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LA VERITÀ NON È MAI SOLO TEORICA – DA RATISBONA AL COLLÈGE DES BERNARDINS…

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DA RATISBONA AL COLLÈGE DES BERNARDINS IL RAPPORTO TRA FEDE E RAGIONE (GUARDANDO A ORIENTE)

LA VERITÀ NON È MAI SOLO TEORICA

Si chiude domenica 18 nella Villa Ambiveri a Seriate (Bergamo), il convegno internazionale « Cercatori dell’eterno, creatori di civiltà. Il monachesimo tra Oriente e Occidente », organizzato dalla Fondazione Russia Cristiana. Pubblichiamo un ampio estratto di una delle relazioni.

di Adriano Dell’Asta

« Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio »: è una delle affermazioni più ripetute e appassionate della lezione di Benedetto XVI a Ratisbona, perché dalla separazione tra fede e ragione, come ha dimostrato la storia, nascono le condizioni per la distruzione dell’umano nella sua pienezza. Può essere l’idea di un Dio capace di disfarsi del Lògos e di agire senza o contro il Lògos, idea che ha cominciato a farsi strada addirittura tra i cristiani stessi, in forme di volontarismo poi sfociate in un vero e proprio irrazionalismo; può essere l’idea di un uomo che pretende di chiudersi a qualsiasi questione legata all’eterno e all’universale e di poter separare così la ragione da qualsiasi problematica che non sia nettamente utilitaristica. Quale che sia il polo privilegiato in questa separazione, la fede o la ragione, il suo esito resta sempre lo stesso: la distruzione dell’umano, umiliato nella sua ragione, che per aver voluto emanciparsi da Dio si è autolimitata « a ciò che è verificabile nell’esperimento », e offeso nella sua fede, che per aver voluto preservare la purezza del divino, spingendolo « lontano da noi in un volontarismo puro e impenetrabile », ha finito col rendersi da sé estranea all’umano e incapace di dirgli alcunché.
Da quando l’uomo ha proclamato razionalmente insignificanti « gli interrogativi fondamentali della sua ragione », cioè le domande sulla verità e sul senso, l’esito inevitabile di questa avversione è stata la dissoluzione dell’immagine dell’uomo; e questo rischio è presente anche oggi, quando l’uomo, dopo la fine dei totalitarismi, è attaccato da quelle che Benedetto XVI ha chiamato « le patologie minacciose della religione e della ragione », la violenza fondamentalista e il nichilismo ateo.
Non si può non essere colpiti dalle somiglianze che avvicinano questo quadro a quello tracciato da Solov’ëv nella sua Crisi della filosofia occidentale; pur in un contesto completamente diverso, senza avere alle spalle un’esperienza tragica come quella del XX secolo, anche il grande filosofo russo constata che il principio razionale e quello materiale, quando pretendono di emanciparsi da Dio e di potersi affermare in solitudine, l’uno contro l’altro, finiscono di fatto per autonegarsi, abbandonando l’uomo e il mondo all’insensatezza, con una ragione, quella idealista, che finisce per diventare un principio materiale quando attribuisce un’esistenza reale ai concetti, e una realtà, quella materialista, che finisce per diventare un principio logico quando per dare alla materia un valore assoluto la si trasforma nell’idea di materia.
Ancora va notato come questa argomentazione in Solov’ëv non sia affatto antimoderna, essendo anzi caratterizzata da un grande rispetto per la filosofia e la scienza occidentali. In questo senso, invece di contrapporsi, ragione e fede trovano proprio nel cristianesimo, e più precisamente in Cristo, la loro autentica verità e, addirittura, cercando di spiegare il proprio ritorno alla fede, Solov’ëv lo motiva proprio in nome delle esigenze della ragione. Se si respinge la pretesa della ragione di potersi disfare della fede non è per difendere la fede ma anzi proprio per salvare la ragione e renderla conforme alla sua vocazione; non diverso è il desiderio che manifesta Benedetto XVI quando ricorda che lo scopo cui mira la sua ricostruzione del rapporto tra ragione e fede non è certo una negazione della ragione moderna ma piuttosto « un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa ».
Un altro elemento dal quale non si può non essere colpiti è allora il fatto che questo discorso, oltre a non essere antimoderno, è pronunciato da cristiani che non giudicano e non condannano, ma che si fanno corresponsabili di quello che può succedere quando la grandezza dell’uomo non viene educata a cogliere la propria origine e l’uomo stesso si crede padrone della verità. Non deve passare inosservato a questo proposito che Benedetto XVI inizia la sua critica della ragione moderna denunciando « il volontarismo puro e impenetrabile » che era nato nell’ambito della teologia cristiana del tardo medioevo e che aveva fatto dell’uomo e della sua ragione un gioco da nulla a cospetto della volontà di Dio e dell’arbitrio dei suoi interpreti; quando questa presunzione ha la meglio, la Chiesa diventa una torre d’avorio, anch’essa « pura e impenetrabile », che non solo non ha più niente da dire al mondo, ma lo condanna alla perdizione. « L’ideale della perfezione senza grazia porta al nichilismo », aveva detto Berdjaev in un testo scritto subito dopo la rivoluzione del 1917 e di questo nichilismo erano certo colpevoli i rivoluzionari, ma non erano innocenti neppure tutti coloro che avevano voluto preservare la purezza divina dalle miserie terrene, e così non avevano saputo educare quella sete di assoluto e di giustizia che essendo rimasta senza risposta aveva poi portato alla rivoluzione o non aveva saputo farvi fronte.
Il dovere del pentimento che a questo punto interpella tutti non significa certo un appiattimento e un’equiparazione delle colpe e delle responsabilità, e non implica neppure la rinuncia a dire la verità e a dare un giudizio preciso sui diversi livelli di responsabilità: semplicemente la verità non è più un discorso astratto di cui si possa essere creatori e padroni, ma qualcosa cui si deve rispondere, di cui si è responsabili e custodi.
Il tema della custodia della verità è esattamente quello col quale si apre il discorso di Benedetto XVI alla Sapienza, là dove egli si presenta in maniera sofferta come il pastore, « l’uomo che si prende cura » della comunità, « del giusto cammino e della coesione dell’insieme », conservando « unita » la comunità umana e « mantenendola sulla via verso Dio ».
Innanzitutto va notato che la verità di cui Benedetto XVI si presenta custode non è il prodotto di un’elaborazione teorica; più precisamente, dice il Papa, « la verità non è mai soltanto teorica », ma un’esperienza. Il Papa, infatti, « parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità ». Questa esperienza è appunto l’esperienza di un cammino, ma di un cammino del tutto particolare, perché la via sulla quale l’uomo cammina è nello stesso tempo Colui verso il quale si cammina. Questa verità è allora l’esperienza della vita con Colui verso il quale si cammina e in Colui nel quale si cammina: vita con Cristo e in Cristo, comunione con una Verità che, essendosi fatta « amica degli uomini », è Buona.
Centrale in questo discorso sull’esperienza della verità è la continua articolazione tra la certezza della verità di cui ci si sente addirittura custodi e l’esigenza di un’inesausta ricerca di questa stessa verità, che nessuna risposta singola può mai soddisfare: l’uomo è in un cammino che non ha mai fine, ma come Benedetto XVI dirà al Collège des Bernardins, per il cristiano questa ricerca non è mai « una spedizione in un deserto senza strade ». Ciò che permette di superare la contraddizione apparentemente insormontabile tra la ricerca e l’esperienza della verità è appunto questo Cristo che si fa compagnia e via per gli uomini.
