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CONGREGATIO PRO CLERICIS
Universalis Presbyterorum Conventus
“SACERDOTI, FORGIATORI DI SANTI PER IL NUOVO MILLENNIO” SULLE ORME DELL’APOSTOLO PAOLO
Santità cristocentrica del Sacerdote
Mons. Juan Esquerda Bifet
Conferenza, Malta, 20 ottobre 2004
Indice:
Presentazione: Linea cristocentrica della santità del sacerdote, requisiti, possibilità e ministero.
Chiamati a essere trasparenza della vita e dei modi di tradurre in vita Cristo Buon Pastore
Chiamati a essere maestri e forgiatori di santi, innamorati di Cristo
Alcune osservazioni sulla santità sacerdotale all’inizio del terzo millennio
Linee conclusive
* * * *
Presentazione: Linea cristocentrica della santità del sacerdote, requisiti, possibilità e ministero.
Il titolo della nostra riflessione (la santità cristologica del sacerdote) ci colloca in un’attitudine relazionale con Cristo Risorto, sempre presente nel nostro percorso storico ed ecclesiale. Quando diciamo “santità” ci riferiamo al desiderio profondo di Cristo di vedere in noi la sua espressione, il suo segno personale, la sua trasparenza: “Io sono glorificato in loro … Santificali nella verità: la tua Parola è verità … Per loro io santifico me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (Gv 17, 10, 17, 19). La dimensione cristocentrica o cristologica è connaturale alla santità cristiana e sacerdotale.
Essere sacerdote e, allo stesso tempo, non essere o non desiderare di essere santo, sarebbe una contraddizione teologica, dal momento che l’essere e l’operare sacerdotale, visti come partecipazione e prolungamento dell’essere e dell’operare di Cristo, comportano il tradurre in vita ciò che siamo e ciò che facciamo. Questa santità sacerdotale è possibile.[1]
La “santità” fa riferimento alla realtà divina, perché soltanto Dio è il “tre volte Santo” (Is 6, 3), il Trascendente, il Dio Amore. Gesù è l’espressione personale del Padre (cf. Gv 14, 9). Noi cristiani siamo chiamati ad essere “espressione” di Cristo, “figli nel Figlio” (Ef 1, 5; cf. GS 22).
Noi sacerdoti, ministri ordinati, siamo l’espressione o il segno personale e sacramentale di Gesù Sacerdote e Buon Pastore. La santità ha un senso “relazionale”, di appartenere affettivamente ed effettivamente a colui che è il Santo per eccellenza. Siamo “ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio” (1 Cor 4, 1). Il sacerdote ministro è “uomo di Dio” (1 Tim 6, 11).
La “santità” del sacerdote possiede, quindi, una dimensione cristocentrica o cristologica, e precisamente per questo possiede anche una dimensione trinitaria, pneumatologica, ecclesiologica e antropologica. La dimensione cristologica della santità sacerdotale è, di conseguenza, mariana, contemplativa e missionaria. Si tratta dunque di un cristocentrismo inclusivo, non esclusivo, dal momento che rimane aperto a tutte le dimensioni teologiche, pastorali e spirituali. Attraverso il “carattere” o grazia permanente dello Spirito Santo, ricevuto nel sacramento dell’Ordine, partecipiamo dell’unzione sacerdotale di Cristo (inviato dal Padre e dallo Spirito), prolunghiamo la sua stessa missione nella Chiesa e nel mondo e, conseguentemente, siamo chiamati a vivere in sintonia con gli stessi gesti di vita di Cristo.
In questa prospettiva cristologica, parlare di santità non equivale, dunque, a parlare di un peso, bensì di una dichiarazione d’amore, sperimentata e accettata affettivamente e responsabilmente. Dobbiamo e possiamo essere santi e aiutare gli altri a essere santi, per ciò che siamo e per ciò che facciamo, vale a dire, attraverso la partecipazione alla consacrazione di Cristo e attraverso il prolungamento della sua stessa missione. Cristo ci ha scelti per una sua iniziativa d’amore (cf. Gv 15, 16) e, conseguentemente, ci ha resi in grado di rispondere in modo coerente a quello stesso amore. La nostra vita è chiamata alla santità ed è, allo stesso tempo, ministero di santità. Siamo forgiatori di santi.[2]
Decidersi a essere “santi” non significa nulla di più che impegnarsi a essere coerenti con l’esigenza di una relazione personale con Cristo, che comprende il condividere la sua stessa vita, imitarla, trasformarsi in lui, farlo conoscere e amare. Questo equivale a “mantenere lo sguardo fisso in Cristo” (Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 5) per poter pensare, sentire, amare, operare come lui. “Il riferimento a Cristo, quindi, è la chiave assolutamente necessaria per la comprensione delle realtà sacerdotali” (PDV 12). Questa santità è possibile.[3]
1.CHIAMATI A ESSERE TRASPARENZA DELLA VITA E DEI MODI DI TRADURRE IN VITA CRISTO BUON PASTORE
La dimensione cristocentrica della santità sacerdotale ci colloca in una relazione profonda di amicizia con Cristo. Siamo stati chiamati per sua iniziativa (cf. Gv 15, 16). Egli ci ha chiamati uno ad uno, ci ha chiamati per “nome”, per poter partecipare del suo stesso essere Sacerdote-Vittima, Pastore, Sposo, Capo e Servo.[4]
Questa dimensione cristocentrica aiuta a entrare nella dinamica interna della propria identità: siamo chiamati a un incontro che si trasforma in relazione profonda, si concretizza in sequela per condividere il suo stesso stile di vita, si vive in fraternità (comunione) con gli altri chiamati e orienta l’intera esistenza alla missione. Quindi, in questa santità vanno inclusi tutti gli aspetti della vocazione: incontro, sequela, fraternità e missione evangelizzatrice.
La dinamica relazionale si basa su una realtà ontologica: partecipiamo al suo essere (consacrazione), prolunghiamo il suo agire (missione) e viviamo in sintonia con i suoi stessi sentimenti e atteggiamenti, secondo l’espressione paolina: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2, 5).
Senza il desiderio di corrispondere con la vita a questa relazione con Cristo non si potrebbe cogliere la dinamica apostolica e sacerdotale che include l’”incontro” e la “missione”. Egli ci ha chiamati per “stare con lui” e per inviarci a “predicare” (Mc 3, 14-15).
Se si intende parlare dell’”identità” o della propria ragion d’essere, questo equivale a trovare il senso della propria esistenza vocazionale. È relativamente facile fare elucubrazioni sull’identità. Alla luce del Vangelo, tuttavia, appare chiaro che si tratta di tradurre in vita quel che siamo e facciamo: “Voi mi renderete testimonianza, poiché siete stati con me sin dal principio” (Gv 15, 27). Quando domandarono a Giovanni Battista della sua ”identità”, egli non cadde nella trappola di rispondere con elucubrazioni e teorie, ma indicò una persona che dava un senso alla sua esistenza e al suo agire: “Io sono la voce… Ma in mezzo a voi c’è qualcuno che voi non conoscete” (Gv 1, 23, 26).[5]
Molti interrogativi cristiani che sembrano problematici cessano di esserlo quando si affrontano partendo da una “conoscenza di Cristo vissuta personalmente” (VS 88). Parlare di santità sacerdotale senza partire dalla propria esperienza di incontro e sequela di Cristo equivale a votarsi al fallimento o a discussioni sterili. La santità sacerdotale si coglie soltanto dalla persona di Cristo profondamente amata e vissuta: “Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14, 21).
