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KIERKEGAARD E SAN PAOLO: DUE GRANDI A CONFRONTO

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KIERKEGAARD E SAN PAOLO: DUE GRANDI A CONFRONTO

20 marzo 2014

Felice Diego Licopoli

L’”età dell’ansia”, così come viene denominato il periodo precedente le due guerre mondiali, contraddistingue un crocevia storico dominato dall’angoscia, dalla paura su un futuro apocalittico che incombe sulla popolazione mondiale come una spada di Damocle, che nel pensiero collettivo si traduce nella “grande mietitrice” pronta a devastare l’umanità, gettandola così in un abisso senza fine, in una notte eterna.

In questo tremendo caos, l’unico epicentro comune, l’unico barlume di salvezza diviene Dio, la speranza universale di un mondo senza più guerre, senza più conflitti, senza più esplosioni atomiche. Il ruolo centrale di Dio, così come quello del Kristos, ovvero il Messia, viene ripreso concettualmente nella corrente filosofica dell’Esistenzialismo, in cui spiccano come figure dominanti due grandi menti, lontane nel tempo tuttavia vicine nel pensiero: San Paolo e Kierkegaard.Proprio su quest’ argomento si è tenuto un interessantissimo dibattito nel nuovo appuntamento con la cultura, alla libreria “Cultura” Di Reggio Calabria. Come sempre, dopo l’elegante presentazione del presidente del CIS Rosita Lorelay Borruto, sono intervenuti nel dibattito, presentati e coordinati da Gianfranco Cordì, Rosaria Catanoso, Marco Comandè, Franco Iaria ed Emilia Serranò “ L’età dell’ansia può essere vista in diversi modi” ha così cominciato Cordì: “. Braz, ad esempio, afferma che tutto ciò che si riverberava nella storia, durante quel periodo, nella fattispecie quest’ansia che era insita nelle società,assumeva anche un significato letterario,. Per quanto riguarda Kierkegaard, egli è senza dubbio autore dell’angoscia, e fa di essa la condizione degna dell’uomo affinché possa stare al mondo. San Paolo invece è il primo autore della storia dell’occidente a parlarci di ansia” E’ poi intervenuta Catanoso, la quale ha asserito:”San Paolo e Kierkegaard rappresentano senza dubbio due figure molto diverse, sia dal punto di vista temporale che filosofico. Abbiamo da un lato il filosofo dell’Ottocento, che controbatte all’Idealismo, in contrapposizione all’apostolo, che ha avuto l’onere di portare l’Annuncio in giro per il mondo.
Sono entrambi pensatori che si interrogano sull’individuo e sul male che affligge l’uomo. Secondo San Paolo, l’animo umano è scisso da due leggi in contrapposizione l’una con l’altra.
Per Comandè:”L’età dell’ansia fa venire in mente l’età dell’uomo, espressa nel famoso enigma della Sfinge; in codesto caso, l’ansia stessa corrisponde alla vecchiaia a cui l’uomo è costretto a far fronte.
Kierkegaard potrebbe costituire un tramite tra mondo antico e moderno, in quanto egli si pone il problema della libertà. L’età dell’ansia cammina di pari passo con l’età del dubbio, se non si supera l’una di conseguenza non può essere superata l’altra.” Successivamente ha preso la parola Iaria, il quale ha sostenuto che “L’angoscia non è una categoria astratta, bensì fa parte del vissuto di ognuno di noi. Kierkegaard fa parte secondo me, della filosofia dell’Irrazionale. Noi quando parliamo dell’età dell’ansia, identifichiamo in genere il Novecento. Secondo me invece, questo periodo è da retrodatare all’Ottocento, epoca in cui si sono generati i due poli da cui poi è nata l’angoscia, ovvero il progresso e la decadenza. Nell’Ottocento, abbiamo inoltre le grandi fratture rivoluzionarie con lo stesso Kierkegaard, il quale contesta il cristianesimo storico, e si impegna invece per la definizione del singolo, che diventa cristiano dopo duemila anni.”
Per a Serranò: “Il tema è molto complesso. Il problema che mi sono personalmente posta come età dell’ansia, è la condizione individuale degli autori nei confronti non solo della religione, ma della scelta della fede. L’ansia è una sorta di cambiamento interiore, una rivoluzione del proprio modo di essere e di pensare, che non è di certo un passaggio semplice da compiere. L’attinenza con Kierkegaard, sta nella complessità del percorso esistenziale, avvenuta in ambo i personaggi. Kierkegaard pone l’aut-aut, espresso negli stati dell’esistenza. Kierkegaard fonda la sua filosofia sul singolo, che non appartiene a nessuna categoria; egli ha costruito al filosofia della totalità, partendo dall’Assoluto dove tutto si dissolve”. La stessa Borruto ha successivamente sostenuto: “In quel periodo abbiamo la corrente del Positivismo, dove cadono tutti i grandi riferimenti, eccetto il concetto di Dio, che rimane un punto cardine della filosofia.” Cordì, che asserisce il significato etimologico della parola “filosofia” come “amici della sapienza”; significato eccellentemente appropriato per definire questa straordinaria disciplina, in grado di aprire la mente umana al concetto stesso di esistenza, che è molto facile da riscontrare anche all’interno della nostra società.

San Paolo nella letteratura moderna

PAOLO ESALTATO E CONTESTATO
(presentazione mia dello studio, non sapevo quanta letteratura anche « contro » Paolo!)

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San Paolo nella letteratura moderna

Attenta com’è all’ascolto delle voci profonde, la letteratura non può non ascoltare quella di san Paolo. Dai primi secoli del cristianesimo ai nostri giorni, poeti, romanzieri e letterati gli si sono accostati, lo hanno ascoltato, interpellato, esaltato, contestato…
L’articolo è una carrellata, agile e sintetica, ma sintomatica, sulla letteratura moderna — saggistica, narrativa, opere drammatiche, biografie — per rintracciare e presentare i vari atteggiamenti assunti nei riguardi di san Paolo. La carrellata prende l’avvio da Nietzsche e inquadra autori di diverse estrazioni: Gibran, Gide, Merejkowski, Papini, I. Giordani, Luzi, Citati, Taylor Caldwell, Dobraczynski, Mészoly, G. Manacorda, Fabbri, Pasolini, E. Baumann, Daniel-Rops. Le varie inquadrature mostrano l’interesse della letteratura per una personalità così densa di storia, di pensiero, di anima e di mistero come quella dell’apostolo Paolo. Il suo posto fu tale che non possiamo comprendere Gesù e la sua Parola senza riferirci al messaggio e all’azione del genio di Tarso.
Attenta com’è all’ascolto delle voci profonde, la letteratura non può non ascoltare quella di san Paolo. Dai primi secoli del cristianesimo ai nostri giorni, poeti, romanzieri e letterati gli si sono accostati, lo hanno ascoltato, interpellato, esaltato, contestato. L’articolo analizza l’incontro di 17 autori moderni con san Paolo. La carrellata, agile e sintetica, ma sintomatica, vuole presentare i vari atteggiamenti della letteratura nei riguardi dell’Apostolo, percorrendo saggistica, narrativa, opere drammatiche e biografie, oltre che il film mancato di Pasolini.
 