Nella nostra ricerca di contatti con l’esperienza russa, a questo punto dobbiamo ancora una volta richiamare la figura di Solov’ëv che in una delle sue primissime opere presenta proprio questa formula calcedoniana del « senza confusione e senza separazione » come lo strumento capace di far superare i vicoli ciechi del pensiero (in questo caso particolare parla dell’opposizione kantiana tra fenomeno e cosa in sé). Al di là della coincidenza immediata, v’è un’altra cosa da segnalare ed è che Solov’ëv definisce questa soluzione la « via regale » della conoscenza. « Via regale » è un’espressione strana, che potrebbe sembrare addirittura inappropriata se non fosse che richiama le porte regali dell’iconostasi, attraverso le quali ci vengono incontro il vangelo, l’eucaristia e cioè quel Cristo che è via e meta del nostro cercare, e se non fosse soprattutto che « via regale » è un’espressione entrata nella tradizione cristiana per definire propriamente la vita monastica e la sua caratteristica precipua, che è quella di portare la ricerca dell’uomo a superare la dissipazione di chi non sa cosa cercare per indurlo a unirsi a Dio solo. È dunque evidente che utilizzando questo termine Solov’ëv esprime l’idea molto precisa secondo cui l’uomo che vuole conoscere la realtà in tutte le sue sfaccettature ma senza dissipazioni, vizi, eccessi, fantasie o vani pensieri – in una parola, con una continua ricerca che però ha una meta precisa e sicura – deve seguire non la via privata, tortuosa e pericolosa delle proprie opinioni, ma quella già tracciata che porta direttamente al Signore della realtà e che nella sua signoria ritrova tutto. Al di là di una contrapposizione senza pace abbiamo così l’esperienza di un’unità nella quale nulla va perduto: un’unità che parte da quella di fede e ragione per estendersi a tutte le sfere dell’essere.
La suggestione della via regale di Solov’ëv ci spinge a sua volta verso il terzo discorso di Benedetto XVI; la conoscenza integrale richiama infatti in russo la celomudrie, termine che letteralmente equivale a « sapienza integrale » ma che significa « verginità » e che dunque, normalmente, indica proprio una delle caratteristiche principali di quella vita monastica cui è dedicato il terzo discorso del Papa.
Il discorso si apre sottolineando che se i monaci seppero salvare la cultura antica e crearne una nuova non era però questo il loro scopo; non meno sottolineata è l’affermazione secondo cui il cristianesimo non è « una religione del libro ». A questa duplice insistenza sulla posizione subalterna della cultura pare contrapporsi un’altra serie di affermazioni altrettanto reiterate circa il valore della « formazione della ragione », dell’ »erudizione » e persino della « grammatica » come strumenti senza i quali sarebbe stato impossibile « percepire, in mezzo alle parole, la Parola ». Allo stesso modo si insiste sul valore dell’interpretazione. Littera gesta docet, quid credas allegoria, si dice citando un vecchio adagio (« la lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria »). Abbiamo così l’apparente paradosso di una ragione che, mentre viene subordinata alla fede, viene anche immediatamente mostrata come indispensabile per la piena comprensione dei contenuti dell’esperienza di fede. Ovviamente tutto questo può sembrare paradossale solo se non si è seguito sin qui il percorso di Benedetto XVI che ha mostrato come l’opposizione di fede e ragione sia esiziale per l’uomo e come questa opposizione sia possibile solo là dove si ha a che fare con una fede o una ragione snaturate, cioè solo là dove si parla di una fede la cui verità viene intesa come una violenta imposizione che nega la ragione, e solo là dove si parla di una ragione la cui libertà viene intesa come l’arbitrio della soggettività.
Completamente diversa è la prospettiva aperta da Benedetto XVI quando spiega che, se « la lettera uccide » e v’è quindi bisogno dello Spirito, questo Spirito è propriamente « lo Spirito del Signore », cioè Cristo, così che la vera interpretazione, lungi dall’essere arbitraria, è quella caratterizzata da « un legame superiore a quello della lettera: il legame dell’intelletto e dell’amore »: la vera interpretazione, così come si era detto per l’esperienza della verità, è quella che si ha stando con Cristo e camminando sulla strada che Lui stesso è: l’eterno che è entrato nel tempo, il mistero indicibile che si è fatto carne visibile, dicibile, ragionevole, il Verbo fatto carne. È solo un simile Dio che merita di essere annunciato, perché, precisa Benedetto XVI, « un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio », mentre « la novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos ». Il fatto è ragionevole, ma la ragione deve avere l’umiltà di accoglierlo e non pretendere di esserne la creatrice e padrona: così si apre uno spazio di libertà che non è quello dell’arbitrio e della mancanza di legami, ma, come si è visto, quello dell’amore.
Anche questo tema dell’annuncio, della sua credibilità e, ancor più della sua possibilità (come in fondo della possibilità di ogni comunicazione), può ricevere una particolare luce dall’esperienza della Russia del XX secolo. Il trionfo della verità ideologica e i milioni di morti che questa verità ha prodotto nelle due esperienze totalitarie sembrano aver reso impossibile e persino inaccettabile non solo qualsiasi annuncio della verità, ma anche qualsiasi discorso sulla verità, alla quale viene rimproverata appunto una pretesa di dominio sulla realtà che è diventata poi nei regimi totalitari la distruzione della realtà stessa.
Questa pretesa di dominio è stata così totalizzante e distruttiva che il male derivatone sembra non avere altra alternativa se non quella della rinuncia altrettanto totale a qualsiasi verità. Quando Adorno pronuncia il suo famoso aforisma sull’impossibilità di scrivere ancora poesia dopo Auschwitz è condizionato appunto dall’apparente insuperabilità di questa alternativa: di fronte alle esperienze estreme del XX secolo, di fronte al dolore e alla « morte atroce », qualsiasi forma (estetica o altro non fa differenza) pare un oltraggio alla sofferenza, come una sorta di pretesa di togliere lo scandalo dell’indicibile dicendolo e mettendolo così a nostra disposizione. Dietro questa paura si cela in realtà una nuova forma di iconoclastia in quanto si finisce ancora una volta col negare che attraverso il finito possa mostrarsi l’infinito.
A questa contestazione della possibilità di dire la verità, mai così radicale dai tempi appunto dell’iconoclastia, l’esperienza dei campi di concentramento, per come è stata narrata dalla grande letteratura russa ha dato una risposta altrettanto radicale: il secolo lupo ha detto che gli uomini potevano restare uomini; è stato detto l’indicibile, cioè che l’uomo ha dentro di sé qualcosa di infinito e irriducibile, persino là dove tutto sembrava dovesse finire e dove sembrava che si fosse realizzata la riduzione più totale dell’uomo stesso. Ma l’indicibile che è stato detto non è stato creato dall’uomo, in una nuova forma di dominio ideologico, come teme Adorno che non sa concepire un’interpretazione libera ma non arbitraria o una verità incontrovertibile ma non totalitaria: questo indicibile, che definisce l’uomo in ciò che gli è maggiormente proprio, è qualcosa che l’uomo non poteva neppure immaginare. Come l’interpretazione autentica è possibile non sostituendo o annullando il mistero ma affidandosi a esso, così l’arte è questo dare spazio all’infinito e al mistero che rende le cose degne di essere guardate; l’arte è « l’immortalità della vita », diceva Salamov.

