Archive pour juin, 2010

Omelia per il 1 luglio 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/15587.html

Omelia (02-07-2009) 
a cura dei Carmelitani

1) Preghiera

O Dio, che ci hai reso figli della luce
con il tuo Spirito di adozione,
fa’ che non ricadiamo nelle tenebre dell’errore,
ma restiamo sempre luminosi
nello splendore della verità.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…

2) Lettura

Dal Vangelo secondo Matteo 9,1-8
In quel tempo, salito su una barca, Gesù passò all’altra riva del lago e giunse nella sua città. Ed ecco, gli portarono un paralitico steso su un letto.
Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: “Coraggio, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati”.
Allora alcuni scribi cominciarono a pensare: “Costui bestemmia”. Ma Gesù, conoscendo i loro pensieri, disse: “Perché mai pensate cose malvagie nel vostro cuore? Che cosa dunque è più facile, dire: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati e cammina? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere in terra di rimettere i peccati: alzati, disse allora al paralitico, prendi il tuo letto e va’ a casa tua”.
Ed egli si alzò e andò a casa sua. A quella vista, la folla fu presa da timore e rese gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini.

3) Riflessione

• L’autorità straordinaria di Gesù. Al lettore Gesù appare come una persona investita di un’autorità straordinaria, mediata dalla parola e dal gesto (Mt 9,6.8). La parola autorevole di Gesù colpisce il male alla radice: nel caso del paralitico sul peccato che intacca l’uomo nella sua libertà e lo blocca nelle sue forze vive: «Sono rimessi i tuoi peccati» (v.5); «Alzati prendi il tuo lettuccio e và a casa tua» (v.6). Davvero tutte le forme di paralisi del cuore e della mente cui siamo soggetti vengono annullate dall’autorità di Gesù (9,6), perché si è scontrato con esse durante la sua vita terrena. La parola autorevole ed efficace di Gesù risveglia l’umanità paralizzata (9,5-7) e le fa dono di camminare (9,6) in una fede rinnovata.
• L’incontro con il paralitico. Dopo la tempesta e una visita nel paese dei Gadareni, Gesù fa ritorno a Cafarnao, la sua città. E mentre vi fa ritorno avviene l’incontro con il paralitico. La guarigione non avviene in una casa, ma lungo la via. Dunque lungo la via che conduce a Cafarnao gli portano un paralitico. Gesù si rivolge a lui chiamandolo «figliolo», un gesto di attenzione che presto si traduce in gesto salvifico: «sono rimessi i tuoi peccati» (v.2). Il perdono dei peccati che Gesù pronuncia da parte di Dio sul paralitico accenna al legame tra malattia, colpa e peccato. È la prima volta che l’evangelista in modo esplicito ascrive a Gesù questo particolare potere divino. Per i Giudei l’infermità di un uomo era considerata un castigo per eventuali peccati commessi; il male fisico, la malattia era ritenuta sempre una conseguenza di un male morale proprio o dovuto ai genitori (Gv 9,2). Gesù restituisce all’uomo la condizione di salvezza liberandolo sia dalla malattia sia dal peccato.
• Per alcuni dei presenti, gli scribi, le parole di Gesù che annunciano il perdono dei peccati è una vera e propria bestemmia. Per loro Gesù è un arrogante perché solo Dio può perdonare. Tale giudizio su Gesù non lo manifestano apertamente ma lo esprimono mormorando tra di loro. Gesù che scruta nei loro cuori vede le loro considerazioni e li rimprovera per la loro incredulità. L’espressione di Gesù «affinché conosciate che il Figlio dell’uomo ha il potere di rimettere i peccati…» (v.6) sta a indicare che non solo Dio può perdonare, ma con Gesù, anche un uomo (Gnilka).
• La folla, a differenza degli scribi, è presa dinanzi alla guarigione del paralitico dallo spavento e glorifica Dio. La folla è colpita dal potere di perdonare i peccati manifestatosi nella guarigione. La gente esulta perché Dio ha concesso un tale potere al Figlio dell’uomo. È possibile ascrivere questo alla comunità ecclesiale dove era concesso il perdono dei peccati su mandato di Gesù? Matteo ha riportato questo episodio sul perdono dei peccati con l’intenzione di applicarlo ai rapporti fraterni all’interno della comunità ecclesiale. In essa vigeva, già, la prassi di perdonare i peccati su delega di Gesù; una prassi non condivisa dalla sinagoga. Il tema del perdono dei peccati ritorna ancora in Mt 18 e alla fine del vangelo viene affermato che esso è radicato nella morte di Gesù in croce (26,28). Ma nel nostro contesto il perdono dei peccati è collegato con l’esigenza della misericordia presente nell’episodio che segue, la vocazione di Matteo: «…misericordia cerco e non sacrificio. Non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt 9,13). Tali parole di Gesù intendono dire che lui ha reso visibile il perdono di Dio; anzitutto, nei rapporti con i pubblicani e i peccatori, nel sedersi a mensa con loro.
• Questo racconto che riprende il problema del peccato e richiama il legame con la miseria dell’uomo è una prassi da praticare nel perdono che deve essere donato, ma è una storia che deve occupare uno spazio privilegiato nella predicazione delle nostre comunità ecclesiali.