San Paolo nella saggistica
In Ecce homo Nietzsche (1844-1900) si è autodefinito: «Io non sono un uomo, sono dinamite» (1). Dinamite perché, novello messia, avrebbe scosso dalle fondamenta il vecchio mondo per costruirne uno nuovo. A frantumarsi per primo sarebbe stato il cristianesimo, fondato non da Gesù ma da Paolo di Tarso. Contro di lui egli si scaglia con violenza e disgusto, soprattutto nel capitolo 42 dell’Anticristo. «In Paolo — scrive — s’incarna il tipo opposto al “buon nunzio”, il genio in fatto di odio, di inesorabile logica dell’odio! Che cosa non ha sacrificato all’odio questo disangelista?» (2). Innanzitutto ha sacrificato Gesù: «Lo ha inchiodato alla sua croce». Paolo ha cancellato quanto non serviva al suo odio. Non gli serviva «il significato e il diritto dell’intero Vangelo», ma la sua contraffazione; «Non la realtà, non la verità storica [...]. E ancora una volta l’istinto sacerdotale degli Ebrei commise un identico, grande crimine contro la storia [...], si inventò una storia del primo cristianesimo». Non soltanto: falsificò la storia d’Israele, asservendo tutto ai suoi scopi.
La menzogna più deleteria di Paolo riguarderebbe la risurrezione di Gesù. A lui non serviva un redentore morto in croce, serviva un redentore risorto. «Paolo voleva il fine, quindi volle anche i mezzi [...]. Ciò che egli stesso non credeva, credettero gli idioti, tra i quali aveva diffuso la sua dottrina. — La potenza era il suo bisogno: con Paolo ancora una volta il prete mirò alla potenza — egli poteva utilizzare soltanto idee, teorie, simboli, con cui si tiranneggiano masse, si formano greggi». A tale scopo serviva soprattutto la credenza nell’immortalità, vale a dire la dottrina del “giudizio”». È doveroso pertanto definire Paolo uno spaventoso impostore, negatore della vita, nemico dell’umanità. Se il cristianesimo «è stato la più grande sciagura dell’umanità» lo si deve a Paolo di Tarso.
Sulla scia di Nietzsche si è avventurato anche Kahlil Gibran (1883-1931) in Gesù figlio dell’uomo (3). La presentazione di san Paolo ha un sapore selvatico: «A volte sembra quasi un animale nella foresta, braccato, ferito, in cerca di un antro dove celare al mondo la sua sofferenza» (p. 57). «Uomo strano», dai lineamenti disarmonici; quando parla non riferisce le parole di Gesù, ma predica il Messia annunciato dai profeti dell’antichità. È un giudeo colto, gode di «poteri nascosti», è capace di ammaliare l’uditorio. Si potrebbe definire un anticristo perché la sua dottrina è antitetica a quella di Gesù. Un personaggio che ha ascoltato entrambi così afferma: «Noi che conoscemmo Gesù e udimmo i suoi discorsi possiamo affermare che ci insegnava a rompere le catene della schiavitù per liberarci dal nostro ieri. Ma Paolo sta forgiando catene per l’uomo di domani. Col suo martello intende percuotere l’incudine nel nome di uno che neppure conosce» (p. 57). L’antitesi Gesù-Paolo continua spietata e approda alla seguente conclusione: Gesù vuole armonizzare l’umanità con quanto la natura ha di bello e di vivo, è portatore di gioia terrestre, liberatore da leggi e tradizioni, pura espressione del divino che è in noi; Paolo è nemico della vita e della gioia, schiavo di leggi e prescrizioni, annunziatore di un Gesù-Messia da lui pensato per compensare le proprie frustrazioni. Come il Gesù di Gibran è espressione poetica del suo romanticismo, così il suo Saulo di Tarso rivela l’insofferenza per quanto sa di Chiesa, cioè di dogmatico e di proibito.
Meno chiassosa ma più sottile e insidiosa delle precedenti è l’accusa che André Gide (1869-1951) ha formulato nei riguardi di san Paolo. Il perché va ricercato in uno degli aspetti portanti della sua opera. Scrive nei Nuovi nutrimenti: «Ho ammirato, non ho finito di ammirare, nel Vangelo, un sovrumano sforzo verso la gioia. La prima parola che ci è riferita del Cristo è “Beati…”. Il suo primo miracolo, la metamorfosi dell’acqua in vino [...]. C’è voluta la stolta interpretazione degli uomini, per fondare sul Vangelo un culto, una santificazione della tristezza e della pena» (4). Autore di questa stoltezza interpretativa è soprattutto san Paolo; la teologia della croce, recepita dalla Chiesa e presentata come verità rivelata, è sua invenzione. Spiegare questo tradimento del Vangelo («Anche il Vangelo secondo Marco, il più antico, avrebbe già subito l’influsso di Paolo») «è di suprema importanza». In merito, il testo gidiano più esplicito si trova nel Diario. Lo sintetizziamo.
Agli occhi del mondo la vita di Gesù è stata un fallimento. In realtà, Cristo, recandosi a Gerusalemme con gli Apostoli, pensava di andare verso il trionfo, non verso la morte in croce. Bisognava pertanto fornire una giustificazione della croce e dimostrare che la fine ignominiosa era stata prevista, dunque necessaria al compimento delle Scritture e alla salvezza degli uomini. Per questo motivo l’espressione «morto a causa dei peccatori» fu sostituita con l’altra: «morto per i peccatori». La sfumatura risultò «una felice confusione in favore della predicazione di san Paolo. Il Cristo non fu più veduto che sulla croce, e questa divenne il simbolo indispensabile. Era necessario gloriarsi soprattutto del segno dell’ignominia: solo così poteva apparire, ad onta di tutto, trionfatrice l’opera di colui che si era detto figlio di Dio. Ciò era indispensabile all’inizio per legittimare e propagare la dottrina» (5).
Gide ristabilisce la verità. La croce è una contraffazione del Vangelo; Cristo ha predicato la santità dei «nutrimenti terrestri» e degli istinti naturali; la «vita eterna», da lui proposta, non ha nulla di futuro, è l’immersione nell’«ebbrezza mistica» dei sensi che dà l’esperienza dell’éternité vécue dès maintenant. I divieti, le condanne e le minacce si cercano invano nel Vangelo: Tout cela n’est que de Saint Paul. Divenuta «padrona degli spiriti e dei cuori», la dottrina paolina ha reso impossibile il recupero della gioia evangelica: «La croce aveva trionfato del Cristo stesso, il Cristo crocifisso, questo si continuava a vedere, a insegnare. Ed è così che questa religione pervenne a oscurare il mondo (enténébrer le monde)» (6). La battuta è di sapore nietzschiano, ma Gide non vuole offendere Cristo: l’«oscuramento del mondo» si deve alla «follia della croce», escogitata dagli animi malati degli Apostoli e soprattutto da san Paolo.
«Riusciamo a scorgere il volto di Paolo, ma il suo cuore ci resta celato» (7). Così inizia la presentazione di Paolo lo scrittore russo Dimitri Merejkowski (1865-1941) nel volume Tre santi in cui, analizzando l’esperienza religiosa di Paolo, Agostino e Francesco d’Assisi, presenta la sua concezione cristiana. Di Paolo è un estimatore convinto. Lo ha frequentato leggendo le sue Lettere e gli Atti degli Apostoli, ha interrogato i suoi esegeti e i suoi storici, ne ha avvertito la presenza nel proprio spirito. Conseguenza? Un sentimento di stupore e di smarrimento perché nell’Apostolo egli ha avvertito la presenza di una realtà sconcertante: la santità. Con Paolo «s’inizia una via lungo la quale, simili a segni misteriosi o a segnali di fuoco, sorgono mille altri santi» (p. 12). Il mistero della santità ci resta sconosciuto.
Osservando il volto dell’Apostolo, Merejkowski riesce a cogliere il segreto del suo cuore: l’amore. «Nessuno, dopo Cristo, ha mai amato più di Paolo gli uomini di maggiore amore. Ecco dove si deve ricercare e dove si trova il segreto della vittoria di Paolo, che ha vinto il mondo» (p. 41). Tale amore è, in lui, fusione della sua volontà con quella del Salvatore; in essa «sta il mistero della Predestinazione, la gioia di tutte le gioie» (p. 31). Alla forza dell’amore si accompagna, in Paolo, la passione per la libertà. È «il più libero degli uomini» perché «sempre prigioniero dello Spirito» (p. 70). Questi due elementi hanno fatto di lui — come del resto anche di Gesù — un ribelle e un perturbatore: «Il primo ribelle è Gesù, il secondo Paolo» (p. 72), «il primo tra tutti i perturbatori è Gesù, il secondo è Paolo» (p. 85).
 Uno degli aspetti più significativi di san Paolo è, a parere di Merejkowski, il suo contrasto con Pietro: contrasto da lui enfatizzato fino alla contraffazione, allo scopo di far credere che «la Chiesa non proviene da Cristo» (p. 220). Pietro e la Chiesa sarebbero la legge, la schiavitù, la religiosità statica; Paolo il propulsore di una religiosità dinamica, ispirata allo spirito di libertà. «L’eterna opposizione, l’antinomia tra la legge e la libertà, lacera il cuore di Paolo e lacera il cuore di tutta la Chiesa» (p. 63). Il cristianesimo di Paolo è più genuino di quello della Chiesa perché «appreso da Cristo stesso, suo unico Maestro» (p. 45).
Questo atteggiamento anticattolico dello Scrittore russo gli deriva non soltanto dalla sua dipendenza da studiosi razionalisti e positivisti, ma soprattutto dal fatto che egli «trasfonde nella maggioranza dei suoi scritti la sua strana filosofia della religione, affettatamente profonda, ma in realtà superficiale e isterica» (8). A ciò si deve se il volto del suo san Paolo ha taluni tratti gradevoli e convincenti, altri ambigui e inaccettabili.
Di san Paolo Giovanni Papini (1881-1956) è un cultore entusiasta. Lo cita con frequenza, ne ammira la dedizione, l’energia, la passione. Nel volume Santi e poeti (9) ricerca «quel che di romano vi fu nel suo pensiero e nella sua opera»; nello stesso tempo delinea i tratti specifici della sua personalità. Partendo dall’assioma che «ogni genio ha più d’una patria», all’Apostolo assegna la Giudea come patria etnica, la Cilicia come patria carnale, Roma come patria per diritto e per desiderio.
Alla domanda: quali sono gli elementi che permettono di considerare «romani» il pensiero e l’opera di san Paolo, Papini così risponde: «L’aspirazione all’unità del genere umano, sotto una sola legge e un solo dominatore, la tendenza alla conquista dei popoli, il riconoscimento dell’autorità terrestre ai fini della giustizia e del bene, la diffidenza verso le speculazioni filosofiche che non esclude l’uso della ragione come ausiliaria per la ricerca della verità sono i punti nei quali la prassi di Roma e l’anima di Paolo si accordano» (p. 50). Naturalmente — nota lo scrittore — l’opera di Paolo fu la trasposizione a un ordine indicibilmente più elevato — spirituale e mistico invece che temporale e civico — degli elementi «romani» sopra accennati. Ma ciò non impedisce di scorgere quelle analogie e concordanze che permettono di considerare Paolo «non soltanto cittadino ma santo romano».
Igino Giordani (1894-1980), saggista e narratore, oltre a un’agile biografia di san Paolo (Paolo, apostolo martire, 1929), ha scritto su di lui un profilo preciso ed entusiasta in cui sintetizza gli aspetti che maggiormente lo caratterizzano. «C’è in lui — scrive — il genio del conquistatore, per cui ricorda Alessandro ai greci e Cesare ai romani; c’era nella sua speculazione una profondità che ricordava Platone; e c’era nel suo tratto una tenerezza e una fantasia innamorata, che l’avvicinavano a Virgilio. Ma le loro qualità le fondeva in una sintesi, la quale traeva luce e faceva da candelabro a sette braccia a una fede soprannaturale unica» (10).
 In un primo tempo, influenzato da Gide e da certa letteratura nordica, Mario Luzi (1914-2005) confessa di aver visto san Paolo «con occhi distorti», considerandolo «una sorte di custode, autoritario e severo, dell’ortodossia». In seguito ha capito che questo aspetto talvolta c’è, ma in un contesto particolare. San Paolo è tutt’altro: «È una figura mirabile per l’empito e il titanismo, in un certo modo, che egli sprigiona. Veramente quando leggi le sue Lettere ti accorgi della sua estrema consapevolezza e della sua centralità: su di lui grava la decisione di un grande evento, che può finire nel nulla oppure divampare a segnacolo mondiale» (11). Luzi lo ama e lo ammira perché vede in lui «un uomo di grande umanità e di fraternità», consapevole di inaugurare una nuova èra, sovvertendo un modo di vivere e di pensare.
L’elemento che maggiormente colpisce Luzi è il «fuoco di profezia» che fa vibrare l’anima dell’Apostolo. «Mentre parla per istruire gli adepti delle comunità si illumina egli stesso di nuovo sapere, è abbagliato e scosso dalla forza di ciò che sul momento gli si presenta come nuovo argomento di rivelazione. Non cessa dunque di essere in atto profeta neppure quando amministra o governa: e si deve a questa esuberanza di profezia se egli può assumere vertiginosamente sopra di sé l’autorità esclusiva di dettare e di interpretare il vero Vangelo» (p. 156 s). Tale «fuoco di profezia» si sprigiona «da alcune rocciose certezze» che lo alimentano e conferiscono alla sua parola energia e novità. «È il primo a far sentire la fede come sublime non-senso», follia e scandalo. «Paolo esaspera ed enfatizza questa differenza per aumentare lo scandalo della rottura, per mettere in chiaro una volta per sempre la natura sconvolgente della fede» (p. 16). Centro della fede è Gesù Cristo, il Vivente, il Risorto. «Il nucleo della sua [di Paolo] forza sta nell’assunzione totale ed esclusiva del Cristo Gesù come termine di ogni verità e di ogni giudizio» (p. 161). Paolo emerge dal «caos dell’errore e dell’inquieta aspettativa degli uomini per dare un senso alla speranza» (p. 163).
Pietro Citati (1930) in un capitolo del volume La luce della notte (12) immagina che un oscuro letterato platonico, vissuto tra la fine del primo e l’inizio del secondo secolo d. C., legga la prima Lettera ai Corinzi e la Lettera ai Romani e ne resti sconvolto. «Aveva un’altissima immagine di Dio: come di un Essere purissimo e invisibile, senza forma e colore, completamente diverso dall’uomo, e sempre uguale a se stesso». Le Lettere di Paolo capovolgono questa sua immagine, soprattutto le affermazioni: che Dio si era fatto uomo e amava l’uomo di carne; che Dio si manifesta nella storia degli uomini come scandalo, follia e stoltezza; che il male non sta nella creazione, fuori di noi, ma nel nostro animo. Paolo inoltre derideva ogni sapienza umana e respingeva quanto era stato affermato su Dio, sull’uomo, sul tempo, sul futuro, sull’amore.
Che cosa conclude Citati? «Malgrado tanto tempo trascorso, e tante migrazioni e fusioni, malgrado la furia di Paolo si sia ammorbidita e il suo stile abbia trovato una forma, il cristianesimo è ancora lo scandalo: la follia della croce, la ferita di Dio, la lacerazione dell’universo. Il contrasto non è conciliato: né forse può esserlo mai. A noi spetta soltanto di conservarlo puro nella nostra mente: di percorrere entrambe le strade sino all’estremo, senza attendere una soluzione» (p. 107). In verità, «dentro di noi c’è un platonico che commenta Paolo; e un cristiano paolino che commenta Platone» (ivi).
 
