http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/Anno_A-2014/5-Ordinario-A-2014/Omelie/22a-Domenica-A/12-22a-Domenica-A-2014-SC.htm
31 AGOSTO 2014 | 22A DOMENICA A | T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO
OMELIA DI APPROFONDIMENTO
Nelle letture bibliche di questa Domenica ci troviamo in un contesto completamente antitetico a quello della Domenica scorsa. Là si celebrava la « messianicità » trascendente di Cristo; qui invece egli stesso si presenta come colui che « dovrà soffrire molto » e addirittura « venire ucciso dagli uomini » (cf Mt 16,21). Là Pietro ha fatto la sua confessione di fede, così sicura e completa da essere riconosciuto come « ispirato » dall’alto, e viene stabilito da Cristo quale « roccia » di fondamento per la sua Chiesa (cf Mt 16,18); qui invece egli sembra contrapporsi al disegno di Dio e viene respinto da Cristo quale « pietra di scandalo » per la sua opera di salvezza.
È evidente la contrapposizione, che Matteo stesso sembra compiacersi di sottolineare: tanto più che i due brani, quello della Domenica passata (Mt 16,13-20) e quello di oggi (Mt 16,21-27), si seguono immediatamente.
Come mai questa contrapposizione? Sicuramente Matteo ha voluto insegnarci che essa è insita nel « mistero » stesso di Cristo.
Proprio per questo egli è « mistero »: perché include in sé certi « aspetti » che non sembrano potersi facilmente comporre tra di loro. Come, ad esempio, questi: la sua trascendenza e la sua divinità confessata da Pietro, e la sua destinazione alla sofferenza e alla morte. Pietro si scandalizza; ma anche noi ci scandalizziamo davanti alle richieste scomode, saremmo tentati di dire assurde, che Cristo subito dopo propone a tutti i suoi discepoli.
In questa tensione e in questa « sofferenza », che il nostro aderire al disegno di Dio provoca in ciascuno di noi, sta, a mio parere, il segno dell’autenticità del nostro credere all’immensità del « mistero » rivelatoci da Dio in Cristo.
« Da allora Gesù cominciò a dire apertamente che doveva andare a Gerusalemme e soffrire »
Incominciamo dal brano di Vangelo, che si compone di due parti nettamente distinte, ma anche collegate fra di loro: la prima ci riferisce il preannuncio della imminente Passione del Signore e la brusca reazione di Pietro (Mt 16,21-23); la seconda ci riporta alcune taglienti sentenze di Cristo sull’obbligo dei suoi discepoli di « seguirlo » sulla via della croce (vv. 24-27).
Nel primo brano ci sono diverse cose da rilevare. Prima di tutto, la immediatezza brusca e quasi sconsiderata di Pietro, che tenta di arrestare Gesù dall’attuare il suo proposito di andata a Gerusalemme, dove si sarebbe consumato il suo martirio. È certo che Pietro compie questo gesto per uno spontaneo moto di affetto verso il Maestro: e in questo è comprensibilissimo. È la sua migliore, anche se impetuosa, umanità che affiora.
Ma è anche vero che questa immediatezza nasceva da una « incomprensione » dei disegni di Dio, come fa rilevare subito, con aspro rimprovero, Gesù: « Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini! » (v. 23). Pur dopo la sua confessione di fede, autentica e sincera, Pietro rimane impigliato nella trama delle attese messianiche correnti: un messianismo « trionfalistico », di splendore e di potenza terrena, perciò del tutto alieno da qualsiasi riferimento alla sofferenza e alla umiliazione. E questo, per Pietro, doveva essere giusto, se era vero quello che egli aveva poco prima confessato di Gesù: « Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente » (v. 16). A questo punto interveniva perfino la sua « teologia » a confondergli le idee!
Ma davanti a Gesù non ci si può porre né con la nostra emotività, né con i nostri pregiudizi, né con la nostra « ragionevolezza », e neppure con la nostra teologia. Siccome il supremo « rivelatore » di se stesso e dei disegni di Dio è soltanto Lui, ci si deve porre davanti a Lui in umile atteggiamento di fede e dar credito alle sue « parole » soltanto, anche se sconvolgenti e paradossali come quelle che Gesù sta dicendo adesso.