4) Per un confronto personale

• Sei convinto che Gesù, chiamato amico dei peccatori, non disprezza le tue debolezze e le tue resistenze, ma se ne fa carico, offrendoti l’aiuto necessario per vivere una vita in armonia con Dio e con i fratelli?
• Quando fai l’esperienza di tradire o rifiutare l’amicizia con Dio ricorri al sacramento della riconciliazione che ti riconcilia con il Padre e con la chiesa e fa di te una creatura nuova nella forza dello Spirito Santo?

5) Preghiera finale

Gli ordini del Signore sono giusti,
fanno gioire il cuore;
i comandi del Signore sono limpidi,
danno luce agli occhi. (Sal 18) 

Isacco della Stella : « Chi può rimettere i peccati se non Dio solo ? » (Mc 2,7)

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100701

Giovedì della XIII settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mt 9,1-8
Meditazione del giorno
Isacco della Stella (? – circa 1171), monaco cistercense
Omelie,  11

« Chi può rimettere i peccati se non Dio solo ? » (Mc 2,7)

        Due cose spettano a Dio solo: l’onore di ricevere la confessione e il potere di perdonare. Dobbiamo fargli la nostra confessione e aspettarci da lui il perdono. A Dio solo infatti spetta perdonare i peccati; quindi a lui solo conviene confessarli. Ma l’Onnipotente, l’Altissimo, avendo preso una sposa debole e povera, ha fatto di questa serva una regina. Lei rimaneva indietro, e Lui l’ha posta accanto a sé; infatti dal suo costato lei è uscita, e in questo modo  egli l’ha unita a sé (Gen 2,22; Gv 19,34). E come tutte le cose del Padre sono del Figlio e tutte le cose del Figlio sono del Padre, per la loro unità di natura (Gv 17,10), così lo Sposo ha dato tutti i suoi beni alla sposa e si è assunto tutto ciò che appartiene alla sposa che ha unita a sé e a suo Padre…

        Per questo lo Sposo, che è una cosa sola con il Padre e una cosa sola con la sposa, ha tolto da lei quanto ha trovato in lei di straniero, fissandolo alla croce dove ha portato i suoi peccati sul legno e li ha distrutti per mezzo del legno. Ciò che è naturale e proprio alla sposa, egli l’ha assunto e rivestito; ciò che gli è proprio e divino, l’ha dato alla sposa… Condivide così la debolezza della sposa insieme al suo gemito, e tutto è comune allo Sposo e alla sposa. L’onore di ricevere la confessione e il potere di perdonare. Per questo ha detto: «Va’, presentati al sacerdote» (Mc 1,44).

Benedetto XVI: il peggior nemico della Chiesa non è la persecuzione – Omelia per la solennità di Pietro e Paolo

dal sito:

http://www.zenit.org/article-23024?l=italian

Benedetto XVI: il peggior nemico della Chiesa non è la persecuzione

Omelia nella solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 30 giugno 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito l’omelia pronunciata questo martedì dal Papa in occasione della solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, Patroni di Roma, nell’Eucaristia solenne celebrata nella Basilica vaticana durante la quale è stato imposto il pallio ai nuovi Arcivescovi metropoliti di quest’anno.

* * *

Cari fratelli e sorelle!

I testi biblici di questa Liturgia eucaristica della solennità dei santi Apostoli Pietro e Paolo, nella loro grande ricchezza, mettono in risalto un tema che si potrebbe riassumere così: Dio è vicino ai suoi fedeli servitori e li libera da ogni male, e libera la Chiesa dalle potenze negative. E’ il tema della libertà della Chiesa, che presenta un aspetto storico e un altro più profondamente spirituale.

Questa tematica attraversa tutta l’odierna Liturgia della Parola. La prima e la seconda Lettura parlano, rispettivamente, di san Pietro e di san Paolo sottolineando proprio l’azione liberatrice di Dio nei loro confronti. Specialmente il testo degli Atti degli Apostoli descrive con abbondanza di particolari l’intervento dell’angelo del Signore, che scioglie Pietro dalle catene e lo conduce fuori dal carcere di Gerusalemme, dove lo aveva fatto rinchiudere, sotto stretta sorveglianza, il re Erode (cfr At 12,1-11). Paolo, invece, scrivendo a Timoteo quando ormai sente vicina la fine della vita terrena, ne fa un bilancio consuntivo da cui emerge che il Signore gli è stato sempre vicino, lo ha liberato da tanti pericoli e ancora lo libererà introducendolo nel suo Regno eterno (cfr 2 Tm 4, 6-8.17-18). Il tema è rafforzato dal Salmo responsoriale (Sal 33), e trova un particolare sviluppo anche nel brano evangelico della confessione di Pietro, là dove Cristo promette che le potenze degli inferi non prevarranno sulla sua Chiesa (cfr Mt 16,18).

Osservando bene si nota, riguardo a questa tematica, una certa progressione. Nella prima Lettura viene narrato un episodio specifico che mostra l’intervento del Signore per liberare Pietro dalla prigione; nella seconda Paolo, sulla base della sua straordinaria esperienza apostolica, si dice convinto che il Signore, che già lo ha liberato « dalla bocca del leone », lo libererà « da ogni male » aprendogli le porte del Cielo; nel Vangelo invece non si parla più dei singoli Apostoli, ma della Chiesa nel suo insieme e della sua sicurezza rispetto alle forze del male, intese in senso ampio e profondo. In tal modo vediamo che la promessa di Gesù – « le potenze degli inferi non prevarranno » sulla Chiesa – comprende sì le esperienze storiche di persecuzione subite da Pietro e da Paolo e dagli altri testimoni del Vangelo, ma va oltre, volendo assicurare la protezione soprattutto contro le minacce di ordine spirituale; secondo quanto Paolo stesso scrive nella Lettera agli Efesini: « La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti » (Ef 6,12).

