Archive pour la catégorie 'DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO'

EBREI E CRISTIANI UN SOLO DESTINO. 40° ANNIVERSARIO DELLA NOSTRA AETATE (JEAN-MARIE LUSTIGER) (2006)

http://dimensionesperanza.it/ebraismo/dialogo-cristiano-ebraico.html?start=5

EBREI E CRISTIANI UN SOLO DESTINO. 40° ANNIVERSARIO DELLA NOSTRA AETATE (JEAN-MARIE LUSTIGER)

SABATO 03 GIUGNO 2006

Quale cammino sorprendente abbiamo percorso, ebrei e cristiani, da oltre mezzo secolo! Il quarantesimo anniversario della dichiarazione Nostra aetate coincide con il sessantesimo dell’arrivo delle truppe sovietiche al campo di Auschwitz. Mentre si stanno manifestando nuove forme di antisemitismo, questa doppia commemorazione ci permette di misurare l’enorme peso di dolore e di vergogna che grava sulle coscienze per la memoria della Shoah, «questo crimine inaudito e fino a quel momento anche inimmaginabile», così come lo ha qualificato Benedetto XVI alla sinagoga di Colonia . Qui bisognerebbe fermarsi e rendere grazie per tutti coloro che hanno lavorato a stabilire tra ebrei e cattolici una nuova relazione di fiducia, di stima e di rispetto che fonda le vere amicizie. Essi sono numerosi da una parte e dall’altra. Permettetemi di citarne uno solo, papa Giovanni Paolo II. Ho voluto, per questa occasione, riflettere sull’appello che ci ha lanciato papa Benedetto XVI al termine della sua allocuzione alla sinagoga di Colonia. Ci invita a «spingersi anche in avanti, verso i compiti di oggi e di domani» per «dare insieme una testimonianza ancora più concorde, collaborando sul piano pratico». In effetti è frequente al giorno d’oggi sentir parlare in Occidente di civiltà «giudaico-cristiana», il più delle volte per criticarla e per liberare gli individui dagli obblighi che essa farebbe pesare sui costumi e sulla società. Così, osservatori che si presentano lontani tanto dal cristianesimo quanto dall’ebraismo li mettono entrambi sullo stesso piatto della bilancia. Individuare nel cuore della nostra civiltà una Weltanschauung giudaico-cristiana non soddisferà certo tutti gli ebrei né tutti i cristiani, ma attesta dall’esterno due fatti essenziali dal nostro punto di vista: primo, ebrei e cristiani esercitano insieme una responsabilità rispetto alla civiltà e a tutta l’umanità; secondo, ebrei e cristiani portano insieme il peso della rivelazione biblica. In questo quarantesimo anniversario della Nostra aetate vi propongo di lasciarci interpellare da questo sguardo esterno e di riflettere sulla nostra comune responsabilità. Che cosa può e deve apportare al mondo l’incontro degli ebrei e dei cristiani, o piuttosto la loro riconciliazione, o meglio ancora la loro reciproca riscoperta in un’epoca in cui si sta delineando una civiltà planetaria fatta di conflitti e opposizioni, convergenze e scambi, ma anche di ripiegamenti? Non è senza significato che la ‘riscoperta’ tra ebrei e Chiesa cattolica avvenga in questo periodo critico e magnifico di grandi sconvolgimenti dalle imprevedibili conseguenze. 1. Esiste indubbiamente una convergenza tra ebrei e cristiani – almeno per quel tanto che sono coerenti con la propria fede – nel fare appello alla necessità di una morale per il bene della vita della società. Durante l’ultimo secolo, essi si sono ritrovati concordi nel criticare i poteri totalitari. Questi ultimi, in quanto «dettavano legge», si sono eretti ad arbitri del bene e del male. Certo, ogni potere è tentato di farlo. Ma ebrei e cristiani hanno in comune una visione molto chiara: la legge che s’impone alla coscienza umana ha una fonte più alta dell’uomo, il bene non è definito dall’arbitrio dei voleri o delle opinioni ma s’impone in questo mondo relativo e si propone come un assoluto alle scelte della libertà; e questa norma irrecusabile nella gestione degli affari temporali rende la politica una realtà degna della condizione umana. La saggezza della legge umana e la sua forza rispetto alle coscienze non emerge solamente dalle sanzioni che l’accompagnano, ma innanzi tutto dalla giustizia che essa introduce nei rapporti umani. Questa legge, ogni legge giusta, giace nel solco, per la maggior parte del tempo invisibile, della volontà santa di Dio,rivelata sul Sinai. In un modo o nell’altro la legge trae da Dio un certo carattere sacro che qualifica anche l’uomo a cui è rivolta. Questa convinzione comune agli ebrei e ai cristiani si dispiega in un discorso razionale che ha costituito il corpus del diritto naturale e ha permesso l’affermazione della dignità inalienabile della persona umana sulla quale si fondano in definitiva i diritti dell’uomo. Permettetemi di citare qui un retroscena poco conosciuto della redazione della costituzione Gaudium et spes del Vaticano II. Per superare le formulazioni classiche del diritto naturale l’arcivescovo Karol Wojtyla, sulla scia di Max Scheler, propose la propria prospettiva personalista, in cui un vescovo riconobbe il pensiero di Martin Buber… Questa prospettiva etica sulla politica ne contesta dall’interno l’arbitrarietà; essa mira a chiarire l’esercizio del potere, non a distruggerlo ma a situarlo come uno dei più nobili servizi da rendere. Essa è il testimone dell’autentica saggezza che la Bibbia ci dice venire da Dio. Non c’è qui un altissimo ideale di umanità? Il ruolo di sentinella e testimone del regno di Dio che hanno sia il popolo ebraico sia i cristiani sfida e relativizza ogni impero umano. Insieme, ebrei e cristiani, non abbiamo forse la responsabilità e l’obbligo rispetto all’intera umanità di questa ragione politica? Non si trova forse qui la saggezza necessaria alle istituzioni mondiali fondate per regolare la pace tra le nazioni, ma che i conflitti di forza e di interesse non lasciano funzionare secondo la giustizia e il diritto (cf. Gen 18,19), e cioè con efficacia? 2. Questa convinzione ha la propria origine nella rivelazione del Sinai. Consideriamo come ebrei e cristiani ricevono il dono della Legge o dei comandamenti. Non spetta a me affrontare la questione centrale dell’osservanza dei precetti commentata dalle tradizioni rabbiniche. Mi sembra tuttavia necessario far presente di continuo ai cristiani che cosa significa l’osservanza di 613 comandamenti. Codificati dalla tradizione, essi abbracciano la totalità della vita dell’ebreo religioso, dalla preghiera e dallo studio personale e comunitario a tutti gli altri ambiti dell’esistenza: morale, vita familiare, professionale ecc. Essi sono tutti recepiti come provenienti espressamente dalla volontà divina. Il migliore paragone della vita ebraica così concepita sarebbe, nel cristianesimo, la vita monastica, benché si tratti qui di una vita familiare con tutti gli obblighi propri della vita laica… E per un cristiano? Sorprenderò forse quelli fra voi che conoscono poco la dottrina cattolica, siano essi cristiani o ebrei, ricordando che, sostanzialmente, questi comandamenti sono recepiti dai cristiani come rivelazione divina contenuta nella Bibbia stessa. Sfogliate il Catechismo della Chiesa cattolica promulgato da papa Giovanni Paolo II. La morale vi è esposta nel quadro delle dieci parole, all’interno delle quali si situa la riflessione morale sull’agire umano personale e sociale. Certo, come discepoli di Gesù differiamo senz’altro sulla maniera d’intendere e applicare questi comandamenti. Per un cristiano il commentario autorizzato dei comandamenti è la maniera in cui Gesù li ha vissuti e in cui ci chiede di vivere. È un’interpretazione determinata da «Shemà, Israele (…) amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze» (Dt 6,4; cf. Mt 22,37). La prima regola dell’agire ricapitola la Legge e i profeti nel comandamento dell’amore di Dio e dell’amore fraterno (cf. Lv 19,18; Mt 22,39), immagine e retaggio dell’amore insegnato da Gesù ai suoi discepoli: amatevi «gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 15,12). Uno sguardo miope potrebbe vedere tra queste due visioni delle differenze inconciliabili. Uno sguardo più profondo vedrà che la loro fonte è comune: è in Dio. Le conseguenze sull’agire umano sono analoghe, anche quando la giustizia e la pace si dispiegano secondo modalità diverse e sono vissute facendo appello a distinte risorse spirituali. Certo, queste differenze non sono trascurabili. Esse sono ugualmente essenziali alla nostra esperienza. Tuttavia la convergenza di ebrei e cristiani permette loro di affermare con più forza e rispetto la propria missione di vigilanza e di testimonianza nei confronti dell’umanità. L’esperienza cristiana ha potuto a volte introdurre una certa relativizzazione dei comandamenti in nome della carità. Certo, l’amore di Dio e del prossimo è, per il cristiano come per l’ebreo, la pienezza della Legge: l’espressione non potrebbe essere più esatta, forte e bella. Rimane imprescindibile che le esigenze dell’amore siano rigorosamente comprese e strutturate dal rispetto delle volontà divine. Un incontro fecondo potrebbe ricordare ai cristiani che essi non possono tralasciare quello che Dio comanda e, agli ebrei, che il comandamento dell’amore posto all’inizio dello Shemà anima tutti gli atteggiamenti che ne derivano, nei rapporti umani come nei riguardi di Dio.

L’universalismo cristiano ha fatto conoscere a tutte le nazioni del mondo, a volte in una forma secolarizzata, quello che è stato dato a Israele sul Sinai. Israele ne resta il garante, senza dubbio assieme ai cristiani, per il bene comune di tutta l’umanità. 3. Dobbiamo dunque ora interrogarci sull’universalismo della rivelazione. Che significato può avere per l’insieme dell’umanità il riavvicinamento di ebrei e cristiani? Evidentemente non voglio rispondere a questa domanda limitandomi a esporre l’opinione corrente. Alcuni potrebbero temere un risultato disastroso per la messa a rischio dell’indipendenza e della libertà delle identità particolari nazionali o religiose. Altri, forse gli stessi, si domanderanno come delle religioni che la storia ha fino a questo punto separato possano unire le proprie forze per contribuire a una convergenza delle culture e delle religioni. In effetti questa relazione con l’insieme dell’umanità è inscritta nell’origine stessa dell’ebraismo. Ricordate la benedizione data ad Abramo: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3) e anche l’annuncio profetico secondo cui tutte le nazioni verranno ad adorare nel suo tempio l’unico Signore del cielo e della terra. Per i cristiani, gli ebrei apostoli di Gesù hanno obbedito, non senza grande fatica, a questo oracolo profetico scoprendo, quasi loro malgrado e con stupore, che il dono dello Spirito era ugualmente accordato ai pagani. L’ordine di Gesù dato ai suoi di andare a insegnare a tutte le nazioni (goim) per formare tra esse dei discepoli che riceveranno il battesimo (cf. Mt 28,19) fa in realtà partecipi i cristiani della speranza ebraica per il mondo. Nello stesso tempo gli atteggiamenti spirituali e le speranze degli uni e degli altri restano opposti su questo punto. Infatti, il popolo ebraico vive una situazione paradossale. Esso rimane un popolo, continua a rivendicare questo nome. La domanda di sapere se sia un popolo simile agli altri oppure diverso è stata posta fin dalle origini. Siamo un popolo differente dalle nazioni, perché formato da Dio per servirlo; e una nazione simile alle altre allorché reclama un re e un potere come gli altri popoli. Rimane il fatto che nell’attuale processo di globalizzazione gli ebrei e le comunità ebraiche disperse nel mondo intero sono, a tutti gli effetti, parte integrante della diversità delle culture e delle nazioni, senza che per questo cessi l’appartenenza al ‘popolo ebraico’. Allo stesso modo – si può concludere – il fatto d’essere cristiani incorpora ciascuna persona e ciascuna comunità nell’esistenza comune della Chiesa del Messia, presente attraverso i tempi della storia in tutte le nazioni e in tutte le culture. Il problema che tento qui di circoscrivere è sollevato dalla globalizzazione. Può una solidarietà unificare l’intera umanità? E a prezzo della negazione o dell’oblio delle particolarità considerate fino a oggi come ricchezze, ma che possono apparire ormai come delle sopravvivenze o degli ostacoli? Certamente no. Eppure, la responsabilità affidata dalla parola di Dio agli ebrei e ai cristiani, ciascuno secondo la propria chiamata e tradizione, è di condurre l’umanità alla consapevolezza della sua unità e della sua vocazione unica. Ciò riguarda la sua origine. L’umanità, come dicono le prime pagine della Genesi, è stata creata da Dio a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26). Esistono, in seno alla diversità umana, delle sentinelle e dei testimoni della luce dell’origine, non per imporla ma per aiutare l’umanità a decifrare il proprio destino. Gli ebrei sono consapevoli della propria particolarità storica poiché questa rivelazione ha loro affidato per primi una fede assolutamente irrevocabile. E nell’esperienza di un popolo forgiato da questa elezione che la storia santa si è incarnata nella storia umana. La tentazione per il popolo ebraico è, evidentemente, di chiudersi in questa particolarità e quindi di vuotarla della sua portata salvifica universale. I cristiani sono diventati a propria volta beneficiari di questa primi genia benedizione poiché, fin dall’origine della Chiesa, nata dagli ebrei, anche i pagani ottengono di aver parte con loro a questa benedizione e alla sua promessa. Nel corso dei secoli i cristiani saranno anch’essi tentati di ricreare dei particolarismi di tipo nazionale o religioso; essi rischiano di perdere così il senso delle proprie radici, dell’origine che garantisce la loro speranza. Ma ebrei e cristiani, rincontrandosi e misurando le differenze reciproche, possono meglio comprendere quello che è stato loro dato come evidenza fondatrice e scopo primordiale: rivelare a un’umanità frazionata il richiamo all’unità più forte e più grande delle sue immense diversità. 4. Evocare tali prospettive non significa minacciare né l’originalità ebraica né l’identità cristiana. Mi spiego. «La salvezza viene dai giudei», insegna Gesù alla samaritana nel Vangelo secondo san Giovanni (Gv 4,22). Senza gli ebrei l’universalità cristiana potrebbe dissolversi in un umanesimo astratto. L’esperienza cristiana mostra che la diversità delle culture, attraverso ostacoli e ambiguità a volte considerevoli, può essere rispettata e ogni cultura esaltata attraverso il riconoscimento dell’unità dell’umanità, figlia dell’Uno. Senza i cristiani l’ebraismo, portatore della benedizione promessa a tutte le nazioni, può forse realizzare il proprio compito senza riassorbirsi nella razionalità universale dei Lumi e senza vuotare di sostanza la storia che l’ha generato? Dalla riflessione su queste aporie possiamo ricavare una lezione: l’incontro tra ebrei e cristiani è necessario a entrambi per comprendere quel che forse Dio esige da ciascuno di essi. La loro esperienza comune, al pari delle loro percezioni divergenti della benedizione divina, rivela il volto dell’unità e della comunione universale radicato nella promessa fatta ad Abramo, annunciato dai profeti e attestato dalla Chiesa cattolica così come essa lo crede con umile audacia. Forse il passaggio vi apparirà forzato, ma esso rende conto della difficoltà con cui ciascuno di noi, in questo tempo di globalizzazione, è portato a misurarsi. Per gli ebrei, qual è la loro identità? È l’identità nazionale israeliana o è quella della diaspora? Su che cosa si fonda? Quel che è possibile dire alla luce della fede cattolica è stato espresso in maniera sorprendente da papa Giovanni Paolo II nella sua preghiera sulla Umschlagplatz di Varsavia. Ascoltiamola: ‘Dio di Abramo, Dio dei profeti, Dio di Gesù Cristo, in te tutto è contenuto, verso di te tutto si dirige; tu sei il termine di tutto. Esaudisci la nostra preghiera per il popolo ebraico che, in grazia dei suoi padri, tu continui a prediligere. Suscita in esso il desiderio sempre più vivo di penetrare profondamente la tua verità e il tuo amore. Assistilo perché, nei suoi sforzi rivolti alla pace e alla giustizia, sia sostenuto nella sua grande missione di rivelare al mondo la tua benedizione. Che esso incontri rispetto e amore presso coloro che non comprendono ancora le sue sofferenze, come presso coloro che provano compassione per le ferite profonde che gli sono state inferte, con il sentimento del rispetto reciproco degli uni verso gli altri. Ricordati delle nuove generazioni, dei giovani e dei bambini: che essi persistano nella fedeltà verso di te in quel che costituisce l’eccezionale mistero della loro vocazione. Ispirali affinché l’umanità comprenda, attraverso la loro testimonianza, che tutti i popoli hanno una sola origine e un solo fine: Dio, il cui disegno di salvezza si estende a tutti gli uomini. Amen’. Così, per la fede cattolica l’identità ebraica è fondata sul dono di Dio, dono irrevocabile, secondo l’espressione di san Paolo, dono che precede, nella storia, ogni altra determinazione sociologica, culturale o politica. Questo dono di Dio costituisce, in qualche modo, la vocazione del popolo ebraico di rivelare al mondo la benedizione divina. E per quel che riguarda i cristiani, il loro messaggio universale non è forse solo una maschera dell’imperialismo prima romano e poi occidentale? Come può espandersi nelle culture del mondo senza per questo perdere la propria forza e il proprio contenuto? Il problema si pone in maniera acuta quando i cristiani portano il messaggio biblico, compresa la Torah, a nazioni come l’Asia e quando queste, alla maniera di Gandhi, pur disposte ad accogliere i valori di Gesù Cristo come un messaggio di liberazione, dichiarano di non aver nulla a che fare con la Bibbia poiché hanno le proprie scritture e storie sacre. Pur esponendosi al rischio di perdersi perdendo la propria universalità, il cristianesimo non può accettare questo sradicamento fuori di Israele, vale a dire fuori dall’alleanza, dalla scelta primigenia di Dio. L’incontro – il legame – degli ebrei e dei cristiani, nella tensione perenne verso un pieno rispetto reciproco, offre all’intera umanità il suo volto originale e conforta la sua speranza di un’unità pacifica. 5. Qual è dunque il fondamento del riavvicinamento tra ebrei e cristiani? Cosa c’è di comune agli uni e agli altri che giustifica un’alleanza reciproca? La risposta è inscritta nella prima pagina del Nuovo Testamento. Esso comincia con una genealogia, di cui vi cito le prime righe: «Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli» (Mt 1,2). Queste parole introducono, come ha detto il primo evangelista, ‘la genealogia di Gesù Cristo (Messia), figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1, 1). Il cristiano riceve dal popolo ebraico la totalità della Scrittura: la Legge, i profeti e gli altri scritti. Noi la riceviamo per quel che è: parola di Dio. E questo è vero per tutti i cristiani – protestanti, cattolici, ortodossi -, quali che siano stati i crimini commessi e le vicissitudini della storia. Questa Scrittura santa è inseparabile da coloro a cui è stata rivolta e dalle lingue in cui è stata dapprima formulata. La Chiesa riceve ognuna di queste parole come ispirate dallo Spirito di Dio. Vuole rimanere fedele a esse. Anzi, non può allontanarsene mentre certuni, come Marcione, avrebbero voluto una rottura radicale che avrebbe eliminato dalla fede dei discepoli di Gesù la Scrittura biblica, la storia, l’alleanza e l’elezione. Ma non si è avuta forse una simmetrica riduzione da parte ebraica per delle ragioni che a noi a volte paiono fin troppo evidenti e che sarebbe superfluo ricordare? E la legge del silenzio che ha prevalso. Molto spesso gli ebrei hanno detto, in passato, di non aver affatto bisogno dei cristiani dal punto di vista religioso. In effetti in questi atteggiamenti opposti noi riconosciamo la rottura che si instaurò molto presto davanti al messaggio di Gesù di Nazaret, segno di contraddizione. Ebrei e cristiani o cattolici condividono contemporaneamente una radice comune e un conflitto. Ma questo conflitto, agli occhi stessi dei cristiani, s’inscrive nell’attesa che la storia umana si compia secondo la volontà di Dio; questo è un orizzonte familiare anche per il pensiero ebraico. Gli ebrei, come i cristiani, sono tesi verso una speranza. Essi hanno in comune la rivelazione ricevuta e trasmessa, che porta il loro sguardo verso quel compimento i cui tratti sono per ciascuno segnati dall’esperienza dei secoli, delle culture e dei popoli, per quel tanto che ciascuno accetta o rifiuta dell’altro. Chi non avverte qui che le tensioni possono essere tanto più forti e dolorose quanto più i punti d’accordo e di comunione sono solidi? Dal momento che apparteniamo alla stessa radice ogni tensione è vissuta come l’insorgere di una ferita, di un rifiuto; ma può essere anche vissuta nella speranza di una luce sempre più grande. Oggi, alla luce della storia, senza che il riavvicinamento possa rendere meno acute le divergenze, l’urgenza dell’appello ricevuto alle origini obbliga i fratelli separati, il fratello maggiore e il minore, a rispondere, ciascuno per la parte che gli spetta, alla missione assegnatagli. Nessuno dei due può adempierla senza l’altro, senza contemporaneamente fare violenza all’altro o penalizzarlo. L’aspetto attuale dell’umanità anticipa, in modo ancora oscuro e a volte contraddittorio, la speranza portata dai profeti e proclamata dal Nuovo Testamento. Sarebbe illusorio e menzognero negare le nostre differenze e la nostra fede personale al fine di realizzare questa speranza comune. Ciò sarebbe un errore mortale e in effetti una rinuncia. Piuttosto, ciascuno è chiamato a progredire nel dovere di giustizia e di pace assegnatogli dalla Provvidenza. Il legame comune tra ebrei e cristiani fonda la loro riscoperta reciproca in questo secolo, garantendo l’opera che essi debbono compiere, pena una loro mancanza verso l’umanità. Sono in gioco l’equilibrio e la pace nel mondo. L’avvenire comune tra ebrei e cattolici non si riduce a limitare il possibile contenzioso. Non può accontentarsi di una pacifica comprensione reciproca, e neppure di una solidarietà a servizio dell’umanità. Questo avvenire richiede un lavoro su quel che è comune, come su quel che separa, lavoro ormai possibile perché fondato sulla certezza di un’amicizia voluta da Dio. Che le differenze e le tensioni divengano uno stimolo per un approfondimento sempre più attento e docile del mistero, di cui la storia ci costituisce gli eredi indivisi.

