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IL SIGNIFICATO E IL VALORE DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

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IL SIGNIFICATO E IL VALORE DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

La Confessione è sacramento della Conversione poiché realizza sacramentalmente l’appello di Gesù alla conversione. Il peccato indebolisce l’uomo, lo depaupera, gli sottrae la sua bellezza originaria di essere creato a immagine e somiglianza di Dio. Ecco perchè la Chiesa invita i cristiani ad accostarsi con fiducia e maggiore frequenza al sacramento della Riconciliazione.
Nell’ultimo periodo si è parlato molto dei Sacramenti. Il Papa ha incentrato il suo discorso al Convegno della Diocesi di Roma sul Battesimo. Qualche settimana fa l’Incontro mondiale delle Famiglie ha celebrato la bellezza del Matrimonio e proprio ieri si è concluso il Convegno Eucaristico Internazionale di Dublino. Manca ancora uno: la Confessione. Un Sacramento che per i cattolici è un esercizio della carità di Dio, mentre per molte persone è un’occasione dove la persona viene giudicata e punita. Ma cos’è realmente la Confessione? Qual è il suo vero significato?
Ne ha parlato don Alessandro Saraco, Officiale della Penitenzieria Apostolica*, autore di due saggi pubblicati dalla LEV: “La Penitenzieria Apostolica. Storia di un Tribunale di misericordia e di pietà” e“La Grazia nella debolezza. L’esperienza spirituale di Andrè Louf”.
Don Alessandro, potrebbe spiegarci il vero significato della Confessione?
Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, la Confessione è sacramento della Conversione poiché realizza sacramentalmente l’appello di Gesù alla conversione, il cammino di ritorno al Padreda cui si è allontanati con il peccato.
È chiamata anche sacramento del Perdono, poiché attraverso l’assoluzione del sacerdote, Dio accorda al penitente il “perdono e la pace”. Ancora, è sacramento della Riconciliazione perché dona al peccatore l’amore di Dio che riconcilia.
Bastano queste poche battute per smentire la mentalità di coloro che, erroneamente, concepiscono il confessionale come “il moderno Tribunale d’Inquisizione della coscienza”, e si evidenzia invece come in questo sacramento si raccoglie l’intero annuncio del Vangelo. Accostarsi al confessionale, infatti, è come entrare nel cuore stesso di Dio, il Padre ricco di misericordia, lento all’ira e grande nell’amore, che fa festa per ogni figlio che ritorna a Lui. Ecco la buona novella annunciata da Gesù: siamo peccatori, ma il nostro peccato può essere perdonato e assolto.
Alcuni sostengono che la confessione sia un’invenzione della Chiesa. Quando e per iniziativa di chi è iniziata questa pratica tra i cristiani?
E’ difficile individuare un filo unificante nello sviluppo storico del sacramento della Penitenza. La celebrazione di tale sacramento, come lo intendiamo noi oggi, era del tutto sconosciuta alla Chiesa delle origini, la quale concedeva al penitente il perdono dei peccati in un unico e irripetibile atto: il Battesimo. Tale stato di grazia ricevuto col Battesimo veniva interrotto da peccati considerati particolarmente gravi come l’idolatria, l’omicidio e l’adulterio. Commettere questi peccati comportava l’esclusione dalla comunione ecclesiale, senza poter partecipare all’Eucaristia.
In questi casi il processo di riconciliazione da parte del penitente comportava una disciplina molto severa, secondo la quale i peccatori dovevano fare una lunga e pubblica penitenza per i peccati commessi, prima di venire nuovamente accolti nella comunità ecclesiale dopo un’esortazione da parte del Vescovo.
La prassi di una “penitenza privata” ha inizio nell’Irlanda monastica nel VII secolo e si è poi diffusa in Europa grazie alla predicazione dei missionari. Bisogna attendere il IV Concilio Lateranense del 1215, con la Costituzione 21, Omnis utriusque sexus, per avere la prima e “ufficiale” proclamazione da parte della Chiesa dell’obbligo per “ogni fedele di entrambi i sessi, dopo che avrà raggiunto l’età della discrezione confessare fedelmente in privato i suoi peccati, almeno una volta all’anno, al proprio sacerdote”.
Cosa si intende per peccati? Perché la Chiesa invita a confessarli?
Il Catechismo definisce il peccato “una mancanza contro la ragione, la verità e la retta coscienza. E’ una trasgressione in ordine all’amore vero, verso Dio e verso il prossimo, a causa di un perverso attaccamento a certi beni. In altri termini, il peccato è alienazione dell’uomo da Dio e, al medesimo tempo, alienazione dell’uomo da se stesso in quanto, una volta perduto il contatto con l’Assoluto, finisce per perdere se stesso. Il peccato indebolisce l’uomo, lo depaupera, gli sottrae la sua bellezza originaria di essere creato a immagine e somiglianza di Dio. Ecco perchè la Chiesa invita i cristiani ad accostarsi con fiducia e maggiore frequenza al sacramento della Riconciliazione: soltanto mediante la sua celebrazione possiamo ritrovare la verità di essere figli prediletti del Padre che si compiace di limitare e arginare l’azione distruttiva del peccato con la potenza della Sua infinita misericordia.
