LA VERITÀ NON È MAI SOLO TEORICA – DA RATISBONA AL COLLÈGE DES BERNARDINS…
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DA RATISBONA AL COLLÈGE DES BERNARDINS IL RAPPORTO TRA FEDE E RAGIONE (GUARDANDO A ORIENTE)
LA VERITÀ NON È MAI SOLO TEORICA
Si chiude domenica 18 nella Villa Ambiveri a Seriate (Bergamo), il convegno internazionale « Cercatori dell’eterno, creatori di civiltà. Il monachesimo tra Oriente e Occidente », organizzato dalla Fondazione Russia Cristiana. Pubblichiamo un ampio estratto di una delle relazioni.
di Adriano Dell’Asta
« Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio »: è una delle affermazioni più ripetute e appassionate della lezione di Benedetto XVI a Ratisbona, perché dalla separazione tra fede e ragione, come ha dimostrato la storia, nascono le condizioni per la distruzione dell’umano nella sua pienezza. Può essere l’idea di un Dio capace di disfarsi del Lògos e di agire senza o contro il Lògos, idea che ha cominciato a farsi strada addirittura tra i cristiani stessi, in forme di volontarismo poi sfociate in un vero e proprio irrazionalismo; può essere l’idea di un uomo che pretende di chiudersi a qualsiasi questione legata all’eterno e all’universale e di poter separare così la ragione da qualsiasi problematica che non sia nettamente utilitaristica. Quale che sia il polo privilegiato in questa separazione, la fede o la ragione, il suo esito resta sempre lo stesso: la distruzione dell’umano, umiliato nella sua ragione, che per aver voluto emanciparsi da Dio si è autolimitata « a ciò che è verificabile nell’esperimento », e offeso nella sua fede, che per aver voluto preservare la purezza del divino, spingendolo « lontano da noi in un volontarismo puro e impenetrabile », ha finito col rendersi da sé estranea all’umano e incapace di dirgli alcunché.
Da quando l’uomo ha proclamato razionalmente insignificanti « gli interrogativi fondamentali della sua ragione », cioè le domande sulla verità e sul senso, l’esito inevitabile di questa avversione è stata la dissoluzione dell’immagine dell’uomo; e questo rischio è presente anche oggi, quando l’uomo, dopo la fine dei totalitarismi, è attaccato da quelle che Benedetto XVI ha chiamato « le patologie minacciose della religione e della ragione », la violenza fondamentalista e il nichilismo ateo.
Non si può non essere colpiti dalle somiglianze che avvicinano questo quadro a quello tracciato da Solov’ëv nella sua Crisi della filosofia occidentale; pur in un contesto completamente diverso, senza avere alle spalle un’esperienza tragica come quella del XX secolo, anche il grande filosofo russo constata che il principio razionale e quello materiale, quando pretendono di emanciparsi da Dio e di potersi affermare in solitudine, l’uno contro l’altro, finiscono di fatto per autonegarsi, abbandonando l’uomo e il mondo all’insensatezza, con una ragione, quella idealista, che finisce per diventare un principio materiale quando attribuisce un’esistenza reale ai concetti, e una realtà, quella materialista, che finisce per diventare un principio logico quando per dare alla materia un valore assoluto la si trasforma nell’idea di materia.
Ancora va notato come questa argomentazione in Solov’ëv non sia affatto antimoderna, essendo anzi caratterizzata da un grande rispetto per la filosofia e la scienza occidentali. In questo senso, invece di contrapporsi, ragione e fede trovano proprio nel cristianesimo, e più precisamente in Cristo, la loro autentica verità e, addirittura, cercando di spiegare il proprio ritorno alla fede, Solov’ëv lo motiva proprio in nome delle esigenze della ragione. Se si respinge la pretesa della ragione di potersi disfare della fede non è per difendere la fede ma anzi proprio per salvare la ragione e renderla conforme alla sua vocazione; non diverso è il desiderio che manifesta Benedetto XVI quando ricorda che lo scopo cui mira la sua ricostruzione del rapporto tra ragione e fede non è certo una negazione della ragione moderna ma piuttosto « un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa ».
Un altro elemento dal quale non si può non essere colpiti è allora il fatto che questo discorso, oltre a non essere antimoderno, è pronunciato da cristiani che non giudicano e non condannano, ma che si fanno corresponsabili di quello che può succedere quando la grandezza dell’uomo non viene educata a cogliere la propria origine e l’uomo stesso si crede padrone della verità. Non deve passare inosservato a questo proposito che Benedetto XVI inizia la sua critica della ragione moderna denunciando « il volontarismo puro e impenetrabile » che era nato nell’ambito della teologia cristiana del tardo medioevo e che aveva fatto dell’uomo e della sua ragione un gioco da nulla a cospetto della volontà di Dio e dell’arbitrio dei suoi interpreti; quando questa presunzione ha la meglio, la Chiesa diventa una torre d’avorio, anch’essa « pura e impenetrabile », che non solo non ha più niente da dire al mondo, ma lo condanna alla perdizione. « L’ideale della perfezione senza grazia porta al nichilismo », aveva detto Berdjaev in un testo scritto subito dopo la rivoluzione del 1917 e di questo nichilismo erano certo colpevoli i rivoluzionari, ma non erano innocenti neppure tutti coloro che avevano voluto preservare la purezza divina dalle miserie terrene, e così non avevano saputo educare quella sete di assoluto e di giustizia che essendo rimasta senza risposta aveva poi portato alla rivoluzione o non aveva saputo farvi fronte.