Roma, 27 ottobre 2005.

* Cardinale, Arcivescovo emerito di Parigi.

L’AUTOCOSCIENZA CRISTIANA E IL POPOLO EBRAICO di Bruno Forte

http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_diocesi/55/2005-01/29-195/dialogoebraicocristiano.doc

L’AUTOCOSCIENZA CRISTIANA E IL POPOLO EBRAICO

di

Bruno Forte

Il raduno escatologico d’Israele è – secondo diversi esegeti – la causa per la quale Gesù, ebreo ed ebreo per sempre, ha speso la Sua vita: a sua volta l’Apostolo Paolo avverte come questione decisiva per il suo essere discepolo di Cristo quella del misterioso disegno per cui questo raduno è dilazionato nel tempo (cf. Rom 9-11). Già questi semplici dati basterebbero per motivare il singolare interesse della fede cristiana al popolo ebraico, cui si aggiunge – sul piano culturale e spirituale – la consapevolezza dell’enorme apporto che l’ebraismo ha dato alla formazione della coscienza europea e della civiltà in generale. Radicati nella tradizione ebraica sono alcuni paradigmi di fondo dell’ethos dell’Occidente, come il senso di una storia orientata all’éschaton e la relazione al Dio unico e personale. Innumerevoli sono i pensatori e i protagonisti della nostra crescita culturale, morale e sociale, che vengono dall’ebraismo, quali – per fare solo qualche nome significativo del nostro secolo – Martin Buber, Franz Rosenzweig, Emmanuel Lévinas…
Come va dunque concepito il rapporto fra ebraismo e cristianesimo? Quale “riconciliazione” va perseguita come possibile e doverosa nei rapporti fra l’autocoscienza cristiana e il popolo ebraico? Secondo Paolo la vera e piena riconciliazione fra i due popoli appartiene al tempo della fine: essa coinciderà con qualcosa paragonabile a una “risurrezione dai morti” (Rom 11,15). Questo significa che nel tempo intermedio fra il primo e l’ultimo avvento del Signore Gesù ciò che è possibile e doveroso cercare è un cammino verso la riconciliazione, più che una riconciliazione compiuta, riconoscendo che questa apparterrà al tempo che il Dio della promessa riserva per tutti noi. Questa chiarificazione libera subito da attese azzardate: salvi restando gli itinerari individuali possibili, che rispondono ai disegni particolari dell’Eterno su ciascuno, Israele e la Chiesa dovranno camminare inconfusi, anche se inseparabili, fino all’integrazione finale operata dal Signore, in quello “shalom” escatologico, che è l’oggetto della speranza messianica di entrambi i popoli.
L’idea di una riconciliazione in cammino, piuttosto che compiuta, supera definitivamente ogni ipotesi di sostituzione, secondo cui la Chiesa avrebbe semplicemente preso il posto d’Israele nel piano divino della salvezza: è lo stesso Paolo che mette in guardia dal vanificare quello che egli chiama il “mistero” (Rom 11,25), in base al quale Israele – nella misura in cui mantiene la fede dei Padri – resta il testimone dell’elezione e delle promesse di Dio e richiama alla Chiesa la “radice santa” (cf. Rom 11,16 e 18) su cui essa è innestata e dalla quale non è mai lecito prescindere. Nell’unità dell’economia della salvezza c’è Israele, il popolo dell’alleanza mai revocata anche se non ancora pienamente compiuta, e c’è la Chiesa, il popolo stabilito nell’alleanza posta dal sangue di Cristo: unico è il disegno salvifico, ma diverse le alleanze, da quella con Noé, a quella con Abramo e i patriarchi, dall’alleanza mosaica a quella stabilita nella morte e resurrezione del Signore Gesù. Unica è la struttura fondamentale della relazione attuata mediante la rivelazione, per la quale l’Eterno si è destinato nell’amore al suo popolo e questo è chiamato a destinarsi a Lui nella fede, ma diverse sono le tappe e le forme dell’economia.
Non ci sarà allora autentico cammino di riconciliazione fra la Chiesa e Israele senza il riconoscimento del valore irrinunciabile della “radice santa”, e perciò senza un effettivo, forte amore dei cristiani nei confronti della promessa fatta ai Padri, dei testi in cui essa si esprime e del popolo che ne è stato e ne è testimone nella storia a prezzo anche della vita. Ma non sarà nemmeno autentico un cammino di riconciliazione che escludesse per i cristiani la confessione di Gesù come Signore e Cristo, resa dimostrando con la parola e con la vita che è lui la pietra di scandalo posta in Sion, ma che «chi crede in lui non sarà deluso» (Rom 9,33). In altre parole, i due popoli devono camminare uniti verso la stessa meta, ma la Chiesa, riconoscendo Israele come la radice che la precede e la fonda, non potrà far a meno di guardare allo stesso Israele e al futuro della promessa attraverso la rivelazione del Signore Gesù.
Questa idea è espressa dall’immagine patristica, tratta dalla Scrittura, degli esploratori inviati da Mosé nel paese di Canaan, che «giunsero fino alla valle di Escol, dove tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva, che portarono in due con una stanga» (Num 13,23) per mostrarlo al popolo e accendere il desiderio della conquista. Nel legno da cui pende il grappolo i Padri hanno riconosciuto la Croce da cui pende Cristo: «Figura Christi pendentis in ligno» (Evagrio, Altercatio inter Theophilum et Simonem: PL 20,1175). Nei due portatori dell’asta hanno visto invece la Chiesa e Israele, che guardano entrambi verso la stessa meta, uniti dalla stessa speranza. La differenza sta nel fatto che mentre Israele precede e vede perciò davanti a sé l’aperto orizzonte, la Chiesa, che segue, guarda sì allo stesso orizzonte, ma lo fa attraverso il grappolo appeso e il legno dell’asta, oltre che attraverso chi la precede, attraverso cioè il Signore Crocefisso ed il popolo e i testi dell’alleanza mai revocata (cf. ib.).
Camminare all’unisono, anche se nella diversità, è dunque il compito da assolvere in vista della riconciliazione finale: il che richiede alla Chiesa di coniugare la confessione del Signore Gesù all’amore verso Israele, nella consapevolezza di una dualità ed anche di una scissione che non devono essere ignorate, e sono anzi fonte di una sofferenza motivata dall’amore, ma possono essere vissute nel profondo rispetto reciproco, nella comune testimonianza del Dio unico e nella comune attesa del compimento delle Sue promesse, quando ci sarà riservato il dono dello “shalom” finale. Sappiamo, tuttavia, che non sempre la relazione fra ebraismo e cristianesimo è stata pensata così: la storia passata è anzi colma di pregiudizi e di incomprensioni dei cristiani nei confronti del popolo ebraico. Ecco perché per avanzare nel cammino della riconciliazione occorre la “teshuva”, parola ebraica che significa “ritorno”, “conversione”.
Essa si pone a differenti livelli: in primo luogo occorre individuare e riconoscere con precisione le colpe commesse contro il popolo ebraico e i loro effettivi responsabili. Ciò non va fatto solo in rapporto alla Shoah, ma anche più in generale in relazione a quell’“insegnamento del disprezzo”, che è stato alla base di tanto antisemitismo e di tante sofferenze del popolo eletto. In tal senso si è mossa la riflessione della Commissione Teologica Internazionale nel documento “Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato” (cf. 5.4.); in tal senso soprattutto si pone la testimonianza di Giovanni Paolo II, resa molte volte ed in particolare nella Sua visita a Israele (marzo 2000). In questo spirito, a tutti i discepoli di Cristo va chiesta quella larghezza di cuore che li renda capaci di chiedere perdono anche a nome di quanti sono stati effettivamente colpevoli negli eventi della Shoah, consumatasi nell’Europa cristiana.
Questa larghezza di cuore dovrebbe estendersi ad abbracciare tutti gli olocausti di cui la famiglia umana si è resa responsabile, anche nel nostro secolo. In altre parole, la ferma condanna dell’antisemitismo deve portare i cristiani a riconoscerne le radici nel proprio passato e – lì dove necessario – nel proprio presente per purificarsene, ma deve coniugarsi anche a una più profonda sensibilità nei confronti di tutte le forme di violazione dei diritti umani, per vivere un’effettiva solidarietà verso i vinti e gli oppressi. Questo atteggiamento di autentica “teshuva” è richiesto peraltro anche al popolo ebraico attuale, che proprio così può mostrare l’eccellenza della sua elezione e la singolarità della misericordia del Signore di cui ha fatto esperienza. Al tempo stesso, la “teshuva” non potrà confondere l’amore a Israele e il riconoscimento del suo significato di testimone del Dio unico anche nell’oggi con un indiscriminato sostegno alla linea politica che di volta in volta potranno avere i governanti dello Stato d’Israele. Anzi, la “teshuva” – proprio a partire dall’obbedienza alla Parola del Signore – potrà a volte richiedere un atteggiamento critico nei confronti di scelte che non siano rispettose dei diritti di tutti, specie dei più deboli.
In questa prospettiva di veracità e crescita comune davanti a Dio, mi pare importante che i cristiani rivolgano domande a se stessi ed anche all’interlocutore ebraico. A se stessi i discepoli di Cristo dovranno porre almeno queste questioni: quale valore ha per essi l’esistenza del popolo ebraico fino ai nostri giorni? come definire e riconoscere con onestà la responsabilità dei cristiani nei confronti dell’antisemitismo? come coniugare l’amore alla “santa radice”, che è Israele, alla novità rappresentata dal Signore Gesù? in che senso la fede ebraica fa parte costitutivamente dell’identità cristiana? come una più profonda conoscenza della tradizione ebraica vivente può favorire una migliore comprensione della rivelazione e della fede cristiana? come si può perseguire un vero cammino di riconciliazione fra cristiani ed ebrei, nell’attesa dello “shalom” finale, da entrambi sperato? Anche all’interlocutore ebraico i cristiani dovranno porre domande, incoraggiati a farlo da alcune voci particolarmente incisive provenienti dallo stesso Israele odierno, che sperimenta la condizione del tutto nuova dopo duemila anni di essere maggioranza forte in un paese libero: che cosa è possibile ed è giusto chiedere ai nostri fratelli maggiori, gli Ebrei, perché questo cammino sia più facile e spedito per tutti? in che senso e in quali forme la “teshuva” può riguardare anche loro, ad esempio nei confronti della minoranza araba, islamica e cristiana, presente in Israele?
Nel desiderio che il cammino di riconciliazione avanzi su queste premesse, possono essere compiuti alcuni gesti significativi, che servano da richiamo costante all’importanza decisiva del rapporto di riconoscenza e d’amore che lega i cristiani alla loro “radice” ebraica: ne segnalo due, che sono stati proposti e fatti propri dalle diverse comunità cristiane in Italia e in Europa. Il primo è l’appello a non pronunciare il tetragramma, sia per rispetto ai fratelli ebrei, sia per una coerente ed integrale accettazione della rivelazione, che nella proibizione di pronunciare il Nome santo veicola il rispetto e l’adorazione verso la trascendenza divina. La fede dell’ebreo Gesù, che non ha mai pronunciato il Nome, dovrebbe essere esemplare e normativa per i suoi discepoli. Il secondo gesto è l’invito (sorto nella Chiesa italiana e fatto proprio anche dall’assemblea ecumenica europea a Graz nel 1997) rivolto a tutti i cristiani d’Europa a celebrare una “giornata dell’ebraismo”, tesa a favorire la conoscenza del mondo ebraico da parte dei cristiani e il dialogo con l’Israele presente. Gesti simbolici, certamente, e tuttavia capaci di tener viva la coscienza dei credenti in Cristo circa il rapporto costitutivo ed essenziale che li lega alla “santa radice” della loro fede, rappresentata dalla fede del popolo eletto Israele secondo un’alleanza voluta dall’Eterno e mai revocata.