Da questa prospettiva di vita vissuta, che non esclude, anzi ha bisogno del sostegno della riflessione teologica sistematica, la parola “santità” passa ad essere una realtà di grazia che forma parte del processo di configurazione a Cristo. Quando qualcuno si sa amato da Cristo, lo vuole amare e farlo amare. Vale a dire, vuole abbandonarsi in modo totalitario al cammino di santità e di missione.[6]
La decisione di essere “santi” è la risposta alla dichiarazione d’amore da parte di Cristo: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (Gv 15, 9). Per discernere se qualcuno avanza decisamente in questo cammino di santità, possiamo andare a verificare tre punti forti: non sentirsi mai soli (cf. Mt 28, 20), non dubitare del suo amore (Gv 15, 9), non anteporre nulla a Cristo.[7]
Le caratteristiche della nostra santità, nella sua dimensione cristocentrica o cristologica, ci parlano della relazione con ognuno dei titoli biblici di Cristo (che abbiamo ricordato pocanzi) e, conseguentemente, spingono il sacerdote a tradurre in vita i suoi ministeri come espressione della sua “carità pastorale”, il che equivale a mettere in pratica la stessa carità del Buon Pastore. In questo senso, il Concilio Vaticano II riassume la santità sacerdotale con questa prospettiva: “I presbiteri raggiungeranno la santità nel loro modo proprio se nello Spirito di Cristo eserciteranno le proprie funzioni con impegno sincero e instancabile” (PO 13).
Si tratta di far vedere in trasparenza Cristo nel momento di annunciarlo e di celebrarlo, si tratta di esserne il prolungamento… L’intera azione pastorale è eminentemente cristologica e costituisce anche un’urgenza e una possibilità di essere santi. Annunciamo Cristo, lo rendiamo presente e lo comunichiamo agli altri, vivendo ciò che siamo e ciò che facciamo. La dimensione cristologica della santità sacerdotale segue, quindi, la linea profetica (annunciare Cristo), liturgica (rendere presente Cristo), diaconale (servire Cristo nei fratelli).
Il modello apostolico dei Dodici rappresenta il punto di riferimento obbligato della santità sacerdotale, come qualcosa di specifico. È la “Vita Apostolica”, vale a dire, la sequela radicale di Cristo Buon Pastore, sull’esempio degli Apostoli. Noi che siamo successori degli Apostoli (benché in grado diverso) siamo chiamati a vivere questo riferimento evangelico.[8]
La “Vita Apostolica” (“Apostolica Vivendi Forma”), che riassume lo stile di vita degli Apostoli, assume una forma concreta nella sequela evangelica (cf. Mt 19, 27), nella fraternità o vita comunitaria (cf. Lc 10, 2) e nella missione (cf. Gv 20, 21; Mt 28, 19-20).[9]
Il cammino della santità sacerdotale si intraprende lasciandosi conquistare dall’amore di Cristo, sull’esempio di San Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (…) vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2, 20). Ed è questo stesso amore che conduce alla missione: “L’amore del Cristo ci spinge” (2 Cor 5, 14).
Il cristocentrismo di San Paolo scaturisce dalla fede vissuta come incontro con Cristo, “il Figlio di Dio” (At 9, 20), “il Salvatore” (Tt 1, 3), che “è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione” (Rm 4, 25). Cristo “vive” (At 25, 19) e dimora nel credente (cf. Fil 1, 31), comunicandogli la forza dello Spirito che lo rende figlio di Dio (cf. Gal 4, 4-7; Rm 8, 14-17). Per il battesimo, il cristiano viene configurato a Cristo (cf. Rm 6, 1-5). Paolo vive di questa fede. Sin dal suo incontro iniziale con il Signore, Paolo ha imparato che Cristo vive in tutto l’essere umano e, in maniera speciale, nella sua comunità ecclesiale, che egli descrive come “corpo” o espressione di Cristo (cf. 1 Cor 12, 26-27), “sposa” o consorte (cf. Ef 5, 25-27; 2 Cor 11, 2) e “madre” feconda di Cristo (cf. Gal 4, 19, 26).
Le rinunce del sacerdote ci vengono presentate in forma sintetica nell’espressione di San Pietro: “Noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito” (Mt 19, 27). La rinuncia totale non sarebbe possibile né avrebbe significato senza la “sequela” vissuta come incontro e amicizia. La “solitudine piena di Dio” (di cui parlava Paolo VI nell’enciclica Sacerdotalis coelibatus) è, per il sacerdote ministro, la riscoperta di una presenza e di un amore più bello e profondo: “Non aver paura … perché io sono con te” (At 18, 9-10).[10]
Cristo ci porta nel suo cuore sin dal primo momento del suo essere uomo. Se il mistero dell’uomo si decifra soltanto nel mistero che è Cristo, ogni essere umano ha nella propria vita delle impronte del suo amore: “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo… Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo” (GS 22). In questa prospettiva antropologico-cristiana, alla luce dell’Incarnazione, il sacerdote-ministro si sente interpellato da alcuni gesti di vita di Cristo, che amò “i suoi” (Gv 13, 1) e li presentò con affetto al cospetto del Padre: “coloro che tu mi hai dato” (Gv 17, 2 ss), “li hai amati come hai amato me” (Gv 17, 23).
La chiamata apostolica (“vieni”, “seguimi”) comporta relazione, imitazione e configurazione a Cristo. Se qualcuno vuole essere conseguente con questo atteggiamento relazionale impegnato, che chiamiamo “santità” (come imitazione della carità del Buon Pastore e, in quanto tale, riflesso di Dio Amore), in tutte le circostanze della sua vita troverà tracce di una presenza che oltrepassa la sensazione di assenza: “Io sarò con voi” (Mt 28, 20). Il decreto Presbyterorum Ordinis ricorda questa presenza, che è fonte di santità e di gioia pasquale: “I presbiteri non devono perdere di vista che nel loro lavoro non sono mai soli” (PO 22).[11]
La dimensione cristologica della santità è, per questo stesso fatto, dimensione eucaristica. “Siamo nati dall’Eucaristia … Il sacerdozio ministeriale ha la sua origine, vive, agisce e dà frutti «de Eucharistia» … Non c’è Eucaristia senza sacerdozio, come non esiste sacerdozio senza Eucaristia” (Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 2).[12]
Per garantire la dimensione cristologica della santità sacerdotale è necessaria porla in relazione con la dimensione mariana. Cristo Sacerdote e Buon Pastore non è un’astrazione, ma è nato da Maria Vergine e ha associato quest’ultima alla sua opera redentrice. Maria, Madre di Cristo Sacerdote e Madre nostra, vede in ognuno di noi un “Gesù vivente” (secondo l’espressione di San Giovanni Eudes), vale a dire, con parole del Concilio, “strumenti vivi di Cristo Sacerdote” (PO 12) che vogliono vivere “in comunione di vita” con lei come il discepolo amato (cf. RMa 45, nota 130). Abbiamo bisogno di vivere la nostra dimensione sacerdotale cristologica “alla scuola di Maria Santissima” (Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 7).[13]
La dimensione cristologica della santità sacerdotale include l’amore leale, sincero e incondizionato alla Chiesa. È, quindi, una dimensione ecclesiologica. L’Apostolo Paolo, nell’invitarci a configurarci a Cristo, ci esorta a vivere dei suoi stessi sentimenti (cf. Fil 2, 5) e delle sue stesse espressioni d’amore: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25). “Per ogni missionario la fedeltà a Cristo non può essere separata dalla fedeltà alla sua Chiesa” (RMi 89).