(L’Osservatore Romano 18 ottobre 2009)

NEL CONFRONTO TRA FEDE E RAGIONE – IL GENIO DI SAN PAOLO

http://w2.vatican.va/content/osservatore-romano/it/comments/2008/documents/265q01b1.html

NEL CONFRONTO TRA FEDE E RAGIONE – IL GENIO DI SAN PAOLO

DI JUAN MANUEL DE PRADA

La commemorazione di questo Anno paolino dovrebbe servirci da stimolo per riflettere su uno dei tratti più distintivi e geniali di san Paolo, l’impulso di universalismo che presto sarebbe divenuto un elemento costitutivo della fede in Gesù Cristo. Un universalismo che, oltre a dare compimento alla missione che Gesù aveva affidato ai suoi discepoli, avrebbe definito l’orientamento innovatore del cristianesimo come religione che incorpora nel suo patrimonio culturale la sapienza pagana. Questa assimilazione culturale trasforma il cristianesimo, fin dai suoi inizi, in una religione diversa da qualsiasi altra: poiché mentre le altre religioni stabiliscono che la loro identità si deve costituire negando l’eredità culturale che le precede, il cristianesimo comprese, grazie al genio paolino, che la vocazione universale della nuova fede esigeva di introdursi nelle strutture culturali, amministrative e giuridiche della sua epoca; non per sincretizzarsi con esse ma per trasformarle radicalmente dal di dentro. E questa illuminazione geniale di san Paolo – che senza dubbio fu illuminazione dello Spirito – deve servire da vigorosa ispirazione per noi cattolici di oggi, spesso tentati di arroccarci contro un mondo ostile.
San Paolo, nato a Tarso di Cilicia, in seno a una famiglia ebrea, fu anche cittadino romano; e questa condizione o status giuridico lo aiutò a comprendere che la vocazione di universalità del cristianesimo si sarebbe realizzata pienamente solo se fosse riuscita a introdursi nelle strutture dell’Impero padrone del mondo. Introdursi per beneficiare della sua vasta eredità culturale; introdursi, anche, per lavare dal di dentro la sua corruzione. Il cristianesimo non sarebbe riuscito a essere quello che in effetti fu se non avesse fatto proprie le lingue di Roma; e se non avesse adottato le sue leggi, per poi umanizzarle, fondando un diritto nuovo, penetrato dalla vertiginosa idea di redenzione personale che apporta il Vangelo. I cristiani avrebbero potuto accontentarsi di rimanere ai margini di Roma, come dei senza patria che celebrano i propri riti nella clandestinità. Addentrandosi nella bocca del lupo, armati solo della fiaccola della fede, rischiarono di perire tra le sue fauci; ma alla fine provocarono un incendio più duraturo dei monumenti di Roma.
Di quale potente lega era fabbricato quell’uomo che sconvolse per sempre il corso della storia? Sappiamo che nella formazione culturale di san Paolo si amalgamavano elementi ebraici e ellenistici. Possedeva una esauriente conoscenza della lingua greca, nutrita dalla Scrittura secondo la versione dei Settanta. Si distingueva però anche per una conoscenza affatto superficiale dei miti greci, come pure dei loro filosofi e poeti: basta leggere il suo discorso nell’Areopago di Atene per renderci conto della sua solida cultura classica. E anche, naturalmente, del modus operandi della sua missione evangelizzatrice: san Paolo inizia il suo discorso apportando riflessioni nelle quali pagani e cristiani potevano convergere, fondandosi anche su citazioni di filosofi; lo conclude però con l’annuncio del Giudizio Finale, pietra dello scandalo per i suoi ascoltatori – fra i quali, a quanto sappiamo, si contavano alcuni filosofi epicurei e stoici – che potevano accettare l’immortalità dell’anima, ma non la resurrezione della carne. Quel gruppo di filosofi probabilmente si sciolse prendendo san Paolo per matto; tuttavia, di ritorno a casa, mentre rimuginavano sulle parole che avevano appena ascoltato, forse riuscirono a scoprire che i principi sui quali si fondava il discorso di san Paolo si potevano cogliere attraverso la ragione. E questi principi assimilabili da un pagano che affiorano nel discorso dell’Areopago sono gli stessi che san Paolo incorpora nelle sue epistole: la possibilità di conoscere Dio attraverso la sua Creazione, la presenza di una legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo, la sottomissione alla volontà di Dio come frutto della nostra filiazione divina. Principi sui quali in seguito san Paolo erigeva il suo portentoso edificio cristologico. Mettiamoci nei panni di quei filosofi pagani che ascoltarono san Paolo. Come non sentirsi interpellati da una predicazione che univa, in un modo così misteriosamente soggiogante, principi che la ragione poteva accettare con tesi che esigevano il concorso di una nuova fede? Come non sentirsi interpellato da questo Mistero che rendeva congruente ciò che ascoltavano e ciò che la mera intelligenza non permetteva loro di penetrare? E, nel cercare di approfondire quel Mistero, come non aprirsi agli orizzonti inediti di libertà e di speranza di cui Cristo era portatore?
Così accadde allora; e il genio paolino ci insegna che può continuare ad accadere ora. A un patrizio romano come Filemone non doveva sembrare più strano concedere la libertà al suo schiavo Onesimo, accogliendolo come un « fratello carissimo » nel Signore, di quanto deve sembrare a un uomo del nostro tempo – ad esempio – aborrire l’aborto. Se il genio paolino riuscì a far sì che un patrizio romano rinunciasse al diritto di proprietà su un altro uomo che le leggi gli riconoscevano, perché noi non possiamo far sì che gli uomini della nostra epoca recuperino il concetto di sacralità della vita umana, per quanto le leggi della nostra epoca sembrino averlo dimenticato? Per farlo, dovremo usare parole che risultino intelligibili agli uomini del nostro tempo; e così riusciremo, come a suo tempo riuscì il genio paolino, a minare dal di dentro una cultura che si è allontanata da Dio, senza arroccarci contro di essa.
Dobbiamo tornare a predicare in questa società neopagana che Dio si è fatto uomo; non per innalzarsi su un trono, ma per partecipare ai limiti umani, per provare le stesse sofferenze degli uomini, per accompagnarli nel loro cammino terreno. E, facendosi uomo, Dio ha fatto sì che la vita umana, ogni vita umana, divenisse sacra. San Paolo riuscì a farsi capire dagli uomini del suo tempo; e così trasformò in realtà la missione insostituibile che noi cristiani abbiamo nel mondo, descritta con parole sublimi nella Lettera a Diogneto: « Come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani (…) L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo (…) Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare ».
Arroccarsi contro il mondo equivale ad abbandonare il posto che Dio ci ha assegnato. Il genio paolino ci insegna che possiamo continuare a essere l’anima del mondo, senza rinunciare ai nostri principi e senza rinnegare la nostra essenza.

