazione della precomprensione che guida la sua scelta verso un certo tipo di approccio, poi in considerazione della scelta stessa. È evidente che Genesi 22 presenta Abramo come uomo di fede; è evidente anche che l’epistola agli Ebrei presenta Abramo, in Genesi 22, come un uomo di fede, considerando Gesù Cristo come il compimento di quella fede. Ma se l’esegeta debba mettersi in sintonia o meno con questa fede è una questione che dipende dalla sua scelta, una scelta al tempo stesso remota e prossima.
Nell’attribuire un atteggiamento ermeneutico alla scelta personale, non bisogna dimenticare la tendenza del testo stesso: il testo stesso è un invito a condividere la fede dell’autore. È chiaro, dal modo in cui Genesi 22 è costruito e dal modo in cui l’epistola agli Ebrei considera Genesi 22 alla luce di Gesù Cristo, che gli autori di questi testi erano credenti e che li hanno scritti per altri credenti, attuali o potenziali. L’autore dell’epistola agli Ebrei parla spesso di “noi”, cioè di “noi credenti” (cf. 1,2; 2,3; 3,6; ecc.): è un credente, e credenti sono anche i suoi destinatari. Nel loro livello profondo questi testi invitano a condividere la fede dei loro protagonisti, non ad essere dei semplici spettatori di questa fede. Come osserva Kierkegaard in merito al testo biblico sull’obolo della vedova (Marco 12,41-44), accettare il racconto così com’è, cioè presupponendo la fede della vedova, trasforma l’offerta in qualcosa di “molto di più”. Questa è la sfida di Genesi 22, come appare sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento.
… colui che con “simpatia” accetta il libro e gli riserva un posto d’onore, colui che, con “simpatia”, accettandolo, fa di questo libro, attraverso se stesso e attraverso la sua accoglienza, ciò che il tesoro fece del soldo della vedova: santifica l’offerta, gli dà significato, e la trasforma in “molto di più”.

LA GARA, LA LOTTA E LA BATTAGLIA – IN EBREI 12:1-2 NOI LEGGIAMO:

http://www.christianarticles.it/La-gara-la-lotta-e-la-battaglia.htm

LA GARA, LA LOTTA E LA BATTAGLIA – IN EBREI 12:1-2 NOI LEGGIAMO:

Ebrei 12:1-2
“Anche noi, dunque, poiché siamo circondati da una così grande schiera di testimoni, deponiamo ogni peso e il peccato che così facilmente ci avvolge, e corriamo con perseveranza la gara che ci è proposta, fissando lo sguardo su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta. Per la gioia che gli era posta dinanzi egli sopportò la croce, disprezzando l’infamia, e si è seduto alla destra del trono di Dio.”
In questo passaggio noi siamo chiamati a correre con perseveranza questa gara che ci è proposta. Questo passaggio presenta il nostro cammino Cristiano, la nostra vita Cristiana, come una gara che abbiamo bisogno di correre:

1. con perseveranza
2. fissando lo sguardo su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta.
Paolo in un altro posto, in Filippesi questa volta, parla di nuovo a proposito di questa gara. Là noi leggiamo:

Filippesi 3:12-14“Non che io abbia già ottenuto tutto questo o sia già arrivato alla perfezione; ma proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono anche stato afferrato da Cristo {Gesù}. Fratelli, io non ritengo di averlo già afferrato; ma una cosa faccio: dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi verso quelle che stanno davanti, corro verso la mèta per ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù.”
Paolo non si conta se stesso come avendo già ottenuto il premio. Invece egli una cosa faceva: dimenticava le cose che stavano dietro e si protendeva verso quelle che stavano davanti, per ottenere il premio della vocazione celeste di Dio in Cristo Gesù. C’era una meta da raggiungere, un premio da ricevere. Paolo con considerava il premio come avendolo già ottenuto. Invece egli focalizzò la sua vita per ricevere questo premio. Egli era ad obiettivo orientato con lo scopo di ottenere il premio della vocazione celeste di Dio in Cristo Gesù.
1 Corinzi 9:24-27
“Non sapete che coloro i quali corrono nello stadio corrono tutti, ma uno solo ottiene il premio? Correte in modo da riportarlo. Chiunque fa l’atleta è temperato in ogni cosa; e quelli lo fanno per ricevere una corona corruttibile; ma noi, per una incorruttibile. Io quindi corro così; non in modo incerto; lotto al pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi, tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non avvenga che, dopo aver predicato agli altri, io stesso sia squalificato.”
Paolo stava correndo una corsa mirando ad una corona incorruttibile. La sua vita era orientata verso un obiettivo ed il suo obiettivo era di ricevere la corona incorruttibile dalle mani del Signore. Non avrebbe permesso a niente e nessuno di interferire con questo scopo. Egli non stava correndo in un modo incerto. Egli sapeva il Suo scopo ed egli era sicuro per il premio che lo stava aspettando. Come gli atleti disciplinano se stessi avendo in mente il loro scopo di vincere la loro gara, così anche Paolo disciplinava il suo corpo, ponendo attenzione che non fosse disqualificato. Però la gara che Paolo stava correndo non era solo per Paolo. Anche noi corriamo nello stesso stadio. La stessa corona, lo spesso premio, ci sta aspettando.
Andando avanti, la corsa che stiamo correndo è anche presentata come una lotta nel passaggio di sopra di 1 Corinzi. Paolo ne parla anche in altri posti. Uno di loro è 1 Timoteo, dove Paolo, dando istruzioni a Timoteo scrive il seguente;
1 Timoteo 6:12
“Combatti il buon combattimento della fede, afferra la vita eterna alla quale sei stato chiamato e in vista della quale hai fatto quella bella confessione di fede in presenza di molti testimoni.”
C’è un buon combattimento – il buon combattimento della fede – che dobbiamo combattere. Anche nella sua lettera ai Galati, Paolo chiedendosi quale fosse il loro stato della fede, scrive:
Galati 5:7-10
“Voi correvate bene; chi vi ha fermati perché non ubbidiate alla verità? Una tale persuasione non viene da colui che vi chiama. Un po’ di lievito fa lievitare tutta la pasta. Riguardo a voi, io ho questa fiducia nel Signore, che non la penserete diversamente; ma colui che vi turba ne subirà la condanna, chiunque egli sia.”
Essi correvano bene ma non più. Qualcuno li ostacolò, li turbò. Sembra anche che in questa corsa ci sia anche un competitore, qualcuno che non vuole che noi corriamo, se possibile, non correre affatto.
Paolo parla di nuovo a proposito della gara e del combattimento in 2 Timoteo 2:3-5
1 Timoteo 2:3-5
“Sopporta anche tu le sofferenze, come un buon soldato di Cristo Gesù. Nessuno, prestando servizio come soldato, s’immischia nelle faccende della vita, se vuol piacere a colui che lo ha arruolato. Allo stesso modo quando uno lotta come atleta non riceve la corona, se non ha lottato secondo le regole.”
La corsa diventa un combattimento e il combattimento diventa una guerra. L’atleta è anche come un soldato ed il soldato è anche un lottatore. E come un buon soldato deve sopportare le sofferenze.
Riassumendo quanto sopra possiamo fare le seguenti conclusioni di un buon corridore della gara, o di un buon soldato:
Quindi, un buon soldato o corridore:
i) corre la gara con perseveranza. Come Barnes nel suo commentario spiega:
“La parola perseveranza in questo posto vuol dire che: dobbiamo correre la gara senza permettere a noi stessi di essere ostacolati da nessun impedimento, e senza abbandonare o indebolirsi lungo la strada. Incoraggiati da molti esempi di quelli che hanno corso la stessa gara prima di noi, dobbiamo perseverare come essi fecero fino alla fine.”
ii) Egli non corre in un modo incerto. Egli non batte l’aria. Di fronte i suoi occhi ha il suo scopo, il premio, la corona imperitura. Come Barnes di nuovo spiega;
In un modo incerto – (ουκ αδήλως ouk adelos). Questa parola non viene utilizzata in nessuna altra parte del Nuovo Testamento. Nella letteratura classica solitamente vuol dire “oscuramente”. Qui vuol dire che egli non sapeva a quale scopo stava correndo. “Io non corro a casaccio; io non mi esercito per niente; Io so a cosa mirare e tengo i miei occhi fissati sull’oggetto; Io ho lo scopo e la corona in vista.”
iii) Egli si disciplina e sa molto bene che anch’egli può essere disqualificato. Per quanto riguarda il pericolo di squalifica, Paolo ci dice in 2 Corinzi:
2 Corinzi 13:5
“Esaminatevi per vedere se siete nella fede; mettetevi alla prova. Non riconoscete che Gesù Cristo è in voi? A meno che l’esito della prova sia negativo.”
Il buon corridore, esamina se stesso, controlla per vedere se è nella fede. Egli testa e disciplina se stesso.
Continuando, il buon soldato non s’immischia nelle faccende della vita. Fa così per poter piacere a colui che l’ha scelto. Noi non possiamo essere soldati di Gesù Cristo e nello stesso tempo avere pieno interesse nei nostri affari. Quando c’è la chiamata per i soldati, essi lasciano indietro i loro affari, le fattorie, negozi e vanno alla guerra. Ora questo non vuol dire che perché siamo soldati di Gesù Cristo dobbiamo lasciare la nostra occupazione. Paolo stesso faceva tende per guadagnarsi da vivere. Ma non dobbiamo essere “immischiati”, preoccupati con esso. Come il “Matthew Henry’s commentary of the whole Bible” dice:
“La più grande preoccupazione di un soldato dovrebbe essere di piacere al suo generale; quindi la grande preoccupazione di un Cristiano dovrebbe essere piacere a Cristo, per essere approvato da lui. Il modo per compiacere a lui che ci ha scelto ad essere soldati è di non immischiarsi con gli affari di questa vita, ma libero da tali aggrovigliamenti poiché potrebbero ostacolarci nella nostra santa guerra.”
In altre parole direi, di certo abbiamo occupazioni nella quale operiamo o obbligazioni che hanno bisogno delle nostre attenzioni. MA non dobbiamo essere aggrovigliati, intrappolati, stressati, con tutto questo. Queste non sono le mete che noi abbiamo qui. Noi siamo qui per piacere al nostro Generale, essere buoni soldati di GESÙ CRISTO. Noi siamo in una battaglia e non dobbiamo sistemarci come se non lo fossimo!
Prolungandomi su questo soggetto, vorrei citare cosa il Signore Gesù disse nella parabola del seminatore: le ansietà di questo mondo, gli inganni della vita ed i piaceri della vita – vale a dire i grovigli con le cose del mondo, Paolo parla di questo – rendono la Parola di Dio infruttuosa. In questa parabola molti cominciano bene. La Parola di Dio fu seminata e spuntò in molti cuori. Pertanto solo l’ultima categoria diede frutto. Questo mostra anche che il numero di quelli che finiscono la gara fruttuosa non è necessariamente uguale al numero che la cominciò. Andiamo a vedere l’ interpretazione che il Signore diede a questa parabola:
Luca 8:11-15“Or questo è il significato della parabola: il seme è la parola di Dio. Quelli lungo la strada sono coloro che ascoltano, ma poi viene il diavolo e porta via la parola dal loro cuore, affinché non credano e non siano salvati. Quelli sulla roccia sono coloro i quali, quando ascoltano la parola, la ricevono con gioia; ma costoro non hanno radice, credono per un certo tempo ma, quando viene la prova, si tirano indietro. Quello che è caduto tra le spine sono coloro che ascoltano, ma se ne vanno e restano soffocati dalle preoccupazioni, dalle ricchezze e dai piaceri della vita, e non arrivano a maturità. E quello che è caduto in un buon terreno sono coloro i quali, dopo aver udito la parola, la ritengono in un cuore onesto e buono e portano frutto con perseveranza.”
La seconda e terza categoria cominciarono bene ma essi non finirono bene. Cominciare la gara non è quindi la sola cosa importante. Dopo aver cominciato la gara, quello che è importante è di continuare a correre. Ed il solo modo per continuare a correre con perseveranza è guardando a Gesù colui che crea la fede e la rende perfetta; combattendo la battaglia, con lo scopo di piacere al Generale e non aggrovigliarsi con gli affari della vita. C’è l’ idea sbagliata che diventare Cristiano vuol dire un biglietto per una vita facile, piena di piaceri. La parola “benedizioni” è arrivata a significare che Dio concede qualsiasi cosa che ti fa piacere. Una vita facile in molti casi diventa la meta. Noi dobbiamo fare attenzione che questo non diventi il nostro scopo. La nostra meta qui è di servire il Signore Gesù Cristo e l’aggrovigliarsi, l’attenzione sulle cose di questo mondo può fare una cosa sola: rendere il seme seminato nei nostri cuori infruttuoso.
La nostra meta in questa vita non è soddisfare la definizione della società di un uomo di successo. Se Paolo e Pietro e l’altra gente fedele fossero viventi oggi non sarebbero stati valutati molto dalla società. Paolo lascio tutti i privilegi terrestri che aveva, tutto quello che la sua società riconosceva come valori, al fine di acquisire Cristo. Come egli ci dice in Filippesi 3:4-11
Filippesi 3:4-11
“benché io avessi motivo di confidarmi anche nella carne. Se qualcun altro pensa di aver motivo di confidarsi nella carne, io posso farlo molto di più; io, circonciso l’ottavo giorno, della razza d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo figlio di Ebrei; quanto alla legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della chiesa; quanto alla giustizia che è nella legge, irreprensibile. Ma ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a causa di Cristo. Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto; io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte, per giungere in qualche modo alla risurrezione dei morti.”
Ci sono molte cose che Paolo aveva conseguito prima di diventare Cristiano. Paolo era qualcuno che la sua società onorava. Egli era un uomo “di successo”, secondo le definizioni della sua società, del mondo. Tuttavia egli considerò queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo.