2. CHIAMATI A ESSERE MAESTRI E FORGIATORI DI SANTI, INNAMORATI DI CRISTO
La nostra chiamata alla santità include l’impegno ministeriale ad aiutare i fedeli a intraprendere il medesimo cammino di santificazione. Si tratta del “ministero e funzione di istruire, santificare e governare il popolo di Dio” (PO 7), in qualità di collaboratori dei vescovi. Per questo motivo, “la prospettiva in cui deve porsi tutto il cammino pastorale è quella della santità” (NMi 30). La dimensione cristocentrica della santità si concretizza necessariamente in dimensione ecclesiologica.
In realtà, dalla santità dei sacerdoti dipende, in gran parte, la santità, il rinnovamento e la missionarietà dell’intera comunità ecclesiale. Ecco cosa dice in proposito il Concilio Vaticano II: “Perciò questo sacro Sinodo, per il raggiungimento dei suoi fini pastorali di rinnovamento interno della Chiesa, di diffusione del Vangelo in tutto il mondo e di dialogo con il mondo moderno, esorta vivamente tutti i sacerdoti ad impiegare i mezzi efficaci che la Chiesa ha raccomandato in modo da tendere a quella santità sempre maggiore che consentirà loro di divenire strumenti ogni giorno più validi al servizio di tutto il popolo di Dio” (PO 12).
Tutta l’azione pastorale tende a costruire la comunità ecclesiale come riflesso della Trinità attraverso un processo di unificazione del cuore secondo l’amore, grazie al quale diventa possibile giungere ad essere “un cuor solo e un’anima sola” (At 4, 32). In questo modo si costruisce la Chiesa come “mistero”, vale a dire, come popolo “congregato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (LG 4). È un mistero di comunione missionaria: “La santità è apparsa più che mai la dimensione che meglio esprime il mistero della Chiesa. Messaggio eloquente che non ha bisogno di parole, essa rappresenta al vivo il volto di Cristo” (NMi 7).
L’azione ministeriale profetica, liturgica e diaconale, oltre a essere il mezzo e il luogo privilegiato della propria santificazione, è la palestra per orientare l’intera comunità ecclesiale verso il cammino della santità. I ministeri sono servizi che costruiscono una scuola di santità e di comunione ecclesiale. Siamo chiamati ad essere forgiatori di santi.
La nostra vita sacerdotale si può riassumere nell’azione ministeriale eucaristica: “Questo è il mio corpo (…) Questo è il mio sangue” (Mt 26, 26, 28). In quel momento agiamo in nome di Cristo e ci trasformiamo in lui. Tuttavia, quell’azione ministeriale eucaristica include l’annuncio (profetismo) e la comunione (diaconia). Inoltre, l’effetto delle parole del Signore non solo raggiunge il più profondo del nostro essere, trasformandolo, ma si trasmette anche a tutta la Chiesa e a tutta l’umanità.
Alla luce di questo servizio ministeriale (in relazione con il corpo eucaristico e con il corpo mistico di Cristo), tutto può essere ridotto all’urgenza di essere santi e far santi gli altri, come conseguenza del mandato eucaristico: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22, 19; 1 Cor 11, 24). Il compito è quello di annunciare, celebrare e comunicare Cristo. La trasformazione eucaristica del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo penetra l’essere e l’agire sacerdotale, per essere trasmessa alla Chiesa e all’intera umanità. L’incarico che Gesù dà ai sacerdoti colloca “il sigillo eucaristico sulla loro missione” (Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 3). Per mezzo dell’Eucaristia, siamo forgiatori di santi.[14]
La dedizione apostolica di Paolo ha questa caratteristica di “completare” Cristo per amore alla sua Chiesa (cf. Col 1, 24) e di preoccuparsi “per tutte le Chiese” (2 Cor 11, 28). Nella dottrina paolina, la vocazione cristiana è elezione in Cristo (cf. Ef 1, 3) per essere “gloria” o espressione sua per mezzo di una vita santa (Ef 1, 4-9) impegnata nella missione di “ricapitolare tutte le cose in Cristo” (Ef 1, 10) e contrassegnata con “il suggello dello Spirito” (Ef 1, 13). È una vita unita all’oblazione di Cristo (cf. Fil 2, 5-11) per partecipare al sacrificio eucaristico che rende presente l’oblazione del Signore “finché egli venga” (cf. 1 Cor 11, 23-26). Paolo è forgiatore di santi (cf. Gal 4, 19).[15]
Il significato sponsale del ministero mira a costruire la Chiesa santa, come sposa di Cristo, santificata dal suo amore sponsale: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5, 25-27).
Santificare la comunità ecclesiale equivale a renderla missionaria e “madre”, vale a dire, strumento di vita in Cristo per gli altri. La Chiesa, quindi, “Mediante la carità, la preghiera, l’esempio e le opere di penitenza, la comunità ecclesiale esercita una vera azione materna nei confronti delle anime da avvicinare a Cristo” (PO 6).
Se si annuncia la Parola, è per chiamare a un atteggiamento di ascolto, di conversione e di risposta generosa da parte dei credenti. La predicazione della Parola riunisce il popolo di Dio per edificarlo nella carità. Tramite questa predicazione, si mira a “invitare tutti insistentemente alla conversione e alla santità” (PO 4).
La celebrazione dell’Eucaristia e dei sacramenti in generale, nell’ambito dell’anno liturgico, è una chiamata a tutti i fedeli per fare della loro vita un’oblazione in unione con Cristo: “Sono in tal modo invitati e indotti a offrire assieme a lui se stessi, il proprio lavoro e tutte le cose create” (PO 5).
L’azione ministeriale che consiste nell’orientare, animare e sostenere la comunità, sempre in uno spirito di servizio, ha come obiettivo “che ciascuno dei fedeli sia condotto nello Spirito Santo a sviluppare la propria vocazione personale secondo il Vangelo, a praticare una carità sincera e attiva, ad esercitare quella libertà con cui Cristo ci ha liberati” (PO 6).