(L’Osservatore Romano 13 novembre 2008)

NEL CONFRONTO TRA FEDE E RAGIONE – IL GENIO DI SAN PAOLO

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2008/265q01b1.html

NEL CONFRONTO TRA FEDE E RAGIONE – IL GENIO DI SAN PAOLO

di Juan Manuel de Prada

La commemorazione di questo Anno paolino dovrebbe servirci da stimolo per riflettere su uno dei tratti più distintivi e geniali di san Paolo, l’impulso di universalismo che presto sarebbe divenuto un elemento costitutivo della fede in Gesù Cristo. Un universalismo che, oltre a dare compimento alla missione che Gesù aveva affidato ai suoi discepoli, avrebbe definito l’orientamento innovatore del cristianesimo come religione che incorpora nel suo patrimonio culturale la sapienza pagana. Questa assimilazione culturale trasforma il cristianesimo, fin dai suoi inizi, in una religione diversa da qualsiasi altra: poiché mentre le altre religioni stabiliscono che la loro identità si deve costituire negando l’eredità culturale che le precede, il cristianesimo comprese, grazie al genio paolino, che la vocazione universale della nuova fede esigeva di introdursi nelle strutture culturali, amministrative e giuridiche della sua epoca; non per sincretizzarsi con esse ma per trasformarle radicalmente dal di dentro. E questa illuminazione geniale di san Paolo – che senza dubbio fu illuminazione dello Spirito – deve servire da vigorosa ispirazione per noi cattolici di oggi, spesso tentati di arroccarci contro un mondo ostile.
San Paolo, nato a Tarso di Cilicia, in seno a una famiglia ebrea, fu anche cittadino romano; e questa condizione o status giuridico lo aiutò a comprendere che la vocazione di universalità del cristianesimo si sarebbe realizzata pienamente solo se fosse riuscita a introdursi nelle strutture dell’Impero padrone del mondo. Introdursi per beneficiare della sua vasta eredità culturale; introdursi, anche, per lavare dal di dentro la sua corruzione. Il cristianesimo non sarebbe riuscito a essere quello che in effetti fu se non avesse fatto proprie le lingue di Roma; e se non avesse adottato le sue leggi, per poi umanizzarle, fondando un diritto nuovo, penetrato dalla vertiginosa idea di redenzione personale che apporta il Vangelo. I cristiani avrebbero potuto accontentarsi di rimanere ai margini di Roma, come dei senza patria che celebrano i propri riti nella clandestinità. Addentrandosi nella bocca del lupo, armati solo della fiaccola della fede, rischiarono di perire tra le sue fauci; ma alla fine provocarono un incendio più duraturo dei monumenti di Roma.
Di quale potente lega era fabbricato quell’uomo che sconvolse per sempre il corso della storia? Sappiamo che nella formazione culturale di san Paolo si amalgamavano elementi ebraici e ellenistici. Possedeva una esauriente conoscenza della lingua greca, nutrita dalla Scrittura secondo la versione dei Settanta. Si distingueva però anche per una conoscenza affatto superficiale dei miti greci, come pure dei loro filosofi e poeti: basta leggere il suo discorso nell’Areopago di Atene per renderci conto della sua solida cultura classica. E anche, naturalmente, del modus operandi della sua missione evangelizzatrice: san Paolo inizia il suo discorso apportando riflessioni nelle quali pagani e cristiani potevano convergere, fondandosi anche su citazioni di filosofi; lo conclude però con l’annuncio del Giudizio Finale, pietra dello scandalo per i suoi ascoltatori – fra i quali, a quanto sappiamo, si contavano alcuni filosofi epicurei e stoici – che potevano accettare l’immortalità dell’anima, ma non la resurrezione della carne. Quel gruppo di filosofi probabilmente si sciolse prendendo san Paolo per matto; tuttavia, di ritorno a casa, mentre rimuginavano sulle parole che avevano appena ascoltato, forse riuscirono a scoprire che i principi sui quali si fondava il discorso di san Paolo si potevano cogliere attraverso la ragione. E questi principi assimilabili da un pagano che affiorano nel discorso dell’Areopago sono gli stessi che san Paolo incorpora nelle sue epistole: la possibilità di conoscere Dio attraverso la sua Creazione, la presenza di una legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo, la sottomissione alla volontà di Dio come frutto della nostra filiazione divina. Principi sui quali in seguito san Paolo erigeva il suo portentoso edificio cristologico. Mettiamoci nei panni di quei filosofi pagani che ascoltarono san Paolo. Come non sentirsi interpellati da una predicazione che univa, in un modo così misteriosamente soggiogante, principi che la ragione poteva accettare con tesi che esigevano il concorso di una nuova fede? Come non sentirsi interpellato da questo Mistero che rendeva congruente ciò che ascoltavano e ciò che la mera intelligenza non permetteva loro di penetrare? E, nel cercare di approfondire quel Mistero, come non aprirsi agli orizzonti inediti di libertà e di speranza di cui Cristo era portatore?
Così accadde allora; e il genio paolino ci insegna che può continuare ad accadere ora. A un patrizio romano come Filemone non doveva sembrare più strano concedere la libertà al suo schiavo Onesimo, accogliendolo come un « fratello carissimo » nel Signore, di quanto deve sembrare a un uomo del nostro tempo – ad esempio – aborrire l’aborto. Se il genio paolino riuscì a far sì che un patrizio romano rinunciasse al diritto di proprietà su un altro uomo che le leggi gli riconoscevano, perché noi non possiamo far sì che gli uomini della nostra epoca recuperino il concetto di sacralità della vita umana, per quanto le leggi della nostra epoca sembrino averlo dimenticato? Per farlo, dovremo usare parole che risultino intelligibili agli uomini del nostro tempo; e così riusciremo, come a suo tempo riuscì il genio paolino, a minare dal di dentro una cultura che si è allontanata da Dio, senza arroccarci contro di essa.
Dobbiamo tornare a predicare in questa società neopagana che Dio si è fatto uomo; non per innalzarsi su un trono, ma per partecipare ai limiti umani, per provare le stesse sofferenze degli uomini, per accompagnarli nel loro cammino terreno. E, facendosi uomo, Dio ha fatto sì che la vita umana, ogni vita umana, divenisse sacra. San Paolo riuscì a farsi capire dagli uomini del suo tempo; e così trasformò in realtà la missione insostituibile che noi cristiani abbiamo nel mondo, descritta con parole sublimi nella Lettera a Diogneto: « Come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani (…) L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo (…) Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare ».
Arroccarsi contro il mondo equivale ad abbandonare il posto che Dio ci ha assegnato. Il genio paolino ci insegna che possiamo continuare a essere l’anima del mondo, senza rinunciare ai nostri principi e senza rinnegare la nostra essenza.