Chi ha il potere e la forza di perdonare i peccati e rinnovare a vita nuova?
Ricordando le parole di Benedetto XVI nella Spe Salvi posso dire che l’uomo può scegliere di commettere il male ma da solo non può liberarsene. Solo Dio ci può redimere. Perciò, occorre avere l’umiltà di riconoscersi peccatori e di rivolgersi con fiducia a Colui che non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva.
Spesso rimaniamo sgomenti quando prendiamo coscienza delle nostre fragilità e cadute. Alcuni disperano, altri si smarriscono; alcuni arrivano perfino a sfuggire da se stessi e da Dio. Ciò avviene perché non crediamo abbastanza che Dio è disposto sempre ad accoglierci e perdonarci. La vita spirituale è una continua opera di conversione. Non possiamo mai appartenere a quella categoria di persone di cui Gesù ha detto “che non hanno bisogno di conversione”, è sempre illusorio credersi convertiti una volte per tutte.
Non siamo mai dei semplici peccatori, ma dei “peccatori-perdonati”, dei “peccatori-in-perdono”, dei “peccatori-in-conversione”. Solo Cristo può vincere il male che ci abita e il confessionale diventa lo spazio privilegiato nel quale l’amore di Cristo fino alla donazione di sé trionfa sulla potenza del male e della colpa.
Benedetto XVI ha lamentato la perdita della pratica della Confessione in molte parti della Chiesa universale. Come mai avviene questo? E soprattutto come si pensa di far rinascere l’entusiasmo nella pratica del confessarsi?
Il Santo Padre, in tanti suoi interventi, più volte ci ha messo in guardia dal pericolo del relativismo etico e da una “imperante cultura edonista che sta oscurando nelle coscienze degli individui il senso del peccato”. Anzi, assistiamo al verificarsi di un fenomeno ancora più inquietante per cui il peccato perde la sua impronta di male e si trasforma in moda. Siamo come avvolti da un’atmosfera amorale. Non esiste più la frontiera tra vizio e virtù, tra bene e male, tra ciò che è buono e ciò che non lo è.
Conoscere il proprio peccato, rendersi conto del male delle nostre azioni, diventa allora un atteggiamento fondamentale se vogliamo emanciparci da una cultura di morte. Riconoscersi peccatori ci spinge a rivolgere il nostro cuore al Signore implorando il suo perdono e ottenendo così salvezza e pace. In tal senso, dovremmo tenere più presente un tema di vita spirituale caro alla tradizione monastica antica: la lotta spirituale, ovvero il combattimento invisibile in cui il cristiano, sostenuto dalla Grazia, resiste e lotta per non soccombere sotto il peso delle tentazioni. Occorre prendere sul serio tale “combattimento” per dire “no” al potere del Maligno e dire “sì” all’amore di Dio e alla Verità.
* La Penitenzieria Apostolica è il primo dei Tribunali della Curia Romana la cui competenza si riferisce alle materie che concernono il Foro interno e le Indulgenze. Per il Foro interno, sia sacramentale che non sacramentale, essa concede le assoluzioni, le dispense, le commutazioni, le sanazioni, i condoni e altre grazie. La stessa provvede che nelle Basiliche Patriarcali dell’Urbe ci sia un numero sufficiente di penitenzieri, dotati delle opportune facoltà. Le origini di questo dicastero sono antichissime. La sua fondazione risale intorno alla metà del XII secolo quando il forte incremento dei pellegrinaggi penitenziali presso la Sede Apostolica e il rafforzamento della plenitudo potestatis del Pontefice comportarono un consistente aumento delle richieste di assoluzioni da pene e censure dirette da ogni parte d’Europa verso Roma. Per potervi far fronte, i papi delegarono la propria facoltà di trattare determinate materie ad un cardinale, designato nel linguaggio delle fonti dapprima come “poenitentiarius papae”, poi come “poenitentiarius generalis” e dai decenni conclusivi del XIII secolo come “maior poenitentiarius”. Recentemente, è stato aperto alla consultazione degli studiosi una parte considerevole del patrimonio archivistico del Dicastero e, precisamente, la Serie dei Fondi riguardanti la documentazione di casi, materie e situazioni che la Penitenzieria Apostolica, nella sua plurisecolare attività, ha trattato in “Foro esterno”, unitamente ad altre Serie riguardanti più strettamente la storia del Dicastero, la sua evoluzione nel tempo, la struttura e organizzazione interna.