Nei tre ministeri si tende a formare Cristo nei credenti, attraverso un processo di santificazione che è trasformazione di criteri, scala di valori e attitudini, al fine di relazionarsi con Cristo, imitarlo e trasformarsi in lui. Così riassume San Paolo la sua azione santificatrice: “Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!” (Gal 4, 19) “Io provo infatti per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2 Cor 11, 2).
Il nostro ministero consiste nell’essere “strumenti vivi di Cristo Sacerdote” (PO 12). Proprio per questo, siamo servitori di una Chiesa chiamata alla santità. Il Quinto Capitolo della Lumen gentium è un solco tracciato per l’itinerario della santificazione: esiste una chiamata universale della Chiesa alla santità (LG 39-42) che consiste nella “perfezione della carità” e che si realizza nella vita quotidiana secondo il proprio stato di vita, utilizzando i mezzi adeguati per conseguire questo obiettivo (LG cap. VI, nn. 39-42). In tal modo, quindi, “tutti coloro che credono nel Cristo di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (LG 40).
Il battesimo è, per sua stessa natura, una chiamata e una possibilità di santità: pensare, sentire, amare e operare come Cristo. “Il Battesimo è un vero ingresso nella santità di Dio attraverso l’inserimento in Cristo e l’inabitazione del suo Spirito” (NMi 31). L’impegno fondamentale di coloro che si battezzano consiste nella decisione di farsi santi per il cammino indicato nel Discorso della Montagna: « Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste » (Mt 5, 48).
L’esperienza del proprio incontro personale con Cristo e della sequela evangelica, secondo il percorso delle beatitudini, rappresenta la migliore preparazione per poter accompagnare altre persone lungo lo stesso cammino di santificazione che, come abbiamo indicato, è un cammino di rapporto con Cristo, imitazione e trasformazione in lui. Il sacerdote è maestro di contemplazione, di perfezione, di comunione e di missione.
Il tema della santità sacerdotale nella sua dimensione cristocentrica appare in tutte le figure sacerdotale della storia. Quei santi sacerdoti furono maestri e modelli di santità sacerdotale e cristiana. Alcuni santi sacerdoti hanno lasciato degli scritti sulla vita e il ministero del sacerdote. Nella sua prima lettera del Giovedì Santo (1979), Giovanni Paolo II invita a ispirarsi alle figure sacerdotali della storia: “Sforzatevi di essere « artisti » della pastorale. Ce ne sono stati molti nella storia della Chiesa. Occorre elencarli? A ciascuno di noi parlano, ad esempio, san Vincenzo de’ Paoli, san Giovanni d’Avila, il santo Curato d’Ars, san Giovanni Bosco, il beato Massimiliano Kolbe, e tanti, tanti altri. Ognuno di loro era diverso dagli altri, era se stesso, era figlio dei suoi tempi ed era «aggiornato» rispetto ai suoi tempi. Ma questo «aggiornamento» di ciascuno era una risposta originale al Vangelo, una risposta necessaria proprio per quei tempi, era la risposta della santità e dello zelo”.[16]
3. ALCUNE OSSERVAZIONI SULLA SANTITÀ SACERDOTALE ALL’INIZIO DEL TERZO MILLENNIO
La santità costituisce il “fondamento della programmazione pastorale che ci vide impegnati all’inizio del nuovo millennio” (NMi 31). Questa affermazione di Giovanni Paolo II costituisce una sfida per la vita e il ministero sacerdotale. Siamo chiamati a essere santi e a costruire comunità che siano scuole di santità e di comunione.
In una società “iconica” che domanda dei segni, è necessario edificare una Chiesa che faccia trasparire le beatitudini come “autoritratto di Cristo” (VS 16). Effettivamente, “l’uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri… La testimonianza della vita cristiana è la prima e insostituibile forma della missione” (RMi 42). Coloro che oggi si sentono chiamati alla fede cristiana manifestano “il desiderio di trovare nella Chiesa stessa il Vangelo vissuto” (RMi 47).
Urge, quindi, presentare la figura del sacerdote come espressione della vita del Buon Pastore. San Paolo si considerava “fragranza di Cristo” (2 Cor 2, 15). Il Signore ci descrive come sua “espressione” o sua “gloria”: “Sono stato glorificato in loro” (Gv 17, 10). La nostra identità sacerdotale consiste nell’essere “prolungamento visibile e segno sacramentale di Cristo” (PDV 16).[17]
Non si tratta di un segno meramente esterno, bensì di una realtà ontologica (trasformazione in Cristo) che necessariamente deve manifestarsi sotto forma di testimonianza. Allo stesso tempo, questa realtà si traduce in vissuto personale e comunitario, per poter dire, come San Pietro il giorno di Pentecoste, con parole da lui ripetute in altri discorsi: “Noi siamo testimoni” (At 2, 32; 3, 15; 5, 32; 10, 39). È, quindi, relazione, imitazione, trasformazione in Cristo, che si concretizza nel farlo trasparire in noi.
Il mondo di oggi chiede testimoni dell’esperienza di Dio (cf. EN 76; RMi 91). Ogni apostolo, e in modo speciale il sacerdote, deve poter dire come San Giovanni: “Quel che abbiamo visto e udito, noi ve lo annunciamo” (1 Gv 1, 3). Lo Spirito Santo, ricevuto specialmente il giorno dell’ordinazione, rende capaci di trasmettere agli altri la propria esperienza di Gesù.[18]
L’inizio del terzo millennio costituisce un invito pressante ad essere segni trasparenti ed efficaci del Buon Pastore. La Parola, l’Eucaristia, i sacramenti e l’azione pastorale ci plasmano come espressione di Cristo e come segni santificatori.
Sulla base della mia esperienza di incontri sacerdotali in differenti latitudini e culture, sono giunto alla conclusione che, in questi primi anni del terzo millennio, può aver luogo un risorgimento sacerdotale, se si riscoprono gli enormi tesori dottrinali dei documenti conciliari e postconciliari (i quali, a loro volta, raccolgono una storia millenaria di grazia). Il giorno in cui ogni sacerdote novello avrà letto quei documenti e vi si sarà formato, ci sarà certamente un grande rinnovamento di vita e di vocazioni sacerdotali, per il fatto di aver riscoperto “un tesoro nascosto”, quale la “mistica” della propria spiritualità sacerdotale specifica.[19]
Giovanni Paolo II chiede di elaborare un progetto di vita sacerdotale nel Presbiterio che abbracci tutti questi aspetti (cf. PDV 79). Solo essendo fedeli al processo di santità arriveremo ad essere sacerdoti per una nuova evangelizzazione (cf. PDV 2, 9-10, 17, 47, 51, 82. Direttorio 98).[20]
Quando il Papa ricorda a noi sacerdoti le linee-guida della nostra santità, ci indica la relazione tra la consacrazione e la missione come binomio inseparabile: « La consacrazione è per la missione » (PDV 24).