(L’Osservatore Romano 13 novembre 2008)

L’IMPORTANZA DELLA STORIA NATURALE E DELLA FILOSOFIA SPERIMENTALE (1691) (commemorare le opere della creazione)

http://www.disf.org/Documentazione/66.asp

JOHN RAY, L’IMPORTANZA DELLA STORIA NATURALE E DELLA FILOSOFIA SPERIMENTALE (1691)

(commemorare le opere della creazione)

Ci accontentiamo della conoscenza delle lingue, e di alcune nozioni di filologia, di storia, e dimentichiamo ciò che a me sembra più importante, cioè la storia naturale e le opere della creazione. Io non disapprovo gli altri campi di studio; se lo facessi tradirei solo la mia ignoranza e debolezza. Vorrei solamente che essi non escludessero la storia naturale, e che anzi la storia naturale fosse portata in auge fra di noi. Vorrei che gli uomini fossero così civili da non disprezzare, deridere e svilire questi studi solo per il fatto di non avere con essi una sufficiente dimestichezza. Nessuno studio può essere più piacevole di questo, nessuno come questo soddisfa e nutre lo spirito; in confronto, lo studio delle parole e delle frasi sembra insipido e sterile. Questa erudizione, che (come dice un prelato saggio e osservante) consiste unicamente nella forma e nella pedagogia delle arti, o nelle nozioni critiche sulle parole e sulle frasi, ha in sé una tale imperfezione che è difficile stimare come possa condurre alla conoscenza delle cose, non essendo altro che una sorta di pedanteria capace solo di infondere nell’uomo un eccesso di orgoglio, affettazione e curiosità, sì da renderlo inidoneo a grandi occupazioni. Le parole non sono che immagini della materia, abbandonate al loro studio. Pigmalione si innamorò di un’immagine. L’oratoria, che è l’arte del miglior uso delle parole, è stimata da alcuni uomini saggi come un’arte voluttuaria, come la cucina, che rovina i cibi e li rende insalubri con la varietà di salse che servono più al piacere della gola che la salute del corpo.
Potrebbe far parte (come ha pensato qualche teologo) delle nostre occupazioni contemplare in eterno le parole di Dio, glorificare la sua sapienza, potenza e bontà manifestate nella loro creazione. Sono certo che queste pratiche debbano far parte delle occupazioni della domenica, che è un simbolo dell’eterno riposo. La domenica pare sia stata istituita originariamente per commemorare le opere della creazione, poiché sta scritto che Dio si fermò il settimo giorno.
Non ci basti apprendere dai libri, né leggere ciò che altri hanno scritto, e non accordiamo più fiducia al falso che al vero. Esaminiamo noi stessi le cose che ci capita di incontrare e accostiamoci alla natura come ai libri. Cerchiamo di incrementare e promuovere questo sapere, di fare nuove scoperte, senza diffidare delle nostre membra e delle nostre abilità come faremmo se credessimo che il nostro industriarci non possa aggiungere nulla alle invenzioni degli antichi o non possa correggere i loro errori. Non pensiamo che i confini della scienza siano fissati come le colonne d’Ercole e che portino l’iscrizione Non plus ultra . Non pensiamo, una volta che li abbiamo conosciuti, di interrompere le nostre ricerche. I tesori della natura sono inesauribili. C’è lavoro sufficiente per tutti noi, per gli zelanti, infaticabili e per gli indolenti più indisturbati. Molto si potrebbe fare per tentativi e nulla resiste alla pazienza. Io so che di primo acchito un nuovo campo di studio appare sempre molto vasto, intricato e difficile; ma dopo un piccolo progresso, quando s’inizia ad averne qualche piccola conoscenza, l’intelletto viene meravigliosamente rischiarato, le difficoltà svaniscono e le cose divengono facili e familiari. Come incoraggiamento in questo studio si veda il Salmo 111, 2: «Grandiose sono le opere del Signore, degne d’esser meditate da quanti le amano». Queste parole, che si riferiscono alle opere della provvidenza, possono essere verificate anche rispetto alle opere della creazione. Mi dispiace che in questa università si dia così poca importanza alla filosofia sperimentale e che si neghino le ingegnose scienze matematiche. Esorto ardentemente i giovani, e specialmente i laureandi, a coltivare questi studi. Essi potrebbero inventare o scoprire qualcosa di molto utile e vantaggioso per il mondo. Una sola di queste scoperte giustificherebbe e ricompenserebbe il lavoro di tutta una vita. Comunque, sarebbe sufficiente conservare e continuare quello che già c’è; né vedo a quale migliore impiego si possa volgere l’ingegnosa attività umana; la storia naturale, infatti, tende alla soddisfazione della mente e alla rappresentazione della gloria di Dio, il quale è meraviglioso in tutte le sue opere.
Non c’è uomo che abbia scavalcato le sue inclinazioni o che abbia intrapreso un metodo di studio cui non era adatto, o contrastante con i fini che gli sono stati attribuiti dai suoi amici dopo matura riflessione. Ma chi ha agio e naturale disposizione per questi studi, sia questo dovuto alla forza o alla grandezza del suo corpo, sarà in grado di concepire e comprendere l’intera estensione del sapere.
Né coloro che sono designati per la teologia debbono temere questi studi o pensare che essi possano essere sterili se non vi si dedica un’attenzione esclusiva. La nostra vita è sufficientemente lunga e possiamo trovare in essa abbastanza tempo se lo amministriamo come si conviene: «non accipimus brevem vitam sed fecimus, nec inopes eius sed prodigi sumus» come ha detto Seneca [De brevitate vitae, I, 1: «Non riceviamo una vita breve ma l’abbiamo fatta tale e non ne siamo sprovvisti, ma spreconi». Se i giovani non trascorressero tutta la loro vita in questi studi, che incombono e gravano su di loro e li assillano sul modo del loro trapasso, si potrebbe fare molto. Non c’è niente di meglio dello studio della vera fisica come vera propaideia, o preparazione, alla teologia.

da La sapienza di Dio manifestata nelle opere della creazione, tr. it. a cura di Andrea Balzarini, Marietti 1820, Genova-Milano 2004, pp. 146-148.

Da San Paolo a San Josemaría Escrivá: l’idea di università tra ragione e fede

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Da San Paolo a San Josemaría Escrivá: l’idea di università tra ragione e fede

Giulio Maspero

Non si tratta di parlare della riforma dell’università, ma di parlare dell’idea di università. Le domande alle quali cercheremo di rispondere sono: da dove è sorta? Quale la sua origine ed il suo fondamento? Cosa c’entrano la ragione e la fede? L’idea è che oggi la cultura rischia di essere considerata un optional. Non si investe in essa, perché ci sono cose più importanti a cui pensare. Si rischia un po’ quello che avviene con coloro che preferiscono piantare insalata piuttosto che querce, perché raccolgono prima i frutti della loro fatica… ma a lungo andare l’investimento si rivela insufficiente per affrontare l’avvenire. Sulla cultura, sull’idea di università e sul rapporto
tra ragione e fede ci giochiamo, invece, il futuro, e per convincercene basta guardare al passato, a quello che è successo. Lo schema di sviluppo è: partendo dalla Grecia si considererà la centralità della ragione nelle origini della cultura umana, per poi passare al mondo ebraico ed evidenziare la novità essenziale introdotta dalla rivelazione, con l’apertura di orizzonte radicale permessa dalla dimensione fondamentale della fede. Successivamente, attraverso la figura di Paolo si mostrerà come un nuovo pensiero è sorto dall’incontro tra Atene e Gerusalemme, un pensiero che ha permesso di pensare l’universo e la storia come un tutto. Da qui è sorto il concetto di università, legato a doppio filo a quello di verità e di libertà. Attraverso alcuni esempi concreti si metterà in evidenza l’attualità di questo pensiero che è ripreso da San Josemaría Escrivá, nei suoi insegnamenti sul valore della libertà e sulla necessità di una radicale apertura della ricerca a tutto campo. Fede e ragione richiedono che il cristiano sia appassionato di tutto il reale, in quanto tutto il reale è uscito dalle mani di Dio e può portare a Lui.