(Teologo Borèl) Giugno 2012 – autore: Don Alessandro Saraco

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA - SACRAMENTARIA |on 11 janvier, 2016 |Pas de commentaires »

IL TESORO NASCOSTO DI PAPA RATZINGER: LE OMELIE SUL BATTESIMO – di Sandro Magister

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IL TESORO NASCOSTO DI PAPA RATZINGER: LE OMELIE SUL BATTESIMO

L’ultima è di pochi giorni fa, quindicesima della serie. Con un passaggio folgorante contro le « pompe del diavolo » che trionfano nella mentalità corrente. Uno « spettacolo » al quale ogni battezzato ha promesso di rinunciare

di Sandro Magister

ROMA, 18 giugno 2012 – È passata quasi inosservata al grande pubblico. Ma la « lectio divina » che Benedetto XVI ha tenuto la sera di lunedì 11 giugno nella basilica di San Giovanni in Laterano, la cattedrale di Roma, è stata uno dei momenti più alti di quel capolavoro d’insieme che sono le sue omelie sul Battesimo.
Che Benedetto XVI sia destinato a passare alla storia per la sua predicazione liturgica, come prima di lui papa Leone Magno, è un’ipotesi ormai più che consolidata.
Ma nel grande « corpus » della sue omelie, quelle dedicate al Battesimo hanno un posto di rilevanza unica.
Il mandato a battezzare « nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo » è nelle ultime parole di Gesù su questa terra. La Chiesa le ha prese tremendamente sul serio, ed è così che genera i suoi figli, da sempre. Di conseguenza, il Battesimo è l’atto di nascita e il documento d’identità di ogni cristiano.
Per questo è così centrale nella predicazione di Benedetto XVI. In un’epoca di diffuso analfabetismo religioso, di fede tremolante e di battesimi in calo nei paesi di antica cristianità, papa Joseph Ratzinger vuole ripartire dai fondamenti della vita cristiana e restituirli allo sguardo di tutti nella loro splendente bellezza.
Le sue omelie battesimali ne sono un esempio lampante. E così la « lectio divina » che ha tenuto lo scorso 11 giugno ai fedeli di Roma che gremivano la cattedrale.
Benedetto XVI ha parlato a braccio, come gli antichi Padri della Chiesa. Sopra di lui gli ascoltatori potevano ammirare, al centro dell’antico mosaico dell’abside, una croce gemmata dalla quale scaturivano fiumi di acqua viva.
Ed è stato proprio il nesso tra il Battesimo e la croce uno dei punti salienti della « lectio divina » del papa, che ha preso le mosse dal « mandato » dato da Gesù agli apostoli prima di salire al cielo: « Andate, fate discepoli tutti i popoli e battezzateli nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo ».
Un altro passaggio della « lectio » che ha molto colpito i presenti è là dove il papa ha ridato significato e freschezza attuale a un’antica formula del rito: la rinuncia del battezzando « a Satana e alle sue pompe », formula oggi annacquata in rinuncia « alle seduzioni del male ».
Da quando è stato eletto papa, sette anni fa, Benedetto XVI ha amministrato il Battesimo quattordici volte, ogni volta dedicandovi l’omelia.
Sette volte nella domenica che ogni anno segue l’Epifania, la domenica che festeggia il Battesimo di Gesù nel Giordano.
E altre sette volte nella veglia pasquale.
Nel primo caso battezzando dei bambini, quasi sempre di Roma, nella Cappella Sistina, e nel secondo caso battezzando degli adulti, provenienti da ogni parte del mondo, nella basilica di San Pietro.
Ecco qui di seguito la trascrizione integrale della « lectio divina » tenuta dal papa nella basilica di San Giovanni in Laterano l’11 giugno 2012, aprendo un convegno della diocesi di Roma, la sua diocesi, dedicato precisamente al Battesimo e alla sua « pastorale ».
Ma a seguire, il lettore troverà i link all’intero « corpus » delle omelie battesimali di Benedetto XVI: le sette da lui fin qui pronunciate nelle domeniche del Battesimo di Gesù e le altre sette delle veglie pasquali.
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IMMERSI NEL PADRE, NEL FIGLIO, NELLO SPIRITO SANTO