Per diventare fruttuoso in Cristo, noi dobbiamo sopportare le difficoltà, dobbiamo sopportare le tentazioni e dobbiamo lasciar perdere di avere confidenza nelle ricchezze o nel nostro potere. Se diventiamo Cristiani solo per diventare un po’ più ricchi o un po meglio del nostro vicino o per evitare questa o quella difficoltà, o per ottenere alcuni “benedizioni” allora abbiamo capito male. Come Paolo dice in 1 Corinzi 15:19:
1 Corinzi 15:19
“Se abbiamo sperato in Cristo per questa vita soltanto, noi siamo i più miseri fra tutti gli uomini.”
Se noi abbiamo fiducia in Cristo solo in questa vita, se il nostro obbiettivo di fiducia è solo in questa vita, allora noi siamo i più miseri fra tutti gli uomini. Invece lo scopo in questa vita, è di piacere a Colui che ci ha chiamati:il Signore Gesù Cristo. Egli è il nostro Generale, colui che crea la fede e la rende perfetta in noi e noi correremo la gara solo se corriamo con perseveranza, avendo gli occhi fissi SU DI LUI.
Gesù Cristo non promise “tu avrai tutto” nella vita. Egli ci invitò a prendere la nostra croce (Marco 8:34). Egli veramente promise benedizioni, ma egli parla anche di difficoltà. C’è un premio ma anche una gara. Una corona ma anche una lotta. E lì che abbiamo bisogno di perseveranza e del giusto obiettivo. È molto facile correre giù dalla collina che di correre su la collina. Per correre giù abbiamo bisogno di molto poco obiettivo di orientamento: le gambe ti porteranno giù. Ma correre su abbiamo bisogno di perseveranza e di essere focalizzati nell’obbiettivo. Senza di questo tu potrai, dopo che ti senti stanco, abbandonare la gara e sederti lungo il sentiero e spendere la tua vita là. Le tre categorie della parabola del seminatore cominciarono bene, ma solo l’ultima categoria scelse di andare avanti sulla collina. Essi erano quelli in cui “[il seme] che è caduto in un buon terreno ……, dopo aver udito la parola, la ritengono in un cuore onesto e buono e portano frutto con perseveranza.” (Luca 8:15). Essi portarono frutto con perseveranza dopo aver ascoltato la parola con un cuore onesto e buono. Imposta come obiettivo il premio della alta vocazione di Dio in Cristo Gesù. Imposta come il tuo obiettivo di piacere a Dio, di essere un buon soldato di Gesù Cristo, qualunque cosa questo potrebbe richiedere. Avete provato e visto che Dio è buono. Concentrate quindi la vostra vita su di Lui
La gara: il competitore
Come abbiamo visto precedentemente, la vita Cristiana è presentata come una lotta. Anche leggendo Galati precedentemente, noi abbiamo visto che essi correvano bene ma qualcuno ha ostacolato la loro corsa. Abbiamo anche visto la tentazione, l’inganno delle ricchezze, le preoccupazioni di questo mondo ed i piaceri della vita che resero la seconda e la terza categoria della parabola del seminatore infruttuosa. Abbiamo anche visto nella stessa parabola che la prima categoria perse la Parola di Dio seminata in loro perché il diavolo venne e la prese via. Deve essere ovvio da quanto sopra che la gara non è una gara corsa da soli. C’è un competitore nella gara. C’è qualcuno che non vuole che noi finiamo la gara con successo. Egli si oppone al nostro obiettivo, egli vuole che ci fermiamo per non raggiungere la nostra meta. In altre parole, c’è un nemico!
Efesini 6 ci parla a proposito della nostra lotta con il nemico:
Efesini 6:10-12
“Del resto, fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza. Rivestitevi della completa armatura di Dio, affinché possiate stare saldi contro le insidie del diavolo; il nostro combattimento infatti non è contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti.”
Questo passaggio, come tutti i versi che lo seguono, descrive la lotta tra noi ed il nemico. Paolo non comincia subito con la descrizione della lotta. Invece egli la comincia con un invito: l’invito a fortificarsi nel Signore e nella forza della sua potenza. Non c’è nessuno come il Signore. Non è il nostro potere che può sopraffare il nostro nemico. È nel potere del Sua potenza e noi dobbiamo fortificarci in questo potere. E l’invito continua chiamandoci a mettere tutta la corazza di Dio. I lottatori hanno una corazza e noi anche soldati di Gesù Cristo ne abbiamo una. E l’armatura ha uno scopo: di restare saldi contro le insidie del diavolo. Il nemico è il diavolo ed egli è vile. Ed il passaggio continua a dirci con chi lottiamo: no contro gli uomini, no contro sangue e carne ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre. Noi lottiamo contro le forze spirituali della malvagità che sono nei luoghi celesti. C’è un nemico quindi a cui dobbiamo resistere, una lotta che dobbiamo lottare indossando un’ armatura.
Versi 14-18 descrive questa armatura:
Efesini 6:14-18
“State dunque saldi: prendete la verità per cintura dei vostri fianchi; rivestitevi della corazza della giustizia; mettete come calzature ai vostri piedi lo zelo dato dal vangelo della pace; prendete oltre a tutto ciò lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno. Prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio; pregate in ogni tempo, per mezzo dello Spirito, con ogni preghiera e supplica; vegliate a questo scopo con ogni perseveranza. Pregate per tutti i santi.”
Dio ci ha dato questa armatura ed abbiamo bisogno di metterla. Affinché siamo capaci di lottare la lotta contro il nemico. Più descrizioni ed istruzioni riguardo il competitore nella gara sono anche date in 1 Pietro 5:8-11. Là leggiamo:
1 Pietro 5:8-11
“Siate sobri, vegliate; il vostro avversario, il diavolo, va attorno come un leone ruggente cercando chi possa divorare. Resistetegli stando fermi nella fede, sapendo che le medesime sofferenze affliggono i vostri fratelli sparsi per il mondo. Ora il Dio di ogni grazia, che vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo {Gesù}, dopo che avrete sofferto per breve tempo, vi perfezionerà egli stesso, vi renderà fermi, vi fortificherà stabilmente. A lui sia la potenza, in eterno. Amen.”
Il diavolo è il nostro avversario, il nostro opponente. Egli cammina attorno e il suo scopo è brutale: egli ci vuole divorare. Ecco perché la Parola di Dio ci dice di essere sobri, vigilanti. Come Matthew Henry’s commentary of the Bible commenta su queste due parole:
“È il loro dovere ( Cristiano ), 1. Di essere sobri, e governare il dentro ed il fuori dell’interno dell’uomo con le regole di temperanza, modestia, e mortificazione. 2. Essere vigilanti: non sicuro o negligente, ma piuttosto sospettosi del costante pericolo dal nemico spirituale, e, sotto quella apprensione, essere vigilante e diligenti prevenendo i suoi disegni e salvare la nostra anima.”
Noi dobbiamo essere focalizzati nella giusta direzione. Sebbene dobbiamo essere vigilanti ed attenti, il nostro obiettivo non deve essere sul diavolo ma sul Signore Gesù Cristo. Noi dobbiamo correre la gara restando focalizzati, guardando a Lui, ed allo stesso tempo essere sobri e vigilanti a causa del nemico. Noi dobbiamo resistere il nemico, fermi nella fede. Questo forse vuol dire che dobbiamo soffrire per un po’. Da ciò diventa evidente ed anche da altri passaggi che abbiamo visto in Timoteo, che la vita Cristiana involve veramente sofferenza, difficoltà. Essa infatti comporta una lotta e richiede fermezza. Esso vuol dire che durante il nostro cammino Cristiano a volte soffriremo. Perché dico tutto ciò? Mi sto concentrando su quelli che per qualche motivo sono scoraggiati nel loro cammino Cristiano; su quelli che soffrono e su quelli che cosa si aspettano da Dio non sembra essere lì. Tu sei nel mezzo di una battaglia ma Dio è CON TE. Come Pietro disse:“ma se uno soffre come cristiano non se ne vergogni, anzi glorifichi Dio, portando questo nome.”(1 Pietro 4:16). Anche Giacomo dice: “Beato l’uomo che sopporta la prova.” ( Giacomo 1:12). Oggi io voglio incoraggiarti a superare la prova. Questo non vuol dire di pretendere che non è successo niente! Possiamo essere feriti nei sentimenti, possiamo aver domande e ci si può chiedere perché Dio permette tutto ciò. Noi dobbiamo esprimere i nostri sentimenti, apertamente a Dio. Dovremmo porgli le nostre domande e dirgli come ci sentiamo. Noi non siamo tenuti a pretendere che siamo incontaminati ed andare avanti, mentre i nostri cuori sono pieni di delusioni. Giobbe era un uomo che visse rettamente e pertanto tutto ad un tratto la distruzione venne su di lui. La sua salute fu danneggiata molto rapidamente. I suoi figli morirono. Egli perse tutte le sue proprietà e sua moglie si beffava di lui riguardo la sua fede. In più i suoi amici, lo incolparono per quello che gli era successo. Chi avrebbe mai immaginato una situazione peggio di questa? Egli non pretese di essere forte ne tanto meno maledì Dio, come sua moglie gli incoraggiò di fare. Invece egli gridò al Signore, aprendogli il cuore ed allo stesso tempo questionandolo. Il suo libro è pieno di perché e domande rivolte a Dio. Tu forse hai sofferto molto e tu forse hai molti perché. Cose che ti aspettavi non sono accadute. Poche cose sono peggiori che di una speranza insoddisfatta. Sperare che Dio lo farà, eppure non lo fa. Forse può essere un lavoro che non hai ottenuto, una moglie che non è venuta, la salute che non è stata ristorata; speranza che non è stata soddisfatta. Qualunque essa sia è una prova. Qualunque cosa sia in te NON dovete chiudere il cuore. Qualunque esso sia parlatene a Dio. Chiedi a Lui; grida a Lui, comunica con Lui. In tutte le sofferenze Giobbe non bestemmiò Dio come la sua moglie gli disse di fare. Poiché disse: “Ecco, mi uccida pure! Oh, continuerò a sperare.”(Giobbe 13:15). In tutte queste orribili sofferenze e in tutto il suo dibattito con Dio, Giobbe era fedele. Una cosa è domandare a Dio essendo in comunione ed un’altra cosa è rigettarlo. Giobbe era pieno di dolore ma sopportò la prova. Sua moglie, la quale non so se aveva la fede all’inizio o no, era anche piena di dolore ma non resistette. Forse aveva la speranza in Dio nei giorni felici ma nei giorni della sofferenza ella si smarrì……seconda categoria della parabola del seminatore. Ma Giobbe disse: “Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo di accettare il male?” (Giobbe 2:10). Giobbe era preparato e devi esserlo anche tu. Tu ti devi preparare e prendere una decisione costi quel che costi, qualunque sofferenza, qualunque speranza insoddisfatta, o qualsiasi altra cosa necessaria, tu resterai fedele fino alla fine. Fedeltà non è un’idea…..ma fedele a Dio che ha rivelato Se Stesso a te. Prendi la decisione di correre la gara fino alla fine, qualunque cosa sia necessaria, e corri con perseveranza fissando lo sguardo su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta! Come Pietro dice:
“Ora il Dio di ogni grazia, che vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo {Gesù}, dopo che avrete sofferto per breve tempo, vi perfezionerà egli stesso, vi renderà fermi, vi fortificherà stabilmente. A lui sia la potenza, in eterno. Amen.”