San Paolo nella narrativa
A san Paolo la scrittrice anglo-americana Taylor Caldwell (1900-85) ha dedicato un fluviale romanzo — Il leone di Dio (13) — dopo «uno studio approfondito durato diversi anni». È da crederle perché, a lettura finita, bisogna riconoscerle larghe conoscenze dell’ambiente geografico, storico, etnico, politico, religioso. Carente è invece la preparazione biblica e la personale sensibilità religiosa nel trattare episodi e documenti.
 
Nell’Apostolo l’Autrice ha «voluto vedere l’uomo così come egli era, un uomo simile a noi, con gli stessi dolori, dubbi, ansie e collere, e intolleranze, e “debolezze della carne” che affliggono noi tutti» (p. 12). Aveva un geloso e tenace attaccamento alla corrente dei farisei, un’intelligenza acuta, ma intollerante e polemica, una psicologia alterata: era osservante scrupoloso della Legge, dominato da un timore di Dio fino all’ossessione e talvolta alla disperazione; soprattutto era un uomo dominato dal confuso presentimento di una grande missione da compiere senza sapere né come né dove.
Le prime due parti del romanzo si leggono con gusto e interesse, data la capacità dell’Autrice di costruire la figura del protagonista con una straordinaria forza di lineamenti, in una prosa piacevole e duttile. Nell’ultima parte — la terza — il romanzo perde mordente: ci si sofferma su descrizioni, belle ma superflue, la fantasia corre senza controllo, la figura di san Paolo sbiadisce e perde di autenticità. Il leone di Dio è un romanzo per alcuni aspetti pregevole, per altri debole e mal sicuro.
Convincente per solidità di struttura e per validità letteraria è il romanzo La spada santa di Jan Dobraczynski (14), tra i più noti, fecondi e discussi scrittori polacchi del Novecento. La storia di san Paolo è il sottotitolo del romanzo. In esso l’elemento storico è solido, il fantastico è dilatazione della storia, suo completamento e spiegazione, l’insieme risulta armonico e compatto. Il romanzo si presenta come un mosaico sul quale è ritratta la storia della primitiva comunità cristiana. Grazie a un continuo flashback, il lettore si muove sull’itinerario di Paolo, ne rivive gli incontri, le peripezie, i dilemmi, ne approfondisce il messaggio, ne intuisce il mistero che in lui si compie.
Le idee di fondo del romanzo sono quattro. Innanzitutto, la presenza di Cristo nella vita dell’Apostolo. Essa conferisce significato al suo agire, chiarezza alle sue scelte, coraggio e fiducia alle sue imprese. In secondo luogo, la consapevolezza dell’universalità della redenzione. Idea, questa, che per un ebreo come Paolo, legato a Gerusalemme e al Tempio con tutte le fibre dell’essere, costituiva un continuo martirio. La terza idea è la novità cristiana che rivoluziona pratiche secolari e proclama il loro superamento. Infine, la consapevolezza della propria nullità. Dopo aver riferito alla comunità di Gerusalemme la diffusione del Vangelo in molte regioni pagane e perfino in città ritenute dissolute (Corinto), arroganti (Atene), «impestate da mostruose superstizioni» (Efeso), dichiara: «Non io le ho conquistate, fratelli, perché io sono una nullità, e quando arriva il momento di predicare, sto davanti alla gente, debole e spaventato, e non trovo le parole, e nella testa ho una grande confusione. Ma il Signore si compiace di mostrare la Sua potenza attraverso la mia miseria. Chi sono io? Mi conoscete. Ero un criminale, figlio dell’ira, che agiva male anche se non lo sapeva. Non conquisterei nessuno, se non fosse per il Signore. Il Signore è tutto» (p. 61).
Nel presentare san Paolo, Dobraczynski ne fa vedere anche l’attualità e l’urgenza: la pace e la giustizia non vanno ricercate con la spada ma con la comprensione e la fratellanza. Cioè con l’amore. E l’amore per il Risorto abbraccia e trasfigura ogni realtà: «Ma alla fine capii — afferma Paolo —. Capii che amare Gesù significa amare tutto e che in questo amore nulla perisce. Perché quando tutto sprofonderà in esso, in esso tutto si potrà ritrovare» (p. 272).
Miklós Mészöly (1921-2001), noto scrittore ungherese, nel romanzo Saulo (15) descrive l’antitesi tra il mondo intransigente della Legge, simboleggiato da Abiatar, amico di Saulo, e quello del nuovo Verbo, fondato sull’amore e sul perdono, simboleggiato da Stefano. Saulo è impegnato a fondo nella difesa della Legge e nel punire quanti la misconoscono. Un dialogo notturno con Stefano, prima che questi venga arrestato, gli rivela la superiorità di una legge fondata sull’amore e sulla libertà. Partecipa alla lapidazione di Stefano, ma si sente braccato da una misteriosa presenza che lo sospinge verso coloro che perseguita. Andando verso Damasco, calzando i sandali che Stefano gli ha lasciato in eredità, resta accecato. Dove lo condurrà la misteriosa presenza?
 
San Paolo in tre opere drammatiche
Guido Manacorda (1879-1965), letterato di vasta cultura, è autore di Paolo di Tarso (16), dramma sacro in tre atti e un intermezzo, costruito con intelligenza storica, denso di contenuto, un po’ debole nella struttura drammatica.
Il primo atto si svolge a Gerusalemme, nella spianata del Tempio, a pochi giorni dalla crocifissione di Gesù. In un incalzare di voci si distinguono quelle degli Apostoli, frastornati dagli eventi. Sulla scena interviene Saulo, osserva con disgusto la gente che acclama Barabba, dichiara il suo odio per i mercanti e i sacerdoti che tradiscono la Legge. Poi, rivolto a Giovanni, incalza: «Ma più di tutti odio voi, Nazareni, perché con le vostre parole di perdono e di pace snervate le ultime forze d’Israele, e volendo tutti fratelli, ci date in balia del nemico» (p. 29).
L’intermezzo ha come sfondo la strada per Damasco. Quando Saulo incontra la Samaritana, che crede in Gesù, e un pastore che a Betlemme ha visto il Bambino e ascoltato la voce degli angeli che lo hanno proclamato «Cristo, il Salvatore del mondo», furente, punta la spada contro di loro, ma una luce violenta lo abbatte. Lo sguardo velato, le braccia aperte, «Fratelli miei in Cristo, Signore nostro…» comincia a dire, ma vacilla, come sopraffatto, è sorretto e condotto a Damasco.
Il secondo atto si svolge nell’areopago di Atene. Paolo parla ai filosofi che lo ascoltano con interesse ma ne respingono le idee: «Manca di scuola!» e «quell’accento giudaico, che peccato!». Soltanto Dionigi e Damaride, povera peccatrice convertita, lo seguono. Nel terzo atto siamo a Roma, presso un coemeterium dove i cristiani si sono radunati per la santa Cena. Presiede Pietro, partecipano Paolo e Giovanni. Si legge il Libro, si canta, si prega, si consuma l’agape, ci si esorta alla fedeltà a Cristo, in un’atmosfera di gioia ma anche di ansia per il presentimento del martirio di Pietro e Paolo.
Nel dramma Manacorda ha inteso puntualizzare lo scontro tra l’ebraismo religioso del tempo, svuotato d’interiorità, e l’adorazione «in spirito e verità», chiesta da Gesù; tra la filosofia greca e la verità della Rivelazione. In particolare il dramma mette in risalto la rivoluzione dell’amore cristiano che non conosce barriere, illumina la vita, vince il peccato e la morte. Paolo si congeda con un invito alla gioia: «Pantote chairete… Siate sempre gioiosi».
Altre due opere drammatiche hanno san Paolo come protagonista. In Al Dio ignoto Diego Fabbri (1911-80) porta sulla scena un gruppo di attori, stanchi di finzioni e di parole vuote, e assetati di verità e di consistenza. È possibile credere nella risurrezione e sperare in un traguardo trascendente e appagante? Si ribellano all’eclissi di Dio e allo scetticismo, e si impegnano ad approfondire «il punto fondamentale» della fede cristiana, la risurrezione. Così decidono di riviverla per verificarne la veridicità. L’azione drammatica si fa viva e intensa per l’intervento dei vari testimoni e la disarmante semplicità dei testi evangelici. Dopo l’apparizione di Cristo sotto forma di luce, avanza verso il gruppo degli attori Paolo, fa un gesto di tacere, e rivolge un discorso esaltante. Sì, Cristo è realmente risorto, è apparso agli Apostoli, a molti fratelli ancora vivi, infine anche a lui. Dichiara che per testimoniare la risurrezione si affrontano persecuzioni di ogni genere, e conclude: «Non si soffre, fratelli miei, come abbiamo sofferto noi, non si è imprigionati e flagellati come è accaduto a noi, non si versa il proprio sangue per delle visioni: noi abbiamo avuto e abbiamo la certezza della risurrezione. La nostra è una moltitudine pacifica ma travolgente che ha per condottiero un Risorto» (17).
Paolo fra gli Ebrei di Franz Werfel (1890-1945) (18), più che un vero dramma, è una «leggenda drammatica», fondata su due tradizioni, al cui centro sta lo scontro tra il Rabbi Gamaliele e il suo discepolo Saulo di Tarso, convertito a Cristo. L’amato Rabbi si dichiara disposto a riconoscere in Gesù un Maestro giusto, ma non il Messia, come crede Saulo. Congedandosi da Gamaliele morente, Paolo ha la rivelazione del suo drammatico destino: «Andare, andare, perché Cristo è un cacciatore infaticabile».
 