In effetti, se pensiamo ai due millenni di storia della Chiesa, possiamo osservare che – come aveva preannunciato il Signore Gesù (cfr Mt 10,16-33) – non sono mai mancate per i cristiani le prove, che in alcuni periodi e luoghi hanno assunto il carattere di vere e proprie persecuzioni. Queste, però, malgrado le sofferenze che provocano, non costituiscono il pericolo più grave per la Chiesa. Il danno maggiore, infatti, essa lo subisce da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei suoi membri e delle sue comunità, intaccando l’integrità del Corpo mistico, indebolendo la sua capacità di profezia e di testimonianza, appannando la bellezza del suo volto. Questa realtà è attestata già dall’epistolario paolino. La Prima Lettera ai Corinzi, ad esempio, risponde proprio ad alcuni problemi di divisioni, di incoerenze, di infedeltà al Vangelo che minacciano seriamente la Chiesa. Ma anche la Seconda Lettera a Timoteo – di cui abbiamo ascoltato un brano – parla dei pericoli degli « ultimi tempi », identificandoli con atteggiamenti negativi che appartengono al mondo e che possono contagiare la comunità cristiana: egoismo, vanità, orgoglio, attaccamento al denaro, eccetera (cfr 3,1-5). La conclusione dell’Apostolo è rassicurante: gli uomini che operano il male – scrive – « non andranno molto lontano, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti » (3,9). Vi è dunque una garanzia di libertà assicurata da Dio alla Chiesa, libertà sia dai lacci materiali che cercano di impedirne o coartarne la missione, sia dai mali spirituali e morali, che possono intaccarne l’autenticità e la credibilità.

Il tema della libertà della Chiesa, garantita da Cristo a Pietro, ha anche una specifica attinenza con il rito dell’imposizione del Pallio, che oggi rinnoviamo per trentotto Arcivescovi Metropoliti, ai quali rivolgo il mio più cordiale saluto, estendendolo con affetto a quanti hanno voluto accompagnarli in questo pellegrinaggio. La comunione con Pietro e i suoi successori, infatti, è garanzia di libertà per i Pastori della Chiesa e per le stesse Comunità loro affidate. Lo è su entrambi i piani messi in luce nelle riflessioni precedenti. Sul piano storico, l’unione con la Sede Apostolica assicura alle Chiese particolari e alle Conferenze Episcopali la libertà rispetto a poteri locali, nazionali o sovranazionali, che possono in certi casi ostacolare la missione della Chiesa. Inoltre, e più essenzialmente, il ministero petrino è garanzia di libertà nel senso della piena adesione alla verità, all’autentica tradizione, così che il Popolo di Dio sia preservato da errori concernenti la fede e la morale. Il fatto dunque che, ogni anno, i nuovi Metropoliti vengano a Roma a ricevere il Pallio dalle mani del Papa va compreso nel suo significato proprio, come gesto di comunione, e il tema della libertà della Chiesa ce ne offre una chiave di lettura particolarmente importante. Questo appare evidente nel caso di Chiese segnate da persecuzioni, oppure sottoposte a ingerenze politiche o ad altre dure prove. Ma ciò non è meno rilevante nel caso di Comunità che patiscono l’influenza di dottrine fuorvianti, o di tendenze ideologiche e pratiche contrarie al Vangelo. Il Pallio dunque diventa, in questo senso, un pegno di libertà, analogamente al « giogo » di Gesù, che Egli invita a prendere, ciascuno sulle proprie spalle (cfr Mt 11,29-30). Come il comandamento di Cristo – pur esigente – è « dolce e leggero » e, invece di pesare su chi lo porta, lo solleva, così il vincolo con la Sede Apostolica – pur impegnativo – sostiene il Pastore e la porzione di Chiesa affidata alle sue cure, rendendoli più liberi e più forti.

Un’ultima indicazione vorrei trarre dalla Parola di Dio, in particolare dalla promessa di Cristo che le potenze degli inferi non prevarranno sulla sua Chiesa. Queste parole possono avere anche una significativa valenza ecumenica, dal momento che, come accennavo poc’anzi, uno degli effetti tipici dell’azione del Maligno è proprio la divisione all’interno della Comunità ecclesiale. Le divisioni, infatti, sono sintomi della forza del peccato, che continua ad agire nei membri della Chiesa anche dopo la redenzione. Ma la parola di Cristo è chiara: « Non praevalebunt – non prevarranno » (Mt 16,18). L’unità della Chiesa è radicata nella sua unione con Cristo, e la causa della piena unità dei cristiani – sempre da ricercare e da rinnovare, di generazione in generazione – è pure sostenuta dalla sua preghiera e dalla sua promessa. Nella lotta contro lo spirito del male, Dio ci ha donato in Gesù l’ »Avvocato » difensore, e, dopo la sua Pasqua, « un altro Paraclito » (cfr Gv 14,16), lo Spirito Santo, che rimane con noi per sempre e conduce la Chiesa verso la pienezza della verità (cfr Gv 14,16; 16,13), che è anche la pienezza della carità e dell’unità. Con questi sentimenti di fiduciosa speranza, sono lieto di salutare la Delegazione del Patriarcato di Costantinopoli, che, secondo la bella consuetudine delle visite reciproche, partecipa alle celebrazioni dei Santi Patroni di Roma. Insieme rendiamo grazie a Dio per i progressi nelle relazioni ecumeniche tra cattolici ed ortodossi, e rinnoviamo l’impegno di corrispondere generosamente alla grazia di Dio, che ci conduce alla piena comunione.