Si potrebbe parlare del “carisma” apostolico e sacerdotale di Giovanni Paolo II, che si concretizza nella dinamica evangelica: dall’incontro alla missione. Mi pare che questa sia la chiave per comprendere i suoi documenti, a partire dal primo momento del suo pontificato, quando disse: “Spalancate le porte a Cristo”. Le sue encicliche, esortazioni apostoliche, lettere del Giovedì Santo e messaggi mostrano l’armonia tra la consacrazione (vista come abbandono totalizzante ai piani di Dio) e la missione (come vicinanza all’uomo e alla realtà concreta). Questa dinamica però è relazionale: dall’incontro con Cristo si passa alla sequela di Cristo e all’annuncio di Cristo.[21]
Le lettere del Giovedì Santo (dal 1979 al 2004) costituiscono un’eredità apostolica, una sorta di testamento sacerdotale di Giovanni Paolo II, che potrebbero essere riassunte nella litania rivolta a Cristo Sacerdote in cui si chiedono “Pastori secondo il suo Cuore” (Litania citata nella Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 7).
Le cinque Esortazioni apostoliche postsinodali continentali rappresentano una chiamata alla santità che si concretizza in un processo di pastorale “inculturata” nelle varie circostanze storiche e geografiche. A questo compito di santificazione siamo chiamati specialmente noi sacerdoti. Per la prima volta nella storia, viene raccolto il contributo di tutte le Chiese in questa maniera così concreta, quale è la celebrazione dei Sinodi Episcopali (continentali) accompagnata dalle rispettive Esortazioni postsinodali.[22]
Risulta particolarmente urgente, in queste Esortazioni continentali, la chiamata alla santità rivolta ai sacerdoti e alle persone consacrate: « In forza del sacramento dell’Ordine che li configura a Cristo Capo e Pastore, i Vescovi ed i sacerdoti devono conformare tutta la loro vita e la loro azione a Gesù » (Ecclesia in Europa 34).[23] « L’Europa ha sempre bisogno della santità, della profezia, dell’attività di evangelizzazione e di servizio delle persone consacrate » (ibid. 37).[24]
La propria identità sacerdotale potrà essere compresa e assimilata se si vive come segno personale e sacramentale del Buon Pastore, riconoscendo che si possiede una spiritualità sacerdotale specifica entusiasmante. È la gioia di essere e sentirsi segno di Cristo, qui e ora, con il proprio Vescovo, con la propria Chiesa particolare, nel proprio Presbiterio, al servizio della Chiesa locale e universale, ispirandosi alle figure sacerdotali della storia e anche, quando qualcuno si sente chiamato, facendo riferimento a carismi particolari più concreti della vita religiosa o associativa.
La diocesanità include tutta questa storia di grazia, che costituisce un patrimonio apostolico. Senza la relazione personale e comunitaria con Cristo Sacerdote e Buon Pastore, la spiritualità sacerdotale diocesana non troverebbe la propria pista d’atterraggio. Se è sacerdote, segno del Buon Pastore, nel qui e ora della propria Chiesa particolare, presieduta sempre da un successore degli Apostoli (in comunione con il Sommo Pontefice e il Collegio Episcopale) colui che concretizza per i suoi sacerdoti le linee evangeliche della sequela di Cristo.[25]
Una linea caratteristica della spiritualità cristiana e sacerdotale all’inizio del terzo millennio è la speranza, che presuppone la fede e deve farsi concreta nella carità. Oggi è possibile essere santi e apostoli. È possibile evangelizzare nelle situazioni nuove, perché abbiamo grazie nuove. C’è però bisogno di apostoli rinnovati.[26]
Nella spiritualità e santità sacerdotale, questo tono di speranza si traduce in “gioia pasquale” (PO 11). La vita dell’apostolo riflette la gioia pasquale, anche nei momenti di difficoltà, dando testimonianza della speranza cristiana: « Il missionario è l’uomo delle Beatitudini… Vivendo le Beatitudini, il missionario sperimenta e dimostra concretamente che il Regno di Dio è già venuto ed egli lo ha accolto. La caratteristica di ogni vita missionaria autentica è la gioia interiore che viene dalla fede » (RMi 91). È la gioia di far “passare” o di trasformare la sofferenza in amore di donazione, come eredità che ci ha lasciato Gesù nell’ultima cena (cf. Gv 15, 11; 17, 13).
LINEE CONCLUSIVE
La santità sacerdotale è essenzialmente di dimensione cristologica e, per questo stesso motivo, si apre alle dimensioni trinitaria, pneumatologica, ecclesiologica e antropologica. Precisamente la carità pastorale, come imitazione della vita del Buon Pastore, ha questo orientamento nei confronti dei disegni del Padre (cf. Gv 10, 18) e ricalca le orme dell’azione dello Spirito Santo (cf. Lc 10, 1, 14, 18). « Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando » (At 10, 38).
La consacrazione sacerdotale del ministro ordinato, in quanto partecipazione alla consacrazione sacerdotale di Cristo per prolungare la sua stessa missione, ha la sua radice nel mistero del Verbo incarnato: « Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo… Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo » (GS 22).
Essendo segno personale e comunitario di Cristo Sacerdote e Buon Pastore, noi sacerdoti siamo espressione del suo amore nei confronti di tutti e di ognuno dei redenti. Il contatto del sacerdote con qualsiasi essere umano deve essere annuncio e testimonianza di questo amore, affinché tutti si sentano amati da Cristo e resi capaci di amare lui e, con lui, di amare tutti gli altri fratelli. La vita sacerdotale costituisce un invito missionario e basato sulla vita come espressione testimoniale di quell’annuncio: Dio ti ama, Cristo è venuto per te.
La dimensione cristologica della santità sacerdotale fa ricordare la realtà del “martirio” come parte integrante del “kerigma” o primo annuncio. Siamo stati scelti per essere “testimoni” (“martiri”) di colui che è stato crocifisso ed è risorto: « Noi siamo testimoni » (At 2, 32), « e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui » (At 5, 32). Il ricordo della figura sacerdotale del martire San Massimiliano Kolbe indica questa linea di carità pastorale oblativa.[27]
La « gioia pasquale » (PO 11) riassume bene tutti i contenuti della dimensione cristocentrica della santità sacerdotale. In realtà, è la gioia delle “beatitudini” e del “Magnificat”, per il fatto di sapersi amato da Cristo e reso capace di amarlo e farlo amare. È partecipazione alla gioia stessa di Cristo (cf. Lc 10, 21). È la gioia che ci ha lasciato il Signore come lascito (Gv 15, 11; 16, 22, 24; 17, 13). È la gioia che nasce dall’incontro permanente con lui. Quando, nel Cenacolo, gli Apostoli scelscero Mattia, fecero la sintesi di un percorso di vita sacerdotale e apostolica: un uomo che sarebbe stato insieme al Signore, per essere testimone gioioso della sua risurrezione (cf. At 1, 22). È la gioia di Paolo: « Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione » (2 Cor 7, 4).
La dimensione cristocentrica o cristologica della santità sacerdotale si traduce in:
- Dichiarazione reciproca di amore, come scelta e chiamata:
« Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi; Rimanete nel mio amore » (Gv 15, 9); « io ho scelto voi » (Gv 15, 16); « vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2, 20).