di Benedetto XVI
Cari fratelli e sorelle, [...] le ultime parole del Signore su questa terra ai suoi discepoli, sono state: « Andate, fate discepoli tutti i popoli e battezzateli nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo » (cfr. Mt 28, 19).
Fate discepoli e battezzate. Perché non è sufficiente per il discepolato conoscere le dottrine di Gesù, conoscere i valori cristiani? Perché è necessario essere battezzati? Questo è il tema della nostra riflessione, per capire la realtà, la profondità del sacramento del Battesimo.
Una prima porta si apre se leggiamo attentamente queste parole del Signore. La scelta della parola « nel nome del Padre » nel testo greco è molto importante: il Signore dice « eis » e non « en », cioè non « in nome » della Trinità, come noi diciamo che un viceprefetto parla « in nome » del prefetto, un ambasciatore parla « in nome » del governo. No. Dice: « eis to onoma », cioè una immersione nel nome della Trinità, un essere inseriti nel nome della Trinità, una interpenetrazione dell’essere di Dio e del nostro essere, un essere immerso nel Dio Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, così come nel matrimonio, per esempio, due persone diventano una carne, diventano una nuova, unica realtà, con un nuovo, unico nome.
Il Signore ci ha aiutato a capire ancora meglio questa realtà nel suo colloquio con i sadducei circa la risurrezione. I sadducei riconoscevano dal canone dell’Antico Testamento solo i cinque Libri di Mosè e in questi non appare la risurrezione; perciò la negavano. Il Signore, proprio da questi cinque Libri dimostra la realtà della risurrezione e dice: Voi non sapete che Dio si chiama Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe? (cfr. Mt 22, 31-32).
Quindi, Dio prende questi tre e proprio nel suo nome essi diventano « il » nome di Dio. Per capire chi è questo Dio si devono vedere queste persone che sono diventate il nome di Dio, un nome di Dio, sono immersi in Dio. E così vediamo che chi sta nel nome di Dio, chi è immerso in Dio, è vivo, perché Dio – dice il Signore – è un Dio non dei morti, ma dei vivi, e se è Dio di questi, è Dio dei vivi. I vivi sono vivi perché stanno nella memoria, nella vita di Dio.
E proprio questo succede nel nostro essere battezzati: diventiamo inseriti nel nome di Dio, così che apparteniamo a questo nome e il suo nome diventa il nostro nome e anche noi potremo, con la nostra testimonianza – come i tre dell’Antico Testamento –, essere testimoni di Dio, segno di chi è questo Dio, nome di questo Dio.
Quindi, essere battezzati vuol dire essere uniti a Dio. In un’unica, nuova esistenza apparteniamo a Dio, siamo immersi in Dio stesso.
Pensando a questo, possiamo subito vedere alcune conseguenze.
La prima è che Dio non è più molto lontano per noi, non è una realtà da discutere – se c’è o non c’è –, ma noi siamo in Dio e Dio è in noi. La priorità, la centralità di Dio nella nostra vita è una prima conseguenza del Battesimo. Alla questione: « C’è Dio? », la risposta è: « C’è ed è con noi; c’entra nella nostra vita questa vicinanza di Dio, questo essere in Dio stesso, che non è una stella lontana, ma è l’ambiente della mia vita ». Questa sarebbe la prima conseguenza e quindi dovrebbe dirci che noi stessi dobbiamo tenere conto di questa presenza di Dio, vivere realmente nella sua presenza.
Una seconda conseguenza di quanto ho detto è che noi non ci facciamo cristiani. Divenire cristiani non è una cosa che segue da una mia decisione: « Io adesso mi faccio cristiano ». Certo, anche la mia decisione è necessaria, ma soprattutto è un’azione di Dio con me: non sono io che mi faccio cristiano, io sono assunto da Dio, preso in mano da Dio e così, dicendo « sì » a questa azione di Dio, divento cristiano.
Divenire cristiani, in un certo senso, è « passivo »: io non mi faccio cristiano, ma Dio mi fa un suo uomo, Dio mi prende in mano e realizza la mia vita in una nuova dimensione. Come io non mi faccio vivere, ma la vita mi è data; sono nato non perché io mi sono fatto uomo, ma sono nato perché l’essere umano mi è donato. Così anche l’essere cristiano mi è donato, è un « passivo » per me, che diventa un « attivo » nella nostra, nella mia vita. E questo fatto del « passivo », di non farsi da se stessi cristiani, ma di essere fatti cristiani da Dio, implica già un po’ il mistero della croce: solo morendo al mio egoismo, uscendo da me stesso, posso essere cristiano.
Un terzo elemento che si apre subito in questa visione è che, naturalmente, essendo immerso in Dio, sono unito ai fratelli e alle sorelle, perché tutti gli altri sono in Dio e se io sono tirato fuori dal mio isolamento, se io sono immerso in Dio, sono immerso nella comunione con gli altri.
Essere battezzati non è mai un atto solitario di « me », ma è sempre necessariamente un essere unito con tutti gli altri, un essere in unità e solidarietà con tutto il corpo di Cristo, con tutta la comunità dei suoi fratelli e sorelle. Questo fatto che il Battesimo mi inserisce in comunità, rompe il mio isolamento. Dobbiamo tenerlo presente nel nostro essere cristiani.
E finalmente ritorniamo alla parola di Cristo ai sadducei: « Dio è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe » (cfr. Mt 22, 32), e quindi questi non sono morti; se sono di Dio sono vivi. Vuol dire che con il Battesimo, con l’immersione nel nome di Dio, siamo anche noi già immersi nella vita immortale, siamo vivi per sempre.
Con altre parole, il Battesimo è una prima tappa della risurrezione: immersi in Dio, siamo già immersi nella vita indistruttibile, comincia la risurrezione. Come Abramo, Isacco e Giacobbe essendo « nome di Dio » sono vivi, così noi, inseriti nel nome di Dio, siamo vivi nella vita immortale. Il Battesimo è il primo passo della risurrezione, l’entrare nella vita indistruttibile di Dio.
Così, in un primo momento, con la formula battesimale di san Matteo, con l’ultima parola di Cristo, abbiamo visto già un po’ l’essenziale del Battesimo.
Adesso vediamo il rito sacramentale, per poter capire ancora più precisamente che cosa è il Battesimo.
Questo rito, come il rito di quasi tutti i sacramenti, si compone da due elementi: da materia – acqua – e dalla parola.