Il film mancato di P. P. Pasolini
Nel «progetto per un film su san Paolo» (19) Pasolini intendeva mostrare l’attualità dell’Apostolo. Più chiaramente, intendeva trasportare l’intera vicenda di san Paolo ai nostri giorni, in modo che lo spettatore percepisse che «san Paolo è qui, oggi, tra noi e che lo è quasi fisicamente e materialmente. Che è alla nostra società che egli si rivolge; è la nostra società che egli piange e ama, minaccia e perdona, aggredisce e teneramente abbraccia». Conseguentemente l’itinerario paolino si sarebbe spostato dal bacino del Mediterraneo all’Atlantico; così al posto di Gerusalemme, Antiochia, Tarso, Atene, avremmo avuto Parigi, Roma, Londra, Monaco, New York, Barcellona, Napoli. La sostituzione delle località avrebbe comportato la sostituzione del conformismo del tempo di Paolo col conformismo contemporaneo, più precisamente con quello degli Anni Sessanta del Novecento. Vicende personali e difficoltà produttive impedirono la realizzazione del film; di esso abbiamo un abbozzo di sceneggiatura — San Paolo — che consente una conoscenza della concezione pasoliniana sull’apostolo Paolo.
L’idea portante del film fu espressa dallo stesso Pasolini in una lettera a don Emilio Cordero, che reca la data 9 giugno 1966: «Sono certo che sia lei che Don Lamera sarete, come si dice, choccati, da questo abbozzo. Infatti qui si narra la storia di due Paoli: il santo e il prete. E c’è una contraddizione, evidentemente, in questo; io sono tutto per il santo, mentre non sono certo molto tenero con il prete». Tale distinzione permette a Pasolini di identificare la Chiesa col potere, con una istituzione umana, con una necessità («L’istituzione della Chiesa è stata solamente una necessità», p. 56). Tale istituzione è opera diabolica, suggerita e raccontata da Luca, autore degli Atti degli Apostoli, «invaso dal Demonio» (p. 66); «in lui si è incarnato il mandante di Satana» (p. 49).
Paolo vive il dramma di un’anima scissa tra santità — che è libertà, interiorità, gioia — e sacerdozio, che è potere, schiavitù, moralismo. Pasolini insiste nella presentazione di un Paolo spiritualmente dilacerato perché privo di unità interiore. Nel salone di rappresentanza dell’ambasciata italiana «appare in veste di organizzatore, di ex-fariseo, duro, invasato, diplomatico, insomma non santo, ma prete» (p. 130). E il prete, in lui, è autoritario, «il suo volto spira forza, sicurezza, salute e, in qualche modo, una forma di violenza» (p. 140). Il «prete» arriva anche a pronunciare queste parole: «Il nostro è un movimento organizzato… Partito, Chiesa… chiamalo come vuoi [...]. Dobbiamo difendere questo futuro bene di tutti, accettando, sì, anche di essere diplomatici, abili, ufficiali. Accettando di tacere su cose che si dovrebbero dire, di non fare cose che si dovrebbero fare, di fare cose che non si dovrebbero fare» (p. 114).
L’anima del «santo» è soprattutto libertà. Dopo il battesimo, un misterioso sorriso illumina la sua «faccia distorta di fanatico, e dice a bassa voce, ma come si dicono le prime parole di un inno, guardandosi umilmente intorno: “Per la libertà Cristo ci ha liberati”» (p. 33). Libertà da quanto è istituzione, legalismo, convenienza, non importa se ciò comporta scandalo ed emarginazione. Infatti sarà emarginato e respinto sia dai fautori dell’organizzazione sia dagli intellettuali; trascorrerà i suoi giorni in balia di malanni, di rimorsi e di ossessioni che lo ridurranno a uno straccio. L’ultima inquadratura lo presenta «con la faccia del malato, del reietto, ben diverso dal grande organizzatore e teologo, potente e sicuro di sé, in una povera stanza di albergo, ispirato e doloroso», intento a scrivere la lettera di commiato a Timoteo: «Quanto a me, io sono già versato in libagione ed è giunto il momento che io debba sciogliere le vele. Ho combattuto il buon combattimento, ho terminato la corsa, ho mantenuto la fede» (p. 164).
In San Paolo Pasolini riferisce — trasfigurandoli poeticamente — vari episodi della vita dell’Apostolo e riporta correttamente molti suoi testi; tutto però avviene in un contesto «pasoliniano», abitato da complessi psicologici, da rimorsi mai sopiti, da arbitrarie riduzioni teologiche. Nell’Apostolo egli ha trasferito le proprie ossessioni e prospettive.
 
Due biografie
Emile Baumann (1868-1941), narratore dagli sfondi psicologici, talvolta aspri e audaci, è l’autore di una biografia di san Paolo, notevole per validità letteraria, storica e strutturale. Dopo aver percorso gli itinerari dell’Apostolo, ne ha raccontato la «sublime e terribile avventura» con il preciso scopo di «raggiungere l’anima». Grazie alla sua capacità di scavo psicologico, di resa letteraria, di fedeltà ai testi storici, raggiunge lo scopo e offre al lettore un’immagine viva di Paolo che definisce «una delle anime più ardenti di passione, che abbiano sconvolto la terra» (20).
Suggestiva e ben definita è la biografia dell’Apostolo scritta da Henri Daniel-Rops (1901-65), noto storico della Chiesa e robusto autore di romanzi. Nella sua ottica san Paolo «è un ebreo, figlio di una cittadina ellenistica e di un cittadino romano. Ciò vuol dire che egli partecipa di tre forme di civiltà, che egli è attraversato da tre correnti differenti» (21). Il tutto in lui si fonde, si nobilita e si trasfigura nella redenzione operata da Cristo. Sotto l’aspetto psicologico, Paolo «è un essere pieno di contrasti, esigente e tenero, violento e sensibile e, nello stesso tempo, energico e meditativo» (p. 89). In particolare «la potenza della sua personalità è una potenza d’amore; non è l’umanità intera, considerata astrattamente che egli ama e vuol condurre alla salvezza; è ogni uomo in quanto persona, poiché l’amore non conosce che persone» (p. 90 s).
In Paolo — nota Daniel-Rops — si trovano quelle note, intellettuali e spirituali, che fanno di lui «un essere senza pari», diciamo pure «un genio»: «la lunga pazienza, la solidità, l’accanimento nello sforzo [...], la conoscenza lucida dello scopo da raggiungere, l’energia paziente nel tendervi [...], lo spirito di entusiasmo, la fede» (p. 92 s). È anche un «grande scrittore [...] perché possiede il dono delle formule che colpiscono», di dare alle parole un senso nuovo «con ravvicinamenti abbaglianti». Possiede inoltre la potenza di evocazione, l’arte di condensare in brevi battute concetti profondi, la varietà di toni e di formule, il balzo poetico che gli consente voli sublimi «come un grande uccello al di sopra di abissi vertiginosi». Con felice intuizione, così lo Scrittore conclude l’argomento: «Se san Paolo è un grandissimo scrittore, è perché prima è un uomo, e poi uno scrittore» (p. 175).
Chi è san Paolo? «Vien detto di lui “che egli fu il primo dopo l’unico”; il suo posto fu tale che non possiamo comprendere Gesù e la sua Parola senza riferirci al santo genio di Tarso, al suo messaggio, alla sua azione» (p. 235).
«Assume sul suo cuore la passione del Dio eterno»
Paolo, come Gesù, segno di contraddizione: accolto e respinto, amato e odiato. Non ci si accosta a lui impunemente: la sua parola colpisce, rivela, interpella, esalta, inquieta. La sua visione dell’uomo e della storia riceve luce dall’Alto. Paul Claudel ne descrive alcuni tratti in solenni ritmi poetici: «Vedendo Dio, [Paolo] vede con Dio questo mondo ingrato e crudele, e assume sul suo cuore umano la passione del Dio eterno. / E poiché Dio non ha voce, egli è la voce che parla per lui. / [...] Egli va dove il vento lo porta, senza fine né sosta, da un capo all’altro del mondo, come un fuoco che il vento strappa e trascina oltre il mare! [...] E vedendo quei figli ciechi e quei popoli che muoiono senza battesimo, / piange, si torce le mani e chiede di essere anatema per essi» (22).
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1 F. NIETZSCHE, «Ecce homo», in Opere 1882-1895, Roma, Newton, 1993, 894.
10 I. GIORDANI, «San Paolo», in G. BARRA (ed.), Santi per oggi, Torino, Borla, 1955, 127.
11 M. LUZI, La porta del cielo, a cura di S. VERDINO, Casale Monferrato (Al), Piemme, 1997, 73.
12 Cfr P. CITATI, La luce della notte, Milano, Mondadori, 1996.
13 Cfr T. CALDWELL, Il leone di Dio, ivi, 1972.
14 Cfr J. DOBRACZYNSKI, La spada santa. La storia di san Paolo, Torino, Gribaudi, 2002.
15 Cfr M. MÉSZÖLY, Saulo, Roma, E/O, 2001.
16 Cfr G. MANACORDA, Paolo di Tarso, Firenze, Vallecchi, 1927.
17 D. FABBRI, Tutto il teatro, vol. II, Milano, Rusconi, 1984, 2.341.
18 Il dramma — Paulus unter den Juden (1926) — non è stato tradotto in italiano.
19 Cfr P. P. PASOLINI, San Paolo, Torino, Einaudi, 1977. Per una puntuale esegesi del testo pasoliniano cfr I. QUIRINO, Pasolini sulla strada di Paolo, Lungro (Cs), Marco, 1999.
2 ID., L’Anticristo, ivi, 797.
20 E. BAUMANN, San Paolo, Brescia, Gatti, 1952, 340.
21 H. DANIEL-ROPS, San Paolo, Alba (Cn), Ed. Paoline, 1952, 104. Il titolo originale è Saint Paul, conquérant du Christ.
22 P. CLAUDEL, Corona benignitatis anni Dei, Parigi, Gallimard, 1920, 169.
3 Cfr K. GIBRAN, Gesù figlio dell’uomo, Milano, SE, 1987.
4 A. GIDE, «I nuovi nutrimenti», in ID., I nutrimenti terrestri, Milano, Mondadori, 1948, 169.
5 ID., Diario, vol. III, Milano, Bompiani, 1954, 44.
6 Ivi.
7 D. MEREJKOWSKI, Tre santi: Paolo, Agostino, Francesco d’Assisi, Milano, Mondadori, 1936.
8 N. VON ARSENJEV, Die russische Literatur der Neuzeit und Gegenwart, Mainz, 1929, 360. Il testo è riportato da B. SCHULTZE, Pensatori russi di fronte a Cristo, voll. II e III, Firenze, Mazza, 1949, 57.
9 G. PAPINI, Santi e poeti, Firenze, Lef, 1948. 
 