- Relazione fatta di incontro, amicizia, intimità, contemplazione:
« Si fermarono presso di lui » (Gv 1, 39); « ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare » (Mc 3, 14-15); « voi siete miei amici » (Gv 15, 14); « sarò con voi » (Mt 28, 20); « per me infatti il vivere è Cristo » (Fil 1, 21).
- Relazione di appartenenza:
« Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine » (Gv 13, 1); « Padre… coloro che mi hai dato, sono tuoi »… (Gv 17, 9 ss); « non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (Gal 2, 20).
- Relazione di trasparenza e missione:
« Voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio » (Gv 15, 27); « Egli (lo Spirito) mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà » (Gv 16, 14); « Padre… Io sono glorificato in loro » (Gv 17, 10); « Come il Padre ha mandato me, io mando voi » (Gv 20, 21)…; « l’amore del Cristo ci spinge » (2 Cor 5, 14).
Alla luce della presenza di Cristo Risorto, che continua ad accompagnare « i suoi » (Gv 13, 1), si giunge a comportamenti che potremmo chiamare di sapienza e di buon senso cristiano e sacerdotale, e che costituiscono il segnale per sapere se una persona sta percorrendo seriamente il cammino della santità nella dimensione cristologica. La traduzione in vita della nostra realtà di partecipazione all’essere di Cristo e di prolungamento della sua missione si potrebbe così esprimere in concreto:
- Non dubitare dell’amore di Cristo:
Mons. Francesco Saverio Nguyen van Thuan, Arcivescovo di Saigón, rimase tredici anni nel carcere di quella città. I primi giorni della sua dura prigionia, sentendosi scoraggiato per la sua apparente inutilità, seppe discernere la voce del Signore nel proprio cuore: “Voglio te, non le tue cose”.[28]
- Non sentirsi mai soli:
Mons. Tang, Vescovo di Cantón, trascorse 22 anni in carcere. Al suo arrivo a Roma gli venne chiesto di parlare delle sofferenze subite in quella solitudine. Quando gli domandarono che cosa lo avesse aiutato a perseverare, rispose: « Cristo non abbandona”.[29]
- Non poter prescindere da lui:
Paolo, nel carcere di Roma: « Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato… Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza » (2 Tm 4, 16-17).
- Non anteporre nulla a lui:
“Negli innamorati la ferita di uno è di entrambi, e i due hanno un medesimo sentimento” (San Giovanni della Croce, Cant. B, c. 30, n. 9).
Il nostro modo di pregare si può realizzare soltanto con il « mantenere fisso lo sguardo su Cristo » (Lettera del Giovedì Santo 2004, n.5). Questo incontro quotidiano di vita concreta con Cristo, nell’Eucaristia, nella Scrittura e nei fratelli, dà senso alla vita sacerdotale; tuttavia, deve essere un incontro d’amore appassionato che deve convertirsi in annuncio appassionato. La nostra identità si dimostra nel vivere e far vivere la presenza di Cristo Risorto nella Chiesa e nel mondo. Si tratta di uno « stupore eucaristico » che suscita vocazioni sacerdotali (cf. Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 5), perché allora i giovani in noi « intuiscono la chiamata di un amore più grande » (ibidem, n. 6).
La relazione personale con Cristo, che è la sorgente della missione, si plasma « in comunione di vita » con Maria (cf. RMa 45, nota 130). È « comunione viva con Gesù attraverso il Cuore della sua Madre » (Rosarium Virginis Mariae 2). Nel cuore di Maria, Madre di Cristo Sacerdote e Madre nostra, si può udire l’eco di tutto il Vangelo (cf. Lc 2, 19, 51).[30]
Maria ci accompagna in tutte le nostre celebrazioni eucaristiche e in tutto il nostro ministero. Ella continua ad essere il dono di Cristo a tutti i suoi fedeli e, in modo particolare, ai suoi ministri. « Vivere nell’Eucaristia il memoriale della morte di Cristo implica anche ricevere continuamente questo dono. Significa prendere con noi – sull’esempio di Giovanni – colei che ogni volta ci viene donata come Madre » (Ecclesia de Eucharistia, n. 57). Possiamo unirci ai “sentimenti di Maria” quando ella ascolta dalle nostre labbra le parole della consacrazione (« il mio corpo… il mio sangue ») (cf. ibid. n. 56).[31]
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[1] « Imitamini quod tractatis » (imita quello che fai) è l’espressione che ora si trova nel testo dell’allocuzione durante l’ordinazione presbiterale, quando il vescovo spiega “la funzione di santificare in nome di Cristo”. Secondo San Tommaso d’Aquino, “il Sacro Ordine presuppone la santità” (cf. II-II, q.189, a.1, ad 3), per poter servire degnamente il corpo eucaristico e il corpo mistico di Cristo (cf. Suppl. q.36, a.2, ad 1) e per guidare altri lungo il cammino della santità.
[2] Il “carattere” sacerdotale del sacramento dell’ordine esige santità, per il fatto di poter operare in nome di Cristo; la grazia sacramentale comunica la possibilità di essere santi, vale a dire, di essere coerenti con ciò che siamo e facciamo.
[3] Indichiamo alcuni studi sulla santità e sulla spiritualità sacerdotale: AA.VV., Espiritualidad sacerdotal, Congreso (Madrid, EDICE, 1989); C. BRUMEAU, Les éléments spécifiques de la vie spirituelle des prêtres d’après Vatican II: Le prêtre, hier, aujourd’hui, démain (Paris, Cerf, 1970) 196-205; J. CAPMANY, Apóstol y testigos, reflexiones sobre la espiritualidad y la misión sacerdotales (Barcelona, Santandreu, 1992); M. CAPRIOLI, Il sacerdozio. Teologia e spiritualità (Roma, Teresianum, 1992); J. ESQUERDA BIFET, Teología de la espiritualidad sacerdotal (Madrid, BAC, 1991); Idem, Signos del Buen Pastor, Espiritualidad y misión sacerdotal (Bogotá, CELAM, 2002); A. FAVALE, El ministerio presbiteral, aspectos doctrinales, pastorales y espirituales (Madrid, Soc. Educ. Atenas, 1989); G. GRESHAKE, Essere preti, Teologia e spiritualitá del ministero sacerdotale (Brescia, Queriniana, 1995); J.L. ILLANES, Espiritualidad y sacerdocio (Madrid, Rialp, 1999); D. TETTAMANZI, La vita spirituale del prete (Casale Monferrato, PIEMME, 2002); R. SPIAZZI, Sacerdozio e santità. Fondamenti teologici della spiritualità sacerdotale (Roma 1963); K. WOJTYLA, La sainteté sacerdotale comme carte d’identité: Seminarium (1978) 167-181; P. XARDEL, La flamme qui dévore le berger (Paris, Cerf, 1969).
[4] Sono i titoli biblici utilizzati e spiegati in PO nn.1-3 e PDV cap.II (cf. nn.20-22).