Cari amici, saluto cordialmente ciascuno di voi: Signori Cardinali, Fratelli nell’Episcopato, Signori Ambasciatori e Autorità civili, in particolare il Sindaco di Roma, sacerdoti, religiosi e fedeli laici. Vi ringrazio per la vostra presenza. I santi Apostoli Pietro e Paolo vi ottengano di amare sempre più la santa Chiesa, corpo mistico di Cristo Signore e messaggera di unità e di pace per tutti gli uomini. Vi ottengano anche di offrire con letizia per la sua santità e la sua missione le fatiche e le sofferenze sopportate per la fedeltà al Vangelo. La Vergine Maria, Regina degli Apostoli e Madre della Chiesa, vegli sempre su di voi, in particolare sul ministero degli Arcivescovi Metropoliti. Col suo celeste aiuto possiate vivere e agire sempre in quella libertà, che Cristo ci ha guadagnato. Amen.

Benedetto XVI: Pietro e Paolo, “sante radici” della Chiesa di Roma (Angelus)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-23033?l=italian

Benedetto XVI: Pietro e Paolo, “sante radici” della Chiesa di Roma

Angelus nella solennità dei Santi Apostoli

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 30 giugno 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l’intervento di Benedetto XVI pronunciato questo martedì durante la recita dell’Angelus dalla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico vaticano, al termine della Messa celebrata nella Basilica vaticana nella solennità dei Santi Pietro e Paolo.

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Cari fratelli e sorelle,

quest’oggi la Chiesa di Roma festeggia le sue sante radici, celebrando gli Apostoli Pietro e Paolo, le cui reliquie sono custodite nelle due Basiliche ad essi dedicate e che ornano l’intera Città cara ai cristiani residenti e pellegrini. La solennità è iniziata ieri sera con la preghiera dei Primi Vespri nella Basilica Ostiense. La liturgia del giorno ripropone la professione di fede di Pietro nei confronti di Gesù: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). Non è una dichiarazione frutto di ragionamento, ma una rivelazione del Padre all’umile pescatore di Galilea, come conferma Gesù stesso dicendo: «né carne né sangue te lo hanno rivelato» (Mt 16,17). Simon Pietro è talmente vicino al Signore da diventare egli stesso una roccia di fede e d’amore su cui Gesù ha edificato la sua Chiesa e «l’ha resa – come osserva san Giovanni Crisostomo – più forte del cielo stesso» (Hom. in Matthæum 54, 2: PG 58,535). Infatti, il Signore conclude dicendo: «tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,19).

San Paolo – di cui abbiamo recentemente celebrato il bimillenario della nascita – con la Grazia divina ha diffuso il Vangelo, seminando la Parola di verità e di salvezza in mezzo ai popoli pagani. I due Santi Patroni di Roma, pur avendo ricevuto da Dio carismi diversi e missioni diverse da compiere, sono entrambi fondamenta della Chiesa una, santa, cattolica e apostolica, «permanentemente aperta alla dinamica missionaria ed ecumenica, perché inviata al mondo ad annunziare e testimoniare, attualizzare ed espandere il mistero di comunione che la costituisce» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Communionis notio, 28 maggio 1992, n. 4: AAS 85 [1993], 840). Per questo, durante la santa Messa di questa mattina nella Basilica Vaticana, ho consegnato a trentotto Arcivescovi Metropoliti il Pallio, che simboleggia sia la comunione con il Vescovo di Roma, sia la missione di pascere con amore l’unico gregge di Cristo. In questa solenne ricorrenza, desidero anche ringraziare di cuore la Delegazione del Patriarcato Ecumenico, a testimonianza del vincolo spirituale tra la Chiesa di Roma e la Chiesa di Costantinopoli.

L’esempio degli Apostoli Pietro e Paolo illumini le menti e accenda nei cuori dei credenti il santo desiderio di compiere la volontà di Dio, affinché la Chiesa pellegrina sulla terra sia sempre fedele al suo Signore. Rivolgiamoci con fiducia alla Vergine Maria, Regina degli Apostoli, che dal Cielo guida e sostiene il cammino del Popolo di Dio.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Saluto infine i pellegrini di lingua italiana, in modo particolare gli Arcivescovi Metropoliti e quanti li accompagnano. A tutti auguro una buona festa dei santi Apostoli Pietro e Paolo.