Fonte: La Civiltà Cattolica 2008 III 475-488  quaderno 3798

PAOLO TRA RELATIVISMO E FONDAMENTALISMO

questo è quanto ho trovato, probabilmente non è tutto, ma vale la pena ugualmente di leggere quanto scritto; io sono passata dal PDF al testo, c’è qualche differenza nell’impostazione grafica, se volete potete leggere dall’originale, naturalmente, dal sito:

http://www.paoline.it/upload/immagini/farfa_relazione_virgili.pdf

Atti del Convegno
PAOLO TRA RELATIVISMO E FONDAMENTALISMO
Figlie di S. Paolo • Provincia italiana • Farfa (RI), 9-13 luglio 2008

ROSANNA VIRGILI

Premesso che i termini “fondamentalismo” e “relativismo” sono moderni e designano, pertanto, delle realtà e delle forme di pensiero che assumono contenuti distanti dalla cultura del tempo di Paolo, ciò non di meno essi possono essere ritrovati nel mondo paolino, sotto forma di atteggiamenti riconducibili all’idea che oggi ne abbiamo. Essi rappresentano due forme di pensiero, ambedue estreme, benché affatto diverse, se non addirittura contrapposte tra loro. Mentre per fondamentalismo si intende un attaccamento alla “lettera” delle Scritture e, in senso più largo, l’illegittimità del concorso della ragione per interpretarle e incarnarle nell’attualità, il relativismo designa lo scetticismo verso tutto ciò che è frutto di una Rivelazione calata dal cielo, poiché – al contrario – ogni conoscenza può e deve passare attraverso la ragione dell’uomo. Quando Paolo parla del Cristo crocifisso e lo definisce “scandalo per i Giudei e follia per i pagani”(1Cor 1,23), denuncia l’incapacità di una visione obiettiva della Croce. Tale incapacità era frutto, in ambedue i casi – quindi non soltanto per quanto riguardava i pagani che erano privi di una Rivelazione, ma anche per coloro che la possedevano – di un pensiero unilaterale, miope e comunque soltanto umano, privo di quell’intelligenza che sorge negli occhi e nella mente dell’uomo, quando questi si incrociano e si allargano sul punto di vista di Dio, nel frutto di una Sapienza che sempre si rinnova nella curiositas, ma anche nella visione dello Spirito e nell’ansia dell’Amore. I punti fondamentali che segneranno le tappe della nostro percorso di riflessione sul pensiero e sul messaggio di Paolo saranno, dunque, i seguenti:
1.
Sapienza e follia, forza e debolezza: il linguaggio nuovo e ‘rovesciato’ di Paolo per spiegare il Vangelo (1Cor 1,17-3,23). Paolo e il suo rapporto dialogico e dialettico con la sapienza umana.
2.
I limiti di una conoscenza a immagine dell’uomo, che si rifrange su quell’immagine ed è incapace di vedere oltre l’orizzonte del suo specchio (Rm 1,18-32).
3.
La legge del cuore e la testimonianza della coscienza: una via d’uscita dal vicolo cieco del relativismo (Rm 2,1-15).
4.
Paolo e la concezione del corpo come luogo di relazione, oltre il relativismo (“tutto mi è lecito!”) e il fondamentalismo etici (un corpo chiuso e da non contaminare) (1Cor 6,12-20; 10,23-33).
5.
“Mi son fatto tutto a tutti, per salvare a tutti i costi qualcuno”. “Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo nè donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. Paolo e i suoi sconfinamenti per amore del Vangelo e l’insensatezza di ogni fondamentalismo (1Cor 9,19-23; Gal 3,26-29).

Introduzione

Chiamare Paolo a interpretare la temperie culturale in cui vive oggi l’Occidente, specialmente in ciò che si riflette nell’esperienza della Chiesa cattolica, non è affatto peregrino. Se pure in fenomeni e formulazioni diverse, la cultura degli anni in cui Paolo scrisse, si presentava in molti aspetti simile alla nostra. Il clima culturale del nostro tempo può essere definito in uno schema polare che va dal fondamentalismo al relativismo. Queste due parole hanno, tuttavia, una estensione semantica affatto particolare che si rivolge a situazioni e ambiti molto diversi. Il fondamentalismo è un fenomeno molto specifico che riguarda il modo di leggere i testi sacri: esso pretende un’accoglienza cieca della forma della lettera biblica, che non può essere mutata, né interpretata, ma solo recepita così com’è. Storicamente il fondamentalismo nasce nell’Ottocento in contrapposizione al razionalismo con cui venivano lette e interpretate le Scritture, specialmente quelle del Nuovo Testamento, di cui denunciava l’illegittimità; il fondamentalismo, infatti, non ammette che la Bibbia sia oggetto di un esame critico – condotto al lume della ragione – poiché teme che ciò possa compromettere la sacralità della stessa Scrittura e porre in dubbio la sua matrice divina e ispirata. Pertanto il fondamentalismo irrigidisce la Scrittura nella sua forma letteraria e – ahimé! – storica, non permettendole di essere interpretata né attualizzata nel tempo presente. La stessa cosa che custodire un cadavere, piuttosto che far risorgere ogni volta un corpo morto! Il relativismo è, invece, una complessa corrente di pensiero che abbraccia un vasto campo filosofico e culturale. Esso si radica, innanzitutto, nella concezione della preminenza della ragione umana, considerata come lo strumento con cui l’uomo può conoscere e giudicare ogni cosa, anche Dio stesso.
Da qui l’aggettivo “relativo” che indica che ogni cosa è relativa al modo in cui l’uomo può conoscerla; se questo modo è la ragione, allora la conoscenza e la definizione stessa degli “oggetti”, dipendono dalla ragione. A questo punto scatta, però, la domanda su cosa sia o cosa si debba intendere per ragione e di quali elementi essa si costituisca o di quali contenuti si componga. Si perviene, così ad ammettere che la ragione non sia universale – come la pensava Kant o Cartesio prima di lui – ma che possa configurarsi in maniera diversa a seconda delle basi su cui si radica. Da questa concezione di ragione nasce, allora, il relativismo, che indica una certa soggettività di riferimento per la conoscenza. La ragione, insomma, non è solo formale e quello formale non è solo un metodo (la logica), ma è anche il criterio del giudizio sulla realtà. In questo modo la intende Benedetto XVI quando, proprio difendendo l’uso della ragione, la radica nel logos che è Gesù Cristo, nella concezione cristiana; mentre definisce relativismo un uso della ragione che rifiuta ogni altro criterio di conoscenza oggettiva, se non se stessa.
Il relativismo, dunque, non definisce tanto un criterio esegetico, quanto una prospettiva di pensiero che coinvolge l’intero ambito della conoscenza e quindi la stessa visione del mondo e della società. Il Papa taccia di relativismo la cultura occidentale contemporanea accusandola di avere come unico criterio di riferimento l’uomo e la sua autonomia in ogni campo, da quello scientifico a quello tecnico, da quello etico a quello politico. Di qui emerge un’immagine dell’uomo occidentale monca e negativa: individualista, egoista, edonista e senza limiti. Il relativismo è il clima culturale in cui Dio è tagliato fuori. In relazione alle scritture – che è l’ambito del nostro interesse – il relativismo designa più specificamente lo scetticismo verso tutto ciò che fosse frutto di una Rivelazione calata dal cielo, poiché non spiegabile, né raggiungibile attraverso la ragione dell’uomo. In che modo queste due prospettive culturali – fondamentalismo e relativismo – possono essere accostate e paragonate all’universo paolino, alla realtà delle sue comunità e a quanto emerge dai suoi scritti epistolari? In altre parole: quale aiuto, quali suggerimenti possiamo ricavare dall’esperienza della chiesa nascente che Paolo attesta nelle sue Lettere, che possano illuminarci e sostenerci nella nostra situazione attuale?