Atene
Per questo, per avvicinarsi a Paolo è essenziale comprendere bene l’importanza del Logos per la Grecia. La civiltà greca è segnata dall’esperienza di Troia e della tragica vittoria, che tanto costò agli stessi Elleni. Dovevano assolutamente ricordare che avevano 1desiderato troppo e che avevano messo a rischio la loro stessa esistenza. Le tragedie servivano proprio a ricordare l’esigenza di non lasciare sciolto il desiderio, perché altrimenti il Fato avrebbe punito. Stessa funzione svolgevano i miti. Ercole, che supera le colonne che portano il suo nome compiendo un gesto empio, o Prometeo che ruba il fuoco agli dèi per darlo agli uomini, venendo condannato poi ad una terribile pena, sono esempi di come il mondo greco sentisse l’esigenza di adeguarsi ad una legge di proporzione che caratterizzava il mondo. Questa legge si chiamava logos. Per comprenderlo basta pensare al Motore Immobile di Aristotele, che sta al vertice di una catena di cieli concentrici che sono mossi e muovono a loro volta. Questa scala ha un vertice ed è percorribile dal pensiero (logos appunto), che risale da una causa all’altra secondo il nesso (sempre logos in greco) che le unisce. In questo modo il greco trovava il fondamento della sua civiltà proprio nell’adeguarsi a questa legge insita nel mondo. I sofisti, però, reagirono a questa concezione, cercando di superare radicalmente i miti e le antiche narrazioni: essi concepivano il logos in senso meramente soggettivo, loro capacità di parola, contro la concezione oggettiva. Socrate, Platone ed Aristotele reagirono a questa operazione che minava le basi stesse della polis, in quanto ne intaccava i valori che la difendevano dallo scatenarsi del desiderio. I sofisti erano, infatti, abili nella parola, e negavano ogni fondamento predeterminato del mondo, per affermare solo l’interesse di chi era più abile nel discorso. Socrate e Platone reagirono proprio a questa concezione individualistica del logos, realizzando un approfondimento essenziale per lo sviluppo del pensiero umano: mostrarono che al di là del rivestimento mitologico, si doveva preservare un contenuto veritativo che il logos doveva riconoscere. Platone ammonisce a non perdere fiducia nei ragionamenti, in quanto la sfiducia in essi nasce allo stesso modo della sfiducia negli uomini: come la delusione di fronte al tradimento di persone che si credevano amiche non deve spingere a credere che tutti gli uomini siano cattivi, così lo stesso avviene con i ragionamenti 1. Invece, la filosofia è possibile perché la legge che regola il rapporto dell’uno e dei molti è sempre la stessa, nel presente come nel passato, in modo tale che ciò che dà valore ai ragionamenti sempre permane2 Un bellissimo esempio è il seguente: nelle Leggi Platone chiarisce il suo pensiero rispetto al mito, quando commenta l’immagine dell’uomo come mirabile burattino, costruito dagli dèi non si sa se per gioco o per qualche altra ragione più seria. Le passioni sono come le funi che tirano da una parte e dall’altra, verso il vizio e verso la virtù. La filosofia mira a mostrare la convenienza di lasciarsi guidare sempre solo da uno di questi fili, ed in concreto dal sacro filo aureo della ragione, che è il più flessibile proprio perché è d’oro. Questo filo ha bisogno di essere difeso, perché la ragione è sempre per natura pacifica ed aliena dalla violenza: per questo lo stato, che conosce quel filo grazie alla rivelazione di un dio o grazie al filosofo, dovrà proteggere la ragione attraverso la legge3. È interessante notare che il logos serve la vita, nel senso che deve proteggere dalla violenza (la vita e l’opera di Platone sono segnate dalla tragedia della condanna a morte di 2Socrate da parte della città di Atene, la più evoluta del tempo). L’affermazione del logos da parte dei grandi filosofi greci è stata essenziale, perché ha fondato la possibilità di cercare il vero ed ha affermato la necessità di farlo per la sopravvivenza della civiltà. Nello stesso tempo questo logos si dimostrava insufficiente, in quanto era semplicemente necessario e non parola personale, come la intendiamo noi. Ciò impediva che l’uomo si potesse spingere a pensare senza paura: ad esempio, di fronte alla scoperta del fatto che la diagonale del quadrato era incommensurabile al suo lato – cioè irrazionale – il mondo greco reagì con un rifiuto radicale. L’uomo doveva rimanere al suo posto, accettare la necessità e non lasciarsi trascinare dal desiderio di conoscere il senso di ogni cosa. La necessità limitava la loro ricerca e l’opposizione tra il desiderio dell’individuo e la legge del fato non poteva essere risolta se non in modo tragico. In questo i pastori nomadi ebrei erano molto più avanti. Gerusalemme Gli ebrei, infatti, erano un popolo errante (lo stesso termine ‘ebreo’ significa colui che attraversa, colui che passa). Non avevano nemmeno un loro dio, ma dovevano fare i conti con gli dèi dei popoli che incontravano. Eppure svilupparono ben prima dei greci una concezione su Dio estremamente fine, per il semplice fatto che il Signore gli era andato incontro. Loro non si dovevano elevare dal basso verso Dio come facevano gli altri, ma Dio stesso era sceso dal Cielo, ordinando prima di adorare solo Lui, in quanto come creatore aveva potere su ogni territorio ed era al di sopra degli altri dèi dei popoli che gli ebrei incontravano. Ma poi il Signore stesso rivelò di essere l’unico Dio. Gli ebrei pensavano a partire da un evento singolare accaduto nella storia. La creazione stessa fissava un inizio assoluto e fondava la capacità di pensare il mondo, in quanto l’uomo era stato creato ad immagine del Creatore. Mentre per gli altri popoli il sole e la luna erano divinità, per loro no, in quanto erano stati fatti dal nulla. Mentre gli altri popoli dovevano fare i conti con gli influssi delle stelle e del fato ed erano sotto l’influenza di un principio negativo che si opponeva al bene, per gli ebrei no. Tutto era uscito dalle mani di Dio, e solo la libertà era la spiegazione del male. Questo permise che si aprissero all’evento impensabile dell’incarnazione del Logos nel seno di Maria, in quanto non erano abituati a pensare a partire dal ripetersi necessario degli eventi, ma sapevano che il Creatore continuava a seguire il suo popolo e poteva entrare nella storia quando voleva. La teologia ed il pensiero di Paolo nacquero proprio da qui, da questo pensare a partire dalla singolarità di un evento, dall’irrompere di una presenza. Il Logos divino chiedeva di essere comunicato perché era mistero di amore e di comunicazione. Per questo i Padri della Chiesa, sull’esempio di Paolo, scelsero la filosofia e la filosofia greca: la religione pagana si basava sulla consuetudine, rientrava nei costumi di ogni popolo, per questo nell’olimpo romano potevano starci tutti gli dèi dei popoli che
via via venivano conquistati all’impero. Per i cristiani, che in molti casi morirono martiri per questo, Dio era semplicemente la verità, quella verità cercata dai filosofi. Tertulliano ha scritto “Cristo ha detto di essere la verità, non la consuetudine”. Il punto è essenziale anche per il mondo di oggi. La fede, cioè la conoscenza della possibilità di trovare il senso di ogni cosa ottenuta grazie alla relazione con il Creatore, permetteva al pensatore ebreo e cristiano di guardare il mondo come un tutto, aprendosi al mondo radicalmente senza paura. Tutto 3infatti deve essere considerato buono, in quanto uscito dalle mani di Dio, e per questa stessa ragione deve poter essere conosciuto.