Questo è molto importante. Il cristianesimo non è una cosa puramente spirituale, una cosa solamente soggettiva, del sentimento, della volontà, di idee, ma è una realtà cosmica. Dio è il Creatore di tutta la materia, la materia entra nel cristianesimo, e solo in questo grande contesto di materia e spirito insieme siamo cristiani. Molto importante è, quindi, che la materia faccia parte della nostra fede, il corpo faccia parte della nostra fede. La fede non è puramente spirituale, ma Dio ci inserisce così in tutta la realtà del cosmo e trasforma il cosmo, lo tira a sé.
E con questo elemento materiale – l’acqua – entra non soltanto un elemento fondamentale del cosmo, una materia fondamentale creata da Dio, ma anche tutto il simbolismo delle religioni, perché in tutte le religioni l’acqua ha qualcosa da dire. Il cammino delle religioni, questa ricerca di Dio in diversi modi – anche sbagliati, ma sempre ricerca di Dio – diventa assunta nel sacramento. Le altre religioni, con il loro cammino verso Dio, sono presenti, sono assunte, e così si fa la sintesi del mondo. Tutta la ricerca di Dio che si esprime nei simboli delle religioni, e soprattutto – naturalmente – il simbolismo dell’Antico Testamento, che così, con tutte le sue esperienze di salvezza e di bontà di Dio, diventa presente. Su questo punto ritorneremo.
L’altro elemento è la parola, e questa parola si presenta in tre elementi: rinunce, promesse, invocazioni.
Importante è che queste parole quindi non siano solo parole, ma siano cammino di vita. In queste si realizza un decisione, in queste parole è presente tutto il nostro cammino battesimale, sia pre-battesimale, sia post-battesimale. Quindi, con queste parole, e anche con i simboli, il Battesimo si estende a tutta la nostra vita.
Questa realtà delle promesse, delle rinunce, delle invocazioni è una realtà che dura per tutta la nostra vita, perché siamo sempre in cammino battesimale, in cammino catecumenale, tramite queste parole e la realizzazione di queste parole. Il sacramento del Battesimo non è un atto di un’ora, ma è una realtà di tutta la nostra vita, è un cammino di tutta la nostra vita. In realtà, dietro c’è anche la dottrina delle due vie, che era fondamentale nel primo cristianesimo: una via alla quale diciamo « no » e una via alla quale diciamo « sì ».
Cominciamo con la prima parte, le rinunce. Sono tre e prendo anzitutto la seconda: « Rinunciate alle seduzioni del male per non lasciarvi dominare dal peccato? ».
Che cosa sono queste seduzioni del male? Nella Chiesa antica, e ancora per secoli, qui c’era l’espressione: « Rinunciate alla pompa del diavolo? », e oggi sappiamo che cosa era inteso con questa espressione « pompa del diavolo ». La pompa del diavolo erano soprattutto i grandi spettacoli cruenti, in cui la crudeltà diventa divertimento, in cui uccidere uomini diventa una cosa spettacolare: spettacolo, la vita e la morte di un uomo. Questi spettacoli cruenti, questo divertimento del male è la « pompa del diavolo », dove appare con apparente bellezza e, in realtà, appare con tutta la sua crudeltà.
Ma oltre a questo significato immediato della parola « pompa del diavolo », si voleva parlare di un tipo di cultura, di una « way of life », di un modo di vivere, nel quale non conta la verità ma l’apparenza, non si cerca la verità ma l’effetto, la sensazione, e, sotto il pretesto della verità, in realtà, si distruggono uomini, si vuole distruggere e creare solo se stessi come vincitori.
Quindi, questa rinuncia era molto reale: era la rinuncia ad un tipo di cultura che è un’anti-cultura, contro Cristo e contro Dio. Si decideva contro una cultura che, nel Vangelo di san Giovanni, è chiamata « kosmos houtos », « questo mondo ». Con « questo mondo », naturalmente, Giovanni e Gesù non parlano della creazione di Dio, dell’uomo come tale, ma parlano di una certa creatura che è dominante e si impone come se fosse questo il mondo, e come se fosse questo il modo di vivere che si impone.
Lascio adesso ad ognuno di voi di riflettere su questa « pompa del diavolo », su questa cultura alla quale diciamo « no ». Essere battezzati significa proprio sostanzialmente un emanciparsi, un liberarsi da questa cultura. Conosciamo anche oggi un tipo di cultura in cui non conta la verità. Anche se apparentemente si vuol fare apparire tutta la verità, conta solo la sensazione e lo spirito di calunnia e di distruzione. Una cultura che non cerca il bene, il cui moralismo è, in realtà, una maschera per confondere, creare confusione e distruzione. Contro questa cultura, in cui la menzogna si presenta nella veste della verità e dell’informazione, contro questa cultura che cerca solo il benessere materiale e nega Dio, diciamo « no ». Conosciamo bene anche da tanti Salmi questo contrasto di una cultura nella quale uno sembra intoccabile da tutti i mali del mondo, si pone sopra tutti, sopra Dio, mentre, in realtà, è una cultura del male, un dominio del male.
E così, la decisione del Battesimo, questa parte del cammino catecumenale che dura per tutta la nostra vita, è proprio questo « no », detto e realizzato di nuovo ogni giorno, anche con i sacrifici che costa opporsi alla cultura in molte parti dominante, anche se si imponesse come se fosse il mondo, questo mondo: non è vero. E ci sono anche tanti che desiderano realmente la verità.
Così passiamo alla prima rinuncia: « Rinunciate al peccato per vivere nella libertà dei figli di Dio? ».
Oggi libertà e vita cristiana, osservanza dei comandamenti di Dio, vanno in direzioni opposte. Essere cristiani sarebbe come una schiavitù; libertà è emanciparsi dalla fede cristiana, emanciparsi – in fin dei conti – da Dio. La parola peccato appare a molti quasi ridicola, perché dicono: « Come! Dio non possiamo offenderlo! Dio è così grande, che cosa interessa a Dio se io faccio un piccolo errore? Non possiamo offendere Dio, il suo interesse è troppo grande per essere offeso da noi ».
Sembra vero, ma non è vero. Dio si è fatto vulnerabile. Nel Cristo crocifisso vediamo che Dio si è fatto vulnerabile, si è fatto vulnerabile fino alla morte. Dio si interessa a noi perché ci ama e l’amore di Dio è vulnerabilità, l’amore di Dio è interessamento dell’uomo, l’amore di Dio vuol dire che la nostra prima preoccupazione deve essere non ferire, non distruggere il suo amore, non fare nulla contro il suo amore perché altrimenti viviamo anche contro noi stessi e contro la nostra libertà. E, in realtà, questa apparente libertà nell’emancipazione da Dio diventa subito schiavitù di tante dittature del tempo, che devono essere seguite per essere ritenuti all’altezza del tempo.