Bruno Forte, Israele e la Chiesa: i due esploratori della Terra promessa. Per una teologia cristiana dell’ebraismo

http://www.nostreradici.it/dialogoebrcris-Forte.htm

Israele e la Chiesa: i due esploratori della Terra promessa. Per una teologia cristiana dell’ebraismo

Bruno Forte, 4 novembre 2004

Questo testo è una versione non rivista di una conferenza data nell’ambito della serie “La Chiesa Cattolica e l’Ebraismo dal Vaticano II ad oggi” offerta dal Centro Cardinal Bea presso la Pontificia Università Gregoriana dal 19 ottobre 2004 al 25 gennaio 2005 in collaborazione con il SIDIC Roma e con il sostegno dell’American Jewish Committee.

 Introduzione
 1. Il carattere escatologico della salvezza
 2. Il carattere comunitario della salvezza
 3. La messianicità dei due popoli                                                                                   

          Un’immagine biblica, riletta nell’interpretazione patristica, può introdurci efficacemente nella riflessione sulla questione che ci sta a cuore: quale rapporto la fede cristiana vede fra Israele e la Chiesa? La questione in realtà è complessa e potrebbe essere declinata in molteplici forme: qual è la ragione del significato e della rilevanza continua che Israele ha per la Chiesa? si deve pensare all’economia di un’alleanza unica in cui si muovono entrambi, o plurale è l’alleanza e mutevole e progressivo il senso dell’elezione e il significato delle promesse? e finalmente – in chiave cristiana – è giusto interrogarsi sulla possibilità e i modi di una prossima o remota “conversione” di Israele o si deve concepire una via separata di salvezza per il popolo eletto? L’immagine che ci aiuta a gettare un po’ di luce su questa selva intricata di questioni è quella – tratta dal libro dei Numeri – dei due  esploratori di ritorno dalla terra di Canaan, che portano insieme un’asta da cui pende il grappolo d’uva, che essi accompagnano col frutto del melograno e il fico: “Giunsero fino alla valle di Escol, dove tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva, che portarono in due con una stanga, e presero anche melagrane e fichi ”(Num 13,23).
            Nell’asta portata dai due i Padri della Chiesa hanno voluto vedere il legno della Croce, da cui pende Cristo: “Figura Christi pendentis in ligno” [1] , mentre nei due portatori, uniti e separati da quel legno, hanno riconosciuto Israele e la Chiesa: “Subvectantes phalanguam, duorum populorum figuram ostendebant, unum priorem, scilicet vestrum, terga Christum dantem, alium posteriorem, racemum respicientem, scilicet noster populus intelligitur” [2] . In quanto essi marciano l’un dietro l’altro, chi precede guarda solo davanti a sé ed è perciò figura d’Israele, popolo della speranza e dell’attesa delle cose venienti e nuove, assicurate dalla promessa di Dio; chi viene dietro vede, invece, colui che gli sta davanti e l’orizzonte da questi abbracciato attraverso il grappolo appeso al legno ed è perciò figura della Chiesa, che ha in Cristo crocefisso la chiave di lettura anche dell’antico Israele e della promessa fatta ai padri. Col mostrare la differenza, l’immagine afferma non di meno la continuità che esiste fra i due popoli, non solo per il legame dell’unica asta che entrambi gli esploratori sostengono, ma anche per l’orizzonte comune cui si rivolge il loro sguardo. L’idea della continuità sarà evidenziata – con una posteriore, suggestiva annotazione – mediante la supposizione che il giubilo del desiderio faccia cantare ad entrambi il medesimo “hosanna” [3] . Uniti nel canto della speranza e dell’attesa, Israele e la Chiesa avanzano insieme, distinti e congiunti al tempo stesso dalla Croce di Cristo. Tre elementi di continuità ed insieme di discontinuità fra Israele e la Chiesa vengono così a risaltare dalla densa lettura patristica: il carattere escatologico della rivelazione biblica, tanto del Primo quanto del Nuovo Testamento; il carattere comunitario della salvezza, determinato dal principio fondatore dell’alleanza fra l’Eterno e il Suo popolo; il significato messianico dei due popoli, tanto di quello dell’attesa, quanto di quello del compimento.

            1. Il carattere escatologico della rivelazione biblica
                     Ciò che unisce i due esploratori in cammino è anzitutto l’orizzonte cui si volge il loro sguardo: la Verità per cui vale la pena di vivere sta davanti a loro. Verso di essa orientano i loro passi, ad essa anela il loro cuore. Ma perché fosse così, quella stessa Verità è venuta a consegnarsi alla misura della possibilità umana di accoglierla, ha parlato il linguaggio degli uomini, ha infiammato di desiderio i loro cuori di carne. La premessa al riconoscimento della Verità nella Parola del Dio vivente è, dunque, tanto per l’ebraismo quanto per il cristianesimo, la possibilità che l’infinito si faccia finito per comunicarsi nella fragilità delle nostre parole. Questa convinzione è espressa dai maestri ebrei con un assioma ricorrente: “Il piccolo può contenere il grande” [4] . Non diversamente si esprime la sapienza cristiana: “Non coërceri maximo, contineri tamen a minimo, divinum est” [5] . Questa convinzione è alla base della dottrina dello “zimzum”, cara alla mistica ebraica, e dell’idea della “kenosi” del Verbo, centrale nel messaggio cristiano [6] .
            È Isaac Luria il cabalista che nella seconda metà del secolo XVI pone al centro del suo insegnamento l’immagine della “contrazione” divina: l’atto creatore è da lui pensato come un “far spazio” in se stesso da parte di Dio alla creatura, che altrimenti non avrebbe potuto esistere. Se non nel grembo di Dio – contrattosi per ospitare il mondo, analogamente a come una madre accoglie una nuova vita nel suo seno – dove avrebbe potuto dimorare l’universo? ”Zimzum” è dunque l’atto del divino contrarsi, quel farsi piccolo dell’immenso che consente alla creatura di esistere davanti a Lui nella libertà: perciò, lo “zimzum” dell’eterno è l’altro nome del Suo amore per gli uomini, espressione di quella misericordia che l’ebraico significativamente rende con l’idea di “viscere materne”(“ rachamim”) e che è anche rispetto e umiltà del Creatore davanti alla Creatura. In forza di questo amore il Signore non disdegna di “attendarsi” in mezzo al Suo popolo, fino a fare della storia d’Israele la storia del proprio impegno per la redenzione del mondo. La  dottrina della divina presenza (“shekinah”) tocca punte struggenti, come nel testo seguente: “In qualunque luogo furono esiliati gli ebrei la Shekinah, per così dire, andò in esilio con loro. Essi andarono in esilio in Egitto e là andò la Shekinah… Andarono esuli in Babilonia, ed essa andò con loro… Andarono in Elam e la Shekinah li accompagnò… Quando tuttavia torneranno, la Shekinah farà ritorno assieme ad essi” [7] .
            L’invocazione di San Francesco “Tu sei Umiltà” (Lodi del Dio Altissimo) mostra come questo messaggio corrisponda in profondità all’anima cristiana, per la quale la conferma suprema dell’attendarsi di Dio nella fragilità e piccolezza delle misure umane sta proprio nella “kenosi” del Verbo: la Parola si dice in questo mondo per via di “annientamento” (cf. Fil 2,6ss), grazie all’atto per il quale – in nulla costretto dall’infinitamente grande – il Figlio si è lasciato contenere nell’infinitamente piccolo. Veramente divino è questo contrarsi! Questa “estasi” del divino, questo “star fuori”dell’infinito nel finito, è al tempo stesso l’appello più alto che si possa concepire all’estasi dal mondo, e cioè a quel “trasgredire” della creatura verso il Mistero, che è il rapimento della verità e della bellezza che salva, reso possibile dall’“abbreviarsi” del Verbo nella carne. Il tutto dimora nel frammento, l’infinito irrompe nel finito: il Dio Crocifisso è per la fede cristiana la forma e lo splendore dell’eternità nel tempo. Sulla Croce il “Verbum abbreviatum” – “kenosi” del Verbo eterno – rivela la possibilità salutare del “minimo Infinito”!
            Ora, la presenza di Dio in mezzo al Suo popolo, il Suo “abbreviarsi” per destinarsi agli uomini, si esprime anzitutto nella Parola (“dabar”). Per la fede d’Israele la Parola di Dio è inseparabilmente la Parola che dice, crea, salva. Anche da un semplice approccio ai testi risulta che il termine “dabar” rinvia tanto al contenuto noetico, quanto all’efficacia operativa della parola, che fa quel che dice, incidendo sulla trasformazione del cuore e sugli eventi della storia. Il carattere “informativo” si congiunge a quello “performativo”: è in forza di questa densità che si comprende quanto sia stretta la connessione fra le parole e gli eventi nell’economia della rivelazione. Così, se da una parte tutte le tappe decisive della storia di Israele sono introdotte dalla parola, dall’altra la fede del popolo eletto può esprimersi semplicemente narrando gli eventi salvifici, i “mirabilia Dei”, attuazioni concrete della parola di rivelazione (cf. Dt 26,5_10). In questa luce si comprende anche il carattere fortemente dinamico e personale dell’idea di rivelazione veicolata attraverso l’esperienza della Parola nella vicenda di Israele: la rivelazione mediante la Parola è l’avvento del Dio vivo nel segno delle Sue parole, che raggiunge e trasforma la condizione umana, facendone storia di redenzione e di salvezza per tutti coloro che accolgono la Parola, ma anche esperienza di esilio e di condanna per quanti la rifiutano.
            Il dono della Parola secondo la fede cristiana tocca il suo vertice nell’evento dell’incarnazione del Verbo: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14: si noti come anche per il Verbo ci sia una “shekinah”, un “attendamento”). Nel succedersi dei tempi della Parola è questa la “pienezza del tempo” (cf. Mc 1,15; Gal 4,4; Ef 1,10), l’ora del compimento della rivelazione. La Parola fatta carne realizza precisamente i due significati del “dabar” veterotestamentario: Gesù il Cristo non solo parla le parole di Dio, ma è la Parola di Dio, il Verbo eterno divenuto uomo, che comunica se stesso e apre l’accesso all’esperienza vivificante delle profondità divine nel dono dello Spirito. Dal punto di vista noetico_informativo Gesù si presenta come il profeta e il maestro, che annuncia la verità sul Padre e sugli uomini: “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,27). Dal punto di vista dinamico_performativo Gesù è la Parola divenuta carne, che ha messo le sue tende in mezzo a noi (cf. Gv 1,14) e parla con l’autorità di chi realizza ciò che dice (cf. Lc 4,18s. 21). La sua persona è talmente inseparabile da ciò che annuncia, che accogliere le sue parole è accogliere lui e il Padre che lo ha mandato, rifiutarsi alla sua parola è rifiutarsi alla salvezza in lui donata (cf. Mc 16,15s.). Ebraismo e cristianesimo risultano così entrambi fedi di risposta alla Parola di Dio, religioni del Libro del tutto dipendenti dalle Scritture, sia pur nella diversa identificazione della pienezza dell’autocomunicazione divina.
            Oltre che Parola, il Dio biblico è però anche Silenzio [8] : il silenzio divino non è tanto quello che suscita stupore, cui rinvia la silenziosa scrittura dei cieli (cf. Sal 19,2), né è la misteriosa presenza, con cui l’Eterno viene a sconvolgere tutte le possibili attese, offrendosi al suo eletto nella “voce del tenue silenzio” (cf. 1 Re 19,11_13). Il nascondimento del volto divino non è solo l’esperienza psicologica della Sua assenza o una vicenda storica legata al tempo della rovina, in cui Dio sembra ritrarre la Sua protezione dal popolo eletto: il silenzio divino ha un valore teologico, è una lingua, un invito a credere ed affidarsi all’assente Presenza  ed a perseverare nell’abbandono al Volto cercato, anche quando questo Volto fa sentire tutto il peso tragico del Suo nascondimento: “Io ho fiducia nel Signore, che ha nascosto il volto alla casa di Giacobbe, e spero in lui” (Is 8,17). Questo silenzio è uno sperimentare nella drammaticità del fallimento che il linguaggio di Dio non è solo quello della parola e della risposta, ma che anche quello conturbante del silenzio. È perciò che si può riconoscere nella rivelazione biblica la presenza di almeno due fondamentali e diverse concezioni di Dio: “il Dio dei ponti sospesi” e “il Dio dell’arcata spezzata”. “l’una, installata nella sicurezza di una fine conciliatrice, che pone sull’altra riva, di fronte all’alfa di questa, un Omega, tanto solidamente ancorato alla terra ferma quanto le arcate simmetriche di un ponte sospeso… L’altra concezione introduce in questo edificio troppo bello l’indizio di insicurezza, non proteggendo il ponte contro alcuna scossa accidentale, non garantendo l’uomo che lo attraversa contro alcun pericolo, fosse pure mortale…” [9] .
            Il Dio dell’arcata spezzata restituisce all’uomo la dignità del rischio, perché lo responsabilizza davanti al futuro senza garantirgli niente, rendendolo attento al valore dell’opera presente, a prescindere da ogni risultato o ricompensa promessi. “Dio si è ritirato nel silenzio, non per evitare l’uomo, ma, al contrario, per incontrarlo; è tuttavia un incontro del Silenzio con il silenzio. Due esseri di cui l’uno tentava di sfuggire all’altro sulla scena luminosa del Faccia a Faccia, si ritrovano nel rovescio silenzioso dei Volti nascosti… Cessando di essere un rifugio, il silenzio diventa il luogo della suprema aggressione. La libertà invita Dio e l’uomo all’appuntamento ineluttabile, ma è l’appuntamento dell’universo opaco del silenzio” [10] . I tempi del silenzio divino sono i tempi della libertà umana, perché nella loro dolorosa ambiguità pongono l’uomo solo di fronte alle sue scelte, del tutto libero rispetto al Dio che si ritrae. Lo scandalo del silenzio divino rivela così a Israele il suo Dio come il Dio della libertà, che non garantisce nulla, non assicura nulla, ma invita l’uomo a giocare e rischiare tutto nell’opera (“mitzvah”: precetto), che non dà per scontato alcun risultato finale. Così, è il continuo intersecarsi del divino silenzio e della Parola di Dio che fa dell’etica ebraica inseparabilmente l’etica della libertà e l’etica della pura Legge, del comandamento amato più di Dio, perché Dio può ritrarsi e tacere, ma la Parola continua a domandare e ad esigere di essere obbedita: “Amare la Torà più di Dio significa giungere a un Dio personale” [11] .            Anche al cuore della rivelazione del Nuovo Testamento sta, però, il linguaggio del silenzio: il Vangelo cristiano si offre in pienezza lì dove il silenzio di Dio raggiunge il suo vertice abissale, rotto solo dal grido dell’ora nona, su quella Croce che è supremo scandalo per i Giudei, e non di meno follia per le genti, inaccettabile compromissione di Dio con la passione umana. Il Dio venuto fra gli uomini non si è offerto nelle forme della gran­dezza e della sapienza umana, ma, all’opposto, ha annientato se stesso scegliendo ciò che è debole e stolto per confondere la forza e la saggezza del mondo. Le motivazioni di questa radicale “absconditas Dei sub contrario” sono anzitutto quelle della teo­logia negativa: il negativo veicola meno inadeguatamente il divino, proprio perché esclude ogni confusione di grandezza umana con la Trascendenza di Dio. Ma questa motivazione va saldata a quella propriamente cristologica, all’effettiva cioè “absconditas Dei” in Cristo e nella sua croce: è la dialettica della rivelazione, l’ostendersi del divino nel suo contrario, secondo l’originaria accezione della parola “re-velatio”. In latino il prefisso re- ha il duplice significato di ripetizione dell’identico e di cambiamento di stato (analogamente a quanto significa l’apó nelle parole greche): “revelatio”, come il greco apokálypsis dice allora al tempo stesso un infittirsi ed un cadere del velo, lo svelarsi di ciò che è nascosto e il velarsi di ciò che è rivelato.
            La “re-velatio” non toglie, dunque, la differenza fra i mondi che mediante essa entrano in contatto: Dio resta Dio e il mondo resta mondo, anche se Dio entra nella storia ed all’uomo è offerta la possibilità di partecipare alla vita divina. Questo significa che, se nella rivelazione Dio si manifesta nella Parola, al di là di questa Parola, autentica auto-comunicazione divina, sta e resta un divino Silenzio. La Parola esce dal Silenzio ed è nel Silenzio che essa viene a risuonare: come c’è una provenienza della Parola dalla silenziosa Origine, così c’è una destinazione della Parola, un suo “avvenire”, come luogo del suo avvento. Il Verbo sta fra due silenzi: gli “altissima silentia Dei” della tradizione mistica cristiana. È precisamente questo gioco dialettico di Parola e Silenzio che è stato perduto nella tradizione teologica della modernità. Cifra di questo destino, dalle conseguenze epocali, è la stessa storia della parola usata per dire l’auto-comunicazione divina: dal momento in cui il termine “Offenbarung” – evocativo dell’atto dell’aprirsi (etimologicamente: “gestazione e apertura dell’aperto”,  da “offen”, aperto, e “bären”, che nel tedesco medievale esprime il “portare in grembo”, l’“esser gravido”) – è stato fissato come equivalente di “revelatio” nella lingua che domina il pensiero critico della modernità, il problema della rivelazione è diventato quello di accogliere il manifestarsi dell’aperto, fino all’interpretazione hegeliana, in cui la rivelazione diventa la fenomenologia dello Spirito assoluto. Nell’ottica della “Offenbarung” l’avvento di Dio viene pensato come esibizione senza riserve: dicendosi, il Mistero assoluto si consegnerebbe alla presa del mondo; l’ingresso dell’eterno nel tempo avrebbe fatto della storia il “curriculum vitae Dei”, il processo di Dio per divenire se stesso.            In tal modo, però, viene perduta la continuità con l’originaria tradizione biblica, secondo cui la “revelatio” è l’offrirsi del Dio rivelato e nascosto: maestro del desiderio, il Dio della rivelazione è Colui che, dando se stesso, al tempo stesso si nasconde allo sguardo e attira alla Sua profondità silenziosa e raccolta. Il Dio dell’avvento è il Dio della promessa, dell’esodo e del Regno. Perciò, la Sua rivelazione non è visione totale, ma Parola che schiude i sentieri abissali del Silenzio. Il rinnovato rapporto con l’ebraismo – esperto dei divini silenzi – diventa così una scuola preziosa per il pensiero cristiano per riappropriarsi dell’idea dialettica ed escatologica della rivelazione, per ritrovare i sentieri del Silenzio da cui la Parola proviene ed a cui essa schiude. Tanto per l’ebraismo, quanto per il cristianesimo le parole in cui dimora la Parola divina vanno allora scrutate in un continuo processo di “trasgressione”, che raggiunga la nascosta Provenienza e l’Avvenire in esse custodito: si comprende allora perché l’ebraismo indaghi i settanta significati nascosti in ciascuna delle parole di Dio e la lettura cristiana delle Scritture ne cerchi i molteplici sensi in un gioco infinito di rimandi allegorici e simbolici. Perciò l’ermeneutica – intesa come “trasgressione” della parola, che sola ne scandaglia i significati profondi, i mondi vitali da cui essa proviene e che essa esprime – nasce nella tradizione ebraico cristiana della “lettura infinita” delle Scritture [12] . Se lo sguardo dei due esploratori è rivolto sempre all’ultimo orizzonte ed all’ultima patria, nessuna estasi dell’adempimento, nessuna seduzione del possesso può fermare il loro cammino. Ebraismo e cristianesimo sono religioni aperte all’abisso della Verità divina, accessibile in assoluta obbedienza alla rivelazione biblica, custodita e trasmessa nel popolo santo.