Pietro non ha rinnegato la fede già prima proclamata; soltanto fa il tentativo di ridurla agli schemi « umani » correnti, di « razionalizzarla », in un certo senso. Ma è proprio qui che rischia addirittura di perderla, perché non la misura più a ciò che « pensa Dio » (v. 23), ma a ciò che « la carne e il sangue » (cf v. 17) in quel momento gli suggeriscono.
In questo senso comprendiamo anche la ripulsa violenta di Gesù, che arriva a qualificarlo come strumento di Satana: « Lungi da me, satana! » (v. 23). È evidente qui il rimando al racconto delle tentazioni (Mt 4,1-10), dove Satana fa di tutto per indirizzare il Maestro sulla via di un messianismo terrenistico, che per affermarsi si avvale del lustro del potere, del fascino della ricchezza e della comodità del vivere: i « pani » a disposizione di chiunque abbia fame!
Sono, tutti questi, elementi che dicono anche la « storicità » del fatto. E non solo dello « scandalo » di Pietro, che non poteva essere chiamato « satana » qualora Gesù non avesse davvero detto questa così grave parola; ma soprattutto dicono la storicità delle parole con cui Gesù preannuncia la sua prossima fine violenta, provocando « scandalo » tra i suoi. Gesù, infatti, non poteva non avere la coscienza di quanto gli sarebbe tra non molto accaduto!
Però egli non attribuisce tutto questo a mera fatalità, o al drammatico gioco di circostanze ineluttabili; ci vede, al contrario, un disegno già prestabilito dal Padre: « Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva (in greco « déi ») andare a Gerusalemme e soffrire molto… » (v. 21).
« Nella Bibbia la parola greca déi (bisogna) non è più usata come lo era nella letteratura greca per esprimere la necessità neutrale del fato, ma è usata, specialmente nel Nuovo Testamento, per significare che la volontà di Dio, in quanto appello personale o in quanto creatrice di storia – in particolare della vita di Cristo -, deve essere portata a termine. In altre parole, le implicazioni di déi mostrano che « la sofferenza, la morte e la risurrezione di Gesù sono parti di un dramma escatologico. Cristo non è esattamente il predicatore dell’escatologia; la sua storia è escatologia » (W. Grundmann). Si può supporre che negli annunzi della passione, come in Luca 24,44-47, déi si riferisca alla volontà di Dio in quanto rivelata nella Scrittura (cf Mc 9,12), in particolare – a quel che sembra – nei testi che si riferiscono al Servo di Dio (Is 53) e al giusto sofferente (Sal 22) ».1
« Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà »
La volontà di Dio, però, non ha previsto soltanto le sofferenze e anche la futura gloria (« il terzo giorno risusciterà ») del Messia, ma anche la sofferenza dei suoi discepoli. A questo punto la lezione per Pietro dovette essere anche più dura! Egli, che voleva allontanare Gesù dalla « via della croce », si sente dire che quell’itinerario dovrà percorrerlo anche lui. Egli sarà « roccia » della Chiesa non soltanto in forza della sua fede, ma anche in forza della sua capacità di « soffrire » e di seguire il Maestro fin sulla croce, magari con la faccia riversa a terra per il senso di indegnità che provava di rassomigliargli troppo, come ci dice la tradizione (cf Gv 21,18-19).
Nei vv. 24-27 del testo che stiamo commentando abbiamo una raccolta di detti, in origine indipendenti, ma ora collegati redazionalmente intorno al tema della « necessità », anche per il « discepolo » di Cristo, di continuare in sé la « passione » del Maestro. Questo fa vedere concretamente le implicazioni della fede: confessare Cristo come « Figlio del Dio vivente » dava un senso di esaltazione mistica e di gioia, che poteva anche fermarsi lì; confessarlo invece come « il Servo sofferente », che « dà la sua vita in riscatto di molti » (Mc 10,45), significava, anche per Pietro, sentirsi coinvolto nel destino di sofferenza del suo Maestro. Di qui la sua difficoltà, che è poi anche la nostra, ad accettarlo come il Messia destinato alla morte!
Di questi vari detti del Signore, tutti paradossali e brucianti, mi sembra che il più paradossale sia il secondo, che è un po’ come la sintesi di tutto il resto. Proprio per questo deve aver fatto enorme impressione ed è riportato, oltre che dai Sinottici,2 anche da san Giovanni (12,25): « Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà » (v. 25).