Salvifici Doloris – sintesi: [Completo nella mia carne, dice l’apostolo Paolo, spiegando il valore salvifico della sofferenza, quello che manca ai patimenti di Cristo in favore del suo corpo che è la Chiesa (Col 1,24)]

dal sito:

http://www.giullarididio.it/main/index.php?option=com_content&task=view&id=1463&Itemid=81

Salvifici Doloris  (Lettera Apostolica), testo completo:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/apost_letters/documents/hf_jp-ii_apl_11021984_salvifici-doloris_it.html

[Completo nella mia carne, dice l’apostolo Paolo, spiegando il valore salvifico della sofferenza, quello che manca ai patimenti di Cristo in favore del suo corpo che è la Chiesa (Col 1,24)]

Lettera apostolica sul senso cristiano della sofferenza di Giovanni Paolo II

SINTESI

1. Il mondo dell’umana sofferenza

   “Completo nella mia carne, dice l’apostolo Paolo, spiegando il valore salvifico della sofferenza, quello che manca ai patimenti di Cristo in favore del suo corpo che è la Chiesa”. (Col 1,24) Queste parole sembrano trovarsi al termine del lungo camino, che si snoda attraverso la sofferenza inserita nella storia dell’uomo ed illuminata dalla parola di Dio. Esse hanno quasi il valore di una definitiva scoperta, che viene accompagnata dalla gioia; per questo l’Apostolo scrive: “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi” (ibid.). La gioia proviene dalla scoperta del senso della sofferenza, ed una tale scoperta, anche se vi partecipa in modo personalissimo Paolo di Tarso che scrive queste parole, è al tempo stesso valida per gli altri.
   La sofferenza è qualcosa di ancora più ampio della malattia, di più complesso ed insieme più profondamente radicato nell’umanità stessa. Una certa idea di questo problema ci viene dalla distinzione tra sofferenza fisica: quando duole  il corpo  e sofferenza morale: dolore dell’anima. Si tratta quest’ultima del dolore di natura spirituale, e non solo della dimensione psichica del dolore che accompagna sia la sofferenza morale che quella fisica.
   La Sacra Scrittura è un grande libro sulla sofferenza. Si può dire che l’uomo soffre, allorquando sperimenta un qualsiasi male. Nel vocabolario dell’Antico Testamento il rapporto tra sofferenza e male si pone in evidenza come identità, solo nel Nuovo Testamento la sofferenza non è più direttamente identificabile col male (oggettivo), ma esprime una situazione nella quale l’uomo prova il male e, provandolo, diventa soggetto di sofferenza. Al centro di ciò che costituisce la forma psicologica della sofferenza  si trova sempre un’esperienza del male, a causa del quale l’uomo soffre.
   Così dunque la realtà della sofferenza provoca l’interrogativo sull’essenza del male: che cosa è il male?I
   l cristianesimo proclama l’essenziale bene dell’esistenza e il bene di ciò che esiste, professa la bontà del creatore e proclama il bene delle creature. L’uomo soffre a causa del male, che è una certa mancanza, limitazione o distorsione del bene.
   All’interno di ogni singola sofferenza provata dall’uomo appare inevitabile l’interrogativo: perché? E’ un interrogativo circa la causa, la ragione, lo scopo, il senso. Un interrogativo che si collega all’altro, a cui rimanda: perché il male?
   Nel Libro di Giobbe questi interrogativi hanno trovato la loro espressione più viva.
   E’ nota la storia di questo uomo giusto, il quale senza nessuna colpa da parte sua viene provato da innumerevoli sofferenze. Egli perde i beni, i figli, le figlie ed infine viene egli stesso colpito da una grave malattia. In questa tragica situazione si presentano nella sua casa tre vecchi conoscenti, i quali cercano di convincerlo che, poiché è stato colpito da una così molteplice e terribile sofferenza, egli deve aver commesso una colpa grave. La sofferenza può avere ai loro occhi un senso come pena per il peccato, esclusivamente sul terreno della giustizia di Dio, che ripaga col bene il bene e col male il male.
   Giobbe tuttavia contesta la verità del principio, che identifica la sofferenza con la punizione del peccato. Infatti egli è consapevole di non aver meritato una tale punizione. Alla fine Dio stesso rimprovera gli amici di Giobbe per le loro accuse e riconosce che Giobbe non è colpevole. La sua è la sofferenza di un innocente: deve essere accettata come un mistero, che l’uomo non è in grado di penetrare fino in fondo con la sua intelligenza.
   Se è vero che la sofferenza ha un senso come punizione, quando è legata alla colpa, non è vero, invece, che ogni sofferenza sia conseguenza della colpa ed abbia carattere di punizione.
   Dall’introduzione del Libro risulta che Dio permise questa prova per provocazione di satana, che aveva contestato davanti al Signore la giustizia di Giobbe: “Forse che Giobbe teme Dio per nulla?…Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani….ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai come ti benedirà in faccia.” (Gb 1,9-11)
   E se il Signore acconsente a provare Giobbe con la sofferenza, lo fa per dimostrare la giustizia. La sofferenza ha il carattere di prova. Il Libro di Giobbe non è l’ultima parola della Rivelazione su questo tema. In un certo modo esso è annuncio della passione di Cristo.
   Un aspetto importante della sofferenza nell’Antico Testamento è che questa deve servire alla conversione, cioè alla ricostruzione del bene nel soggetto, che può riconoscere la misericordia divina in questa chiamata alla penitenza.
   La penitenza ha come scopo di superare il male, che sotto diverse forme è latente nell’uomo, e di consolidare il bene sia in lui stesso, sia nei rapporti con gli altri e, soprattutto, con Dio.
   L’amore è la fonte più ricca del senso della sofferenza, che rimane sempre un mistero: siamo consapevoli dell’insufficienza ed inadeguatezza delle nostre spiegazioni. Cristo ci fa entrare nel mistero e ci fa scoprire il perché della sofferenza, in quanto siamo capaci di comprendere la sublimità dell’amore divino.