E finalmente: « Rinunciate a Satana? ». Questo ci dice che c’è un « sì » a Dio e un « no » al potere del Maligno che coordina tutte queste attività e si vuol fare dio di questo mondo, come dice ancora san Giovanni. Ma non è Dio, è solo l’avversario, e noi non ci sottomettiamo al suo potere. Noi diciamo « no » perché diciamo « sì », un « sì » fondamentale, il « sì » dell’amore e della verità.
Queste tre rinunce, nel rito del Battesimo, nell’antichità, erano accompagnate da tre immersioni: immersione nell’acqua come simbolo della morte, di un « no » che realmente è la morte di un tipo di vita e risurrezione ad un’altra vita. Su questo ritorneremo.
Poi, la confessione in tre domande: « Credete in Dio Padre onnipotente, creatore, in Cristo e, infine, nello Spirito Santo e la Chiesa? ».
Questa formula, queste tre parti, sono state sviluppate a partire dalla Parola del Signore: « Battezzare in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ». Queste parole sono concretizzate ed approfondite: che cosa vuol dire Padre, cosa vuol dire Figlio – tutta la fede in Cristo, tutta la realtà del Dio fattosi uomo – e che cosa vuol dire credere di essere battezzati nello Spirito Santo, cioè tutta l’azione di Dio nella storia, nella Chiesa, nella comunione dei Santi.
Così, la formula positiva del Battesimo è anche un dialogo: non è semplicemente una formula. Soprattutto la confessione della fede non è soltanto una cosa da capire, una cosa intellettuale, una cosa da memorizzare – certo, anche questo –, ma tocca anche l’intelletto, tocca anche il nostro vivere, soprattutto. E questo mi sembra molto importante. Non è una cosa intellettuale, una pura formula. È un dialogo di Dio con noi, un’azione di Dio con noi, e una risposta nostra, è un cammino. La verità di Cristo si può capire soltanto se si è capita la sua via. Solo se accettiamo Cristo come via incominciamo realmente ad essere nella via di Cristo e possiamo anche capire la verità di Cristo. La verità non vissuta non si apre; solo la verità vissuta, la verità accettata come modo di vivere, come cammino, si apre anche come verità in tutta la sua ricchezza e profondità.
Quindi, questa formula è una via, è espressione di una nostra conversione, di un’azione di Dio. E noi vogliamo realmente tenere presente questo anche in tutta la nostra vita: che siamo in comunione di cammino con Dio, con Cristo. E così siamo in comunione con la verità: vivendo la verità, la verità diventa vita e vivendo questa vita troviamo anche la verità.
Adesso passiamo all’elemento materiale: l’acqua.
È molto importante vedere due significati dell’acqua. Da una parte, l’acqua fa pensare al mare, soprattutto al Mar Rosso, alla morte nel Mar Rosso. Nel mare si rappresenta la forza della morte, la necessità di morire per arrivare ad una nuova vita. Questo mi sembra molto importante. Il Battesimo non è solo una cerimonia, un rituale introdotto tempo fa, e non è nemmeno soltanto un lavaggio, un’operazione cosmetica. È molto più di un lavaggio: è morte e vita, è morte di una certa esistenza e rinascita, risurrezione a nuova vita.
Questa è la profondità dell’essere cristiano: non solo è qualcosa che si aggiunge, ma è una nuova nascita. Dopo aver attraversato il Mar Rosso, siamo nuovi. Così il mare, in tutte le esperienze dell’Antico Testamento, è divenuto per i cristiani simbolo della croce. Perché solo attraverso la morte, una rinuncia radicale nella quale si muore ad un certo tipo di vita, può realizzarsi la rinascita e può realmente esserci vita nuova.
Questa è una parte del simbolismo dell’acqua: simboleggia – soprattutto nelle immersioni dell’antichità – il Mar Rosso, la morte, la croce. Solo dalla croce si arriva alla nuova vita e questo si realizza ogni giorno. Senza questa morte sempre rinnovata, non possiamo rinnovare la vera vitalità della nuova vita di Cristo.
Ma l’altro simbolo è quello della fonte. L’acqua è origine di tutta la vita; oltre al simbolismo della morte, ha anche il simbolismo della nuova vita. Ogni vita viene anche dall’acqua, dall’acqua che viene da Cristo come la vera vita nuova che ci accompagna all’eternità.
Alla fine rimane la questione – solo una parolina – del Battesimo dei bambini. È giusto farlo, o sarebbe più necessario fare prima il cammino catecumenale per arrivare ad un Battesimo veramente realizzato?
E l’altra questione che si pone sempre è: « Ma possiamo noi imporre ad un bambino quale religione vuole vivere o no? Non dobbiamo lasciare a quel bambino la scelta? ».
Queste domande mostrano che non vediamo più nella fede cristiana la vita nuova, la vera vita, ma vediamo una scelta tra altre, anche un peso che non si dovrebbe imporre senza aver avuto l’assenso del soggetto.
La realtà è diversa. La vita stessa ci viene data senza che noi possiamo scegliere se vogliamo vivere o no. A nessuno può essere chiesto: « vuoi essere nato o no? ». La vita stessa ci viene data necessariamente senza consenso previo, ci viene donata così e non possiamo decidere prima « sì o no, voglio vivere o no ».
E, in realtà, la vera domanda è: « È giusto donare vita in questo mondo senza avere avuto il consenso: vuoi vivere o no? Si può realmente anticipare la vita, dare la vita senza che il soggetto abbia avuto la possibilità di decidere? ». Io direi: è possibile ed è giusto soltanto se, con la vita, possiamo dare anche la garanzia che la vita, con tutti i problemi del mondo, sia buona, che sia bene vivere, che ci sia una garanzia che questa vita sia buona, sia protetta da Dio e che sia un vero dono.
Solo l’anticipazione del senso giustifica l’anticipazione della vita. E perciò il Battesimo come garanzia del bene di Dio, come anticipazione del senso, del « sì » di Dio che protegge questa vita, giustifica anche l’anticipazione della vita.
Quindi, il Battesimo dei bambini non è contro la libertà. È proprio necessario dare questo, per giustificare anche il dono – altrimenti discutibile – della vita. Solo la vita che è nelle mani di Dio, nelle mani di Cristo, immersa nel nome del Dio trinitario, è certamente un bene che si può dare senza scrupoli.
E così siamo grati a Dio che ci ha donato questo dono, che ci ha donato se stesso. E la nostra sfida è vivere questo dono, vivere realmente, in un cammino post-battesimale, sia le rinunce che il « sì », e vivere sempre nel grande « sì » di Dio, e così vivere bene.