            2. Il carattere comunitario della salvezza               
   In quanto suscita il compito dell’interpretazione inesausta, si può dire che il Dio della rivelazione ebraico-cristiana non è il Dio delle risposte facili e pronte, ma il Dio esigente, che amando e donandosi si nasconde e chiama a uscire da se stessi in un esodo senza ritorno che porti negli abissi del suo Silenzio, ultimo e primo: un Dio che rende amanti pensosi. Il rapporto con Lui necessita pertanto di essere vissuto in una comunità viva, che – custodendo e riconoscendo il Suo linguaggio – possa insegnarlo ai suoi membri perché se ne facciano a loro volta custodi e trasmettitori creativi. Questa comunità è il popolo di Dio, la “qahal” d’Israele, la Chiesa dei discepoli del Crocifisso Risorto, entrambe suscitate e nutrite dalle parole della lingua sacra, in cui si è fissata per sempre la rivelazione di Dio. Il valore attribuito a quest’appartenenza linguistico-comunitaria non dipende dalla lingua effettivamente usata nella vita ordinaria dei credenti, ma dal loro continuo e necessario apprendere il linguaggio di Dio attraverso le parole – trasmesse e tradotte nella fedeltà all’originale sacro – in cui la Parola si è detta. Appartenere alla comunità non è sacrificio del pensiero, ma condizione ermeneutica per il suo esercizio fecondo: la fede che unisce i credenti è alimento dell’interrogazione e dell’ascolto, grembo capace di ricevere, custodire e interpretare l’intelligenza della Parola di vita, che è intelligenza penetrante della realtà tutta intera.

            Si comprende allora la cura che ebraismo e cristianesimo hanno sempre avuto  per affermare e custodire la lingua delle loro origini divine [13] : la domanda “Che lingua parlano nel giardino del Paradiso Adamo, Eva, Dio e il serpente?” È – per l’ebreo, come per il cristiano – solo apparentemente retorica. La risposta di Agostino – che opta senza esitazioni l’ebraico – vuol unire la lingua del primo Adamo a quella del nuovo Adamo, Cristo, per mostrare come in Lui si compia la nuova creazione: in realtà, però, la densità teologica dell’affermazione contiene conseguenze più ampie, perché l’unità del linguaggio dice l’unità del popolo di Dio e fonda da una parte la comunione dei credenti fra loro nell’israele dell’elezione e nella Chiesa dei discepoli, dall’altra il provvidenziale rapporto fra Israele e la Chiesa. La riprova sta nel fatto che quando l’antisemitismo si è fatto strada nella coscienza cristiana, si sono cercate altre risposte alla domanda sulla lingua del Paradiso, quasi a confermare che dove si perde la forza unificante del linguaggio creato da Dio per dirsi agli uomini, si perde anche l’identità più vera del Suo popolo nella storia. Per ebraismo e cristianesimo l’appartenenza al popolo santo costituisce il circolo ermeneutico che apre l’accesso più ricco ai tesori della Verità: lungi dal mortificare la ragione, la fede condivisa la stimola e la esalta.

            Nel disegno salvifico di Dio Israele ha un ruolo decisivo e centrale come popolo e la Chiesa stessa non potrà comprendere la propria identità e la propria missione senza situarsi in rapporto a quella che Paolo chiama la “santa radice” (Rm 11,16). Con immagine audace, che contrasta manifestamente con l’esperienza, l’Apostolo vede l’oleastro innestato sull’olivo, e non, come sarebbe naturale, la pianta buona innestata su quella selvatica: ne risulta  l’importanza decisiva che Paolo accorda alla pianta ebraica, non esitando a ricordare alla comunità cristiana che non è lei a portare la radice, ma la radice a portare lei (cf. Rm 11,18). Lo stesso rifiuto d’Israele è considerato dall’apostolo condizione provvidenziale perché la salvezza giunga alle genti (v. 11), che saranno a loro volta pungolo per l’ultima reintegrazione (v. 14). Il motivo profondo di questo misterioso disegno è colto da Paolo nella fedeltà del Dio dell’alleanza: “I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!” (v. 29). La complessa teologia della storia della salvezza, che è sottesa a queste riflessioni, afferma dunque la continuità fra Israele e la Chiesa, non meno della novità, che costituisce il popolo dei credenti in Cristo. Pensare la relazione fra i due popoli nell’unico disegno di Dio e il loro specifico ruolo è allora la questione aperta, posta sin dalle origini cristiane alla coscienza della fede, nutrita dall’unico Dio della promessa [14] .
            La continuità si manifesta anzitutto a livello di linguaggio: gli stessi termini  Chiesa e popolo di Dio hanno radici veterotestamentarie. La comunità d’Israele viene designata con le espressioni pressoché equivalenti ‘edah e qahal, delle quali la prima evidenzia lo stato della comunità radunata, la seconda sottolinea il momento attivo della convocazione. I Settanta tradurranno i due termini prevalentemente con synagogé ed ekklesía e sarà questa espressione – in quanto indicativa del momento religioso in cui si costituisce l’assemblea del Signore – ad entrare nell’uso per designare la comunità convocata da Dio mediante l’annuncio della fede pasquale (“Chiesa di Dio”), anche perché il vocabolo sinagoga era diventato in ambiente greco il nome proprio della comunità religiosa giudaica e del suo luogo di adunanza. La distinzione fra ‘am e gojîm, designanti rispettivamente il popolo eletto e gli altri popoli, fu resa in greco con i termini entrati nel linguaggio del Nuovo Testamento laós e éthne usati per qualificare il popolo di Dio da una parte e i pagani – o le genti – dall’altra. Già questa terminologia dice quanto la Chiesa si sia riconosciuta in continuità con Israele.
            Al pari di Israele, la Chiesa si concepisce come popolo in esodo, radunato nelle dodici tribù: “Ed ora – dirà Paolo davanti al suo giudice – mi trovo sotto processo a causa della speranza nella promessa fatta da Dio ai nostri padri, e che le nostre dodici tribù sperano di vedere compiuta, servendo Dio notte e giorno con perseveranza. Di questa speranza, o re, sono ora incolpato dai Giudei!” (At 26,6s.). La scelta dei Dodici (cf. Mc 3,13-19 e par.) Mostra come lo stesso Gesù abbia inteso la sua comunità nella continuità con Israele: e come tale essa vive la sua speranza escatologica (cf. Ap 21,12-14). Gerusalemme – percepita nella tradizione ebraica come punto di raccolta dei dispersi e luogo santo della salvezza donata da Dio – resta nella coscienza cristiana la città escatologica, che scende dal cielo (cf. Gal 4,26s.; Ap 21,2), pur essendo al tempo stesso il centro storico in cui si compie la redenzione e da cui parte l’annuncio a tutte le genti. Anche l’idea neotestamentaria di regno di Dio, oggetto e cuore della predicazione di Gesù, è profondamente radicata nell’antico Testamento: e come Israele non si identifica con la regalità dell’eterno, così la Chiesa sa di essere solo il seme e la caparra del Regno (si pensi alle parabole del Regno in Mt 13).
            È soprattutto però la relazione con il Dio dell’alleanza l’elemento di continuità fra le comunità dell’antico e del Nuovo Patto: entrambe sono il popolo di Dio. L’Eterno si è autodestinato a Israele nel legame dell’alleanza: ed Israele riconosce di esistere grazie a Lui e per Lui, come Sua proprietà, Suo alleato, Suo santuario fra i popoli, “regno di sacerdoti e nazione santa” (Es 19,6: cf. 1 Pt 2,9 e Ap 5,10). È parimenti l’esperienza della salvezza che dà alla Chiesa la coscienza di essere il popolo di Dio, concepito con le stesse categorie del popolo eletto: gregge, campo di Dio, vigna scelta, edificio di Dio, Sua dimora, tempio santo, “Gerusalemme che è in alto” e “madre nostra” (Gal 4,26; cf. Ap 12,17), sposa che il Signore “ha amato e per la quale ha dato se stesso, al fine di renderla santa” (Ef 5,25-26) [15] . E come Israele riconosce la sua missione nell’essere il popolo tra i popoli, segno e strumento della salvezza dell’eterno per tutte le genti, pur se in una continua tensione fra particolarismo e universalismo, così la Chiesa si sentirà chiamata a portare la salvezza fino agli estremi confini della terra come segno levato fra le nazioni(cf. Mc 16,15s.; Mt 28,18-20). E come Israele vive nell’attesa vigile e speranzosa del compimento delle promesse di Dio, così la Chiesa è popolo della speranza, teso fra il già del dono del Signore e il non ancora dello shalôm universale (cf. Ad esempio 1 Cor 15,20-28; Ap 22,17. 20). “E così – osserva San Tommaso d’Aquino – i padri dell’antico Patto appartenevano allo stesso corpo della Chiesa al quale noi apparteniamo” [16] .
            Esiste dunque un’unica alleanza, da cui nasce l’unico popolo di Dio nella storia? La continuità fra Israele e la Chiesa autorizzerebbe a pensarlo [17] : e l’argomento decisivo sarebbe l’irrevocabilità dell’elezione e la fedeltà dell’eterno al patto stretto col Suo popolo. Proprio perché entrambe popolo di Dio, le comunità del Primo e del Nuovo Testamento, congiunte in un unico disegno di grazia e di misericordia divine, sarebbero l’unico popolo in cammino verso la stessa patria escatologica, chiamato a un medesimo compito di testimonianza messianica. L’evento Cristo non costituirebbe allora una cesura, ma un approfondimento e soprattutto una dilatazione, in forza della quale l’incontro col Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe sarà reso possibile a tutte le genti. Lo scisma intervenuto storicamente fra Chiesa e Israele non rispecchierebbe la volontà divina, secondo la quale le due comunità dovrebbero continuare a svolgere il loro ruolo nella comunione reciproca sotto il segno dell’unico progetto di salvezza del mondo: Israele come radice, tenace testimone del mistero dell’elezione che separa e consacra; la Chiesa come albero, i cui rami si estendono al vento e al sole nello spazio del tempo, fecondo in sempre nuove stagioni. Gesù Cristo, soprattutto nel Suo aspetto di Servo sofferente e di Messia crocifisso, sarebbe l’anello di congiunzione fra le due comunità: sintesi della storia di sofferenza del popolo eletto nella Sua passione, sorgente della missione tesa al compimento della salvezza universale nella Sua resurrezione. “Torah fatta carne” (J. Schoneveld), in Lui il significato più profondo della Legge sarebbe divenuto trasparente alle genti: vivere al cospetto di Dio come autentica immagine di Lui.
            Per quanto suggestiva, una simile lettura non evita due rischi: il primo, di riprendere la vecchia tesi della “sostituzione”, per la quale la Chiesa realizza compiutamente ciò che è implicito in Israele, e perciò ne prende il posto nel mistero della redenzione; il secondo, di ridurre la novità cristiana a una dimensione prevalentemente “quantitativa”, nel senso che ciò che di nuovo avrebbe operato Gesù sarebbe l’ingresso dei pagani nel dono dell’alleanza e nella pratica, autentica e liberante, della Legge. Sotto entrambi i profili, la tesi dell’unicità dell’alleanza, se rende ragione della profonda continuità fra la Chiesa dell’antico e quella del Nuovo Patto, non riesce a spiegare adeguatamente la novità che, proprio distinguendole, le unisce. Occorre allora riconoscere la discontinuità in tutto il suo significato: “Ciò che l’ebraismo ha posto irrevocabilmente al termine della storia, come il momento in cui culmineranno gli eventi esterni, è divenuto nel cristianesimo il centro della storia, la quale si trova allora promossa al titolo particolare di storia della salvezza” [18] . Se per Israele – l’esploratore che cammina avanti – il “già” della fede è l’alleanza stretta da Dio con i Padri e il “non ancora” della speranza è il compimento escatologico delle promesse dell’eterno nello shalôm universale, per la Chiesa – l’esploratore che segue dietro l’altro – il “già” è l’avvento del Figlio di Dio nella carne e il realizzarsi del Suo mistero pasquale, che troverà pieno e definitivo compimento nel momento in cui Cristo ricapitolerà tutto in sé e consegnerà tutto al Padre e Dio sarà tutto in tutti (cf. 1 Cor 15,28). Verso questo “non ancora” dell’ultimo avvento, che sarà il ritorno glorioso del Signore, la Chiesa tende nel pellegrinaggio del tempo. Proprio così, però, i due popoli restano accomunati nel segno di una ricchissima tensione messianica… 