2. Gesù Cristo: la sofferenza vinta dall’amore
   “Dio infatti ha tanto amato il mondo che ha dato il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Queste parole, pronunciate da Cristo nel colloqui con Nicodemo, ci introducono nel centro stesso dell’azione salvifica di Dio. Salvezza significa liberazione dal male, e per ciò stesso rimane in stretto rapporto col problema della sofferenza. Questo amore è dimensione diversa da quella che determinava e, in un certo senso, chiudeva la ricerca del significato della sofferenza entro i limite della giustizia. Mentre finora la nostra considerazione si è concentrata sulla sofferenza nella sua molteplice forma temporale, come anche le sofferenze del giusto Giobbe, invece le parole, ora riportate dal colloquio di Gesù con Nicodemo, riguardano la sofferenza nel suo senso fondamentale e definitivo. La missione del Figlio unigenito consiste nel vincere il peccato con la sua obbedienza e la morte con la sua risurrezione. In conseguenza dell’opera salvifica di Cristo l’uomo esiste sulla terra con la speranza della vita e della santità eterne. E anche se la vittoria sul peccato e sulla morte, riportata da Cristo con la sua croce e risurrezione, non abolisce le sofferenze temporali della vita umana né libera dalla sofferenza l’intera dimensione storica dell’esistenza umana, tuttavia su tutta questa dimensione e su ogni sofferenza essa getta una luce nuova, che è la luce della salvezza. E’ questa la luce del Vangelo, cioè della Buona Novella.
   Cristo nella sua attività messianica in mezzo ad Israele si è avvicinato incessantemente al mondo dell’umana sofferenza, ma soprattutto perché ha assunto su di sé la sofferenza del mondo volontariamente e senza alcuna colpa. Nella passione di Cristo la sofferenza entra in un ordine nuovo: è stata legata a quell’amore del quale Cristo parlava a Nicodemo, a quell’amore che crea il bene ricavandolo anche dal male, così come il bene supremo della redenzione del mondo è stato tratto dalla Croce di Cristo.
   Il Redentore ha sofferto al posto dell’uomo e per l’uomo. Ogni uomo ha una sua partecipazione alla redenzione. Agli occhi del Dio giusto, quanti partecipano alle sofferenze di Cristo diventano degni del Regno. Mediante le loro sofferenze essi, in un certo senso, restituiscono l’infinito prezzo della passione e della morte di Cristo che divenne il prezzo della nostra redenzione: a questo prezzo il Regno di Dio è stato nuovamente consolidato nella storia dell’uomo, divenendo la prospettiva definitiva della sua esistenza terrena. “Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi, perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare.” (1Pt 4,13)
   La sofferenza di Cristo ha creato il bene della redenzione del mondo. Questo bene in se stesso è inesauribile ed infinito. Nessun uomo può aggiungervi qualcosa. La redenzione, però, anche se compiuta in tutta la sua pienezza con la sofferenza di Cristo, vive e si sviluppa come Corpo di Cristo, che è la Chiesa, ed in questa dimensione ogni umana sofferenza, in forza dell’unione nell’amore con Cristo, completa la sofferenza di Cristo. La completa così come la Chiesa completa l’opera redentrice di Cristo.

3. Il Vangelo della sofferenza
   Nella luce dell’inarrivabile esempio di Cristo, riflesso con singolare evidenza nella vita della Madre sua, il Vangelo della sofferenza, mediante l’esperienza e la parola degli apostoli, diventa fonte inesauribile per le generazioni sempre nuove che si avvicendano nella storia della Chiesa. Attraverso i secoli e le generazioni è stato constatato che nella sofferenza si nasconde una particolare forza che avvicina interiormente l’uomo a Cristo, una particolare grazia. Ad essa debbono la loro profonda conversione molti santi, come ad esempio san Francesco d’Assisi, sant’Ignazio di Loyola, ecc. L’uomo trova nella sofferenza quasi una nuova misura di tutta la propria vita e della propria vocazione. Questa interiore maturità e grandezza spirituale nella sofferenza certamente sono frutto di una particolare conversione e cooperazione con la Grazia del Redentore crocifisso. E’ lui stesso ad agire nel vivo delle umane sofferenze per mezzo del suo Spirito di verità, per mezzo dello Spirito Consolatore. E’ lui, come Maestro e Guida interiore ad insegnare al fratello e alla sorella sofferenti questo mirabile scambio, posto nel cuore stesso del mistero della redenzione e dischiude gli orizzonti del Regno di Dio: di un mondo convertito al Creatore, di un mondo liberato dal peccato, che si sta edificando sulla potenza salvifica dell’amore. Il divin Redentore vuole penetrare nell’animo di ogni sofferente attraverso il cuore della sua Madre santissima, primizia e vertice di tutti i redenti.
   Non sempre un tale processo interiore si svolge in modo uguale e senza difficoltà. Quasi sempre ciascuno entra nella sofferenza con una protesta tipicamente umana e con la domanda del suo “perché”. Cristo non risponde direttamente e in astratto a questo interrogativo umano. L’uomo ode la sua risposta salvifica man mano che egli stesso diventa partecipe delle sofferenze di Cristo. E allora l’uomo trova nella sua sofferenza la pace interiore e perfino la gioia spirituale. Di tale gioia parla l’Apostolo nella Lettera ai Colossesi: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi”(1,24). Fonte di gioia diventa il superamento del senso d’inutilità della sofferenza. L’uomo si sente condannato a ricevere aiuto ed assistenza dagli altri e, in pari tempo, sembra a se stesso inutile. La fede nella partecipazione alle sofferenze del Cristo porta in sé la certezza interiore che “l’uomo completa quello che manca ai patimenti di Cristo” (Ef 6,12).
   Il mondo dell’umana sofferenza invoca, per così dire, senza sosta un altro mondo: quello dell’amore umano. Non può l’uomo “prossimo” passare con indifferenza davanti alla sofferenza altrui in nome della fondamentale solidarietà umana. Egli deve fermarsi, commuoversi, agendo come il samaritano della parabola evangelica. Quest’attività in favore degli uomini sofferenti assume nel corso dei secoli forme istituzionali organizzate e costituisce un campo di lavoro nelle rispettive professioni.
   Cristo dice: “L’avete fatto a me”. Egli stesso è colui che riceve aiuto, quando questo viene reso ad ogni sofferente.
Questo è il senso veramente soprannaturale ed insieme umano della sofferenza. E’ soprannaturale, perché si radica nel mistero divino della redenzione del mondo ed è profondamente umano, perché in esso l’uomo ritrova se stesso, la propria umanità, la propria dignità, la propria missione.