Il dovere del pentimento che a questo punto interpella tutti non significa certo un appiattimento e un’equiparazione delle colpe e delle responsabilità, e non implica neppure la rinuncia a dire la verità e a dare un giudizio preciso sui diversi livelli di responsabilità: semplicemente la verità non è più un discorso astratto di cui si possa essere creatori e padroni, ma qualcosa cui si deve rispondere, di cui si è responsabili e custodi.
Il tema della custodia della verità è esattamente quello col quale si apre il discorso di Benedetto XVI alla Sapienza, là dove egli si presenta in maniera sofferta come il pastore, « l’uomo che si prende cura » della comunità, « del giusto cammino e della coesione dell’insieme », conservando « unita » la comunità umana e « mantenendola sulla via verso Dio ».
Innanzitutto va notato che la verità di cui Benedetto XVI si presenta custode non è il prodotto di un’elaborazione teorica; più precisamente, dice il Papa, « la verità non è mai soltanto teorica », ma un’esperienza. Il Papa, infatti, « parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità ». Questa esperienza è appunto l’esperienza di un cammino, ma di un cammino del tutto particolare, perché la via sulla quale l’uomo cammina è nello stesso tempo Colui verso il quale si cammina. Questa verità è allora l’esperienza della vita con Colui verso il quale si cammina e in Colui nel quale si cammina: vita con Cristo e in Cristo, comunione con una Verità che, essendosi fatta « amica degli uomini », è Buona.
Centrale in questo discorso sull’esperienza della verità è la continua articolazione tra la certezza della verità di cui ci si sente addirittura custodi e l’esigenza di un’inesausta ricerca di questa stessa verità, che nessuna risposta singola può mai soddisfare: l’uomo è in un cammino che non ha mai fine, ma come Benedetto XVI dirà al Collège des Bernardins, per il cristiano questa ricerca non è mai « una spedizione in un deserto senza strade ». Ciò che permette di superare la contraddizione apparentemente insormontabile tra la ricerca e l’esperienza della verità è appunto questo Cristo che si fa compagnia e via per gli uomini.
Nella nostra ricerca di contatti con l’esperienza russa, a questo punto dobbiamo ancora una volta richiamare la figura di Solov’ëv che in una delle sue primissime opere presenta proprio questa formula calcedoniana del « senza confusione e senza separazione » come lo strumento capace di far superare i vicoli ciechi del pensiero (in questo caso particolare parla dell’opposizione kantiana tra fenomeno e cosa in sé). Al di là della coincidenza immediata, v’è un’altra cosa da segnalare ed è che Solov’ëv definisce questa soluzione la « via regale » della conoscenza. « Via regale » è un’espressione strana, che potrebbe sembrare addirittura inappropriata se non fosse che richiama le porte regali dell’iconostasi, attraverso le quali ci vengono incontro il vangelo, l’eucaristia e cioè quel Cristo che è via e meta del nostro cercare, e se non fosse soprattutto che « via regale » è un’espressione entrata nella tradizione cristiana per definire propriamente la vita monastica e la sua caratteristica precipua, che è quella di portare la ricerca dell’uomo a superare la dissipazione di chi non sa cosa cercare per indurlo a unirsi a Dio solo. È dunque evidente che utilizzando questo termine Solov’ëv esprime l’idea molto precisa secondo cui l’uomo che vuole conoscere la realtà in tutte le sue sfaccettature ma senza dissipazioni, vizi, eccessi, fantasie o vani pensieri – in una parola, con una continua ricerca che però ha una meta precisa e sicura – deve seguire non la via privata, tortuosa e pericolosa delle proprie opinioni, ma quella già tracciata che porta direttamente al Signore della realtà e che nella sua signoria ritrova tutto. Al di là di una contrapposizione senza pace abbiamo così l’esperienza di un’unità nella quale nulla va perduto: un’unità che parte da quella di fede e ragione per estendersi a tutte le sfere dell’essere.
La suggestione della via regale di Solov’ëv ci spinge a sua volta verso il terzo discorso di Benedetto XVI; la conoscenza integrale richiama infatti in russo la celomudrie, termine che letteralmente equivale a « sapienza integrale » ma che significa « verginità » e che dunque, normalmente, indica proprio una delle caratteristiche principali di quella vita monastica cui è dedicato il terzo discorso del Papa.