[5] AA.VV., Identità e missione del sacerdote (Roma, Città Nuova, 1994); F. ARIZMENDI, Vale la pena ser hoy sacerdote? (México, Lib. Parroquial, 1988); M. THURIAN, L’identità del sacerdote (Casale Monferrato, PIEMME, 1993). Cf. gli altri saggi citati nella nota 4.
[6] Un bramino convertito (poi diventato sacerdote e missionario)mi descriveva la sua conversione ricordando la sua esperienza di incontro con Cristo. Visitando la cappella dell’Ospedale di cui era direttore, il suo sguardo si fermò sull’immagine del crocifisso e udì dentro di sé queste parole: “Mi ha amato”. Subito ne trasse questa conclusione: “Se lui mi ama, io voglio amarlo e farlo amare”…
[7] Cf. S. Benedetto, Regola, 4, 31; 72, 11.
[8] Pastores dabo vobis indica la « vita apostolica » come punto di riferimento della santità sacerdotale, sempre come imitazione della vita del Buon Pastore e secondo lo stile degli Apostoli (cf. PDV 15-16, 42, 60, etc.). Spiego questi contenuti e offro bibliografia, in: Spiritualità sacerdotale per una Chiesa missionaria (Roma, Urbaniana University Press, 1998) cap.V (Essere segno trasparente del Buon Pastore). Trad. in inglese: Priestly Spirituality and Mission (Roma, Pont. Univ. Urbaniana, 1995).
[9] Le linee di questa vita apostolica, eminentemente evangelica, potrebbero essere così riassunte: 1ª: Scelta, vocazione, per iniziativa di Cristo (cf. Mt 10,1ss; Lc 6, 12ss; Mc 3,13ss; Gv 13,18; 15,14ss). 2ª: « Sequela Christi » o sequela evangelica (cf. Mt 4,19ss; 19, 21-27; Mc 10,35ss); 3ª: Carità del Buon Pastore (cf. Gv 10; At 20,17ss; 1Pe 5,1ss), 4ª: Missione di totalitarietà e di universalismo (cf. Mt 28,18ss; Mc 16,15ss; At 1,8; Gv 20,21; PO 10). 5ª: Comunione fraterna (cf. Lc 10,1; Gv 13,34.35; 17,21-23). 6ª: Eucaristia, centro e sorgente dell’evangelizzazione (cf. Lc 22,19-20; 1Cor 11,23ss; Gv 6,35ss). 7ª: Sintonia con la preghiera sacerdotale di Cristo (cf. Gv 17; Mt 11,25ss; Lc 10,21ss). 8ª: Al servizio della Chiesa sposa (cf. 2Cor 11,2; Ef 5,25-27; Gv 17,23; 1Tim 4,14: « grazia » permanente). 9ª: Con Maria, « la Madre di Gesù » (cf. Gv 19,25-27; At 1,14; Gal 4,4-19).
[10] Varrebbe la pena riflettere sulla realtà della verginità di Maria e di Giuseppe, che permise loro di scoprire in Cristo una predilezione singolare nei loro confronti, aperta sempre all’intera umanità e a ogni essere umano in particolare, in maniera irripetibile. La vita sacerdotale centrata su Cristo si riassume nell’imitazione del suo sguardo sui fratelli, scoprendo in essi una storia d’amore sponsale ed eterno. Tutti occupiamo un luogo privilegiato nel Cuore di Cristo.
[11] Può essere applicata ad ogni apostolo, e specialmente a ogni sacerdote, quest’affermazione dell’enciclica missionaria di Giovanni Paolo II: « Proprio perché « inviato », il missionario sperimenta la presenza confortatrice di Cristo, che lo accompagna in ogni momento della sua vita… e lo aspetta nel cuore di ogni uomo » (RMi 88).
[12] La dimensione eucaristica della santità sacerdotale è oggetto di un altro contributo in questo Convegno Internazionale di Sacerdoti.
[13] Anche la dimensione mariana costituisce l’oggetto di un altro contributo nel presente Incontro Internazionale. Sulla spiritualità sacerdotale mariana, ho riassunto contenuti e bibliografia in: (Sacerdoti) Maria nella spiritualità sacerdotale: Nuovo Dizionario di Mariologia (Paoline 1985), 1237-1242.
[14] « In persona Christi vuol dire di più che «a nome», oppure «nelle veci» di Cristo. In persona: cioè nella specifica, sacramentale identificazione col sommo ed eterno Sacerdote » (enc. Ecclesia de Eucharistia n.29).
[15] Cf. F. PASTOR RAMOS, Pablo, un seducido por Cristo (Estella, Verbo Divino, 1993). Il tema paolino è stato trattato da un altro contributo in questo convegno sacerdotale.
[16] Giovanni Paolo II, Lettera del Giovedì Santo 1979, n. 6. Occorrerebbe diventare imbevuti degli scritti sacerdotali di tutta la storia, specialmente di epoca patristica: S. Ignazio d’Antiochia (Lettere), S. Giovanni Crisostomo (Libro sul sacerdozio), S. Ambrogio (De officiis ministrorum), S. Gregorio Magno (Regula Pastoralis), S. Isidoro di Siviglia (De ecclesiasticis officiis); nell’epoca di Trento: S. Giovanni d’Avila (Pratiche dei sacerdoti; Trattato sul sacerdozio), S. Carlo Borromeo, S. Giovanni di Ribera, ecc. Cf. figure e scrittori di ogni epoca storica in: Teologia della spiritualità sacerdotale, o.c., cap. IX (sintesi storica); Segni del Buon Pastore, o.c., cap. X (sintesi e sviluppo storico) (or. Spagnolo, trad. italiano, inglese).
[17] La parola “segno” si ripete con frequenza in PDV (cf. nn. 12,15-16,22,42-43,49). Ha la connotazione di “sacramentalità” nel contesto della Chiesa “sacramento”: segno trasparente e PORTADOR. Indica la trasparenza che riflette il proprio essere e il proprio stile di vita e che si converte in strumento efficace di santificazione e di evangelizzazione.
[18] « La missione della Chiesa, come quella di Gesù, è opera di Dio o – come spesso dice Luca – opera delLo Spirito. Dopo la risurrezione e l’ascensione di Gesù gli Apostoli vivono un’esperienza forte che li trasforma: la Pentecoste. La venuta dello Spirito Santo fa di essi dei testimoni e dei profeti (cf. At 1, 8; 2, 17-18), infondendo in loro una tranquilla audacia che li spinge a trasmettere agli altri la loro esperienza di Gesù e la speranza che li anima » (RMi 24).