I. Paolo e la sua battaglia contro il fondamentalismo giudaico

Paolo ebbe a che fare con il fondamentalismo nel suo difficile rapporto con il Giudaismo su due livelli: quello esegetico e quello etico.
Occupiamoci, innanzitutto, del primo: quello dell’esegesi scritturale. Una custodia sacrale e letterale della Legge non permetteva alcuna interpretazione e rilettura che la potesse attualizzare e Paolo combatte con forza contro questa forma giudaica di fondamentalismo. Le sue lettere sono farcite di citazioni bibliche, basti pensare che nella sola lettera ai Romani si trovano ben 58 citazioni dirette dal Primo Testamento (da Isaia, Genesi, Deuteronomio, Osea, Levitico, Proverbi, ecc.), per non parlare di quelle indirette che non è facile quantificare, essendo più fluttuanti. Sul modo di utilizzare le Scritture ebraiche illuminante è quanto dice Antonio Pitta: “Spesso egli compie appropriazioni che possiamo definire indebite, a causa dell’orizzonte evangelico che gli sta principalmente a cuore. Di fatto non si riferisce mai all’AT per semplice erudizione estetica, ma sempre per dimostrare la consistenza del proprio vangelo che trova in Cristo e nell’azione salvifica di Dio il suo punto di arrivo” (Lettera ai Romani, 29).
Non solo l’Apostolo non fossilizza la parola biblica, ma la scava nel suo futuro escatologico che la venuta di Gesù, nell’attualità del suo tempo, ne procura. L’interpretazione attualizzante delle Scritture ebraiche genera, nell’esegesi paolina, perfino dei mutamenti di significato nelle pagine dell’AT. Per un esempio illuminante si consideri il lungo discorso che Paolo fa su Abramo, la sua stirpe, le sue due mogli e le due relative Alleanze, nella Lettera ai Galati (cfr. Gal 3-4).
In ciò Paolo mostra una straordinaria modernità, ma anche la continuità con un metodo di redazione biblica già presente nell’AT. L’uso che Paolo fa della legge e dei profeti rende la Scrittura viva, duttile, attuale, incarnata, capace di dilatare i confini di una lettera morta.
Lo scardinamento del fondamentalismo biblico trova ragioni e sviluppi nello scardinamento del fondamentalismo etnico, politico, sociale, etico, sessuale, religioso, a favore di un messaggio di salvezza universale: Ef 2,11-18: “Ora, invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete divenuti i vicini grazie al sangue di Cristo” 1Cor 9,19-23: “Mi son fatto tutto a tutti, per salvare a tutti i costi qualcuno”. Gal 3,26-29: “Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa”.
Paolo manipola la parola (antica e nuova) perché lo accompagni nei suoi sconfinamenti per amore del Vangelo e dimostra, così, l’insensatezza di ogni fondamentalismo.

II. Paolo e la sua battaglia contro la sapienza (relativa alla ragione) della cultura di matrice greca

a. Parola in relazione
Un altro aspetto fondamentale della scrittura di Paolo è il grande impatto con la sapienza greca, anima della cultura del suo tempo e dell’area in cui egli orbitava. La Prima Lettera ai Corinzi ne è una espressione diretta e immediata. La ricchissima (definita: aphneios “opulenta”) e cosmopolita città greca di Corinto era un luogo di alto spessore culturale, pur costituendo – con i suoi due porti – uno dei maggiori centri commerciali dell’epoca. Nonostante quanto scrive Paolo che: “Non ci sono molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili” (1Cor 1,26), le comunità cristiane erano spesso frequentate da persone altolocate e facoltose le quali mettevano a disposizione le loro case per le riunioni comunitarie. Le signore godevano di una certa libertà (cfr. 1Cor 11,2-16) e dilagavano le dottrine filosofiche, specialmente la gnosi. A questa sapienza, corroborata dalla profusione dei carismi, corrispondeva, purtroppo, una profusione di schismata (“divisioni”) nella Chiesa (1Cor 1,10-16). A ciò Paolo contrappone una sapienza rovesciata, folle, debole: la sapienza del Vangelo. E lo fa assumendo il vocabolario della sapienza “del mondo”, ragionando con le sue stesse categorie, per rivelare sì il paradosso, ma anche la ragionevolezza ultima, la forza effettiva della sapienza della Croce. Il suo rapporto con la sapienza razionale del mondo ellenizzato è dialogico e dialettico, allo stesso tempo (cfr. 1Cor 1,17-3,23). In questo linguaggio “razionale” di Paolo rinveniamo ancora il suo rifiuto del fondamentalismo e inoltre il rifiuto di uno spiritualismo vuoto e inutile (cfr. 1Cor 14,1-4 sul carisma della glossolalia). Ciò non toglie che la sua parola fosse quella della fede, esperienza in cui lievita una sapienza capace di dialogare con la ragione umana e nei termini della ragione umana, e anche di aprire visioni e conoscenze ulteriori: Ë la parola della profezia cristiana. Essa è parola in relazione: edifica l’uomo che la pratica, edifica la comunità dei credenti, Ë autentica testimonianza verso la comunità universale.
b.
I limiti alla conoscenza razionale
Paolo opera una critica serrata alla sapienza dei sapienti (sophia): la loro conoscenza è limitata, in quanto è frutto della proiezione che l’uomo fa di se stesso nel mondo, tanto da non riuscire a vedervi che la sua stessa immagine. Finisce, così, che l’uomo non riesca a vedere che se stesso, amplificando la sua presenza nel mondo senza accorgersi che il creato è, invece, frutto, evidenza (doxa) di un Creatore. Una conoscenza siffatta diventa vittima di se stessa e puù essere quindi considerata una forma di relativismo. Il relativismo è, dunque, nella riflessione paolina, un vicolo cieco in cui l’uomo si caccia da solo e dal quale poi non riesce più ad uscire (cfr. Rm 1,18-32).
c.
La testimonianza della coscienza
Paolo, infine, affronta un problema anch’esso di grande attualità, ovviamente mutatis mutandis. Come è possibile che credenti e non credenti possano avere un punto con il quale e sul quale sia possibile un effettivo dialogo, visto che gli uni partono dal presupposto della Rivelazione e gli altri da quello della sola ragione? Questo è forse lo scoglio più grande nel dibattito tra cattolici e laici nel momento presente. A questa distanza che sembra incolmabile e che è concausa del relativismo, il Papa Benedetto XVI ha risposto nei seguenti termini: “Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita” (Discorso preparato per l’Inaugurazione dell’Anno Accademico dell’Università la Sapienza di Roma, 17 Gennaio 2008). La tesi del Papa è che la ragione trovi le sue radici nella fede, e senza la fede la ragione stessa si scompone e si frantuma. Pertanto i laici debbono attingere alla fede – e quindi alla Rivelazione che la veicola – per poter ricostituire una ragione che sia integra e capace di verità. Paolo interviene su una questione affatto simile a questa, in un modo un po’ diverso e trova, invece, un punto comune tra coloro che hanno il dono di una Rivelazione – dove è descritto il volto di Dio – e coloro che non hanno (o non accettano) un Rivelazione e utilizzano, pertanto, la sola ragione per conseguire la conoscenza che li porta a negare la presenza di Dio. Questo punto comune è la coscienza (suneidesis): siccome ogni uomo possiede la coscienza essa stessa gli sarà giudice dell’autenticità della conoscenza cui ciascuno – per vie diverse – perviene, sia il credente, sia il “sapiente” (Rm 2,12-15).

Conclusione

Oltre il relativismo di una sapienza auto-referenziale e il fondamentalismo di una parola chiusa in se stessa, Paolo propone una stupenda metafora: quella del corpo come luogo di relazione. Esso supera il relativismo etico di chi dice “tutto mi è lecito” e anche il fondamentalismo legalistico che condanna a morte l’uomo in nome della legge (cfr. 1Cor 6,12-20; 10,23-33). Paolo scardina la lettura giudaica della stessa Torah, che fondava sulla “lettera” la salvezza esclusiva dei figli di Abramo in virtù della loro circoncisione e soprattutto la salvezza che derivava dall’osservanza dei precetti stabiliti nella Legge di Mosè. Portando un’interpretazione attuale ed illuminata della Legge di Israele, Paolo apre a tutti, Giudei e Gentili, la porta della salvezza che viene da Dio, attraverso la giustificazione ottenuta per mezzo della fede nella Grazia del Cristo. Questo atto coraggioso di Paolo liberava la religione dei padri e la stessa Scrittura – in cui quella era custodita – dalla deriva dell’irrigidimento “fondamentalista” che avrebbe escluso dall’economia della Grazia la maggior parte dell’umanit‡. La luce che possiamo trovare in questo fondamentale intervento di Paolo è grandissima e preziosa per l’oggi: ci mette in guardia dal ricadere nella tentazione antica di irrigidire le scritture – ora anche quelle cristiane! – non solo assolutizzandone il contenuto letterale e affatto storicizzato, ma soprattutto trasformandole in codici religiosi, normativi ed etici con cui “giudicare” ogni uomo, più per la condanna che per la salvezza…! La Scrittura non deve mai perdere la sua anima: quella di essere una Parola di gioia, di giustizia, di libertà, di carità, di pace verso tutti, quanto corrisponde al suo essere “Vangelo”: la buona notizia della Vita. Su come affrontare, poi, un dialogo con il pensiero moderno Paolo può essere lo stesso di grande aiuto. Egli fu molto critico nei confronti della cultura greca che vedeva l’uomo celebrare ed assolutizzare se stesso, fino ad auto-celebrarsi come un dio, diventando un idolatra della creatura/e (cfr. Rm 1,18-23). Il modo in cui Paolo discuteva coi sapienti del mondo antico non era regolato, tuttavia, su una sorta di scomunica intellettuale fatta a priori, ma su un autentico ed umile confronto condotto in termini e metodi razionali, cioè gli stessi usati dai suoi interlocutori. Paolo mostra di non disprezzare affatto il pensiero greco, al contrario di averne profonda stima, tanto da assumerne il linguaggio e i postulati per poi utilizzarli come canali di dialogo e di traduzione di un Vangelo – il suo! – che egli voleva introdurre con argomenti plausibili e persuasivi. Paolo invita i sophoi a considerare anche i risultati, gli effetti tangibili del loro pensiero sulla società ed i suoi costumi, sullo stile di vita che essi stessi ispiravano e a farne una lettura onesta e disincantata (cfr. Rm 1,24-32). Un atteggiamento che invita i cristiani di oggi a non isolarsi dalla realtà culturale in cui si trovano a vivere, piuttosto a rispettarla e conoscerla a fondo per poterne essere autentici e credibili interlocutori. Per poterne esserne lievito profetico, spinta verso benefici superamenti e intuizioni di migliori orizzonti.