Anastasio Kioulachoglou

Publié dans:Lettera agli Ebrei |on 3 novembre, 2016 |Pas de commentaires »

BRANO BIBLICO SCELTO – EBREI 9,24-28; 10,19-23

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Ebrei%209,24-28;%2010,19-23

BRANO BIBLICO SCELTO – EBREI 9,24-28; 10,19-23

Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, allo scopo di presentarsi ora al cospetto di Dio in nostro favore, e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui. In questo caso, infatti, avrebbe dovuto soffrire più volte dalla fondazione del mondo. E invece una volta sola, ora, nella pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come è stabilito che gli uomini muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una volta per tutte allo scopo di togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione col peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza. Avendo dunque, fratelli, piena fiducia di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne; avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero in pienezza di fede, con il cuore purificato dalla cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso.

COMMENTO Ebrei 9,24-28; 10,19-23 L’efficacia del sacerdozio di Cristo Il brano è situato nella parte centrale dello scritto in cui si affronta il tema del sacerdozio e del sacrificio di Cristo (Eb 5,11 – 10,39). Il centro di questa sezione consiste nella proclamazione di Cristo come Sommo sacerdote dei beni futuri (Eb 9,11). Essa è preceduta da un invito all’attenzione e alla generosità (5,12-6,20)  e da un approfondimento su Gesù sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek (7,1-28). Per illustrare la perfezione di questo sacerdozio, esso viene confrontato con quello antico, terrestre prefigurativo (8,1-6), espressione di un’alleanza imperfetta e provvisoria (8,7-13) e dotato di istituzioni inefficaci (9,1-10). Il sacerdozio di Gesù invece comporta nuove istituzioni da lui rese efficaci (9,11-14), una nuova alleanza capace di operare la purificazione (9,15-23) e un nuovo culto che apre l’accesso al santuario celeste (9,24-28), causa di salvezza eterna (10,1-18). Questa sezione termina con un invito alla fedeltà e all’impegno (10,19-39) Il testo proposto dalla liturgia è preso dal brano che descrive efficacia del sacerdozio di Cristo in quanto esso si configura come un ingresso nel santuario celeste; ad esso è aggiunta una parte dell’esortazione finale.

Ingresso di Cristo nel «santuario» celeste (9,24-28) Nella prima parte del brano liturgico (vv. 24-26) la «perfezione» del sacrificio di Cristo viene identificata nel fatto che egli ha avuto accesso a Dio nel santuario «celeste». Ispirandosi a Es 25,9, l’autore dello scritto ritiene infatti che il vero santuario si trovi in cielo, dove risiede Dio, mentre il Santo dei santi, cioè la parte più sacra del tempio di Gerusalemme, ne era solo una «figura». Inoltre egli afferma che Cristo ha offerto non il sangue degli animali, ma se stesso a Dio «una volta sola, alla pienezza dei tempi». Siccome egli è il Figlio, incaricato di portare a compimento il piano salvifico di Dio (cfr. 4,8), la sua offerta volontaria ha avuto un’efficacia infinita, eliminando una volta per tutte i peccati. Ciò gli toglie la necessità di entrare nel santuario ogni anno, come era costretto a fare l’antico sommo sacerdote. Infine l’accesso definitivo al Padre consente a Cristo di essere continuamente «presente» al suo cospetto «in nostro favore». Proprio per questo il suo sacerdozio è ancora in funzione: Cristo non solo ci ha salvato, ma continua a salvarci. L’autore ribadisce in forma ancora più sintetica quanto in precedenza aveva già detto contrapponendo il sacerdozio di Cristo a quello levitico: «Quelli sono diventati sacerdoti in gran numero, perché la morte impediva loro di durare a lungo; egli invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore» (7,23-25). L’affermazione riguardante il carattere unico e definitivo del sacrificio di Cristo viene poi ribadita mediante un’analogia ripresa dall’esperienza umana (vv. 27-28). La morte, strettamente collegata con il «giudizio», è presentata qui come un evento definitivo in quanto, da una parte, chiude l’esperienza terrena dell’uomo e, dall’altra, rappresenta il momento cruciale in cui viene fatta una valutazione inappellabile della vita ormai conclusa. Secondo l’autore tutto ciò si verifica, a un livello più alto, in Cristo: la sua morte è definitiva soprattutto perché comporta la liberazione di tutti gli uomini dal peccato. E appunto per questo quando «apparirà una seconda volta» per il giudizio, la sua venuta non avrà più a che fare con il peccato. Il suo «giudizio» servirà solo a separare coloro che «lo aspettano per la loro salvezza» da coloro che l’hanno respinto. Implicitamente dunque si mettono in guardia i credenti dal trascurare la «salvezza» che egli ha offerto loro «una volta per tutte». In seguito l’autore li avvertirà che, se peccheranno dopo aver ricevuto la verità, rimarrà loro solo «una terribile attesa del giudizio» (10,27): infatti «è terribile cadere nelle mani del Dio vivente!» (10,31). La salvezza, guadagnata a così caro prezzo da Cristo, è troppo grande perché possa essere sottovalutata o respinta.

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LETTERA AGLI EBREI: PRESENTAZIONE GENERALE

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LETTERA AGLI EBREI: PRESENTAZIONE GENERALE

Giuseppe De Virgilio

La lettera agli Ebrei è l’esempio più antico e completo di omelia cristiana su Cristo «sommo sacerdote della nuova alleanza». Affascinante e complesso, questo scritto intende formare e sostenere i credenti nella concretezza della vita, in vista di un’autentica testimonianza di fede. Lo scritto neotestamentario che va sotto il titolo di «Lettera agli Ebrei» costituisce, per forma e contenuto, una delle più importanti testimonianze della tradizione teologica sul sacerdozio di Cristo elaborata nel cristianesimo delle origini[1]. Proponiamo un percorso introduttivo alla lettera in quattro tappe: a) Tradizione e canonicità; b) Contesto e redazione; c) Caratteristiche letterarie; d) Caratteristiche teologiche.