È l’invito di Cristo ai suoi discepoli a non porsi al centro di nessun interesse, a cercare il centro fuori di sé, e precisamente in Cristo (« per causa mia ») e negli altri. Il « perdersi », in tal modo, è sempre un « ritrovarsi », perché è un aprirsi, un dilatarsi, quasi un nascere, o rinascere, nel cuore dei fratelli.
È precisamene quello che Cristo ha fatto nella sua passione e morte: ha cercato il centro fuori di sé, si è « perduto », si è « svuotato » (Fil 2,7-8), si è « rinnegato », si è donato agli altri. La « croce » è il simbolo materiale di questa realtà tutta « spirituale »: però, « perdendosi », Cristo si è anche « ritrovato » nella gloria della risurrezione e nella pienezza della sua vita immortale.
Il cristiano, dunque, non ha una via diversa da quella di Cristo davanti a sé. E non è necessario essere materialmente crocifissi anche noi, come Pietro, per essere « imitatori » del Signore. La « crocifissione » consiste nella coerenza e nella fedeltà al nostro impegno cristiano, nello spenderci e nel « perderci » per Cristo e per i fratelli, « non ricercando il nostro bene, ma solo quello degli altri » (cf Fil 2,21).
È commovente questo aspetto di « crocifissione », che uno fra i più penetranti osservatori dei fatti sociali ed efficacissimo scrittore metteva in evidenza nella figura così sofferta e sofferente di Paolo VI ad appena tre giorni dopo la sua morte (6 agosto 1978): la sua « successione » a Pietro nell’ufficio pastorale è stata una « successione » anche nel martirio!
« L’amore di Paolo VI non fu meno infinito dell’amore di Giovanni XXIII; fu soltanto un amore più cruciato, cioè a dire più crocifisso; è, dunque, nella sua quotidiana sofferenza ancora più vicino a chi sulla croce per noi tutti, credenti e non credenti, ha offerto la sua vita d’uomo e di Dio. Coloro che hanno vissuto e vivono, facendolo proprio, essendone anzi parte sanguinante, il dramma della nostra epoca, vedranno certamente in Papa Montini il loro più appassionato e dolente compagno; colui che fu e sarà per loro, anche nella febbre, anche nelle piaghe, anche nella notte, « in passione socius »".3
« Mi hai sedotto, o Signore, e io mi sono lasciato sedurre »
E qui potremmo anche chiudere il nostro discorso, forse già troppo lungo. Vogliamo solo aggiungere che questa esperienza di « crocifissione » è l’esperienza che deve fare ogni credente, proprio nella misura in cui è credente. È l’esperienza che hanno fatto Abramo, Mosè, i Profeti.
Fra questi ultimi la Liturgia odierna ci ricorda Geremia, che è diventato un po’ come il simbolo di tutta la sofferenza umana, un’anticipazione del Cristo morto sulla croce. Sono sconvolgenti le espressioni di lamento e di rammarico che egli rivolge a Dio in questo brano desolato delle sue « confessioni ».
Tanto è il suo dolore che egli è tentato di rifiutare la vocazione profetica. Ma Dio è più « forte » di lui, ed egli sente come un « fuoco » che gli brucia dentro e non può essere spento: « Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; / mi hai fatto forza e hai prevalso… / Mi dicevo: « Non penserò più a lui, / non parlerò più in suo nome! ». / Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, / chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, / ma non potevo » (Ger 20,7-9).
« Vi esorto ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente »
San Paolo si rifà alla stessa esperienza di « crocifissione » quando, scrivendo ai Romani, diceva: « Vi esorto, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale » (Rm 12,1).
Il culto « nello Spirito », che il cristiano deve offrire ogni giorno raffrenando le voglie dei propri istinti perversi, è dunque considerato da Paolo un autentico « sacrificio ». Ma tutto questo richiama alla idea della rinuncia, della sofferenza, del distacco.
È ancora il « perdersi », nei gesti umili e semplici di ogni giorno, nella fedeltà all’amore a Dio e ai fratelli, che ritorna in primo piano. Questo, e soltanto questo, significa confessare con sincerità Cristo « morto e risorto ». Per questo Pietro si era allora « scandalizzato » e come impaurito!
Da: CIPRIANI S.