È POSSIBILE PERDONARE SE STESSI?

http://www.novena.it/il_teologo_risponde/teologo_risponde_108.htm

È POSSIBILE PERDONARE SE STESSI?

All’interno di un seminario di preghiera e catechesi al quale ho partecipato recentemente si è parlato dell’importanza del perdono e di come perdonare gli altri dipenda da un iniziale atto di volontà il quale, con l’aiuto della grazia, può consentirci di arrivare ad un perdono «completo» della persona o delle persone che ci hanno ferito. Nel corso di questo seminario però, come anche in altre precedenti occasioni, si è fatto riferimento alla necessità di perdonare non soltanto gli altri, ma anche se stessi. Tuttavia Pietro (Mt 18, 21), nella famosa domanda, fa riferimento al «fratello» che pecca contro di lui, non a se stesso. Le chiedo quindi se e quanto trova fondamento nella Scrittura il perdono nei confronti di se stessi, spesso chiamato in causa anche in ambito psicologico. È possibile perdonare se stessi? In che termini l’uomo può perdonare a se stesso? Non si tratta piuttosto di un interiore atteggiamento di accoglienza della misericordia di Dio?

Roberto Fenucci

Risponde padre Athos Turchi, docente di filosofia

Il perdono, nel comportamento umano, è un atto interessante. Intanto sembra che voglia dire: condonare completamente e pienamente (per è intensivo, e donare è condonare). Ne consegue che è un’azione che si rivolge verso altro al quale si condona qualcosa, e questo qualcosa è una qualche colpa, presa qui in senso genericissimo. Nella Bibbia, se non mi sfugge qualcosa, non si trova il perdono di se stessi, ma in primis il perdono è un atto di Dio: «Al Signore, che è il nostro Dio, appartengono la misericordia e il perdono… » (Dan. 9,9), e siccome Dio è il modello supremo dell’essere, dunque lo deve fare anche l’uomo. Nel NT il concetto di perdono è presente più di 140 volte e sempre indica il condono di una qualche offesa ricevuta da parte di altro. Il passo citato di Daniele suggerisce l’accostamento di due parole: misericordia e perdono. Dio guarda verso l’uomo: misero per il peccato; ne ha pietà: misereor; ne ha compassione dal profondo del cuore: misereor-cordis. Dunque lo perdona. Similmente il perdono umano segue un atto di misericordia. Tengo uniti i due concetti, perché il perdono deriva sempre da una compartecipazione allo stato misero dell’altro, reso tale proprio dalla colpa commessa. L’errore, il peccato, la colpa, l’offesa, o come altro si voglia dire, rendono chi la fa un meschino, un miserabile, un biasimevole, e come tale recriminano il diritto dell’offeso a giudicare e a condannare il colpevole. Si noti: il giudizio verso altro è un atto disumano e grave, perché pone il giudicato come diverso, inferiore, spregevole oggetto. Gesù stesso prende le distanze da questo atto: non son venuto a giudicare, ma a salvare (cf. Gv 3,16-21). E proprio la compassione o misericordia, sospende il giudizio verso l’altro e entra nella sua povera condizione di peccatore. Questo atto ha una forza enorme perché evoca la solidarietà tra uomini, in quanto Dio per primo è solidale con le miserie umane. Dio si lascia commuovere dalla situazione umana e sospende il suo assoluto e legittimo giudizio di condanna, per accedere al perdono. Se si riflette su queste cose si capisce la grandezza morale, spirituale, umana che alberga dentro ogni uomo, quando perdona il suo offensore. In altri termini: quando vengo offeso ho diritto al giudizio e alla vendetta sull’altro, ma in forza di una commozione del cuore (miseri-cordia), riconosco la sua deplorevole situazione, entro nel suo problema e perdonandolo cerco con lui di uscirne. La misericordia è vedere nel fratello che il bene che lui è come essere umano, è più grande delle sue azioni malvagie. Mi pare che in ciò ci sia veramente il gesto di Dio. Ma veniamo a noi. Si può perdonare allora se stessi? Da quanto detto: no, non possiamo, perché è contraddittorio commettere una colpa contro noi stessi. Però dice s.Paolo «Se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me» (cf. Rm 7,15-20). Questa considerazione ci permette di aggiungere qualcosa. È un dato comune che ciascuno ha capacità di riflessione su se stesso. Quando lo si fa è come se ci sdoppiassimo, e il nostro io diventa oggetto d’indagine. Se poi come dice s.Paolo c’è dentro di noi il «peccato» inteso come un corpo estraneo, allora abbiamo qualche elemento in più per riflettere. Ora è chiaro che non ha senso «perdonare se stessi», ma se con ciò vogliamo dire che nonostante il male che si compie, dentro di noi rimane una larga parte di bene, e se il male che si compie irrompe in noi quasi non voluto, allora in ragione di una dignità dataci dall’essere a immagine di Dio, che mai viene meno, e in ragione del desiderio di un rinnovato cammino nel bene, mi pare che possiamo a volte anche perdonarci il male che non voluto si compie, affinché dentro di noi non muoia la speranza di tornare ad essere salvi e salvati, e degni figli di Dio rigenerati dal battesimo.