Tradizione e canonicità Tradizione Nell’elenco della Bibbia cattolica la lettera agli Ebrei segue la lettera a Filemone e precede quella di Giacomo. Anche se non contiene come mittente il nome di Paolo, fin dall’antichità essa è stata inserita tra le lettere paoline. La collocazione attuale è attestata per la prima volta nel codice Cleromontano (VI sec.), mentre nei precedenti codici la lettera era posta tra 2Tessalonicesi e 1Timoteo (cf. Sinaitico e Alessandrino) e nell’antichissimo papiro P46 (Chester Beatty, sec. II) si trova tra Romani e 1Corinzi. Non c’è concordanza della tradizione antica circa l’origine della lettera. La discussione riguarda il problema dell’autenticità paolina. Presso le comunità dell’Oriente, Ebrei fu ritenuta paolina nonostante le differenze rispetto al resto dell’epistolario. Queste erano spiegate in diversi modi: Clemente Alessandrino ipotizza che la lettera fosse stata inizialmente scritta da Paolo in ebraico e tradotta in greco da Luca[2]; Origene riconosce che la dottrina della lettera è degna di Paolo, mentre la forma letteraria sarebbe di un altro autore. In Occidente le perplessità circa l’autenticità paolina erano accentuate dall’impiego di Ebrei nelle controversie con gli ariani (cf. Eusebio; Tertulliano). Canonicità Verso la fine del IV sec. si perviene alla determinazione canonica anche grazie al peso autorevole della Chiesa d’Oriente. Ilario di Poitiers cita Ebrei allo stesso titolo delle lettere paoline. Girolamo lascia aperta la questione dell’autenticità paolina, confermando però la canonicità della lettera. Agostino d’Ippona conferma la canonicità invocando l’autorità delle Chiese orientali[3]. Il riconoscimento canonico è ufficialmente sancito nel Concilio di Laodicea (360) ed è attestato da Attanasio (cf. Lettera di Pasqua del 367). In Occidente l’attestazione canonica si trova nel Sinodo romano (382) e nei successivi Concili africani di Ippona (393) e Cartagine (397 e 419). Confermando tale tradizione i Concili di Firenze (1441) e di Trento (1546) inseriscono Ebrei nell’elenco ufficiale dei libri biblici, per quanto la definizione canonica tridentina non si pronunciò sulla questione dell’autenticità. Il dibattito sull’origine paolina È comprensibile come le perplessità che accompagnarono gli antichi circa l’autenticità-paternità paolina e l’identità dell’autore abbiano caratterizzano anche l’epoca moderna e contemporanea. La prima questione concerne il confronto letterario e teologico di Ebrei con l’epistolario paolino. Pur riconoscendo alcune rilevanti convergenze letterarie e tematiche con le lettere dell’Apostolo, tutti i commentatori elencano una cospicua serie di elementi che dimostrerebbero la non paolinicità dello scritto. Forniamo una sintesi essenziale delle differenze sul piano stilistico e contenutistico. Sul piano stilistico: – nell’esordio non compare come mittente il nome di Paolo; – propone uno sviluppo ponderato nel vocabolario (con la presenza di numerosi hapax legomena), misurato nel procedimento dimostrativo, raffinato nel linguaggio, così diverso dalla spontaneità e dall’impetuosità di Paolo; – adopera appellativi diversi per parlare di Gesù, introduce in modo diverso le citazioni dell’Antico Testamento (di cui rivela una notevole competenza esegetica e teologica) rispetto all’uso paolino delle Scritture[4]; – l’autore di Ebrei non rivendica mai la sua autorità apostolica, preferendo dar rilievo al suo messaggio, a differenza di Paolo che è solito mettersi in primo piano e difendere il suo apostolato (cf. Gal 1,1.12; 2Cor 11,1-2.23). In definitiva, la composizione di Ebrei dimostra un’arte raffinata, mentre l’epistolario paolino è caratterizzato dalla focosa irregolarità dell’Apostolo. Tali indizi non permettono di attribuire direttamente la paternità paolina a Ebrei. Sul piano contenutistico: – rispetto all’epistolario, in Ebrei spicca la peculiarità della dottrina cristologica del sacerdozio di Cristo, confermata dalle formule: «apostolo e sommo sacerdote» (Eb 4,14), «sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek» (6,20), «garante di un’alleanza migliore» (7,22), «pioniere e perfezionatore della fede» (12,2), «mediatore della nuova alleanza» (12,24)[5]; – la critica alla «legge» giudaica è concepita in un modo diverso rispetto all’epistolario paolino; – nello sviluppo argomentativo l’autore di Ebrei si riferisce a predicatori come appartenenti a una prima generazione cristiana (cf. 2,3; 13,7). Ipotesi circa l’autore Alla luce di questi elementi, che non confermano la paternità paolina dello scritto, si comprende l’eccedenza delle ipotesi nel corso della storia circa il possibile autore, la cui collocazione dovrebbe comunque essere compresa nella cerchia dei discepoli di Paolo (cf. la menzione di Timoteo in Eb 13,23). La tradizione annovera l’apostolo Pietro, l’evangelista Luca, Clemente Romano (cf. Fil 4,3), Barnaba, il diacono Stefano, Filippo uno dei “Sette”, Giuda fratello di Giacomo, Sila compagno di Paolo, Priscilla moglie di Aquila, Aristione discepolo del Signore (secondo Papia di Gerapoli) e, soprattutto, Apollo, raffinato giudeo di Alessandria convertitosi al cristianesimo (cf. At 18,24-28; 1Cor 3,4-9: 16,12; Tt 3,13). Secondo Karrer, l’autore deve essere appartenuto a una classe elevata del suo tempo. […] Egli pervade il cuore dell’antica retorica con elementi specificamente cristiani: proprio il Cristo disonorato sulla croce (12,2) ha il più alto onore di figlio di Dio (2,7-9; 3,3, ecc.). Questo capovolgimento fa pensare a Paolo. Ma l’arte retorica è superiore a quella di Paolo[6]. Malgrado l’ampio ventaglio di ipotesi, l’assenza di ogni testimonianza in proposito non permette finora di risolvere il dubbio circa l’autore della lettera. Contesto e redazione Contesto Un’attenta analisi di Ebrei implica la domanda circa l’ambiente socio-culturale delle sue origini e soprattutto l’identità dei suoi destinatari. Anche se il titolo «agli Ebrei» compare negli antichi manoscritti, in realtà esso non appartiene al testo della lettera. Nell’epilogo della lettera troviamo tre indicazioni: l’autore chiede di pregare perché sia restituito al più presto alla comunità (13,19); egli parla del «nostro fratello Timoteo» rilasciato (o partito), insieme al quale potrà finalmente rivedere la comunità (13,23a); si menziona un gruppo di cristiani denominati «quelli d’Italia» (13,24) che inviano saluti alla comunità. Dalla lettura del testo è possibile focalizzare diversi elementi che aiutano a precisare la situazione dei destinatari. Si tratta di cristiani che non hanno conosciuto direttamente il Signore (2,3), il che dissuade dall’attribuire loro un’origine palestinese. Venuti alla fede da tempo (5,12), essi hanno dovuto sopportare persecuzioni dolorose che sono state affrontare con eroismo e solidarietà (10,32-34). Di fronte alle nuove difficoltà (12,1-7) l’autore esorta alla costanza (10,36), a una più alta qualità della vita spirituale (5,11-12), all’assidua partecipazione alle riunioni (10,25), a fuggire la tentazione dello scoraggiamento (12,3.12) e a opporsi alle pericolose deviazioni dottrinali (13,9). Quest’ultima accentuazione assume un tono drammatico (il pericolo dell’apostasia: 6,4-6) con chiari intenti parenetici (10,26-31). Data la sorprendente familiarità con la letteratura anticotestamentaria, la lettera depone a favore di un contesto di origine giudaica, con influenze culturali molteplici, soprattutto per l’impiego della forma retorica[7]. I commentatori hanno sviluppato la ricerca approfondendo la natura della radice giudaica e le sue influenze in tre direzioni. a) Una prima direzione riguarda il grado di influenza della letteratura (ambiente) qumranica. Pur in presenza di rilevanti assonanze tematiche tra Ebrei e gli scritti di Qumran (ad esempio, il tema della nuova alleanza e l’attesa del grande sacerdote degli ultimi tempi), sono state evidenziate notevoli differenze che giustificano il radicamento di una comune tradizione biblica giudaica, ma con esiti teologici diversi. b) Una seconda direzione concerne la relazione tra Ebrei e il variegato mondo del giudaismo ellenistico. Tale collegamento è rappresentato dalla vicinanza stilistica (retorica) e tematica con il libro della Sapienza e, più in generale, con la tradizione del pensiero greco-alessandrino di Filone. Occorre riconoscere che sussistono importanti connessioni tipologiche, anche se l’idealismo platonico filoniano non si associa alla concretezza e alla visione escatologica di Ebrei. c) Una terza direzione richiama a possibilità di un’influenza gnostica (pre-gnostica?) che avrebbe potuto influenzare alcuni temi della lettera, quali la solidarietà del Figlio e dei figli (cf. 2,11), l’evocazione del riposo di Dio (cf. 4,1-11) e l’immagine del passaggio attraverso il velo (cf. 6,19-20; 10,20). Anche per questa ipotesi, l’attestazione di una corrente gnostica è da considerare anacronistica rispetto alla redazione di Ebrei e al suo ambiente cristiano. Occorre concludere che la lettera si è originata ed è stata redatta in un ambiente caratterizzato da tradizioni giudaiche, nelle quali si coglie l’incrocio con molteplici influssi culturali provenienti soprattutto dal mondo ellenistico. Redazione e datazione Si ignora il luogo di redazione, malgrado diversi manoscritti aggiungano nella postilla l’Italia, Roma o Atene. Una traccia potrebbe provenire dalla menzione del saluto da parte di «quelli d’Italia» (13,24). L’espressione può alludere a credenti d’Italia che vivono a Roma (o in Italia), ovvero a credenti originari dell’Italia che sono altrove. Nel primo caso la lettera sarebbe stata redatta a Roma e la notizia di Timoteo compagno di Paolo, prigioniero nella capitale dell’impero, troverebbe conferma in 2Tm 4,9.21. La convergenza di questi due indizi porterebbe a datare lo scritto prima del 70 d.C. È indicativo che proprio Clemente Romano sia il primo degli scrittori cristiani a conoscere e citare la lettera. Nel secondo caso potrebbe valere l’ipotesi che la lettera sia stata inviata alla comunità di Roma al fine di aiutare la componente giudeo-cristiana, forse nostalgica dell’eredità israelitica dopo la caduta di Gerusalemme, ad approfondire il valore teologico del sacerdozio di Cristo. In tal caso la datazione del testo non dovrebbe oltrepassare l’anno 95-96, data in cui Clemente Romano allude alla lettera scrivendo ai Corinzi e il cenno alle sofferenze subite dai credenti (10,32-34) farebbe riferimento alle persecuzioni di Nerone (nell’anno 64). Caratteristiche letterarie Il genere letterario A confronto con le lettere paoline, Ebrei presenta importanti differenze nell’esordio (1,1-4) e nel corpo epistolare (1,5-13,21), mentre la finale (13,22-25) ripete i canoni del genere epistolare (esortazione, notizie personali, saluti). La problematica del genere letterario è complessa perché il testo non sembra una lettera, ma un’omelia[8] o un trattato teologico-apologetico. Infatti, l’esordio, senza mittente né destinatari, appartiene al genere oratorio e il corpo epistolare rileva gli indizi letterari (stile dottrinale, mancanza di allusioni ai destinatari, forme espressive orali) di un “discorso” tematizzato sulla superiorità del sacerdozio di Cristo. Per tale ragione la maggioranza degli studiosi esclude che si tratti di una lettera, ma che sia un’omelia, un «discorso di esortazione» (logos parakléseos: 13,22; cf. At 13,15). La caratteristica del genere omiletico è di unire l’aspetto dottrinale (esposizione delle verità da credere) con quello parenetico (esortazione a vivere la fede confessata). Di fatto il testo di Ebrei corrisponde esattamente a tale profilo letterario: tra l’esordio (1,1-4) e la perorazione (13,20-21) si ha una costante alternanza dei due generi in modo sequenziale: alla dimostrazione dottrinale segue l’esortazione pastorale (cf. 2,1-4; 3,7-4,16; 5,11-6,20; 10,19-39; 12,1-13,18). La presenza della finale epistolare funge da biglietto di accompagnamento e conferma che l’omelia fu inviata a una o più comunità per la lettura e l’insegnamento. La struttura letteraria Tra le proposte strutturali spiccano due modelli principali: il modello tripartito: (a) la parola di Dio: 1,1-4,13; (b) il sacerdozio di Cristo: 4,14-10,31; (c) il cammino dei credenti: 10,32-13,17 e un secondo modello articolato in cinque parti. Secondo quest’ultimo modello proposto da A. Vanhoye[9], per la composizione della sua omelia l’autore ha adottato procedimenti di composizione che permettono di individuare la struttura letteraria del suo discorso. Avendo presente la complessa analisi di A. Vanhoye segnaliamo solo due procedimenti stilistici: l’annuncio del tema di ciascuna parte (cf. 1,4; 2,17-18; 5,9-10; 10,36-39; 12,13) e l’impiego di inclusioni (ripetizioni verbali), che segnano l’inizio e la fine di un’unità letteraria. Si ottiene così la seguente articolazione: Esordio:: L’intervento divino nella storia umana (1,1-4)  Parte: Cristologia generale (1,5-2,18) a) Intronizzazione del Figlio di Dio ed esortazione a riconoscerne l’autorità (1,5-2,4) b) Solidarietà con gli uomini acquisita attraverso la passione (2,5-18) II Parte: Cristologia sacerdotale, aspetti fondamentali (3,1-5,10) a) Gesù sommo sacerdote degno di fede perché Figlio di Dio (confronto con Mosè) (3,1-6) – Esortazione contro la mancanza di fede (3,7-4,14) b) Gesù, sommo sacerdote misericordioso (4,15-5,10) III Parte: Sacerdozio di Cristo, aspetti specifici (5,11-10,39) – Esortazione previa (5,11-6,20) a) Altro ordine sacerdotale (relazione con Melchisedek) (7,1-28) b) Altro atto sacerdotale (confronto con i sacrifici antichi) (8,1-9,28) c) Altra efficacia sacerdotale (10,1-18) – Esortazione conclusiva (10,19-39) IV Parte: Adesione a Cristo, mediante la fede perseverante (11,1-12,13) a) Esempi antichi di fede in Dio (11,1-40) b) Esortazione alla perseveranza (12,1-13) V Parte: Esortazione alla carità e santità (12,14-13,19)