Paolo
Alla luce di tutto ciò non sorprende quanto narrato in Atti 11,19-26: si racconta che i discepoli di Cristo furono chiamati per la prima volta cristiani ad Antiochia quando iniziarono ad annunciare il Vangelo ai greci. Infatti prima di allora i discepoli predicavano solo ad ebrei come loro e per questo non serviva un altro nome per indicarli, erano semplicemente ebrei che avevano trovato il Messia. È estremamente interessante che si sia iniziato a parlare di cristianesimo proprio con l’annuncio ai greci e proprio ad Antiochia, città della Siria poco distante da Tarso, di dove era originario Paolo. L’incontro tra Atene e Gerusalemme è, infatti, un elemento essenziale della sua vita. Si capisce perché Benedetto XVI a Regensburg ha pronunciato le seguenti frasi alle quali si ispira il titolo del mio intervento: «L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie
dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una “condensazione” della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco.» Paolo aveva ricevuto a Tarso l’educazione tipica di una città grecizzata del tempo. Aveva letto Euripide e Omero ed era stato formato secondo i principi della retorica del tempo, come è evidente dalle sue opere. Da esse traspare anche la conoscenza della filosofia stoica. E proprio un trattato filosofico di origine aristotelica molto diffuso a quel tempo, ma oggi perduto, è alla base del discorso all’areopago (At 17), quando Paolo ad Atene si rivolge ai filosofi del tempo, citando in alcuni punti in modo quasi letterale lo scritto di Aristotele, come ha dimostrato Enrico Berti. Il punto di partenza è una
valutazione positiva della pietà dei greci, che avevano anche un altare per il dio ignoto. Questo Dio Paolo lo
annuncia partendo dal fatto che unico è il creatore, dal quale tutto ha avuto origine. Gli ateniesi lo seguono, ma
rifiutano repentinamente l’annuncio del Vangelo quando sentono parlare di resurrezione, cioè quando dalla natura si passa alla storia. Si tratta proprio del salto essenziale che è richiesto dal cristianesimo, quello dalla necessità alla libertà, quello che distingue natura e storia, riempiendo di valore quest’ultima e superando la concezione dell’eterno ritorno. Secondo le parole del teologo J. Ratzinger: “Il tono paradossale della fede biblica di Dio sta proprio nell’amalgama unitario, in cui risultano combinati i due elementi da noi descritti; sta quindi nel fatto che l’Essere vien creduto Persona e la Persona vien creduta Essere, ritenendo per vero che solo il Remoto
è il Vicinissimo, che solo l’Inaccessibile è l’Accessibile, che solo l’Unico è l’Universale, buono per tutti e per cui tutti sussistono” (Introduzione al cristianesimo, Brescia, 1979, pp. 96-97). Ma questo annuncio fu possibile proprio perché il mediterraneo era contraddistinto dall’uso di un’unica lingua, cioè la koiné greca, diffusa dalle conquiste di Alessandro Magno. Con la sua avanzata, le polis greche avevano perso il loro primato a 4 favore degli stati nazionali, come la Macedonia e l’Egitto. Le forze vive della Grecia vennero attratte verso le grandi città come Alessandria, Pergamo ed Antiochia, appunto, che divennero i nuovi centri culturali e commerciali dell’epoca. Gli anni che vanno dalla morte di Alessandro (323 aC) alla caduta dell’Egitto in mano romana (31 aC), sono segnati da un scambio intenso a livello culturale e religioso, che segna anche la Palestina, dove si diffonde la cultura greca. Di questo c’è traccia evidente anche nella Bibbia, ad esempio nel secondo Libro dei Maccabei dove si depreca la diffusione dell’ellenizzazione (2 Mac 4,13) che si oppone al giudaismo (2 Mac 2,21). È estremamente significativo che i più grandi autori ebrei dell’antichità scrissero in greco (Filone e Flavio Giuseppe). Fondamentale fu anche la traduzione della Bibbia detta dei Settanta in riferimento ai settanta esperti che tradussero per la prima volta il testo sacro ad Alessandria per gli ebrei della diaspora, che non riuscivano più a leggere in ebraico. Si era prodotto qualcosa di radicalmente nuovo rispetto alla Grecia classica, ma che affondava in essa le sue radici, in particolare nella concezione del Logos del IV sec. aC.