Il discorso si apre sottolineando che se i monaci seppero salvare la cultura antica e crearne una nuova non era però questo il loro scopo; non meno sottolineata è l’affermazione secondo cui il cristianesimo non è « una religione del libro ». A questa duplice insistenza sulla posizione subalterna della cultura pare contrapporsi un’altra serie di affermazioni altrettanto reiterate circa il valore della « formazione della ragione », dell’ »erudizione » e persino della « grammatica » come strumenti senza i quali sarebbe stato impossibile « percepire, in mezzo alle parole, la Parola ». Allo stesso modo si insiste sul valore dell’interpretazione. Littera gesta docet, quid credas allegoria, si dice citando un vecchio adagio (« la lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria »). Abbiamo così l’apparente paradosso di una ragione che, mentre viene subordinata alla fede, viene anche immediatamente mostrata come indispensabile per la piena comprensione dei contenuti dell’esperienza di fede. Ovviamente tutto questo può sembrare paradossale solo se non si è seguito sin qui il percorso di Benedetto XVI che ha mostrato come l’opposizione di fede e ragione sia esiziale per l’uomo e come questa opposizione sia possibile solo là dove si ha a che fare con una fede o una ragione snaturate, cioè solo là dove si parla di una fede la cui verità viene intesa come una violenta imposizione che nega la ragione, e solo là dove si parla di una ragione la cui libertà viene intesa come l’arbitrio della soggettività.
Completamente diversa è la prospettiva aperta da Benedetto XVI quando spiega che, se « la lettera uccide » e v’è quindi bisogno dello Spirito, questo Spirito è propriamente « lo Spirito del Signore », cioè Cristo, così che la vera interpretazione, lungi dall’essere arbitraria, è quella caratterizzata da « un legame superiore a quello della lettera: il legame dell’intelletto e dell’amore »: la vera interpretazione, così come si era detto per l’esperienza della verità, è quella che si ha stando con Cristo e camminando sulla strada che Lui stesso è: l’eterno che è entrato nel tempo, il mistero indicibile che si è fatto carne visibile, dicibile, ragionevole, il Verbo fatto carne. È solo un simile Dio che merita di essere annunciato, perché, precisa Benedetto XVI, « un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio », mentre « la novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos ». Il fatto è ragionevole, ma la ragione deve avere l’umiltà di accoglierlo e non pretendere di esserne la creatrice e padrona: così si apre uno spazio di libertà che non è quello dell’arbitrio e della mancanza di legami, ma, come si è visto, quello dell’amore.
Anche questo tema dell’annuncio, della sua credibilità e, ancor più della sua possibilità (come in fondo della possibilità di ogni comunicazione), può ricevere una particolare luce dall’esperienza della Russia del XX secolo. Il trionfo della verità ideologica e i milioni di morti che questa verità ha prodotto nelle due esperienze totalitarie sembrano aver reso impossibile e persino inaccettabile non solo qualsiasi annuncio della verità, ma anche qualsiasi discorso sulla verità, alla quale viene rimproverata appunto una pretesa di dominio sulla realtà che è diventata poi nei regimi totalitari la distruzione della realtà stessa.
Questa pretesa di dominio è stata così totalizzante e distruttiva che il male derivatone sembra non avere altra alternativa se non quella della rinuncia altrettanto totale a qualsiasi verità. Quando Adorno pronuncia il suo famoso aforisma sull’impossibilità di scrivere ancora poesia dopo Auschwitz è condizionato appunto dall’apparente insuperabilità di questa alternativa: di fronte alle esperienze estreme del XX secolo, di fronte al dolore e alla « morte atroce », qualsiasi forma (estetica o altro non fa differenza) pare un oltraggio alla sofferenza, come una sorta di pretesa di togliere lo scandalo dell’indicibile dicendolo e mettendolo così a nostra disposizione. Dietro questa paura si cela in realtà una nuova forma di iconoclastia in quanto si finisce ancora una volta col negare che attraverso il finito possa mostrarsi l’infinito.
A questa contestazione della possibilità di dire la verità, mai così radicale dai tempi appunto dell’iconoclastia, l’esperienza dei campi di concentramento, per come è stata narrata dalla grande letteratura russa ha dato una risposta altrettanto radicale: il secolo lupo ha detto che gli uomini potevano restare uomini; è stato detto l’indicibile, cioè che l’uomo ha dentro di sé qualcosa di infinito e irriducibile, persino là dove tutto sembrava dovesse finire e dove sembrava che si fosse realizzata la riduzione più totale dell’uomo stesso. Ma l’indicibile che è stato detto non è stato creato dall’uomo, in una nuova forma di dominio ideologico, come teme Adorno che non sa concepire un’interpretazione libera ma non arbitraria o una verità incontrovertibile ma non totalitaria: questo indicibile, che definisce l’uomo in ciò che gli è maggiormente proprio, è qualcosa che l’uomo non poteva neppure immaginare. Come l’interpretazione autentica è possibile non sostituendo o annullando il mistero ma affidandosi a esso, così l’arte è questo dare spazio all’infinito e al mistero che rende le cose degne di essere guardate; l’arte è « l’immortalità della vita », diceva Salamov.
(L’Osservatore Romano 18 ottobre 2009)