Postscritto: Augurio conclusivo (13,20-21)                        Commiato (13,22-25) La lunghezza delle cinque parti va dapprima crescendo dalla prima alla più consistente terza parte, per poi decrescere passando dalla terza all’ultima. Tale articolazione rispetta la disposizione letteraria, retorica e tematica della lettera, favorendo un’armoniosa simmetria concentrica, che ha il suo centro al punto b) della terza parte. Caratteristiche teologiche La qualità della composizione letteraria di Ebrei si aggiunge alla profondità dottrinale e teologica del suo contenuto, la cui peculiarità è la presentazione di Cristo «sommo sacerdote della nuova alleanza». Fin dai primi secoli la peculiarità teologica di Ebrei è stata interpretata come una nuova sintesi della dottrina e della vita cristiana imperniata sulla mediazione sacerdotale di Cristo. Ci limitiamo a riassumere il suo messaggio segnalando tre prospettive: a) la relazione tra antica e nuova alleanza; b) la cristologia sacerdotale; c) la vita cristiana. La relazione tra antica e nuova alleanza La densità teologica si manifesta anzitutto nella qualità dell’approccio ermeneutico e nell’uso delle tecniche esegetiche per l’impiego delle Scritture. Nell’evidenziare la peculiarità della posizione (mediazione) di Cristo nella storia salvifica, l’autore mostra come l’alleanza e i riti che accompagnano il divenire dell’identità del popolo eletto trovano compimento nella nuova alleanza inaugurata con la Pasqua del Signore. Il procedimento dimostrativo che riguarda la relazione tra la prima e la nuova alleanza segue lo schema continuità-rottura-superamento. Si afferma la validità della connotazione profetica della prima alleanza, ma mediante l’opera di Cristo si riconosce anche la fine della sua istituzione. Ciò appare soprattutto nell’esposizione centrale della lettera (7,10-10,18) in cui si reinterpretano i Sal 110 e 40, l’oracolo di Ger 31 e i riti prescritti dalla Legge in Lv 16. Nel disegno divino l’antica alleanza ha svolto un ruolo importante ma preparatorio, in vista del compimento della nuova alleanza in Cristo. Allo stesso modo l’antico culto e la sua istituzione sacerdotale appaiono realtà inefficaci a confronto con il nuovo sacrificio di Gesù Cristo (9,11-26), unico mediatore dell’alleanza nuova (12,24). La cristologia sacerdotale Mediante il confronto con l’antico culto e sacerdozio levitico (Aronne), si elabora una singolare cristologia sacerdotale. Con i titoli di «sacerdote» e di «sommo sacerdote» applicati a Cristo, l’autore afferma l’identità e la funzione mediatrice del Figlio di Dio. Con l’aiuto della tradizione scritturistica s’introduce un cambiamento radicale delle nozioni di sacrificio e di sacerdozio. Partendo dalle funzioni sacerdotali e dai riti antichi, la lettera mostra come Cristo merita il titolo di sacerdote perché egli fu intimamente unito a Dio e agli uomini. Come Figlio egli è stato intronizzato alla destra del Padre (1,4-14); come uomo, egli ha raggiunto la gloria percorrendo un cammino di piena solidarietà con i peccatori (2,11-16). Pertanto Cristo è divenuto il «mediatore perfetto» e deve essere riconosciuto come il «sommo sacerdote» (2,7; 3,1; 4,14) capace di conferire la salvezza a quanti per mezzo suo si accostano a Dio (7,24-25; 9,11). L’attestazione di questa verità di fede è avvalorata dall’interpretazione del Sal 110, che presenta il Messia nella linea di Melchisedek (Gen 14,18-20), figura prefigurativa dell’eterno sacerdozio di Cristo. Tale mediazione si è compiuta in Cristo che si è offerto «una volta per sempre» come vittima sacrificale nella sua passione, morte e risurrezione, entrando con il proprio sangue nel santuario celeste (tenda non fatta da mani d’uomo) e procurando una redenzione eterna (9,11-14; 10,8-10). La vita cristiana Il dono della salvezza connotato in chiave sacerdotale ha conseguenze radicali per la vita dei credenti. L’attesa segnata da riti di separazione e di purificazione del periodo pre-messianico è terminata grazie al sacrificio sacerdotale del Cristo, la cui obbedienza filiale schiude a tutti l’ingresso nel santuario, simbolo della riconciliazione con Dio (10,19-21). Avendo come fondamento la fede (11,1) ogni credente è invitato ad accostarsi al mistero di Dio e ad assumere la propria responsabilità nella storia, illuminata dalla splendida testimonianza dei padri (11,2-40). L’accentuazione escatologica che accompagna la descrizione simbolica del processo redentivo (santuario celeste, tenda, beni futuri, ecc.) non elude il realismo del quotidiano. Emerge forte nella lettera la concretezza della vita cristiana, insieme alla preoccupazione per una comunità matura e solidale. Una vita credibile si declina mediante la comunione fraterna (10,25; 13,1), la corresponsabilità nella testimonianza (13,17) e soprattutto nella sollecitudine verso le persone bisognose (13,1-3). La logica del dono di sé che ha contrassegnato la cristologia sacerdotale e cultuale, illumina la sottostante visione etica della lettera e la sua proiezione pastorale.