Omelia per il 30 giugno 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/13085.html

Omelia (02-07-2008) 
a cura dei Carmelitani

1) Preghiera

O Dio, che ci hai reso figli della luce
con il tuo Spirito di adozione,
fa’ che non ricadiamo nelle tenebre dell’errore,
ma restiamo sempre luminosi
nello splendore della verità.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…

2) Lettura del Vangelo

Dal Vangelo secondo Matteo 8,28-34
In quel tempo, essendo Gesù giunto all’altra riva del mare di Tiberiade, nel paese dei Gadareni, due indemoniati, uscendo dai sepolcri, gli vennero incontro; erano tanto furiosi che nessuno poteva più passare per quella strada. Cominciarono a gridare: « Che cosa abbiamo noi in comune con te, Figlio di Dio? Sei venuto qui prima del tempo a tormentarci? ».
A qualche distanza da loro c’era una numerosa mandria di porci a pascolare; e i demoni presero a scongiurarlo dicendo: « Se ci scacci, mandaci in quella mandria ».
Egli disse loro: « Andate! ». Ed essi, usciti dai corpi degli uomini, entrarono in quelli dei porci: ed ecco tutta la mandria si precipitò dal dirupo nel mare e perì nei flutti. I mandriani allora fuggirono ed entrati in città raccontarono ogni cosa e il fatto degli indemoniati. Tutta la città allora uscì incontro a Gesù e, vistolo, lo pregarono che si allontanasse dal loro territorio.