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BIBLIOGRAFIA
Barbaglio G., Gesù di Nazaret e Paolo di Tarso, Dehoniane, Bologna 2008.
Benedetto XVI, Paolo, l’Apostolo delle genti, Libreria Editrice Vaticana San Paolo, 2008.
Destro A., M. Pesce, Le forme culturali del cristianesimo nascente (Scienze umane, 2), Morcelliana, Brescia 2006.
Fabris R., Prima Lettera ai Corinti. Nuova versione, introduzione e commento, Paoline, Milano 1999.
Fitzmeyer J.A., Lettera ai Romani, Piemme, Casale Monferrato 1999.
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Pitta A., Lettera ai Romani, Paoline, Milano 2001.
Wright N.T., L’Apostolo Paolo, Claudiana, Torino 2008.
Wright N.T., Che cosa ha veramente detto Paolo, Claudiana, Torino, 1999
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Il Prigioniero del Signore – dell’Arcivescovo Metropolita dell’Aquila

ancora una presentazione di Paolo, dall’Arcivescovo di una Diocesi, io non mi stanco mai di leggere queste presentazioni proposte dai Pastori delle nostre Diocesi, si coglie in esse, nella loro diversità, nell’unità dell’amore per Paolo, la grande ricchezza dell’Apostolo e della nostra Chiesa, dal sito:

http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_diocesi/96/2008-07/11-167/Il%20prigioniero%20del%20Signore%20(S.%20Paolo).pdf

Il Prigioniero del Signore 

di Giuseppe Molinari

Arcivescovo Metropolita dell’Aquila

(11 luglio 2008, data presa dall’indirizzo web)

Introduzione
 

Queste brevi riflessioni (fatte soprattutto di citazioni degli Atti degli Apostoli e delle Lettere di S. Paolo) solo dei piccoli squarci sulla straordinaria avventura umana e cristiana di colui che qualcuno ha chiamato il secondo fondatore del Cristianesimo (W. Wrede). Sono anche un invito a riprendere in mano gli Atti degli Apostoli e le Lettere di S. Paolo per entrare sempre di più nel mistero di quest’uomo che ha consegnato tutto se stesso al Signore Gesù Cristo. Fino a diventare “prigioniero del Signore”, come egli stesso si autodefinisce nella lettera ai cristiani di Efeso (Ef, 4,1). S. Bernardino da Siena (il cui corpo riposa nell’omonima Basilica della città dell’Aquila) ha scritto: “Quando la bocca di Paolo predicava ai popoli, come per il fragore di un gran tuono, o per l’avvampare irruente di un incendio o per il sorgere luminoso del sole, l’infedeltà era distrutta, la falsità periva, la verità splendeva, come cera liquefatta dalle fiamme di un fuoco veemente”. Possa l’Anno Paolino (28 giugno 2008-29 giugno 2009) far rinascere in ognuno di noi il desiderio di conoscere sempre meglio l’Apostolo Paolo, per imitarlo, per sentirlo vivo in mezzo a noi, come modello e guida per il cammino della nostra santificazione e per inventare gli itinerari più efficaci per la nuova evangelizzazione. 

+ Giuseppe Molinari

Arcivescovo Metropolita dell’Aquila

1. Il persecutore  

La prima notizia su Paolo nel Nuovo Testamento, la troviamo dopo il racconto della lapidazione di Stefano, il primo martire. Si dice che “i testimoni deposero i loro mantelli ai piedi di un giovane chiamato Saulo” (Atti 7,58). Successivamente si precisa che “Saulo era tra coloro che approvavano l’uccisone (di Stefano)” (Atti 8,1). Così all’inizio della sua storia Paolo viene presentato come il “persecutore”. Saulo (questo il nome con cui Paolo era conosciuto in mezzo agli Ebrei) è uno che ha perseguitato i cristiani. Lo confesserà egli stesso: “Ultimo fra tutti (Gesù) apparve anche a me come ad un aborto. Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa” (1 Cor. 15,9).

Penso al mondo di oggi.

Penso alla gente di oggi.

Papa Benedetto XVI denuncia in modo vigoroso la dittatura del relativismo: non esistono più verità assolute, ogni uomo si crea la sua verità. e la conclusione è che aumentano gli uomini e le donne che non hanno una fede. Dilaga il relativismo e insieme l’indifferentismo. La fede non interessa più, Dio non interessa più; nasce quasi il rimpianto per i tempi in cui esistevano i cosiddetti “nemici della fede”. In verità ci sono ancora, e ci sono pure i persecutori. Ma sembra crescere in modo pauroso il numero di coloro che non si interrogano più sui problemi fondamentali dell’uomo. Sembra non esistano più coloro che combattano Dio e i cristiani, perché l’indifferenza ha bruciato nel cuore di tutti le domande più importanti. Saulo non era un indifferente. Credeva nel Dio d’Israele, nel Dio dei patriarchi e dei profeti. Nel Dio che aveva creato il cielo e la terra. e si era riservato un popolo, il popolo d’Israele, perché annunciasse le sue meraviglie tra le genti. Perché questo piccolo popolo ricordasse agli uomini di tutta la terra chi era il vero Dio. Racconta sempre il libro degli Atti degli Apostoli: “Saulo, frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al Sommo Sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati” (Atti 9,1-2). Saulo non è un uomo sanguinario, un sadico che gode di vedere i cristiani in galera. E’ un adoratore del vero Dio, il Dio d’Israele, quel Dio che non sopporta idoli. Come recita l’antica preghiera: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore Tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt. 6,4). Saulo, da perfetto israelita, viveva questa fede. Sapeva che il suo Dio era un Dio geloso, che non sopportava dai suoi adoratori altri amori verso altri dei, verso forme non autentiche di religiosità. E i discepoli di Gesù di Nazareth apparivano agli occhi di questo zelante ebreo come una pericolosa setta, che si allontanava dalla religione dei padri. Io credo che la disgrazia più grande dei nostri tempi è la schiera enorme di coloro che non credono più a nulla, non combattono più nessuna battaglia, non sono più capaci di opporsi a Dio, perché Dio per loro, è una parola vuota. Saulo non apparteneva a questa massa amorfa e triste. Egli credeva, amava, adorava il Dio d’Israele. E la sua fede ardente lo portava ad essere persecutore dei cristiani, gli “eretici”. Era un “fondamentalista”. Ma guai a chi non crede più a nulla, non lotta più per nessun ideale, si arrende alla cultura dell’indifferenza che regna nel mondo. Nell’Apocalisse c’è un giudizio terribile per chi è tiepido ed indifferente, per chi non sa decidersi: “All’angelo della Chiesa di Laodicea scrivi: tu non sei né freddo né caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Apocalisse 3,14-16). Saulo non ha mai appartenuto alla categoria dei tiepidi, degli indifferenti. E’ stato un persecutore convinto. Uno zelo indicibile lo spingeva a perseguitare i cristiani. Credeva di essere sulla strada giusta e questa strada la percorreva con una passione ed una dedizione inarrivabili. Ma Qualcuno lo attendeva lungo la via di Damasco. Per rivelargli un’altra verità, un’altra luce, un’altra passione. Una passione che avrebbe trasformato radicalmente e per sempre la sua vita. 

2. Il convertito 

Sentiamo il racconto degli Atti degli Apostoli: «E avvenne che, mentre (Saulo) era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo perché mi perseguiti?” Rispose “chi sei o Signore?” e la voce: “Io sono Gesù che tu perseguiti! Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare”» (Atti 9,3-6). Poi si racconta dello stupore dei compagni di viaggio, della cecità che colpisce Saulo, e dell’arrivo a Damasco. Qui c’è l’incontro di Saulo con Anania, che il Signore aveva incaricato di aiutare il persecutore dei cristiani ad aprirsi alla vera fede. Anania, che conosce Saulo e il suo odio verso i cristiani, si mostra perplesso e timoroso. Ma il Signore lo incoraggia: “Va’, perché egli è per me uno strumento eletto, per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele ed io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome” (Atti 9,15-16). Qualcuno ha scritto che dopo la risurrezione di Cristo la conversione di Saulo, che diventerà l’Apostolo Paolo, è il miracolo più grande che viene raccontato nel Nuovo Testamento. Umanamente parlando era impossibile che questo seguace dell’ebraismo diventasse cristiano. Gesù Risorto ha compiuto questo miracolo. Paolo sa che la sua conversione è puro dono di Dio. E lo riconosce chiaramente: “Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è in me” (1 Cor. 15,10). Scrivendo al giovane discepolo e vescovo Timoteo Paolo confessa con stupenda umiltà: “Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia, chiamandomi al ministero; io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fede; così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, ad esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna” (1 Tm. 1,12-16). E’ bello e commovente sentire Paolo che fa queste confidenze. Ma, soprattutto, le sue parole sono una luce che porta chiarezza alla nostra vita. Il tema della conversione attraversa tutto il libro Sacro, la Bibbia. La conversione interessa ogni discepolo di Gesù. Con l’invito alla conversione si apre la predicazione di Gesù nel Vangelo. E viene spontaneo chiederci: ma noi siamo realmente convertiti? Per Paolo la conversione è stata una rinuncia totale al passato e un consegnarsi senza riserve nelle mani di Gesù Cristo: “Quello che poteva essere per
me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza del mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero una spazzatura, al fine di guadagnare Cristo”. E ancora: “Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione: solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli io non ritengo di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (Fil. 3,7-13).

Ma neppure per Paolo la conversione è stata facile.

Rileggiamo la Lettera ai Romani : “Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo al peccato (…). Infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto (…). Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene! C’è in me il desiderio del bene; ma non la capacità di attuarlo; infatti non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio (…) io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo alla legge del peccato che è nelle mie membra” (Rm 7,14-23). Ma ormai Paolo non ha più paura di questa lotta contro il male, per continuare a vivere ogni giorno la sua conversione. Infatti conclude con gioia: “Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!” (Rm 7, 24-25). E ancora: “Non c’è più nessuna condanna per quelli che sono di Gesù Cristo. Poiché la legge dello spirito che dà la vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rm 8,1-2). Paolo ci insegna che il nostro passato, anche se negativo, non può impedirci di aderire completamente a Cristo e al Suo Vangelo. Paolo ci insegna anche che convertirsi non significa essersi sottratti per sempre alla lotta spirituale contro il male. L’importante è credere con tutto il cuore che Gesù Cristo è dalla nostra parte e non ci lascerà soccombere. Soprattutto non permetterà che il nostro peccato ci appaia più importante e decisivo dell’amore di Dio per noi.