LETTERA DI SAN PAOLO APOSTOLO AGLI EBREI 10, 5-10 – COMMENTAIRES DE MARIE-NOËLLE THABUT

http://www.eglise.catholique.fr/approfondir-sa-foi/la-celebration-de-la-foi/le-dimanche-jour-du-seigneur/commentaires-de-marie-noelle-thabut/

(traduzione Google dal francese)

COMMENTAIRES DE MARIE-NOËLLE THABUT, DIMANCHE 20 DÉCEMBRE 2015

SECONDA LETTURA – LETTERA DI SAN PAOLO APOSTOLO AGLI EBREI  10, 5-10

DISPONIBILITA È MEGLIO CHE TUTTI I SACRIFICI

Due volte in queste poche righe, abbiamo sentito la stessa frase: « Eccomi, mio Dio, io vengo per fare la tua volontà »; è preso dal Salmo 39/40. Alcune parole, prima, questo salmo è un salmo di ringraziamento; Egli inizia descrivendo il pericolo mortale che il popolo di Israele fuggirono: « Da una grande speranza ho sperato il Signore: si chinò verso di me per ascoltare il mio grido. Mi tirò dall’orrore dell’abisso, melma e fango; mi ha fatto riconquistare una posizione sulla roccia, ha rafforzato i miei passi. « Questo di cui qui è l’esodo dall’Egitto! Ed è per questo comunicato che rende grazie. Il salmo continua: « Nella mia bocca, ha messo una nuova canzone, una lode al nostro Dio. « E un po ‘più avanti: » Tu non volevano sacrifici o offerte, ma mi hai fatto un corpo. Non hai accettato gli olocausti e l’espiazione del peccato; Allora ho detto: Eccomi, mio Dio, io vengo per fare la tua volontà « . Tradurre :. Il modo migliore per rendere grazie a Dio, questo non è quello di offrire lui sacrifici, è di renderci disponibili a fare la sua volontà, perché, in ultima analisi, « eccomi » è l’unico Dio si aspetta la risposta del cuore dell’uomo; è il famoso « eccomi » dei grandi servi di Dio; è quella di Abramo, per iniziare al momento del sacrificio di Isacco; sentire la voce di Dio che lo chiama, ha semplicemente risposto « eccomi »; e la disponibilità del patriarca era sempre esemplificato figlio d’Israele: l’episodio che noi chiamiamo il « sacrificio di Isacco » (Genesi 22) è considerato un modello, quando sappiamo bene che Isaac fa non uccisi; . la prova che da tempo capito che la disponibilità è meglio di tutti i sacrifici altro famoso « eccomi », è stato quello di Mosè presso il roveto ardente; e questa disponibilità a Dio era abbastanza per fare questo pastore che ha sostenuto balbuziente gran capo del popolo è diventato. Alcuni secoli più tardi, nel tempo dei Giudici, un altro « Eccomi » era che di piccolo Samuele, il che era quello di diventare un grande profeta di Israele. Ricordate la storia della sua vocazione: era stato consacrato dai suoi genitori al servizio di Dio nel santuario di Shiloh con il sacerdote Eli, e ha vissuto con il vecchio prete. Una notte aveva ripetutamente udì una voce che chiama; potrebbe essere solo che il sacerdote, naturalmente; e tre volte la bambina era salito precipitosamente in risposta al sacerdote, « mi hai chiamato, eccomi qui. » E ogni volta ha risposto « no, io non ho chiamato. » La terza volta, il sacerdote si rese conto che il bambino non stava sognando e gli diede questo consiglio: « la prossima volta che la voce si chiama, si dirà: Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta. « (1 Samuele 3: 1-9). Samuel è rimasto nella memoria di Israele come un modello di disponibilità alla volontà di Dio. Fu lui che, pochi anni dopo quella notte memorabile, come un adulto, ha osato dire primo re d’Israele (Saulo) questa bella frase: « Ama il Signore bruciato offerte e sacrifici tanto quanto l’obbedienza la parola del Signore? No! L’obbedienza è meglio del sacrificio, la docilità al grasso di montoni. « (1 Samuele 15, 22). L’ideale di Samuele era solo per essere un umile servo di Dio, è stato per molti anni. E si sa che il titolo di « servo » di Dio è il più grande complimento che siamo in grado di fare un credente nella Bibbia. A quel punto, nei primi secoli dell’era cristiana nei paesi di lingua greca, ci è piaciuto dare il suo figlio il nome di « Christodoulos » (Christodoulos) che significa « servo di Cristo »! (C’è un monastero di San Christodoulos a Patmos, per esempio).

NESSUNA SCUSA VALIDA PER sottrarsi Questa insistenza sulla disponibilità ci dà una doppia lezione sia molto incoraggiante e terribilmente impegnativa: se Dio sollecita la nostra disponibilità, significa che tutti, ognuno di noi, come siamo, possiamo essere utile per il Regno di Dio; Qui è incoraggiante e meraviglioso. Ma seconda conseguenza, ciò significa anche che, quando è necessario un impegno di servizio di noi, non saremo mai in grado di nascondere dietro i nostri soliti argomenti:! Nostra ignoranza, la nostra incompetenza o indegnità L’autore della Lettera agli Ebrei riproduce quindi il testo del Salmo 39/40 e sa parla per tutto il popolo; ma la applica a Gesù Cristo, perché nessuno meglio di lui può dire in tutta verità: « Non voleva che i sacrifici o offerte, ma mi hai fatto un corpo. Non hai accettato gli olocausti e l’espiazione del peccato; Allora ho detto: Eccomi, mio Dio, io vengo per fare la tua volontà, perché è da me che parla la Scrittura. « Notiamo che la disponibilità di Cristo al Padre non inizia la sera del Giovedi Santo. Non è solo la morte di Cristo, che è la questione della sua offerta, ma tutta la sua vita, l’amore dato a tutti durante la notte, fin dall’inizio della sua vita: « Entrando nel mondo, Cristo ha detto … mi hai fatto un corpo … Eccomi. « (V. 5-7 ancora citando il Salmo 39/40). Ora, naturalmente, il Corpo di Cristo, noi siamo, niente altro da fare se non continuare ogni giorno a dire » eccomi  » . … (e agire di conseguenza di corso)

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- « La disponibilità è meglio di qualsiasi sacrificio », questa frase ebraica non significa che si debba rimuovere i sacrifici; . Ma sono prive di significato se non sono accompagnati da una vita di disponibilità e di servizio a Dio e gli uomini – In un contesto di lotta contro gli idoli, ha parlato anche della « labbro sacrificio »; vale a dire una preghiera e lode diretti verso l’unico Dio di Israele. Perché potrebbe anche succedere che offrire sacrifici costosi per il tempio di Gerusalemme, pur continuando a trasmettere preghiere ad altri dèi; se questo non è buono, non fa male, come si dice; i profeti erano molto severi su di esso, perché fa male esattamente al contrario di quanto noi crediamo! Offrire a Dio il « lip sacrificio » è stato quello di appartenere a lui incontrastato. Ed era meglio, sapevamo che tutti i sacrifici di animali. Basta leggere Osea ad esempio, « Come un toro, vi offriremo in sacrificio alle parole delle nostre labbra. « (Os 14,3). E facendo eco il Salmo 50/51: « Offri a Dio un sacrificio di lode, e pagare i tuoi voti all’Altissimo … Chi offre lode in sacrificio mi glorifica. . « (Sal 50/51, 14. 23) – In termini di disponibilità, in quanto l’unica condizione per il servizio di Dio, noi abbiamo un buon esempio con la storia di Giacobbe, non era un » chierichetto  » e la narrazione biblica non fa nulla per attenuare la sua disonestà a volte! Ma aveva una qualità importante, la sete di Dio. Questo è ciò che gli ha permesso di entrare nella grande catena dei servi del piano di Dio.

EBREI 9,24-28; 10,19-23 – TESTO E COMMENTO BIBLICO

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Ebrei%209,24-28;%2010,19-23

EBREI 9,24-28; 10,19-23 – TESTO E COMMENTO BIBLICO

Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, allo scopo di presentarsi ora al cospetto di Dio in nostro favore, e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui. In questo caso, infatti, avrebbe dovuto soffrire più volte dalla fondazione del mondo. E invece una volta sola, ora, nella pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso.
E come è stabilito che gli uomini muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una volta per tutte allo scopo di togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione col peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.
Avendo dunque, fratelli, piena fiducia di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne; avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero in pienezza di fede, con il cuore purificato dalla cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso.