3) Riflessione

• Il vangelo di oggi mette l’accento sulla potenza di Gesù sul demonio. Nel nostro testo, il demonio o la forza del male è associato a tre cose:
a) Al cimitero, luogo dei morti. Alla morte che uccide la vita!
b) Al porco, che era considerato un animale impuro. L’impurità che separa da Dio!
c) Con il mare, che era considerato come il simbolo del caos prima della creazione. Il caos che distrugge la natura.
Il vangelo di Marco, da dove Matteo prende la sua informazione, associa la forza del male ad un quarto elemento che è la parola Legione, (Mc 5,9), nome degli eserciti dell’impero romano. L’impero che opprimeva e sfruttava la gente. Si comprende così che la vittoria di Gesù sul demonio aveva un’importanza enorme per la vita delle comunità degli anni settanta, epoca in cui Matteo scrive il suo vangelo. Le comunità vivevano oppresse ed emarginate, a causa dell’ideologia ufficiale dell’impero romano e del fariseismo che si rinnovava. Lo stesso significato e la stessa portata continuano ad essere validi oggi.
• Matteo 8,28: La forza del male opprime, maltratta e aliena le persone. Questo verso iniziale descrive la situazione della gente prima della venuta di Gesù. Nel descrivere il comportamento dei due indemoniati, l’evangelista associa la forza del male al cimitero ed alla morte. E’ un potere mortale, senza meta, senza direzione, senza controllo e distruttore, che mette paura a tutti. Priva la persona della propria coscienza, di autocontrollo e di autonomia.
• Matteo 8,29: Dinanzi alla semplice presenza di Gesù la forza del male si frantuma e si disintegra. Qui si descrive il primo contatto tra Gesù e i due posseduti. Ecco la sproporzione totale. Il potere, che prima sembrava così forte, si fonde, si disintegra dinanzi a Gesù. Loro gridano: « Che cosa abbiamo noi in comune con te, Figlio di Dio? Sei venuto qui prima del tempo a tormentarci? » Si rendono conto che stanno perdendo il potere.
• Matteo 8,30-32: Il potere del male è impuro e non ha autonomia, né consistenza. Il demonio non ha potere sui suoi movimenti. Ottiene solo di entrare nei porci con il permesso di Gesù! Una volta che ne è dentro, i porci si precipitano nel mare. Secondo l’opinione della gente, il porco era simbolo di impurità che impediva all’essere umano di relazionarsi con Dio e di sentirsi accolto da Lui. Il mare era il simbolo del caos esistente prima della creazione e che, secondo la credenza dell’epoca, continuava a minacciare la vita. Questo episodio dei porci che si precipitavano nel mare è strano e difficile da capire. Ma il messaggio è molto chiaro: dinanzi a Gesù, il potere del male non ha autonomia, non ha consistenza. Chi crede in Gesù ha già vinto il potere del male e non deve aver paura!
• Matteo 8,33-34: La reazione della gente del posto. Avvisata dai guardiani dei porci, la gente del posto va incontro a Gesù. Marco dice che videro « l’indemoniato seduto, vestito ed in perfetto giudizio » (Mc 5,15). Ma rimasero senza i porci! Per questo chiedono a Gesù di allontanarsi. Per loro i porci erano più importante della persona che era rientrata in sé.
• L’espulsione dei demoni. Al tempo di Gesù, le parole demonio o satana, si usavano per indicare il potere del male che allontanava le persone dal buon cammino. Per esempio, quando Pietro cercò di deviare Gesù, fu Satana per Gesù (Mc 8,33). Altre volte, quelle stesse parole vennero usate per indicare il potere politico dell’impero romano che opprimeva e sfruttava la gente. Per esempio, nell’Apocalisse, l’impero romano è identificato con « Diavolo o Satana » (Ap 12,9). Mentre altre volte, la gente usava le stesse parole per indicare i mali e le malattie. Si parlava di demonio, spirito muto, spirito sordo, spirito impuro, etc. Si aveva molta paura! Al tempo di Matteo, seconda metà del primo secolo, aumentava la paura dei demoni. Alcune religioni, venute dall’Oriente divulgavano un culto verso gli spiriti. Insegnavano che alcuni nostri gesti errati potevano irritare gli spiriti, e costoro, per vendicarsi, potevano impedire il nostro accesso a Dio e privarci dei benefici divini. Per questo, mediante riti e scritti, preghiere intense e cerimonie complicate, la gente cercava di calmare questi spiriti o demoni, in modo che non recassero danno alla vita. Queste religioni, invece di liberare la gente, alimentavano il timore e l’angoscia. Ora, uno degli obiettivi della Buona Notizia di Gesù era aiutare la gente a liberarsi da questo timore. La venuta del Regno di Dio significò la venuta di un potere più forte. Gesù è »l’uomo più forte » che giunge per conquistare Satana, il potere del male, strappargli dalle mani l’umanità prigioniera del timore (cf. Mc 3,27). Per questo, i vangeli insistono molto sulla vittoria di Gesù, sul potere del male, sul demonio, su Satana, sul peccato e sulla morte. Era per incoraggiare le comunità a vincere questa paura del demonio! Ed oggi, chi di noi può dire: « Io sono totalmente libero/a »? Nessuno! E allora, se non sono totalmente libero/a c’è qualche parte in me che è posseduta da altri poteri. Come scacciare queste forze? Il messaggio del vangelo di oggi continua ad essere valido per noi.

4) Per un confronto personale

• Oggi cosa opprime e maltratta la gente? Perché oggi in certi luoghi si parla tanto di scacciare demoni? E’ bene insistere tanto sul demonio? Cosa ne pensi?
• Chi di noi può dire che è totalmente libero o liberato? Nessuno! E allora, siamo un po’ tutti posseduti da altre forze che occupano qualche spazio dentro di noi. Come fare per espellere questo potere da dentro di noi e dalla società?

5) Preghiera finale

Paziente e misericordioso è il Signore,
lento all’ira e ricco di grazia.
Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature. (Sal 144) 

Concilio Vaticano II : « Lo pregarono che si allontanasse dal loro territorio »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100630

Mercoledì della XIII settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mt 8,28-34
Meditazione del giorno
Concilio Vaticano II
Constituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et spes), 9-10 – Copyright © Libreria Editrice Vaticana

« Lo pregarono che si allontanasse dal loro territorio »

        Il mondo si presenta oggi potente a un tempo e debole, capace di operare il meglio e il peggio, mentre gli si apre dinanzi la strada della libertà o della schiavitù, del progresso o del regresso, della fraternità o dell’odio. Inoltre l’uomo prende coscienza che dipende da lui orientare bene le forze da lui stesso suscitate e che possono schiacciarlo o servirgli. Per questo si pone degli interrogativi.

        In verità gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell’uomo. È proprio all’interno dell’uomo che molti elementi si combattono a vicenda. Da una parte infatti, come creatura, esperimenta in mille modi i suoi limiti; d’altra parte sente di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad una vita superiore. Sollecitato da molte attrattive, è costretto sempre a sceglierne qualcuna e a rinunziare alle altre. Inoltre, debole e peccatore, non di rado fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe (Rm 7,14). Per cui soffre in se stesso una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società…

        Con tutto ciò, di fronte all’evoluzione attuale del mondo, diventano sempre più numerosi quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza gli interrogativi più fondamentali: cos’è l’uomo?
Qual è il significato del dolore, del male, della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni progresso? Cosa valgono quelle conquiste pagate a così caro prezzo? Che apporta l’uomo alla società, e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita?

        Ecco: la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per rispondere alla sua altissima vocazione; né «è dato in terra un altro Nome agli uomini, mediante il quale possono essere salvati» (At 4,12). Essa crede anche di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana. Inoltre la Chiesa afferma che al di là di tutto ciò che muta stanno realtà immutabili; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che «è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli» (Eb 13,8).

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