Il pensiero cristiano e l’università
Tre esempi possono servire a comprendere la dimensione universale di questo pensiero, che caratterizzerà poi la riflessione dei Padri, i quali senza paura si riallacciano alla riflessione dei filosofi pagani e riconoscono un senso a tutta la ricerca del vero di ogni epoca e di ogni uomo. Il primo è quello molto noto del mito della caverna di Platone: per il grande filosofo la condizione umana è quella di chi è legato in una caverna e vede le ombre di quello che c’è fuori proiettate sulla parete di fondo. Il mondo materiale è apparenza. Gregorio di Nissa, nel sec. IV (dC ovviamente), all’inizio, partendo dalla sua cultura filosofica greca ricevuta per mezzo di suo fratello Basilio, che aveva studiato ad Atene, modifica questa concezione, ffermando che solo per il peccato originale l’uomo è legato in una caverna e non semplicemente per il fatto di essere uomo. Dopo un viaggio a Gerusalemme, però, vede i luoghi santi ed in concreto la grotta di Betlemme e cambia
opinione. Adesso ha compreso che il sole stesso è entrato nella grotta, per cui le tenebre si sono dissipate. Il mondo ridiventa buono ed il movimento platonico di fuga è esattamente invertito, perché Dio stesso è sceso.
Il secondo esempio può essere quello della concezione dell’amicizia in Aristotele: egli afferma con grande profondità che non si può vivere senza amici, perché l’amicizia è necessaria per la vita. Nello stesso tempo considera l’amicizia come una rarità perché si può essere amici solo tra uomini simili nella virtù. Per questo, quando si soffre bisognerebbe nascondersi dagli amici e sempre per questo l’amicizia è difficile per le persone anziane. Infine, la possibilità di amicizia con Dio è radicalmente esclusa, per la distanza ontologica che separa l’uomo ed il Primo Principio. La visione aristotelica è nello stesso tempo estremamente profonda e realista. Nel suo disincanto e nella sua crudezza, differisce grandemente dalla visione biblica, ma nello stesso tempo è essenziale per comprendere l’assolutezza e la dismisura del dono ricevuto. In Es 11,33, infatti, si dice che Dio parlava con Mosè faccia a faccia, come ad un amico. E Cristo poi, chiama i discepoli amici (Gv 15, 15) e predica l’amore ai nemici. Il salto è radicale, perché la filosofia greca riconosce l’impossibilità di essere amici di Dio,
ed evidenzia le difficoltà dell’amicizia, non sapendo spiegare, ad esempio, perché le madri 5continuano ad amare i figli anche quando questi non corrispondono. La rivelazione cristiana, invece, afferma che Dio si fa nostro amico e che, quindi, è possibile amare tutti. Si comprende perché il Santo Padre, al n.10 della Deus Caritas est, ha scritto: “l’aspetto filosofico e storico-religioso da rilevare in questa visione della Bibbia sta nel
fatto che, da una parte, ci troviamo di fronte ad un’immagine strettamente metafisica di Dio: Dio è in assoluto la sorgente originaria di ogni essere; ma questo principio creativo di tutte le cose — il Logos, la ragione primordiale — è al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore” L’ultimo esempio è quello della croce cosmica: infatti, alla luce della resurrezione i cristiani avevano potuto dedurre che Cristo era veramente Dio; ma allora sorgeva la domanda del perché avesse scelto come modo della propria morte proprio la croce. La
risposta viene individuata in Ef 3,18, dove si parla dell’amore di Dio che si estende alle quattro dimensioni dell’universo: queste quattro dimensioni vengono poste in relazione che i quattro bracci della croce, che indicherebbero l’estendersi della salvezza e dell’effusione della bontà di Dio a tutto l’universo, secondo le quattro direzioni cosmiche. Da qui nasce il disegno non solo di una cultura cristiana, ma di una civiltà cristiana, capace di presentarsi come unità che metta in evidenza la razionalità di ogni aspetto dell’esistenza umana e permetta di apprezzare la grandezza della ricerca dell’uomo in tutte le epoche, anche pagane.
Il progetto dell’università medioevale nasce da questa visione, che è alla base della concezione della stessa piazza del Duomo di Como. L’accostamento del simbolo del potere civile – Broletto, antico municipio – e della cattedrale mostra figurativamente questa armonia, ancora più evidente nella facciata stessa dell’edificio sacro, che presenta ai lati dell’ingresso due dotti pagani – i due Plinii – coronati dall’adorazione dei Magi, uomini di scienza che hanno trovato il Dio incarnato, osservando il cielo e perseguendo la loro ricerca al di là di ogni
forza che cercava di scoraggiarli. Salendo lungo la facciata, si trovano Adamo ed Eva e poi la Madonna ed i santi, lo Spirito Santo, l’Annunciazione e, al vertice, la Resurrezione. Lungo le lesene sono rappresentate figure umane che rappresentano la società civile dell’epoca. Tutto è presentato come un insieme armonico.
E proprio tutto è una parola che può riassumere l’insegnamento di San Josemaría Escrivá, che ricevette da Dio la chiamata a mostrare che ogni lavoro ed ogni situazione umana può essere cammino per unirsi a Dio. Riprendendo l’esempio dei primi cristiani, l’uomo si scopre chiamato ad amare il mondo appassionatamente scoprendo quella dimensione divina nascosta in ogni circostanza. Questo evidenzia il valore della storia e
della libertà dell’uomo, di ogni uomo, e quindi la necessità di ascoltarsi e di cercare insieme il vero. San Josemaría si richiama esplicitamente all’esempio di San Paolo: A me – nel mio piccolo – come a Paolo a Damasco, a Madrid sono cadute le squame dagli occhi, e a Madrid ho ricevuto la mia missione. (Lettera, 2-X-1965). Questa missione e la certezza della presenza di Dio nella storia lo porta a sottolineare radicalmente il valore della libertà e la necessità di cercare il vero tutti insieme, ascoltandosi e rispettando le scelte reciproche: “Dio, creandoci, ha accettato il rischio e l’avventura della nostra libertà: ha voluto che la storia sia una storia vera, fatta di decisioni autentiche, e non una finzione o un gioco. Ogni 6uomo deve fare la esperienza della propria autonomia personale, con tutti gli imprevisti, i tentativi e magari le incertezze che questo comporta.” (ABC, 2.XI.1969) Per questo la ricerca non può fare paura ad un cristiano vero e lo spirito universitario è praticamente inserito nel suo stesso DNA: “Con ricorrente monotonia, alcuni cercano di far rivivere una presunta incompatibilità tra fede e scienza, tra intelligenza umana e Rivelazione divina. Questa incompatibilità si manifesta, ma soltanto apparentemente, quando non si comprendono i termini reali del problema. (…) Non
possiamo aver paura della scienza, perché qualsiasi ricerca, se è veramente scientifica, tende alla verità. E Cristo ha detto: Ego sum veritas, io sono la verità. Il cristiano deve avere sete di sapere. Dall’approfondimento della scienza più astratta, all’abilità manuale degli artigiani, tutto può e deve condurre a Dio.” (È Gesù che passa, n.10). In questo modo l’apertura radicale e il rispetto per la libertà e la ricerca di ogni uomo permette di scorgere il fondamento dell’idea di università nella cattolicità stessa: “Per te, che desideri formarti una mentalità cattolica, universale, trascrivo alcune caratteristiche: – ampiezza di orizzonti, e un vigoroso approfondimento, in quello che c’è di perennemente vivo nell’ortodossia cattolica; – anelito retto e sano – mai frivolezza – di rinnovare le dottrine tipiche del pensiero tradizionale, nella filosofia e nell’interpretazione
della storia…; – una premurosa attenzione agli orientamenti della scienza e del pensiero contemporanei; – un atteggiamento positivo e aperto di fronte all’odierna trasformazione delle strutture sociali e dei modi di vita.” (Solco, n.428)

Conclusione
Comprendere il valore del rapporto tra fede e ragione perché possa concepirsi la possibilità dell’università stessa diventa allora essenziale per il mondo di oggi, che rischia di ricadere nella schiavitù della necessità, della superstizione e di una riduzione non solo del sapere, ma dell’uomo stesso, a mera funzione e prestazione.
In primo luogo, per essere cristiani è essenziale sapere quello che afferma la filosofia greca sull’impossibilità del rapporto con Dio, perché solo così si può cogliere il dono immenso di Dio stesso che viene incontro all’uomo. Se si parte dal logos greco, quindi, la sete di ogni uomo, tutte le seti dell’uomo, possono riconoscere il loro senso in
quell’incontro che ha segnato la vita di Paolo, il quale, camminando verso Damasco si è imbattuto in Cristo stesso, che gli ha chiesto “perché mi perseguiti?”. Il Dio cristiano chiede perché. Non risponde alla violenza con la violenza o con la forza, ma semplicemente ci salva chiedendoci perché e suscitando il nostro pensiero, la nostra ricerca della verità, facendoci interrogare sul senso del nostro desiderio. E questo perfino se il Logos stesso viene schiaffeggiato, come durante l’iniquo processo nella casa del gran sacerdote, quando Cristo dice: “se ho sbagliato dimostrami dove, altrimenti perché mi colpisci?”. È il mistero di Dio che si fa presente nel seno di una giovane donna, chiedendole permesso, in uno sperduto villaggio della Palestina, il mistero di una presenza che Atene ha tanto desiderato, ma che solo a Gerusalemme, nella singolarità e nella libertà della
Croce ha trovato il suo senso. Maria si presenta allora come regina del pensiero, in quanto ha accolto nel Suo seno il Logos stesso, il Quale la trasformò, grazie alla radicale apertura di lei, al di là di ogni paura, in modello di ogni autentica università, vera alma Mater.
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