COMMENTO
Ebrei 9,24-28; 10,19-23
L’efficacia del sacerdozio di Cristo
Il brano è situato nella parte centrale dello scritto in cui si affronta il tema del sacerdozio e del sacrificio di Cristo (Eb 5,11 – 10,39). Il centro di questa sezione consiste nella proclamazione di Cristo come Sommo sacerdote dei beni futuri (Eb 9,11). Essa è preceduta da un invito all’attenzione e alla generosità (5,12-6,20) e da un approfondimento su Gesù sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek (7,1-28). Per illustrare la perfezione di questo sacerdozio, esso viene confrontato con quello antico, terrestre prefigurativo (8,1-6), espressione di un’alleanza imperfetta e provvisoria (8,7-13) e dotato di istituzioni inefficaci (9,1-10). Il sacerdozio di Gesù invece comporta nuove istituzioni da lui rese efficaci (9,11-14), una nuova alleanza capace di operare la purificazione (9,15-23) e un nuovo culto che apre l’accesso al santuario celeste (9,24-28), causa di salvezza eterna (10,1-18). Questa sezione termina con un invito alla fedeltà e all’impegno (10,19-39)
Il testo proposto dalla liturgia è preso dal brano che descrive efficacia del sacerdozio di Cristo in quanto esso si configura come un ingresso nel santuario celeste; ad esso è aggiunta una parte dell’esortazione finale.
Ingresso di Cristo nel «santuario» celeste (9,24-28)
Nella prima parte del brano liturgico (vv. 24-26) la «perfezione» del sacrificio di Cristo viene identificata nel fatto che egli ha avuto accesso a Dio nel santuario «celeste». Ispirandosi a Es 25,9, l’autore dello scritto ritiene infatti che il vero santuario si trovi in cielo, dove risiede Dio, mentre il Santo dei santi, cioè la parte più sacra del tempio di Gerusalemme, ne era solo una «figura». Inoltre egli afferma che Cristo ha offerto non il sangue degli animali, ma se stesso a Dio «una volta sola, alla pienezza dei tempi». Siccome egli è il Figlio, incaricato di portare a compimento il piano salvifico di Dio (cfr. 4,8), la sua offerta volontaria ha avuto un’efficacia infinita, eliminando una volta per tutte i peccati. Ciò gli toglie la necessità di entrare nel santuario ogni anno, come era costretto a fare l’antico sommo sacerdote.
Infine l’accesso definitivo al Padre consente a Cristo di essere continuamente «presente» al suo cospetto «in nostro favore». Proprio per questo il suo sacerdozio è ancora in funzione: Cristo non solo ci ha salvato, ma continua a salvarci. L’autore ribadisce in forma ancora più sintetica quanto in precedenza aveva già detto contrapponendo il sacerdozio di Cristo a quello levitico: «Quelli sono diventati sacerdoti in gran numero, perché la morte impediva loro di durare a lungo; egli invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore» (7,23-25).
L’affermazione riguardante il carattere unico e definitivo del sacrificio di Cristo viene poi ribadita mediante un’analogia ripresa dall’esperienza umana (vv. 27-28). La morte, strettamente collegata con il «giudizio», è presentata qui come un evento definitivo in quanto, da una parte, chiude l’esperienza terrena dell’uomo e, dall’altra, rappresenta il momento cruciale in cui viene fatta una valutazione inappellabile della vita ormai conclusa. Secondo l’autore tutto ciò si verifica, a un livello più alto, in Cristo: la sua morte è definitiva soprattutto perché comporta la liberazione di tutti gli uomini dal peccato. E appunto per questo quando «apparirà una seconda volta» per il giudizio, la sua venuta non avrà più a che fare con il peccato. Il suo «giudizio» servirà solo a separare coloro che «lo aspettano per la loro salvezza» da coloro che l’hanno respinto. Implicitamente dunque si mettono in guardia i credenti dal trascurare la «salvezza» che egli ha offerto loro «una volta per tutte». In seguito l’autore li avvertirà che, se peccheranno dopo aver ricevuto la verità, rimarrà loro solo «una terribile attesa del giudizio» (10,27): infatti «è terribile cadere nelle mani del Dio vivente!» (10,31). La salvezza, guadagnata a così caro prezzo da Cristo, è troppo grande perché possa essere sottovalutata o respinta.
L’ingresso dei credenti (10,19-23)
Nell’esortazione finale della sezione centrale della lettera l’autore ritorna sul messaggio enunciato poco prima e ne tira le conseguenze per i lettori. Egli sottolinea che Gesù, sommo sacerdote, è giunto realmente al cospetto di Dio mediante il suo sangue. Il suo ingresso ha avuto luogo attraverso il velo, che rappresenta simbolicamente la sua carne. Così facendo ha aperto la strada ai credenti, perché possano, guidati da lui, presentarsi di fronte a Dio e diventare pienamente partecipi dei beni promessi. Questo ingresso per i credenti in Cristo richiede un fede intensa e una purificazione interiore che deriva da un bagno purificatore che si identifica con il battesimo. Inoltre è richiesta una speranza che non vacilla, perché si basa su uno che per definizione è fedele, cioè Dio. In questa prospettiva il sacerdozio di Cristo diventa la premessa di un sacerdozio esteso a tutti i credenti, che a loro volta lo eserciteranno in favore di tutti gli uomini.

Linee interpretative
L’autore non elabora le sue intuizioni in chiave dottrinale, ma guida i suoi lettori a toccare con mano l’efficacia dell’agire sacerdotale di Cristo, confrontandolo con il culto del tempio che, in quanto prefigurativo e ripetitivo, appare ormai inefficace. L’agire sacerdotale di Cristo culmina sulla croce, dove egli offre in sacrificio non il «sangue di capri o di tori», ma il «proprio sangue» (9,11-19), sotto l’impulso di «uno spirito eterno» (9,19), che è lo spirito dell’amore. L’offerta di Cristo è pienamente efficace, perché in essa si fondono il dono di Dio all’umanità e la risposta umana ispirata dalla fede. Proprio a causa della sua capacità di rappacificare definitivamente, «una volta per sempre», l’uomo con Dio, l’offerta sacrificale di Cristo non può essere che unica; essa si differenzia quindi radicalmente dai sacrifici della prima alleanza, i quali con la loro ripetitività dimostravano di non raggiungere lo scopo per cui erano fatti. L’espressione «una volta per sempre» (9,12.26.27.28) sottolinea efficacemente la ricchezza che è propria di ciò che ha valore « definitivo », e quindi non è reiterabile.
Il sacrificio unico e definitivo di Cristo è collegato con l’idea di una nuova «alleanza», la quale viene conclusa in forza del suo sangue versato sulla croce. Questa alleanza, proprio perché nasce dall’amore e tende a creare una risposta di amore, viene descritta sulla falsariga di quella annunziata dal profeta Geremia, le cui parole sono ricordate a più riprese nel corso della lettera (Ger 31,31-34; cfr. Eb 8,6-13; 10,15-18). Cristo appare così come il «mediatore» di una migliore alleanza, la quale si distingue dalla precedente in quanto le sue leggi sono scritte non su tavole di pietra, ma nel «cuore» vivo degli uomini, e come tale esige la santità del cuore e della vita.
L’efficacia del sacrificio di Cristo è descritta, ad analogia di quanto era compiuto dal sommo sacerdote nel giorno dell’espiazione, come un solenne ingresso nel santuario celeste. Con questa potente immagine l’autore mostra come Cristo, con il suo sacrificio, ha annullato la distanza che separa l’uomo dal Dio inaccessibile e santissimo; così facendo egli ha realizzato il desiderio più profondo dell’uomo che, pur essendo confinato nella sua realtà terrestre e peccaminosa, anela ad essere liberato dai suoi limiti, per potersi ricongiungere con l’infinito da cui deriva. In forza della mediazione sacerdotale di Cristo questa possibilità è offerta a tutti e per sempre.
A motivo del suo ingresso nel cielo, al cospetto di Dio, Cristo continua ad esercitare un sacerdozio «celeste»: è chiaro che questo non consiste nell’offrire a Dio nuovi sacrifici, ma semplicemente nel prolungare all’infinito gli «effetti» salvifici dell’unico sacrificio della croce. Il sacerdozio di Cristo trova il suo necessario adempimento nella vita di fede dei credenti: «Per mezzo di lui dunque offriamo continuamente un sacrificio di lode a Dio, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome» (cfr. Eb 13,15). È questo, anche se l’autore non usa l’espressione, il «sacerdozio regale» che abilita i cristiani a «offrire sacrifici spirituali graditi a Dio» (cfr. 1Pt 2,5). L’unico sacerdozio di Cristo non esclude nella comunità dei credenti la presenza di doni spirituali e di ministeri (cfr. Ef 4,11-13), ma esige che siano esercitati in una dimensione sacerdotale analoga alla sua, cioè in spirito di totale e gratuita offerta di sé a Dio e ai fratelli.

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