            3. La messianicità dei due popoli                        
            Per la fede cristiana, Gesù è il Messia atteso dalla speranza ebraica, compimento delle promesse fatte ai Padri e al tempo stesso promessa di un nuovo e definitivo compimento, che si consumerà nella gloria dell’éschaton. In questo senso, la Chiesa sa di portare in sé la speranza d’Israele, perché attende il pieno realizzarsi della promessa messianica: e tuttavia, sa di diversificarsi dal popolo dell’antica Alleanza, perché riconosce che l’ultimo tempo è già iniziato nella storia di Gesù, Signore e Cristo, e di questa escatologia in atto di realizzarsi si sente al tempo stesso protagonista e recettiva. La coscienza di questa novità, pur nella continuità col popolo dell’antico Patto, è veicolata chiaramente nel Nuovo Testamento: la Chiesa si riconosce “Israele di Dio” (Gal 6,16), contrapposto all’israele secondo la carne (cf. 1 Cor 10,18), discendenza di Abramo ed erede secondo la promessa proprio in quanto appartenente al Cristo, il Messia venuto (cf. Gal 3,29 e Rm 9,6-8). La sottolineatura di questa novità induce a pensare a due alleanze: all’antico Patto segue il Nuovo, all’economia dell’alleanza sinaitica, la nuova ed eterna alleanza sancita nel sangue di Cristo sulla Croce [19] .
            È da questa “teologia delle due Alleanze” che è stata ispirata la contrapposizione fra ebraismo e cristianesimo, spinta fino a vedere nella Chiesa il nuovo Israele ed a svuotare di ogni valore la permanenza del popolo eletto. Perciò è necessario precisare che le due Alleanze sono e restano all’interno dell’unico disegno di Dio, che raduna il Suo popolo nella storia. Proprio per questo, ebraismo e cristianesimo sono e restano entrambe “istituzioni aperte”, spinte ad essere tali dalla loro radicale dipendenza dall’iniziativa divina nella storia: “Il cristianesimo è un’istituzione aperta, destinata a tutti gli uomini e a tutti i tempi, e relativa ad essi. Esso è qui e nello stesso tempo è ancora sempre in divenire e in crescita… Il cristiano che concepisce e predica la sua Chiesa come un semplice sistema, come un’istituzione statica e completa o come un’ideologia, la degrada e la riduce… Il cristianesimo è aperto in modo speciale sull’ebraismo. La Chiesa è imparentata in maniera unica con esso… I cristiani devono perciò prestare attenzione agli ebrei e all’ebraismo e prenderlo seriamente nella sua autonomia e affinità col cristianesimo. Debbono ascoltare, attendere e credere… Anche l’ebraismo è una comunità aperta. Tale carattere gli è inerente già dal tempo dell’antico Testamento … Come nel caso del cristianesimo, anche l’apertura dell’ebraismo è orientata principalmente al futuro…» [20] . I due esploratori della terra di Canaan dovranno allora continuare a camminare verso la stessa meta, misteriosamente uniti dalla Croce di Cristo e dallo stesso canto: non l’uno contro l’altro, né solo l’uno accanto all’altro, ma l’uno per l’altro, entrambi rivolti al compimento escatologico delle promesse di Dio [21] . Ma come potrà avvenire questo?
            L’affermazione decisiva consiste nel riconoscimento della peculiarità storico-salvifica e del significato religioso permanente dell’ebraismo come dato irrinunciabile per la fede cristiana. L’aver obliato o trascurato questo dato, fondato nelle convinzioni espresse da Paolo nella sua Lettera ai Romani (cap. 11), è stato non solo causa di immani sofferenze per il popolo ebraico, fatto oggetto di rifiuto e di persecuzione, culminati nella tragedia dell’olocausto, ma anche motivo di impoverimento e di alienazione per lo stesso cristianesimo. Si comprende allora come molte delle interpretazioni, proposte nel passato per comprendere la relazione fra Israele e la Chiesa, debbano essere abbandonate o superate. Dal punto di vista storico i modelli interpretativi con cui la comunità cristiana si è rapportata all’antico Testamento sono andati dal dualismo di contrapposizione fra l’antico e il nuovo Israele, all’allegorismo di semplice sostituzione, all’uso strumentale delle testimonianze dell’antico Patto, alla ricerca di un’effettiva complementarità [22] .
            Il modello dualistico contrappone il Nuovo patto all’antico: Marcione e il movimento ereticale a lui ispirato, sviluppatosi intorno alla metà del II secolo, ne sono la rappresentazione emblematica con la tesi espressa dall’uso forzato del testo di  Luca 5,36-39 : “Non si versa il vino generoso del Vangelo nei vecchi otri dell’ebraismo” [23] . L’opera di Gesù sarebbe consistita nel liberare gli uomini dall’opprimente dominio della Legge e dell’implacabile giustizia divina, per offrire loro la buona novella della misericordia e del perdono, raggiungendo anche i lontani con il supremo dono d’amore della Sua morte in Croce. Nelle Antitesi, che faceva precedere al canone biblico da lui fissato, Marcione classificava e selezionava i testi della Scrittura in base a questo fondamentale criterio dualistico, ritenendo di dimostrare così la malvagità del Dio dei giudei, rispetto al quale far risplendere la superiorità  del Vangelo [24] . Per la sua esaltazione della novità evangelica, per il suo forte paolinismo e per la radicalità dei suoi giudizi il marcionismo, sebbene rifiutato dalla Chiesa, eserciterà un grande influsso sulla coscienza cristiana e sarà certamente una delle cause remote dell’antisemitismo che non cesserà di serpeggiare in essa. L’ispirazione gnostica che lo anima, in forza della quale la rivelazione è sottoposta al giudizio più o meno arbitrario di un criterio fissato razionalmente, farà però avvertire in maniera diffusa l’estraneità fra l’atteggiamento dualistico e la coscienza cristiana, che non può tollerare la cancellazione dell’antico Testamento, pena la perdita delle sue stesse radici.
            Anche contro l’arbitrio del modello dualistico si andrà configurando nella storia della teologia cristiana il modello allegorico: l’Antico Testamento è accettato e studiato con amore, ma se ne opera una spiritualizzazione, tesa a spiegare ogni aspetto della lettera veterotestamentaria alla luce dello Spirito del Nuovo Testamento. Eccellerà in quest’opera di simbolizzazione e di progressive inclusioni fra il piano storico e quello cristologico la Scuola alessandrina (Clemente, Origene): la lettera rimanda al senso spirituale. L’uso dell’esegesi allegorica spinge a riconoscere – a volte anche forzatamente – il non detto nel detto (allegoria è, appunto, “dire altro”) [25] . Il risultato del procedimento sarà lo svuotamento dell’antico Testamento, operato non esteriormente per via di semplice soppressione, ma dal di dentro, in quanto lo si priverà della sua intenzionalità propria, immettendovene un’altra, spesso del tutto estranea al senso originario. In tal modo, la sostituzione della Chiesa a Israele sarà compiuta nello stesso testo che è a fondamento dell’identità della fede ebraica. Di questo processo risentirà lo stesso cristianesimo, indebolito nei suoi fondamenti storici: condizionata dal dualismo greco-ellenistico, la tendenza allegorica, spiritualizzando la lettera, finirà col destoricizzare la stessa fede cristiana. Se ciò che è detto nel Nuovo è già presente nell’antico, nella forma del tipo o dell’allegoria, “è abolita non soltanto la storia della salvezza contenuta nel Vecchio Testamento, ma perdono il loro valore di avvenimenti storici anche il fatto unico dell’incarnazione di Gesù Cristo e quello della predicazione di questa incarnazione da parte degli apostoli” [26] .
            Nel modello dualistico gioca dunque una logica di contrasto, come in quello allegorico una logica di sostituzione effettiva. Nel cosiddetto modello antologico è un procedimento di integrazione a prevalere: il resto d’Israele, inteso come il meglio che l’Antico Testamento ha saputo esprimere, viene assunto e integrato nell’identità spirituale della Chiesa. Si opera in tal modo una strumentalizzazione dell’antico Patto e delle sue testimonianze: si ricorre ad esse nel rispetto del loro significato storico, ma se ne fa uso selettivamente, privilegiando ciò che sembra più valido universalmente o ciò che appare più facilmente interpretabile in chiave cristologica. Non si nega Israele del tutto, ma se ne compie un’effettiva cancellazione parziale. Anche qui il rischio che si affaccia è lo svuotamento dell’antica Alleanza e la sua pura e semplice assimilazione alla Nuova. Un’interpretazione della formula “il Nuovo Testamento era latente nell’antico, l’Antico è manifesto nel Nuovo” [27] , che andasse in questa direzione, vanificherebbe il dinamismo in cui si realizza l’economia divina, trascurando il carattere di storicità proprio della rivelazione ebraico – cristiana. L’origine di questo modo di interpretare sembra risalire addirittura al fatto che, quando il canone neotestamentario non era ancora redatto né fissato, i cristiani si sforzavano di cogliere nell’unico canone a loro disposizione, quello veterotestamentario, la storia di Gesù, centro e fondamento della loro fede. Di qui all’interpretazione apologetica dell’antico Testamento il passo fu breve.
            Ciò che occorre allora salvaguardare nel rapporto fra la Chiesa e Israele è il valore dell’antica Alleanza in se stessa e il permanente significato religioso d’Israele, postulato da Paolo in forza della fedeltà di Dio al Suo patto. È il cosiddetto modello della complementarità che qui si affaccia: l’Antico Testamento ha un valore strutturale, fatto proprio dallo stesso Gesù, ebreo ed “ebreo per sempre”. La visione della realtà, caratteristica della radice santa, consta di un elemento fondamentale, che l’esistenza del popolo ebraico ha continuato tenacemente a testimoniare nella storia, nonostante tutti i tentativi di assimilazione o di soppressione compiuti nei suoi confronti. Questo elemento, vero centro e cuore dell’ebraismo, è l’alleanza con Dio. Tutto per l’ebreo si riferisce al Patto: il mondo buono e bello della creazione, la difficile libertà dell’essere umano, il destino del popolo eletto, pur tante volte infedele. Tutto, attraverso l’ascolto dell’eterno, domandato ogni giorno e più volte al giorno nello Shemà, si orienta a Lui, che va amato con tutto il cuore, cioè nell’insieme dei conflitti che attraversano questa sorgente di vita, soggetta all’attrazione del bene e del male, con tutta l’anima, fino al dono di sé, con tutte le forze, senza risparmio di alcuno dei propri mezzi (cf. Dt 6,4s.). Gesù stesso ha vissuto questa spiritualità dell’alleanza: egli è il nuovo Adamo, che obbedisce dove l’altro ha fallito. Gesù è il sì all’alleanza (cf. 2 Cor 1,20), il compimento nella sua stessa persona del patto di amore eterno fra Dio e il suo popolo, l’Israele realizzato secondo il cuore di Dio.
            Il Nuovo Testamento incarna dunque l’Antico nel senso che l’alleanza realizzata in Gesù rende possibile la comprensione del Patto nella pienezza del suo senso più vero. Non è questione di una o due alleanze: l’economia del Patto è una sola e consiste precisamente nel disegno d’amore di Dio per il Suo popolo, in quello che Paolo chiamerà il mistero nascosto dai secoli (cf. Rm 16,25). Ma i tempi, le forme e il grado di realizzazione cambiano: l’alleanza con Noè non è quella con Abramo, e questa non è ancora quella del Sinai. L’alleanza del Golgota e della Pasqua di resurrezione non nega le altre, le porta a compimento. Perciò fra i due popoli dell’economia dell’alleanza non può che esserci complementarità: il Nuovo illumina, l’Antico si lascia illuminare, ma a sua volta è in se stesso indispensabile per comprendere la luce del Nuovo. Grazie a questa funzione ermeneutica, alla luce del Nuovo i testi del Vecchio Testamento verranno ora assunti, ora ridimensionati, ora riportati alla priorità indiscussa dell’amore di Dio: né potrà essere mai obliata la novità dell’incarnazione del Figlio, che sorpassa ogni attesa. L’Antico Testamento resta però nel suo valore di struttura, nel suo fondamentale modo di vedere il mondo, l’uomo, la storia nella luce dell’alleanza con Dio: e questo spiega perché la permanenza d’Israele, testimone tenace di questa visione del mondo fra i popoli, non è minaccia né impoverimento della Chiesa, ma ricchezza per essa, e la Chiesa, popolo di Dio, non è annullamento dell’antico, ma offerta permanente, rispettosa e fiduciosa, della pienezza possibile.
            Perciò, “essendo tanto grande il patrimonio spirituale comune ai cristiani e agli ebrei”, il Vaticano II ha voluto “promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto dagli studi biblici e teologici e da un fraterno dialogo” [28] . Fatti salvi i cammini individuali sempre possibili e ricchi di senso profetico, i due popoli, come i due esploratori della Terra promessa, dovranno dunque camminare insieme in una sorta di processo di riconciliazione sempre “in fieri”, fino al tempo in cui  confluiranno nell’unico popolo del tempo escatologico, che i cristiani attendono come frutto pieno della riconciliazione attuata nel sangue del Messia crocifisso e risorto, segno levato per attirare a sé tutti i popoli nell’universale pellegrinaggio dei popoli verso la Gerusalemme del compimento finale.
———————————–
[1] Così afferma ad esempio Evagrio (verso il 430): Altercatio inter Theophilum et Simonem: PL 20,1175. Cf. H. Leclerq, Dictionnaire d’Archéologie Chrétienne et Liturgie, 3, 169s.; C. Leonardi, Ampelos. Il simbolo della Vite nell’arte pagana e paleocristiana, Roma 1947, 149-163.
[2] Ancora Evagrio, Altercatio inter Theophilum et Simonem: PL 20,1175. Stesse idee in S. Massimo di Torino (metà del V sec.): Hom. 79: PL 57,423s.
[3] Y. Congar, Ecclesia ab Abel, in Abhandlungen über Theologie und Kirche. Festschrift Karl Adam, Düsseldorf 1952, 103, n. 65, rimanda a Pietro di Mora (Capuano: 1242) e ad Adamo di S. Vittore. L’allusione è a Mc 11,9: “Qui praeibant et qui sequebantur clamabant dicentes Hosanna”.
[4] Cf. Genesi rabbah V.7 e Levitico rabbah X.9, citati in G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, Einaudi, Torino 1999, 391.
[5] Cf. H. Rahner, Die Grabschrift des Loyola, in Stimmen der Zeit 139, 1946-47, 321-339. La frase, riportata in Imago Primi Saeculi Societatis Iesu, Anversa 1640, 280, quale “Elogium sepulcrale S. Ignatii, è stata usata da Hölderlin nel 1794 come esergo al frammento di romanzo Hyperion.
[6] Cf. la presentazione di questa tradizione in G. Scholem, Schöpfung aus Nichts und Selbstverschränkung Gottes, Eranos_Jahrbuch 1956, 87-119. Cf. pure Id., Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino 1993, 270ss. Dopo aver notato il capovolgimento operato dai Cabbalisti rispetto all’idea di un “contrarsi” della divina presenza sul Monte Sion (contrazione divina “ad extra”) mediante la dottrina della contrazione divina per così dire “ad intra”, Scholem osserva: “Si è tentati di interpretare questo ritrarsi di Dio nel suo proprio essere in termini di ‘esilio’, di ‘bando’ dalla sua totale onnipotenza nella più profonda solitudine. Considerata così, l’idea dello zim-zum sarebbe il più profondo simbolo pensabile dell’esilio” (271).
[7] Mekilta de-rabbi Yishma’e’l, Pisha 14.99-107, citato in Busi, Simboli, cit., 345.
[8] Cf. le tesi di A. Neher, L’exil de la parole. Du silence biblique au silence d’Auschwitz, Paris 1970; tr. it.L’esilio della Parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Piemme, Casale Monferrato 1983. Cf. pure C. Vigée, Dans le silence de l’Aleph. Écriture et Rèvèlation, Paris 1992: tr.it. Alle porte del Silenzio. Scrittura e rivelazione nella tradizione ebraica, Paoline, Milano 2003.
[9] A. Neher, L’esilio della Parola, o.c., 146.
[10] Ib., 178.
[11]   E. Lévinas, Difficile liberté, Paris 1963, 193.
[12] Cf. M.-A. Ouaknin, La “lettura infinita”. Introduzione alla meditazione ebraica, ECIG, Genova 1998.
[13] Cf. la ricerca di M. Olender, Le lingue del Paradiso, Il Mulino, Bologna 1991.
[14] Sulla teologia del rapporto fra la Chiesa e Israele cf. tra l’altro: A. Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, Brescia 1966; N. Lohfink, L’alleanza mai revocata. Riflessioni esegetiche per il dialogo tra cristiani ed ebrei, Brescia 1991; F. Mussner, Il popolo della promessa. Per il dialogo cristiano – ebraico, Roma 1982; Id., Die Kraft der Wurzel. Judentum – Jesus – Kirche, Freiburg – Basel – Wien 1987; C. Thoma, Teologia cristiana dell’ebraismo, Casale Monferrato 1983. J.T. Pawlikowski, Judentum und Christentum, in Theologische Realenzyklopädie Band XVII, 3/4, Berlin – New York 1988, 386-403, fornisce, con un’ampia recensione di posizioni, una ricca bibliografia.
[15] Cf. Lumen Gentium, 6.
[16] «Et ita Patres antiqui [veteris Testamenti] pertinebant ad idem corpus Ecclesiae ad quod nos pertinemus»: S. Tommaso, Summa Theol. III, q. 8, a. 3, ad 3um («Utrum Christus sit caput omnium hominum»).
[17] È appunto la tesi dell’alleanza unica, sostenuta ad esempio da Autori come M. Hellwig, M. Dubois, P. van Buren, N. Lohfink, ecc.: cf. l’accurata informazione di J.T. Pawlikowski. Judentum und Christentum, o.c., 393-398.
[18] G. Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, Genova 1986, 107s.
[19] Cf. J.T. Pawlikowski. Judentum und Christentum, o.c., 398ss.: è la posizione delle teologie delle due alleanze, che va dalle contrapposizioni piuttosto semplicistiche di un J. Parkes (l’esperienza del Sinai destinata alla comunità, quella del Golgota al rapporto fra l’individuo e Dio) a un’ampia serie di interpretazioni intermedie, fra cui spiccano quelle di C. Thoma, Teologia cristiana dell’ebraismo, Casale Monferrato 1983, che evidenzia le scelte operate da Gesù stesso fra le varie forme dell’attesa messianica di Israele (tutt’altro che omogenee fra loro!) e vede la novità cristiana nel fatto che il Profeta galileo annuncia l’avvento del Regno di Dio e lo collega alla Sua persona e alla Sua opera, e quella di F. Mussner, Il popolo della promessa. Per il dialogo cristiano – ebraico, Roma 1982 e Die Kraft der Wurzel. Judentum – Jesus – Kirche, Freiburg – Basel – Wien 1987, che coglie la novità nel profondissimo rapporto di unità che c’è fra Gesù e Dio, e quindi nell’Incarnazione, intesa come radicalizzazione della promessa, più che suo compimento realizzato. A riprova Mussner adduce ad esempio le anticipazioni della “cristologia del Figlio” presenti nella letteratura sapienziale dell’Antico Testamento (cf. 380-389).
[20] C. Thoma, Teologia cristiana dell’ebraismo, o.c., 204s.
[21] Cf. ib., le tesi della Parte Terza: 162ss. e 188ss.
[22] Cf. C. Di Sante, L’Antica e la Nuova Alleanza. Il rapporto tra i due Testamenti, in Israele e le genti, o.c., 53-71.
[23] Così J. Isaac, Gesù e Israele (1948), Firenze 1976, sintetizza questa posizione: 86. È proprio la persistente influenza della mentalità marcionita che potrebbe rendere equivoco l’uso dell’espressione Nuova Alleanza: cf. N. Lohfink, L’alleanza mai revocata, o.c., 17ss.
[24] Cf. A. von Harnack, Marcion: das Evangelium vom fremden Gott, Leiprig 19242. Cf. l’informazione che dà Ireneo di Lione, Adversus Haereses, I, 27, 1-3, classificando Marcione fra gli gnostici.
[25] Cf. M. Simonetti, Lettera e/o allegoria. Un contributo alla storia dell’esegesi patristica, Roma 1985.
[26] O. Cullmann, Cristo e il tempo, Bologna 19694, 163.
[27] Cf. S. Agostino, Quaestiones in Heptateuchum l. 2, q. 73: PL 34,623: “Novum Testamentum in Vetere latebat; Vetus nunc in Novo patet”.
[28] Nostra Aetate, 4. Cf. per la raccolta dei più importanti documenti L. Sestieri – G. Cereti, Le Chiese cristiane e l’ebraismo 1947-1983, Casale Monferrato 1983. Cf. pure M. Pesce, Il cristianesimo e la sua radice ebraica. Con una raccolta di testi sul dialogo ebraico-cristiano, Bologna 1994, con presentazione e commento dei documenti ufficiali della Chiesa dal Concilio Vaticano II in poi. 