[19] Sono ancora pochi quelli che si ordinano sacerdoti avendo studiato (o letto) questi documenti. È necessario compiere una rilettura comparata di Presbyterorum Ordinis in relazione a Pastores dabo vobis e ad altri documenti (le Lettere del Giovedì Santo, il Direttorio, ecc.). Allora si scopre il proprio essere come partecipazione all’essere o consacrazione di Cristo (PO 1-3; PDV cap.II; Direttorio cap.I), per prolungare la sua stessa missione(PO 4-6; PDV cap.II, Direttorio cap.II), nella comunione ecclesiale che si concretizza anche nel proprio Presbiterio (PO 7-9; PDV 31, 74; Direttorio 25-28), che esige e rende possibile la santità sacerdotale come « carità pastorale » (PO 12-14; PDV cap.III; Direttorio 43-56), che si traduce nelle virtù del Buon Pastore (PO 15-17; PDV 27-30; Direttorio 57-67), senza dimenticare gli strumenti concreti e la formazione permanente (PO 18-21; PDV cap.VI; Direttorio cap.III). Occorre aggiungere l’esortazione apostolica Pastores gregis (2003), così come il Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi (2004).
[20] Presento le motivazioni e le possibilità di questo progetto in: Ideario, objetivos y medios para un proyecto de vida sacerdotal en el Presbiterio: Sacrum Ministerium 1(1995) 175-186. Cf. inoltre: J.T. SANCHEZ, Los sacerdotes protagonistas de la Evangelización, in: (Pontificia Comisión para América Latina), Evangelizadores, Obispos, sacerdotes y diáconos, religiosos y religiosas, laicos (Lib. Edit. Vaticana 1996) 101-110. Una buona base per un progetto di vita nel Presbiterio: Proposta di vita spirituale per i presbiteri diocesani (Bologna, EDB, 2003).
[21] Ho studiato e riassunto i documenti del Papa, visti in questa prospettiva, in: El carisma misionero de Juan Pablo II: De la experiencia de encuentro con Cristo a la misión: Osservatore Romano (ed. sp.), 17.7.2001, pp.8-11; Juan Pablo II, el carisma del encuentro con Cristo para la Misión: Omnis Terra n.321 (2002) 234-248; Jean Paul II: le charisme de la rencontre avec le Christ pour la mission: Omnis Terra (fr.) n.383 (2002)234-248; John Paul II, the Charisma of the encounter with Christ for Mission: Omnis Terra (Ing.) n.328 (2002) 233-247.
[22] « Decisivi sono, quindi, la presenza e i segni della santità: essa è prerequisito essenziale per un’autentica evangelizzazione, capace di ridare speranza. Occorrono testimonianze forti, personali e comunitarie, di vita nuova in Cristo. Non basta, infatti, che la verità e la grazia siano offerte mediante la proclamazione della Parola e la celebrazione dei Sacramenti; è necessario che siano accolte e vissute in ogni circostanza concreta, nel modo di essere dei cristiani e delle comunità ecclesiali. Questa è una delle scommesse più grandi che attendono la Chiesa che è in Europa all’inizio del nuovo millennio » (Ecclesia in Europa 49). « Frutto della conversione operata dal Vangelo è la santità di tanti uomini e donne del nostro tempo. Non solo di quanti sono stati proclamati ufficialmente tali dalla Chiesa, ma anche di coloro che, con semplicità e nella quotidianità dell’esistenza, hanno dato testimonianza della loro fedeltà a Cristo » (ibidem, 14). Cf. citazioni simili in: Ecclesia in America 30-31 (vocazione universale alla santità, Gesù, l’unico cammino verso la santità); Ecclesia in Africa 136; Ecclesia in Oceania 30.
[23] Cf. anche: Ecclesia in America 39; Ecclesia in Africa 97-98; Ecclesia in Asia 43; Ecclesia in Oceania 49.
[24] Cf. anche: Ecclesia in America 43; Ecclesia in Africa 94; Ecclesia in Asia 44; Ecclesia in Oceania 51-52.
[25] Nell’esortazione apostolica postsinodale Pastores gregis si sottolinea la necessità che il vescovo si assuma le proprie responsabilità nel promuovere la spiritualità dei suoi sacerdoti; cf. in particolare nn. 47 e 48. Il Direttorio per il Ministero Pastorale dei Vescovi indica le medesime linee: nn. 75-83.
[26] Gli ultimi documenti di Giovanni Paolo II tracciano con decisione questa linea di speranza. Gli apostoli sono animati dalla speranza (cf. Nmi 24). È sufficiente leggere le Esortazioni Apostoliche postsinodali , che incoraggiano ad affrontare le nuove situazioni seguendo i segni positivi dell’azione provvidenziale di Dio. Anche in Novo Millennio ineunte, in cui si cerca di approfondire il mistero dell’Incarnazione come « segno di genuina speranza » (NMi 4). La storia di ogni credente è « una storia di vita, fatta di gioie, ansie, dolori; una storia incontrata da Cristo, e che nel dialogo con lui riprendeva il suo cammino di speranza » (NMi 8). « Ci anima la speranza di essere guidati dalla presenza del Risorto e dalla forza inesauribile del suo Spirito, capace di sorprese sempre nuove » (NMi 12). « Duc in altum! Andiamo avanti con speranza! Un nuovo millennio si apre davanti alla Chiesa come oceano vasto in cui avventurarsi, contando sull’aiuto di Cristo » (NMi 58).
[27] Un sacerdote martire della mia diocesi, Lleida, durante la persecuzione del 1936 in Spagna, dopo essere stato fucilato era ancora vivo e recitava il Credo; quando l’aguzzino gli si avvicinò per finirlo con il colpo di grazia, domandò che gli lasciassero terminare la professione di fede…
[28] Cf. alcune delle sue testimonianze del tempo trascorso in carcere, in: Testimoni della speranza (Roma, Città Nuova, 2000). È lo stile di vita paolino: « Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? » (Rm 8,35).
[29] Santa Teresa invita a « portarle sempre con sé », perché « con un così buon amico presente, tutto si può sopportare » (Vita, 22,6).
[30] La preghiera sacerdotale di Gesù, pronunciata nell’ultima cena, può facilmente essere posta in relazione con il Cuore o l’interiorità di Maria, specialmente dal momento in cui ricevette l’incarico di essere nostra Madre (cf. Gv 19, 25-27: « ecco il tuo figlio »): « Io sono glorificato in loro… li hai amati come hai amato me… Io sono in essi » (Gv 17,10.23.26).
[31] Con il trascorrere degli anni del nostro sacerdozio potremmo avere la sensazione, alcune volte, di sentirci con le “mani vuote”; tuttavia, l’esempio di S. Teresa di Lisieux è entusiasmante, quando dice al Signore: “Poni le tue mani nelle mie e non saranno più vuote”. Da parte mia, debbo dire che nel corso dei miei 50 anni di sacerdozio (1954-2004) non mi sono mai pentito del mio primo incontro con Cristo, quando cominciai a sentire la vocazione al sacerdozio. La vita sacerdotale è sempre una storia di grazia e di misericordia. È una vita che si sforza di essere spesa con gioia, per amare Cristo e farlo amare. Talvolta, ho avuto l’impressione di essere “uno straccio” inutile. Ma l’incontro personale con Cristo, rinnovato quotidianamente nell’Eucaristia e nel suo Vangelo, mi ha fatto sentire nel cuore le sue parole incoraggianti: “Questo straccio è mio”, lavato con il mio sangue redentore (cf. Ap 7, 14).