Convertirsi è avere trovato ciò che è più importante e decisivo.

Convertirsi è non volgersi più indietro.

Convertirsi è avere imparato ad amare e a sperare.

Convertirsi è sperimentare che ormai la nostra vita non ci appartiene più: dev’essere
donata totalmente a Dio e ai fratelli.

3. L’Apostolo 

Paolo, ormai “ghermito dal Signore” (Fil. 3,12), sente che la sua vita non gli appartiene più. Ma è una vita da donare completamente a Dio e ai fratelli. A questo del resto l’aveva chiaramente destinato lo stesso Gesù Risorto, che gli era apparso sulla via di Damasco. Abbiamo sentito ciò che il Signore risorto dice ad Anania: “Egli (Paolo) è per me uno strumento eletto, per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli d’Israele” (At. 9,15). Tutte le lettere di Paolo sono attraversate da questa ansia missionaria, da questo struggente desiderio di portare a tutti il Vangelo di Gesù Cristo: “Guai a me se non evangelizzo”. Paolo sa, però, che nella sua missione di evangelizzatore non deve e non può confidare in se stesso, ma solo nel Signore. Non può annunciare se stesso, ma solo Gesù Cristo Crocifisso: “Anch’io, fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunciarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di
sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio” (1 Cor. 2,1-5). In una delle sue lettere, per rispondere ad alcune accuse dei suoi aversari, Paolo si vede costretto a….fare il proprio elogio di Apostolo. E’ un piccolo saggio (prezioso) per aprire uno squarcio sulla sua incredibile e multiforme attività missionaria. Scrive Paolo: “Però in quello in cui qualcuno osa vantarsi, lo dico da stolto, oso vantarmi anch’io. Sono Ebrei? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli dai falsi fratelli; fatica e travaglio,veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non frema? (…) A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così sfuggii dalle sue mani” (2 Cor. 11, 21-29.32-33). Paolo, malgrado le prove che il Signore permette anche nella sua vita di Apostolo, non si scoraggia. Continua imperterrito la sua corsa per annunciare il Vangelo a tutti. Così scrive infatti ai Corinzi: “Investiti di questo ministero per la misericordia che ci è stata usata, non ci perdiamo d’animo; al contrario, rifiutando le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunziando apertamente la verità, ci presentiamo davanti ad ogni coscienza, al cospetto di Dio” (2 Cor. 4,1-2). E ancora: “Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore; quanto a noi siamo i vostri servitori per amore di Gesù. E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (2 Cor. 4,5-6). Paolo è consapevole che la missione affidatagli da Cristo è sublime. Ma non dimentica mai la sua piccolezza, il suo niente. E, soprattutto, non dimentica che questa vita sulla terra è solo un prepararci a quella vita che durerà per tutta l’eternità, accanto al Signore Risorto. Ecco perché l’Apostolo riesce a trovare sempre la forza e la gioia per andare avanti: “Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi. siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati ma non abbandonati; colpiti ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti noi che siamo vivi veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita. Animati, tuttavia, da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: “Ho creduto, perciò ho parlato”, anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche voi con Gesù e ci porrà accanto a Lui insieme con voi. Tutto infatti è per voi, perchè la grazia, ancor più abbondante ad opera di un maggior numero, moltiplichi l’inno di lode alla gloria di Dio. Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne” (2 Cor. 4,7-18). Paolo è l’apostolo che può dichiarare con mite fermezza la sua purissima intenzione di essere al servizio di Dio e dei fratelli, con una dedizione immensa, una passione grande e una tenerezza incredibile: “Da parte nostra non siamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga biasimato il nostro ministero; ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, sapienza, pazienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero; con parole di verità, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama. Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto” (2Cor. 6,3-10). Sono tantissime le testimonianze che ci rivelano la gigantesca statura spirituale e morale dell’Apostolo Paolo. Ma ci piace concludere queste brevissime annotazioni con una scena che desta sempre tanta commozione nel cuore di chi la rilegge nel libro degli Atti degli Apostoli: l’addio agli anziani di Efeso. Sono le pagine che ci mostrano quanto amore e quanta dedizione sincera accompagnavano Polo nei suoi viaggi missionari. E veniamo anche a scoprire quali legami profondi si creavano tra l’apostolo, i responsabili delle varie comunità e i fedeli che aveva incontrati. Paolo, come ogni vero apostolo si rivolgeva alle persone, non alle masse, conosceva i volti dei suoi, non era interessato al numero degli adepti. Ed ecco il racconto degli Atti: «Da Mileto (Paolo) mandò a chiamare subito ad Efeso gli anziani della Chiesa. Quando essi giunsero disse loro: “Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei. Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi in pubblico e nelle vostre case, scongiurando Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù. Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà(…). Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunziando il regno di Dio. Per questo dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a coloro che si perdessero, perché non mi sono sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio. Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi. Ed ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere l`eredità con tutti i santificati. Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere! ». Detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò. Tutti scoppiarono in un gran pianto e gettandosi al collo di Paolo lo baciavano, addolorati soprattutto perché aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto. E lo accompagnarono fino alla nave» (Atti 20,17-37). In quegli abbracci e in quei baci è custodita una ricchezza di incontri, di sentimenti, di legami unici tra l’Apostolo e tutti i fratelli e sorelle della comunità di Efeso. Una storia che possiamo solo intuire ma che, per quel poco che riusciamo ad immaginare, testimonia in modo luminoso l’autenticità, l’intensità, la profonda umanità e l’altissimo profilo spirituale dell’avventura apostolica di Paolo di Tarso.

4. Il Testimone 

Gli Atti degli Apostoli ci presentano almeno tre grandi viaggi missionari di Paolo. Ma è difficile circoscrivere tutta l’attività missionaria dell’Apostolo. Sappiamo che dopo questi viaggi si era recato a Gerusalemme per portare le collette raccolte soprattutto in Macedonia e in Acaia. Sappiamo che in occasione di questa visita a Gerusalemme ci fu un subbuglio provocato contro l’Apostolo da alcuni giudei della provincia d’Asia che accusavano Paolo di aver violato l’area sacra del Tempio e di aver tentato di introdurre nel luogo sacro alcuni gentili. Il tribuno della coorte romana lo sottrasse al linciaggio della folla dei giudei. Paolo si difese sia in pubblico, di fronte ai giudei della città, sia di fronte al Sinedrio. Si difese anche a Cesarea Marittima, di fronte al procuratore romano Antonio Felice e davanti al suo successore Porcio Festo. Fu proprio di fronte a quest’ultimo che Paolo, cittadino romano, si appellò all’Imperatore e fu perciò deferito a Roma. E’ bello rileggere direttamente negli Atti il viaggio di Paolo a Roma, pieno di pericoli e drammatici imprevisti. Un viaggio che fu ugualmente una continua evangelizzazione (Atti 27 e 28). Giunto a Roma, Paolo vi trascorre, sotto custodia militare, due anni, nella casa che aveva preso a pigione: “Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti quelli che venivano a lui, annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento”. Si conclude così il racconto degli Atti degli Apostoli. Si era negli anni tra il 58 e il 63 (dopo Cristo). Dopo questo momento non abbiamo date e notizie sicure. Sappiamo però che la morte di Paolo avvenne sicuramente a Roma, sotto l’Imperatore Nerone, e fu una morte violenta. Fu un martirio, con l’accusa, forse, di appartenere ad un gruppo sovversivo. Fu la morte di chi fino all’ultimo volle testimoniare la sua fede e il suo amore a Gesù Cristo. “Martirio”, secondo il termine greco da cui questa parola deriva, significa appunto testimonianza. Fino all’ultimo Paolo ha voluto testimoniare che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, è il Messia promesso dai Profeti, è l’unico Salvatore del mondo. Ma possiamo meditare su altri aspetti della straordinaria testimonianza dell’Apostolo. Paolo ci testimonia che l’essenza della vita cristiana è aver trovato Gesù, amarlo e vivere di Lui e per Lui. Lo scrive nella lettera ai Galati: “In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal. 2,19-20). Paolo ci testimonia e ci ricorda che la vita cristiana è tutta qui, nel poter ripetere come lui: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”. Tutto il resto viene dopo. E nel resto c’è il cammino verso la santità, l’impegno personale nella vita spirituale, l’impegno sociale e politico, l’impegno per la pace, l’impegno nel custodire la creazione, l’impegno a fare di tutta l’umanità l’unica famiglia dei figlio di Dio. Un grande teologo del nostro tempo (Karl Rahner) ha scritto che il cristiano del futuro o sarà un mistico o non sarà. Paolo lo aveva detto duemila anni fa. Paolo ci testimonia anche una fede rocciosa e sicura nel Cristo Risorto. Rileggiamo la lettera ai Corinzi: “Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1 Cor. 15,12-20). Paolo ci testimonia anche la certezza che nel messaggio di Gesù e nella vita cristiana ciò che conta veramente è la carità, l’amore. I cristiani di Corinto, gli stessi a cui Paolo ricorderà che senza la fede nella risurrezione tutto il cristianesimo crolla, non sapevano fare buon uso dei carismi, cioè dei vari doni che lo Spirito dà abbondantemente a ogni membro della Chiesa, per il bene di tutti, l’Apostolo ricorda che c’è una “via migliore di tutte”: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell`ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà” (1Cor. 13,1-10). E Paolo conclude: “Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità” (1Cor. 13,13). Ed infine Paolo ci testimonia che l’amore che Gesù ci ha rivelato è Egli stesso. E’ Cristo l’amore di Dio fattosi carne in mezzo a noi. e chi si affida totalmente a questo amore ha vinto ormai ogni paura. Quante paure, ogni giorno, vengono a turbare la nostra esistenza! Fra tutte la paura più brutta e pericolosa è quella che ci spinge a dubitare dell’amore di Dio. E’ anche la tentazione più terribile del cristiano. Paolo ci racconta come ha vinto questa paura: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Chi ci separerà dunque dall`amore di Cristo? Forse la tribolazione, l`angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità,il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun`altra creatura potrà mai separarci dall`amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm. 8,31-35.37-39). Non dimentichiamo mai questo grido gioioso di Paolo. E nessuno potrà mai rubarci la speranza e la salvezza. Nessuno potrà mai separarci da Gesù Cristo Signore nostro, che ci ha amati e ha dato se stesso per noi

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