« RADICI DELL’ANTIGIUDAISMO IN AMBIENTE CRISTIANO »

http://www.vatican.va/jubilee_2000/magazine/documents/ju_mag_01111997_p-48_it.html

« RADICI DELL’ANTIGIUDAISMO IN AMBIENTE CRISTIANO »

GESÙ DI NAZARETH VISTO DA SCRITTORI EBREI DEL XX SECOLO*

Joseph Sievers

È stato notato tempo fa che giudaismo e cristianesimo hanno in comune una grande riluttanza: accettare pienamente e apertamente il fatto che Gesù era un ebreo. Noi cristiani spesso ci siamo creati un’immagine di un Cristo sradicato dalla sua terra, dal suo tempo, e dal suo popolo. Per gli ebrei invece, per molti secoli, Gesù è stato colui nel cui nome essi sono stati perseguitati e quindi era difficile considerarlo uno di loro.
Ciò non vuol dire che non ci sia stata tutta una letteratura, di carattere a volte polemico, spesso apologetico, su Gesù visto da ebrei. Bisogna anche affermare subito che non tutti gli autori ebrei che si sono interessati dell’argomento lo hanno voluto fare specificamente da ebrei, e che nessun autore può parlare a nome de « gli ebrei ». Infatti, in genere ogni autore esprime solo delle opinioni sue personali, basate sulle sue ricerche e sul suo punto di vista personale, che può essere condiviso da un numero più o meno grande di altre persone. Delle vedute ebraiche su Gesù si sono interessati alcuni libri e molti articoli(1).
Rinviamo a questi studi per un esame più dettagliato di vari aspetti dello sviluppo delle vedute di ebrei su Gesù. Qui ci limitiamo ad un cenno ad alcuni libri che sono stati influenti nella prima metà del nostro secolo e a una selezione più ampia, seppur per niente completa, degliultimi decenni(2). Quindi non consideriamo tutte le opere che non trattano principalmente di questo argomento, benché negli scritti filosofico-religiosi di Rosenzweig e Buber, in varie pitture di Chagall, e in tante opere della letteratura ebraica si trovino delle espressioni molto interessanti su Gesù.
Claude Montefiore, un esponente del giudaismo liberale in Inghilterra, fu uno dei primi a scrivere un commento ai Vangeli da un punto di vista ebraico, ma simpatetico al cristianesimo(3). La sua opera non presenta tanto delle idee originali quanto dà una propria sintesi degli studi fatti sui Vangeli, in quell’epoca, da studiosi cristiani. Il Montefiore parlava con tono tanto irenico che a volte venne accusato di essersi avvicinato troppo al cristianesimo, anche se egli stesso rimase sempre fedele al giudaismo.
Più conosciuta dell’opera di Montefiore è quella del Klausner, il quale, più che rifarsi agli studi neotestamentari di autori cristiani, ha cercato di capire e presentare Gesù nel suo contesto storico(4). L’originalità del suo libro non sta però nelle singole affermazioni, ma nel presentare uno studio su Gesù a un pubblico ebraico in lingua ebraica. Klausner sottolinea l’ambiente ebraico in cui Gesù è vissuto e nel quale si situa il suo insegnamento. Afferma: «Gesù di Nazareth… era esclusivamente un prodotto della Palestina, un prodotto del giudaismo puro, senza alcuna aggiunta estranea. C’erano molti Gentili in Galilea, ma Gesù non era affatto influenzato da loro… Senza eccezione il suo insegnamento è interamente spiegabile attraverso il giudaismo biblico e farisaico del suo tempo»(5). Mentre vede l’origine di tutti gli insegnamenti di Gesù nel giudaismo, Klausner giudica duramente la – secondo lui – eccessiva e pericolosa radicalità dell’etica di Gesù. Secondo Klausner ciò avrebbe portato a una deleteria scissione tra ideale religioso e prassi quotidiana(6). Anche se non seguiamo Klausner nelle sue polemiche, che hanno più a che fare con una millenaria storia di antisemitismo da parte cristiana che con la figura di Gesù, forse può essere utile vedere Gesù collocato interamente, « fino all’ultimo respiro », nel giudaismo del suo tempo.Per più di una generazione l’opera di Klausner è rimasta il libro più influente di questo tipo, anche se è stata criticata per il suo approccio « dilettantistico » alle fonti rabbiniche e cristiane. Durante il periodo più buio della storia di questo secolo, tra il 1943 e il 1946, Jules Isaac scrisse il suo libro « Jésus et Israël »(7). In esso cerca di evidenziare l’ebraicità di Gesù e dei suoi primi discepoli. Si sofferma sulla inesattezza dell’accusa di deicidio fatta per secoli agli ebrei. Il libro si articola in una serie di proposizioni per combattere l’antisemitismo nelle sue radici cristiane. Questo libro programmatico ha avuto ampia risonanza, non tanto nel campo dello studio del Gesù storico quanto per un ripensamento dei rapporti fra ebrei e cristiani.
Negli anni Sessanta vediamo il riapparire di tutta una serie di libri su Gesù, scritti da ebrei. Il primo da notare è « We Jews and Jesus » (« Noi ebrei e Gesù ») di Samuel Sandmel(8). Fino alla sua morte nel 1979 il rabbino Sandmel è stato professore di Sacra Scrittura e letteratura ellenistica al famoso Hebrew Union College di Cincinnati negli Stati Uniti. Il suo è un lavoro molto sobrio, indirizzato primariamente a ebrei, ma evidentemente è stato ricevuto molto favorevolmente anche da altri. L’autore traccia lo sviluppo storico della comprensione di Gesù da parte di cristiani ed ebrei. La sua intenzione è di informare e di aiutare per una migliore comprensione reciproca tra ebrei e cristiani. L’interesse principale non è tanto rivolto al Gesù storico quanto alla situazione di ebrei e cristiani oggi.
Anche Schalom Ben-Chorin ha la stessa ansia di promuovere una migliore comprensione fra ebrei e cristiani. Nato e cresciuto in Germania, dal 1935 vive a Gerusalemme. Ha scritto ormai più di venti libri (in tedesco, alcuni tradotti anche in altre lingue), in cui il rapporto tra ebrei e cristiani è la nota fondamentale. Soprattutto vuole far capire ai cristiani le loro radici nel giudaismo. Qui ci interessa particolarmente uno dei suoi primi libri, sulla figura di Gesù di Nazareth(9). L’autore parte dal presupposto che Gesù era un ebreo del suo tempo, da capire – e da riscoprire – soltanto nel suo contesto ebraico, anche se era una persona eccezionale. Ben-Chorin fa sue le parole ormai famose di Martin Buber:
«Sin dalla mia giovinezza ho avvertito la figura di Gesù come quella di un mio grande fratello. Che la cristianità lo abbia considerato e lo consideri come Dio e Redentore, mi è sempre sembrato un fatto della massima serietà, che io devo cercare di comprendere per amore suo e per amore mio… Il mio rapporto fraternamente aperto con lui si è fatto sempre più forte e più puro, e oggi io vedo la sua figura con uno sguardo più forte e più puro che mai. È per me più certo che mai che a lui spetta un posto importante nella storia della fede di Israele e che questo posto non può essere circoscritto con nessuna delle usuali categorie di pensiero»(10).
Nel tentativo di collocare Gesù più esattamente nel suo contesto, Ben-Chorin afferma: «In questo senso, crediamo di non sbagliare nel far rientrare Gesù stesso tra i farisei, naturalmente all’interno di un sottogruppo di opposizione. Gesù stesso insegnava come un rabbino fariseo, per quanto con un’autorità maggiore, la cui eccessiva sottolineatura va tuttavia senz’altro considerata come tradizione kerigmatica»(11).
Tale tesi, che Gesù faceva parte del gruppo dei farisei, viene proposta ormai da vari studiosi, e non solo ebrei(12). Gesù fariseo: forse è un’idea scioccante per molti lettori. Infatti, non può essere comprovata da nessuna delle nostre fonti, neotestamentarie o altre. Però indica una verità spesso trascurata: che molti degli insegnamenti di Gesù non sono lontani da quelli di certi farisei o di rabbini, loro successori più o meno diretti. Infatti, seppur Gesù ha avuto polemiche con dei farisei, in nessun modo il suo insegnamento di per se stesso lo mette al di fuori del giudaismo.
La tesi fondamentale di Ben-Chorin è «che sotto la veste greca dei Vangeli si nasconde per così dire una tradizione originaria ebraica, in quanto Gesù e i suoi discepoli erano ebrei, prettamente eunicamente ebrei»(13). Seguendo l’esempio di Klausner ed altri, è ormai un fatto abbastanza acquisito tra gli esegeti sia cattolici che protestanti, fare attenzione allo sfondo ebraico dei vangeli. Però non è così facile, come lascerebbe intendere Ben-Chorin, essere sicuri dell’entità dell’influenza di tale sfondo. Naturalmente per un cristiano è impossibile affermare che Gesù era unicamente ebreo.
Spesso Ben-Chorin va troppo lontano nelle sue affermazioni su Gesù, come quando, per esempio, desume che Gesù era sposato dal fatto che non è mai accusato di non esserlo(14). Nonostante ciò, fra le opere di carattere popolare è forse ancora la migliore sul mercato italiano.
Un autore che ha avuto molto successo tra il pubblico, specialmente nei Paesi di lingua tedesca, ma ormai anche altrove, è Pinchas Lapide. Sono in commercio oltre venti libretti suoi in tedesco, di cui alcuni tradotti anche in italiano. Molti di essi sono nati da conferenze o programmi alla radio o alla televisione, a volte in dialogo con dei teologi famosi come Rahner, Moltmann e Küng. Il libro più provocatorio è intitolato « La resurrezione: un’esperienza di fede ebraica »(15). In esso sostiene che l’idea della resurrezione individuale era presente nel giudaismo del tempo di Gesù e che quindi Gesù potrebbe essere stato risuscitato (per poi morire di nuovo), come egli stesso aveva risuscitato Lazzaro. Purtroppo qui si tratta di una interpretazione tendenziosa delle fonti giudaiche che porta a una apparente vicinanza a posizioni cristiane. Sembra che tale affermazione non serva né alla conoscenza migliore del Gesù storico, né all’approfondimento del dialogo fra ebrei e cristiani. Anche se Lapide ha fatto e continua a fare molto per sensibilizzare un vasto pubblico cristiano al rapporto essenziale tra cristianesimo e giudaismo, bisogna distinguere tra affermazioni sue basate su una buona conoscenza delle fonti e intese a contribuire a una migliore comprensione di esse e altre affermazioni fatte piuttosto per il loro possibile effetto pubblicitario. Fra le sue altre pubblicazioni, Lapide dedica un volume assai utile a una rassegna di vedute ebraiche su Gesù. Di particolare interesse un capitolo dedicato al trattamento di Gesù nei testi scolastici israeliani(16).
Molto diversa si presenta invece l’opera di David Flusser, professore emerito all »Università Ebraica di Gerusalemme, famoso per i suoi lavori sui Manoscritti del Mar Morto e su altri testi giudaici, oltre che sul Nuovo Testamento. Il suo primo libro su Gesù fu un grande successo editoriale, con traduzione in varie lingue(17). In esso Flusser tentò di far capire meglio la figura di Gesù, che egli vede come rappresentante di un giudaismo genuino, vicino al fariseismo ma critico di esso. Flusser combatte su due fronti: da un lato vuole liberare i cristiani da quello che considera uno scetticismo troppo spietato degli esegeti, specialmente causato dall’influenza di Bultmann; dall’altro lato, tra le righe, nel fare sue certe critiche di Gesù ai farisei, vuole anche criticare alcune correnti del giudaismo moderno. Quindi vede Gesù come un personaggio importante non solo per il suo, ma anche per il nostro tempo.
Queste vedute Flusser le ha ampliate e in certi aspetti modificate in una sua opera più recente sulle parabole di Gesù(18). In uno studio che si estende per oltre 300 pagine fitte, cerca di analizzare quale sia l’essenza delle parabole di Gesù e quale sia il loro rapporto con le parabole rabbiniche. Afferma che «capiamo le parabole di Gesù in modo corretto soltanto quando le consideriamo appartenenti al genere letterario delle parabole rabbiniche» (p. 279).
L’autore insiste poi giustamente sul fatto che molti esegeti del Nuovo Testamento, anche quando sono consci di paralleli rabbinici a testi neotestamentari, spesso non ne conoscono abbastanza il contesto letterario e storico. Quindi Flusser cerca con tutti i mezzi, inclusa una polemica a volte dura, di far notare la necessità di leggere l’insegnamento di Gesù nel suo contesto giudaico.
Tra gli esegeti del Nuovo Testamento è stata elaborata una serie di criteri per stabilire con più sicurezza quali detti nei Vangeli si possono attribuire a Gesù stesso. Non c’è unanimità su quali possano essere questi criteri, ma uno che appare praticamente in ogni elenco è il cosiddetto « criterio di dissomiglianza », vale a dire: se un detto è « dissimile » dagli interessi sia delle primitive comunità cristiane sia del giudaismo del tempo, è da considerare autenticamente di Gesù.
Flusser va proprio nella direzione opposta: considera autentici di Gesù quei testi che più riflettono un pensiero consono a quello dei rabbini e dei farisei del tempo. Con questo mette il dito su un problema che molti esegeti hanno già superato, ma che si trova ancora in molti testi di teologia, anche recenti: spesso si mette l’accento soltanto sul fatto che Gesù era diverso da tutti gli altri, e non sul fatto che il Verbo si è fatto carne come ebreo ed è vissuto, ha insegnato ed è morto come un figlio del suo popolo, del suo tempo e della sua terra. Molto diverso dall’approccio di Flusser è quello del Vermes. Anch’egli ha una conoscenza profonda sia del Nuovo Testamento che della letteratura ebraica del periodo. Il Vermes ha scritto un libro dal titolo semplice ma provocatorio: « Gesù l’ebreo »(19). In esso cerca di analizzare prima il contesto della vita e dell’insegnamento di Gesù e poi i vari titoli dati a Gesù. La sua intenzione non è di esporre un punto di vista specificamente ebraico. Infatti il sottotitolo dell’edizione originale era « Lettura dei Vangeli da parte di uno storico ». Tuttavia suggerisce, citando Martin Buber, che «noi ebrei conosciamo Gesù negli impulsi e nelle emozioni della sua essenza giudaica, in una maniera che rimane inaccessibile ai gentili a Lui sottomessi»(20). Il Vermes cerca di evitare, in quanto gli è possibile, i preconcetti ideologici o teologici. Afferma che «ai Vangeli ci si avvicina per lo più con idee preconcette. I cristiani li leggono alla luce della loro fede, gli ebrei mossi da vecchi sospetti, gli agnostici pronti a scandalizzarsi e gli studiosi del Nuovo Testamento con i paraocchi del loro mestiere»(21). Tali generalizzazioni naturalmente dicono al massimo una parte della verità, ma può risultare utile l’essere coscienti della varietà dei punti di vista.
Tra i suggerimenti più interessanti del Vermes è quello di vedere Gesù in legame particolarmente stretto con l’ambiente della Galilea e con un tipo di giudaismo carismatico di cui conosciamo alcuni esponenti galilei(22). Anche se il Vermes non esaurisce l’argomento, ci induce a prendere più sul serio la domanda: in che tipo di ambiente giudaico Gesù è cresciuto?
La seconda parte del libro di Vermes è dedicata ad alcuni titoli cristologici di Gesù (profeta, signore, Messia, figlio dell’uomo, figlio di Dio). In contrasto con molti esegeti che attribuiscono la maggior parte di questi titoli alla comunità cristiana postpasquale, egli accetta tutti come storicamente attendibili, soltanto che Gesù non avrebbe mai usato o accettato il titolo di Messia quando altri glielo attribuivano. Il Vermes adopera un metodo di per sé molto valido, cioè l’analisi di che cosa significavano questi termini per un ebreo del primo secolo. Afferma che profeta, signore, figlio di Dio erano termini applicati a una varietà di persone, e ne cita esempi soprattutto dalla letteratura rabbinica. La controversia più grande si è accesa attorno all’interpretazione del termine « figlio dell’uomo » data da Vermes ( in questo libro e in altri suoi studi sin dal 1965). Egli ritiene che « l’espressione figlio dell’uomo seguendo un uso armonico serve alla persona che parla per alludere velatamente a se stessa per motivi di timore, modestia o umiltà »; in altre parole, nella bocca di Gesù essa sarebbe stata semplicemente una circonlocuzione per il pronome personale « io »(23). Qui non è il luogo per discutere questa affermazione controversa, ma notiamo solo che anche se è attestato l’uso di essa in senso di circonlocuzione, ciò non toglie l’importanza, nella stessa epoca, della figura escatologica del « figlio dell’uomo », conosciuto dal libro di Daniele (7, 13) e dalla seconda parte del libro di Enoch (cc. 37-71).
Evidentemente, per comprendere pienamente le problematiche toccate dal Vermes ci vuole una base di conoscenza del Nuovo Testamento e del giudaismo contemporaneo ad esso, ma l’autore scrive sia per lo specialista (con ampia documentazione nelle note a piè di pagina) sia per un pubblico più vasto. Certamente la sua non è l’ultima parola sull’argomento: anche il Vermes stesso vede il suo libro come l’inizio di una serie di tre volumi(24). Ma forse finora il suo è il tentativo più riuscito per collocare Gesù nel giudaismo del suo tempo.
Negli ultimi anni, specialmente in Nord America, dove sempre di più gli ebrei sono una minoranza accanto a altre minoranze, di cui varie di stampo cristiano, il dialogo fra ebrei e cristiani ha fatto dei progressi notevoli anche se rimane sempre molta strada da fare. Le persone coinvolte in questo dialogo a vari livelli sono sempre una piccola minoranza nella minoranza, sia da parte ebraica sia da parte cristiana. Un frutto di questo clima è anche tutta una serie di libri sul nostro argomento.
Uno è quello di Harvey Falk, dal titolo « Gesù il fariseo »(25). L’autore è un rabbino ortodosso, con una conoscenza delle fonti ebraiche molto vasta, seppur tradizionale piuttosto che scientifica. Falk prende spunto dalla affermazione di un suo famoso antenato, il rabbino Jacob Emden (1697-1776), che Gesù sarebbe venuto a fondareuna religione nuova per i Gentili, basata sui cosiddetti sette comandamenti dati a Noè(26). Seppure l’atteggiamento molto positivo di Emden verso Gesù, Paolo e il cristianesimo in generale vada visto nel contesto della sua polemica durissima con altri gruppi di ebrei (specialmente i seguaci di un falso Messia, Sabbatai Zevi), i suoi scritti sul rapporto fra cristianesimo e giudaismo rimangono dei documenti importanti, adesso più facilmente accessibili grazie al lavoro del Falk.
Abbiamo già notato che il tentativo di collocare del tutto Gesù all’interno del fariseismo è destinato a fallire; ma nonostante ciò il lavoro del Falk, che usa le fonti secondo metodi tradizionali e non in modo storico-critico, è molto interessante. Cerca di dimostrare come in molti casi Gesù si trovasse in accordo sostanziale con la scuola farisaica di Hillel, che allora rappresentava una minoranza ma diventò più tardi la forza determinante. Al di là dei dettagli, è davvero segno di un clima nuovo se una tale opera può essere scritta da un rabbino ortodosso e pubblicata da una casa editrice cattolica.
Se un clima di dialogo, nato dopo la tragedia indescrivibile dell’era nazista, ha dato la possibilità a ebrei di avvicinare Gesù più serenamente, va anche detto che in molti autori ebrei ancora l’ansia di prevenire un possibile antisemitismo cristiano è un elemento importante nel trattare l’argomento.
Se soprattutto nelle opere di Flusser e Vermes vediamo un dibattito a volte acceso con posizioni di esegeti cristiani, il Borowitz va un passo più in là. In un clima influenzato da qualche decennio di dialogo fruttuoso fra studiosi ebrei e cristiani, egli ha deciso di studiare come alcuni teologi cristiani di oggi vedono Gesù. Non cerca tanto di arrivare al Gesù storico, ma di fare una valutazione di vari studi di cristologia. Dice:
«Sentivo che una investigazione dettagliata di un’area teologica in cui cristianesimo e giudaismo hanno delle vedute radicalmente diverse offrirebbe molti esempi interessanti per la logica della discussione interreligiosa… Se colloqui fra ebrei e cristiani devono avere un significato, si dovranno affrontare senza ambiguità le questioni inerenti nella dottrina cristiana del Cristo»(27).
Aiutato nella selezione dei testi da alcuni teologi cattolici e protestanti, cerca di vedere quanto queste cristologie diano un’immagine adeguata del contesto giudaico di Gesù e soprattutto che atteggiamento esprimono verso gli ebrei e il giudaismo. Le sue conclusioni sono che anche se nei testi scelti non trova antisemitismo, spesso ancora il giudaismo in generale o il fariseismo in particolare servono come sfondo negativo per la novità del Vangelo e l’unicità di Gesù. Alcuni autori sono sensibili al fatto di Gesù, ebreo del suo tempo, ma anche nelle loro opere questo elemento sembra dimenticato poi in altri contesti. Troppo spesso ancora vale il titolo di una recente opera del noto esegeta cattolico Norbert Lohfink: « La dimensione ebraica nel cristianesimo: dimensione perduta »(28).
Si è parlato molto della differenza tra il Gesù storico e il Cristo della fede cristiana. Spesso autori cristiani vedono solo « il Cristo », o perché danno meno importanza al fatto storico o perché, come Bultmann, ritengono pressoché impossibile giungere al Gesù storico attraverso il doppio filtro degli autori del Nuovo Testamento e della comunità cristiana del primo secolo. Autori ebrei invece riconoscono con più facilità un Gesù « storico » e riconoscono in esso dei lineamenti molto familiari dalla letteratura rabbinica e da altri scritti di origine ebraica.L’esegesi neotestamentaria, nel desiderio di trovare il Gesù autentico, ha troppo spesso sottolineato solo ciò che è unico nel suo insegnamento e quindi tendenzialmente lo ha separato sia dal giudaismo del suo tempo che dalla Chiesa primitiva. Anche se questa operazione è metodologicamente necessaria in certi momenti, non ci dà il Gesù autentico, ma o un genio di creatività o una persona eccentrica (a seconda del proprio punto di vista), comunque un personaggio staccato dal suo ambiente.
Dall’altro lato, molti autori, e non solo ebrei, cercano di vedere Gesù esclusivamente nel suo contesto ebraico e attribuiscono quasi ogni conflitto con esso agli evangelisti o allo sviluppo della Chiesa primitiva. Tendenzialmente quindi in questa visione si vede Gesù solo come un ebreo pio, fondamentalmente leale e osservante, con forse qualche idea eccezionale(29).
Da un punto di vista storico non sembra che ci sia una soluzione facile a questo dilemma di un Gesù o totalmente separato o totalmente inglobato nel suo ambiente. Per questo anche da un punto di vista soltanto storico, è importante il dialogo costante fra queste due tendenze. Questo poi ha effetti non solo per lo studio di Gesù, ma anche per lo studio del giudaismo. Infatti, forse ancora timidamente, si sta facendo strada l’idea, espressa per esempio da Alan Segal, che né cristianesimo né giudaismo «possono essere compresi pienamente in isolamento l’uno dall’altro. La testimonianza dell’uno è necessaria per dimostrare la verità dell’altro e viceversa»(30).
L’interesse nel Gesù storico in questi ultimi anni sembra in continua crescita, sia fra cattolici e protestanti sia fra persone di altre fedi o convinzioni. Nel catalogo della Library of Congress dal 1975 in poi si riscontrano 66 titoli sotto la sola voce « Jesus Christ-Jewish Interpretations ». Quindi è impossibile tentare qui un quadro anche approssimativamente completo. Ma vorrei concludere questa rassegna con riferimento almeno a due volumi. Jacob Neusner, prendendo spunto da vari testi matteani, si propone di rispondere a Gesù, con rispetto, esprimendo il proprio dissenso(31). Per lui, il dialogo deve iniziare dal riconoscimento esplicito della alterità dell’altro. Non ha paura di mettere sul tavolo subito le differenze fra l’insegnamento di Gesù e quello dei rabbini, come egli le percepisce. A parte possibili critiche a punti particolari di questo libro divulgativo, può essere rinfrescante per il dialogo sottolineare non soltanto ciò che accomuna Gesù ad altri ebrei del suo e del nostro tempo ma anche ciò che lo differenzia da essi.
Un progetto che sarebbe stato considerato impossibile ancora pochi anni fa ha trovato espressione in un piccolo ma sostanzioso volume intitolato « Ebrei e cristiani parlano di Gesù »(32). Esso contiene i contributi di otto studiosi, ebrei e cristiani, a una serie di colloqui su questo tema, colloqui a cui secondo la prefazione hanno partecipato ogni volta circa mille persone. Quindi, almeno in alcuni ambienti, oggi è possibile parlare insieme di Gesù, senza remore o forzature, e senza falsi irenismi.Forse oggi possiamo riaffermare con convinzione che Gesù di Nazareth appartiene a ebrei e cristiani. La valutazione teologica su chi egli sia rimane naturalmente un fatto che ci divide. Però possiamo insieme riconoscere in lui un maestro e la vittima di un’oppressione. C’è una lunga tradizione ebraica, attualizzata in modo speciale durante la Shoah (la persecuzione nazista), che riconosce in Gesù un ebreo perseguitato: a volte dai cristiani stessi(33). Se in qualche modo possiamo fare nostra questa nozione, non solo riportiamo Gesù nel suo contesto ebraico ma la sofferenza che in passato troppo spesso ha diviso ebrei e cristiani, forse può diventare sempre più profondamente un elemento di solidarietà e un nuovo punto di partenza(34).

*Questa è una versione aggiornata di un articolo apparso precedentemente su Nuova Umanità 64/65 (luglio-ottobre 1989) 125-136 e, in forma abbreviata, su Unità e Carismi 6 (novembre/dicembre 1996) 33-38.

NOTE SUL SITO

Publié dans:DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO |on 24 avril, 2012 |Pas de commentaires »

Crescente fiducia e impegno comune per la pace La responsabilità particolare di ebrei e cattolici

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/text.html#4

(L’Osservatore Romano 16-17 gennaio 2012)

Crescente fiducia e impegno comune per la pace La responsabilità particolare di ebrei e cattolici

di NORBERT HOFMAN

Segretario della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo

Il 17 gennaio la Chiesa in Italia celebra come negli anni passati la « Giornata dell’Ebraismo », che offre un’opportunità particolare per ricordare le radici ebraiche della fede cristiana, per guardare con gratitudine al dialogo sistematico in corso con l’ebraismo dal concilio Vaticano II e per promuoverlo ulteriormente nella situazione attuale attraverso azioni concrete. La « Giornata dell’Ebraismo » è stata finora accolta dalle Conferenze episcopali di Austria, Polonia, Paesi Bassi e Svizzera; in altri Paesi si sta al momento riflettendo sull’opportunità di seguire questo esempio. Il presidente della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, il cardinale Kurt Koch, dietro incarico di Benedetto XVI , ha sollecitato alcuni Paesi, in cui ebrei e cattolici vivono fianco a fianco e sono in dialogo da molto tempo, a prendere in considerazione l’introduzione di tale giornata commemorativa.
Il dialogo ebraico-cattolico è iniziato in maniera sistematica dopo il concilio Vaticano II. La dichiarazione Nostra aetate (n. 4), che rappresenta il punto di partenza e il documento fondante di questo dialogo, fornisce tuttora un indispensabile orientamento per ogni sforzo volto all’avvicinamento e alla riconciliazione tra ebrei e cristiani. Nostra aetate fu promulgata il 28 ottobre del 1965 nell’aula conciliare; da allora, si è continuamente tentato di tradurre questo documento nella realtà concreta. Nel 1966, Papa Paolo VI decise che all’interno del Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani venisse istituito un ufficio incaricato di programmare e portare avanti il dialogo con l’ebraismo. Da parte ebraica, ci furono molti partner e organizzazioni che entrarono in contatto con la Santa Sede. Tuttavia, essendo impossibile allacciare un dialogo bilaterale con ognuno di loro, la Santa Sede suggerì che tutte le organizzazioni ebraiche interessate al dialogo si riunissero in un unico organismo che potesse essere riconosciuto come partner ufficiale. Così, nacque nel 1970 l’International Jewish Committee on Interreligious Consultations (Ijcic), che è tuttora il partner ufficiale nel dialogo ebraico-cattolico. A sua volta, la Santa Sede istituzionalizzò il dialogo tramite la creazione della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo il 22 ottobre del 1974. La prima conferenza a livello internazionale tra ebrei e cattolici si era comunque già tenuta nel 1971 a Parigi. Come tema, essa si era prefissata lo studio dei concetti di « Popolo e Paese » dal punto di vista della tradizione ebraica e della tradizione cattolica, come pure la promozione dei diritti umani e della libertà di religione. L’anno passato sono stati ricordati i quarant’anni di dialogo tra la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo e l’International Jewish Committee on Interreligious Consultations. In quest’arco di tempo, hanno avuto luogo complessivamente venti grandi conferenze in vari luoghi e su varie tematiche. La XXI riunione dell’International Catholic-Jewish Liaison Committee (Ilc) è stata una sessione commemorativa: dal 27 febbraio al 2 marzo 2011 i membri si sono nuovamente incontrati a Parigi per ricordare la storia comune e per individuare le prospettive future di questo dialogo (il tema era « Quarant’anni di dialogo: riflessioni e prospettive future »).
Nel suo discorso iniziale, il cardinale Kurt Koch ha accennato al carattere commemorativo della sessione: « Quarant’anni di dialogo istituzionalizzato non sono molti rispetto alla lunga storia del popolo ebraico e alla storia millenaria della Chiesa cattolica. Ma ciò che è successo in questi quarant’anni può essere realmente visto come un grande miracolo compiuto dallo Spirito Santo ». In cosa consiste questo « grande miracolo », egli lo ha spiegato di seguito: « In questi quarant’anni, a seguito dell’innovativa dichiarazione Nostra aetate (n. 4) del concilio Vaticano II quarantasei anni fa, le relazioni sono cambiate in maniera irreversibile non soltanto a nostro reciproco vantaggio ma anche – cosa importante – per il bene di tutti coloro che sono impegnati nella promozione del dialogo interreligioso. Ho l’impressione che in questi quarant’anni molti vecchi pregiudizi e inimicizie siano stati superati, la riconciliazione e la collaborazione siano cresciute e l’amicizia personale si sia approfondita ».
Difatti, l’incontro è stato contrassegnato da un’atmosfera di amicizia e di crescente fiducia, che costituisce la base di ogni dialogo. In una dichiarazione comune alla fine della conferenza, è stato fatto riferimento a questa base irrinunciabile e, al contempo, sono state menzionate le sfide comuni: « Uno dei risultati principali della conferenza è stato l’approfondimento delle relazioni personali e del desiderio comune di far fronte insieme alle enormi sfide davanti alle quali si trovano cattolici ed ebrei in un mondo in rapida e imprevedibile trasformazione. Si è inoltre riconosciuto il dovere religioso comune di contribuire all’alleviamento delle conseguenze mondiali della povertà, dell’ingiustizia, della discriminazione e della negazione dei diritti umani universali. I partecipanti sono stati particolarmente sensibili alla richiesta dei giovani di avere una reale libertà e una piena partecipazione nelle loro società ». Dal punto di vista teologico, ebrei e cristiani non hanno soltanto un ricco patrimonio comune, come viene espresso in Nostra aetate (n. 4), ma, partendo da questa base condivisa, possono promuovere valori comuni nella società, impegnarsi a favore dei diritti umani e collaborare nel campo sociale e umanitario. Durante l’incontro di Parigi, è stata sottolineata in questo contesto anche l’importanza della libertà religiosa e si è ribadita la convinzione comune che la violenza perpetrata in nome della religione non è conciliabile con l’idea che ebraismo e cristianesimo hanno di Dio: « In molte parti del mondo, le minoranze, soprattutto le minoranze religiose, sono oggetto di discriminazione, minacciate da ingiuste restrizioni della loro libertà religiosa e addirittura vittime di persecuzioni e uccisioni. I relatori hanno espresso profondo dolore davanti alle ripetute istanze di violenza e terrorismo « in nome di Dio », ivi compresi i sempre più numerosi attacchi contro i cristiani e gli appelli alla distruzione dello Stato di Israele. La conferenza deplora ogni atto di violenza perpetrato in nome della religione come totale corruzione della natura stessa di una genuina relazione con Dio ».
Queste affermazioni sono in linea con l’appello rivolto da Papa Benedetto XVI davanti ai partecipanti dell’incontro religioso di Assisi, il 27 ottobre 2011: « Mai più violenza! Mai più guerra! Mai più terrorismo! In nome di Dio ogni religione porti sulla terra giustizia e pace, perdono e vita, amore! ». Il dialogo con le altre religioni è volto a mantenere e diffondere la pace, a promuovere la giustizia e preservare il creato in un impegno comune. L’ebraismo, e insieme a lui il cristianesimo, non vuole soltanto la pace in questo mondo, ma vive anche della speranza nella pace messianica, come dice Isaia, 2, 3-4: « Verranno molti popoli e diranno: « Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri ». Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra ». La pace, dunque, come promessa della fine dei tempi, poiché i tempi odierni sono troppo spesso segnati da tensioni, violenze e guerre. L’ebraismo e il cristianesimo sono però chiamati in modo particolare a promuovere la pace già in questo mondo. E ciò essi lo devono fare insieme, poiché sono da sempre dipendenti l’uno dall’altro. L’allora cardinale Joseph Ratzinger ha sottolineato proprio questo strettissimo legame in un suo articolo comparso su « L’Osservatore Romano » il 29 dicembre del 2000: « È evidente che il dialogo di noi cristiani con gli ebrei si colloca su un piano diverso rispetto a quello con le altre religioni. La fede testimoniata nella Bibbia degli ebrei, l’Antico Testamento dei cristiani, per noi non è un’altra religione, ma il fondamento della nostra fede ».
Da questo rapporto particolare tra ebraismo e cristianesimo deriva, per il dialogo ebraico-cattolico, anche una responsabilità particolare, che consiste nell’impegnarsi insieme a favore della pace nel mondo, senza però perdere di vista la promessa di una pace che ci sarà donata alla fine dei tempi. Se ebrei e cristiani si fanno insieme promotori di pace, allora diventeranno una benedizione per il mondo intero. Nostra aetate è stata nel 1965 il punto di partenza del dialogo con l’ebraismo e, nel corso del secolo passato, ha continuato a influenzare le nostre relazioni nei loro molteplici sviluppi. Quando, nel marzo del 2011, sono stati commemorati a Parigi i quarant’anni di dialogo istituzionalizzato tra la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo e l’International Jewish Committee on Interreligious Consultations, la prima espressione di gratitudine è stata rivolta a Dio, onnipotente ed eterno, che tiene la sua mano protettiva e benedicente sopra questo dialogo e lo accompagna con il suo Spirito, conducendolo verso un futuro ricco di speranza.

Publié dans:DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO |on 3 février, 2012 |Pas de commentaires »

LA CULTURA GIUDAICO-CRISTIANA PUÒ SALVARE L’EUROPA E IL MONDO

http://www.zenit.org/article-28985?l=italian

LA CULTURA GIUDAICO-CRISTIANA PUÒ SALVARE L’EUROPA E IL MONDO

Conferenza di Lord Jonathan Sacks, alla Pontificia Università Gregoriana

di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 13 dicembre 2011 (ZENIT.org).- La cultura giudaico-cristiana può salvare l’Europa e il mondo.
Lo ha detto Lord Jonathan Sacks, rabbino capo delle Congregazioni Ebraiche Unite del Commonwealth, nel corso di una conferenza pubblica che si è svolta all’Università Pontificia Gregoriana, lunedì 12 dicembre.
Sacks ha spiegato che il sistema di libero mercato e dell’economia capitalistica è stato generato dalla cultura giudeo cristiana, per questo motivo il futuro economico, politico e culturale dell’Europa dipenderà dalla cura della propria anima e delle proprie radici religiose.
In merito alla relazione tra ebrei e cristiani, il rabbino capo ha ricordato che tutto è cambiato il 13 giugno 1960 quando lo storico ebreo francese Jules Isaac incontrò Giovanni XXIII.
A proposito del suo incontro in mattinata con il Pontefice Benedetto XVI, Lord Sacks ha detto che per mezzo secolo ebrei e cristiani hanno scelto un dialogo faccia a faccia. Ora il tempo è venuto il cui la collaborazione tra ebrei e cristiani venga attuata passo dopo passo.
“Ebrei e cristiani insieme – ha sottolineato – possono contrastare la secolarizzazione dell’Europa”.
Secondo Lord Sacks l’Europa sta perdendo la sue radici giudaico-cristiane, con conseguenze inimmaginabili nel campo della letteratura, dell’arte, della musica, dell’educazione, e della politica.
“Quando una civiltà perde la sua fede, perde il suo futuro. Quando recupererà la sua fede, recupera il suo futuro” ha sostenuto il rabbino capo
“Per il bene dei nostri figli, e i loro figli non ancora nati, – ha aggiunto – noi – ebrei e cristiani, fianco a fianco – dobbiamo rinnovare la nostra fede e la sua voce profetica. Dobbiamo aiutare l’Europa a ritrovare la sua anima”.
Per spiegare la peculiarietà culturale dell’Europa, il rabbino capo ha spiegato che il cuore della cultura sta nella religione, e questo è il motivo perchè l’Occidente si è distinto per sviluppo e progresso.
Lord Sacks ha ricordato che la Cina era tecnologicamente molto più avanzate dell’Occidente prima del XV secolo. I cinesi hanno inventato la bussola, la carta, la stampa, la polvere da sparo, la porcellana, le macchine per la filatura e la tessitura. Eppure non hanno mai sviluppato una economia di mercato, non hanno realizzato una rivoluzione industriale o una crescita economica sostenuta. Alla Cina è mancata l’eredità giudaico-cristiana.
A proposito del contributo giudaico alla cultura economica il rabbino ha rilevato che seppure gli ebrei, siano meno del 5% della popolazione del mondo, hanno vinto più del 30% per cento dei premi Nobel per l’economia tra cui John Von Neumann, Milton Friedman, Joseph Stiglitz, Daniel Kahneman e Amos Tversky.
“Il Giuseppe della Bibbia – ha suggerito – potrebbe essere stato primo economista del mondo, avendo scoperto la teoria dei cicli commerciali – sette anni di abbondanza seguiti da sette anni di vacche magre”.
“E Lo stato finanziario d’Europa – ha aggiunto – sarebbe molto meglio oggi se la gente conoscesse di più il contenuto e i passi della Bibbia”.
Per Lord Sacks la tradizione giudaico cristiana incarna dei valori fondamentali quali il profondo rispetto per la dignità della persona umana, conseguente al mandato biblico di “creato a immagine e somiglianza di Dio”.
E poi il rispetto per la proprietà privata, e il grande apprezzamento del lavoro. Dio infatti disse a Noè che si sarebbe salvato dalle acque, ma che doveva costruire l’Arca.
In questo contesto la creazione di posti di lavoro è la più alta forma di carità perchè fornisce alle persone la dignità e la libertà di non essere a carico di qualcun altro.
“Nel giudaismo – ha sottolineato il rabbino capo – c’è una positiva attitudine a creare ricchezza, che risponde alla collaborazione con l’opera creatrice di Dio”.
“Per il giudaismo – ha aggiunto- la caratteristica più importante del libero mercato è la capacità di alleviare gli effetti negativi della povertà”.
“La scuola rabbinica – ha spiegato Lord Sacks – è favorevole al libero mercato ed alla concorrenza perchè genera ricchezza, prezzi più bassi, dilata la libertà di scelta, ha ridotto i livelli di povertà, estende la cura dell’ambiente da parte dell’umanità, restringe la misura in cui siamo vittime passive delle circostanze e del destino. In questo modo la libera concorrenza libera energie creative e serve il bene comune”.
Per questi motivi l’economia di mercato e il capitalismo moderno sono emersi in una cultura giudaico-cristiana. In questo modo l’Europa ha sviluppato la propria cultura e la propria spiritualità in maniera mirabile e l’etica religiosa è stata una delle forze trainanti di questa nuova forma di creazione di ricchezza.
Lord Sacks ha continuato affermando che nella Bibbia si trova la struttura della legislazione sociale, con le misure di aiuto ai poveri, i debiti cancellati, gli schiavi liberati l’anno giubilare in cui la terra viene restituita ai proprietari originari..
“Nella Bibbia – ha precisato – si trova un sistema sociale altamente sofisticato, in cui si afferma che i poveri devono disporre dei mezzi di sostentamento, e che ogni sette o più anni la terra e le ricchezze vengono ridistribuite per correggere gli squilibri del mercato e stabilire una pari equità”.
Il rabbino capo ha concluso affermando che “È giunto il momento di recuperare un’etica della dignità umana fatta a immagine di Dio. Quando l’Europa recupererà la sua anima, recupererà la sua ricchezza. Ma prima si deve ricordare che l’umanità non è stato creato per servire i mercati. I mercati sono stati creati per servire l’umanità”.

Publié dans:DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO |on 26 janvier, 2012 |Pas de commentaires »

« TUTTI SAREMO TRASFORMATI DALLA VITTORIA DI GESÙ CRISTO, NOSTRO SIGNORE »

http://www.zenit.org/article-29313?l=italian

« TUTTI SAREMO TRASFORMATI DALLA VITTORIA DI GESÙ CRISTO, NOSTRO SIGNORE »

Messaggio della CEI per la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani

ROMA, venerdì, 20 gennaio 2012 (ZENIT.org).- Riprendiamo la dichiarazione congiunta usata come messaggio per la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, che si svolge dal 18 al 25 gennaio 2012. Il documento è firmato da monsignor Mansueto Bianchi, vescovo di Pistoia e presidente della Commissione Episcopale per l’Ecumenismo e il Dialogo della CEI, dal pastore metodista Massimo Aquilante, presidente della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, e dal metropolita Gennadios, arcivescovo ortodosso d’Italia e di Malta ed Esarca per l’Europa Meridionale.
***
« Tutti saremo trasformati dalla vittoria di Gesù Cristo, nostro Signore »
(cfr. 1 Cor 15, 51-58)
18-25 gennaio 2012
Presentazione
La preghiera è una realtà potente nella vita di un cristiano. La preghiera è trasformante. Quando i cristiani comprendono il valore e l’efficacia della preghiera in comune per l’unità di quanti credono in Cristo, essi cominciano ad essere trasformati in ciò per cui stanno pregando.
Quest’anno i cristiani in Polonia hanno offerto alla nostra meditazione la loro esperienza di trasformazione e di preghiera. La trasformazione a cui si riferiscono è compresa nella sua profondità solo nella resurrezione di Gesù. Ogni cristiano battezzato nella morte e resurrezione di Cristo comincia un cammino di trasformazione. Morendo al peccato e alle forze del male, i battezzati cominciano a vivere una vita di grazia. Questa vita di grazia permette loro di sperimentare concretamente la potenza della resurrezione di Gesù, e l’apostolo Paolo li esorta: « [ …l siate saldi, incrollabili. Impegnatevi sempre più nell’opera del Signore, sapendo che, grazie al Signore, il vostro lavoro non va perduto » (l Cor 15,58).
Qual è, dunque, l’opera del Signore? Non è forse l’edificazione del Regno di giustizia e di pace? Non è forse la vittoria sulle forze del peccato e sulle tenebre per la potenza dell’amore e della luce della verità? Nella vittoria Gesù Cristo nostro Signore, a tutti i cristiani viene data la capacità di indossare le armi della verità e dell’amore e di superare tutti gli ostacoli che impediscono la testimonianza del Regno di Dio. Nonostante ciò, un ostacolo permane, e può impedirci di portare a termine il nostro compito. È l’ostacolo della divisione e della mancanza di unità fra i cristiani. Come può il messaggio del vangelo risuonare autentico se non proclamiamo e non celebriamo insieme la Parola che dà la vita? Come può il vangelo convincere il mondo della propria intrinseca verità, se noi, che siamo gli annunciatori di questo vangelo, non viviamo la koinonia nel corpo di Cristo?
La preghiera per l’unità, dunque, non è un accessorio opzionale della vita cristiana, ma, al contrario, ne è il cuore. L’ultimo comandamento che il Signore ci ha lasciato prima di completare la sua offerta redentiva sulla croce, è stato quello della comunione fra i suoi discepoli, della loro unità come Lui e il Padre sono uno, perché il mondo creda. Era la sua volontà e il suo comandamento per noi, perché realizzassimo quell’immagine in cui siamo plasmati, quella comunione di amore che spira fra le Persone della Trinità e che li rende Uno. Per questo motivo la realizzazione della preghiera di Gesù per l’unità è una grande responsabilità di tutti i battezzati.
L’unità dei cristiani è un dono di Dio; la preghiera ci prepara a ricevere questo dono e ad essere trasformati in ciò per cui preghiamo. Nel presentare questo testo di preghiera per l’unità di tutti i cristiani, ne raccomandiamo l’utilizzo; incoraggiamo la creatività dei pastori e dei fedeli nel porre nuovo vigore non solo nel pregare per l’unità, ma anche nel procedere, passo dopo passo, verso quella trasformazione che sarà operata dalla preghiera. Lasciamo che il nuovo anno ci trovi più aperti, come individui e come comunità, alla potenza del mistero della morte salvifica di Cristo.

Chiesa Cattolica
+ Mons. Mansueto Bianchi
Vescovo di Pistoia
Presidente, Commissione Episcopale per l’Ecumenismo e il Dialogo della CEI
Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia
Pastore Massimo Aquilante
Pastore Metodista, Presidente
Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia e di Malta
ed Esarcato per l’Europa Meridionale
+ Metropolita Gennadios
Arcivescovo Ortodosso d’Italia e di Malta
ed Esarca per l’Europa Meridionale

Publié dans:DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO |on 23 janvier, 2012 |Pas de commentaires »
12

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01