Certamente non possiamo, ma, contro ogni disperazione interiore, a volte dobbiamo perdonarci il male che si compie, perché dentro di noi non muoia il desiderio del bene e la speranza di un ritorno alla vita di grazia in Dio.

ANNOTAZIONI SULLA STORIA DELLA PRASSI PENITENZIALE – UNA LETTURA ATTUALIZZANTE.

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ANNOTAZIONI SULLA STORIA DELLA PRASSI PENITENZIALE – UNA LETTURA ATTUALIZZANTE.

Di Carlo Collo, Docente di teologia sistematica e di ecumenismo alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Sezione di Torino.
(In: Confessione addio? Edizioni La Meridiana, Molfetta 2005, pag. 41-60)

La disattenzione di non pochi credenti nei confronti della forma celebrativa penitenziale in vigore non va precipitosamente imputata alla sola cattiva volontà. È sotto gli occhi di tutti un estraneamento progressivo dalle forme tradizionali, propiziato dai mutamenti culturali e sociali, che concerne anche la percezione della colpa e del suo superamento.
Negli stessi ambienti ecclesiali ricorrono inquietanti interrogativi: la prassi penitenziale privata vigente non ha fallito di fronte ai gravi problemi etici odierni? Non è ormai chiaro che essa non ha presa e mordente nella vita sociale (mafia, violenza, corporativismi, violazione dei diritti della persona, ecc.), politica (corruzione) e culturale?
Una presa di coscienza pacata, lucida e coraggiosa dei mutamenti culturali e nel contempo delle istanze evangeliche si rivela quindi indispensabile per un’inculturazione della fede nelle nostre democrazie occidentali. È prevedibile che la prassi penitenziale riceva integrazioni e subisca cambiamenti, così da vedere « emergere poco a poco un nuovo sistema penitenziale fatto di proposte diverse »2.
Perché questo rinnovamento sia fecondo occorre interrogare il passato: il passato normativo delle Sacre Scritture e il passato istruttivo della movimentata prassi penitenziale cristiana nel corso dei secoli.
Il ricorso alla storia della penitenza cristiana è non solo utile, ma indispensabile e per molte ragioni. Ci dissuade dall’idealizzare il passato e ci mostra come e per opera di chi sono state superate le crisi via via verificatesi. Ci rammenta la ricca molteplicità di forme penitenziali nel tempo e nello spazio allargando i nostri orizzonti sulle molte vie penitenziali, suggerisce verità e prassi dimenticate, stimola la fantasia pastorale all’invenzione responsabile.
Solo esaminando l’evoluzione diacronica delle forme o figure penitenziali e la loro molteplicità sincronica si può scoprire la struttura permanente della penitenza o, se si preferisce, le costanti sotto le variabili. In questo modo la Chiesa si prepara a svolgere il suo compito, che consiste nel proporre « non solo una dottrina, ma anche una figura della penitenza e dellà riconciliazione che sia allo stesso tempo più fedele agli insegnamenti della Scrittura e della Tradizione e più adatta ai bisogni e alle attese di oggi « 3.

Un’incursione nella storia della prassi penitenziale

Contributi storici rilevanti sono venuti da B. Poschmann, P. Galtier, E. Amann, J.A. Jungmann, P. Anciaux, C. Vogel, K. Rahner, H. Vorgrimler e altri. Da essi risulta che la riconciliazione con la Chiesa svolgeva un ruolo determinate nell’antica prassi penitenziale (M. de la Taille e B. F. Xiberta4, poi H. de Lubac, E. Mersch, M. Schmaus, K. Rahner, O. Semmelroth, E. Schillebeeckx e soprattutto B. Poschmann). Non consta che nella Chiesa antica esistesse una penitenza sacramentale privata accanto a quella ufficiale pubblica (Poschmann, nella sua lunga controversia con K. Adam e P. Galtier).
Mi pare che nulla di particolarmente significativo sia emerso dalle indagini storiche successive, mentre i dati degli studi suddetti attendono ancora di essere adeguatamente valorizzati nella teologia e nella prassi penitenziale.
La periodizzazione ormai invalsa è la seguente: penitenza neotestamentaria; penitenza antica, pubblica, canonica (dal II al VI secolo); dal secolo VI in poi: penitenza tariffata evoIuta poi in penitenza privata coesistente con altre forme penitenziali; dal secolo XVI: contestazione protestante e reazione dottrinale e disciplinare tridentina; dal Vaticano II a oggi.
La prassi penitenziale neotestamentaria propone anzitutto la quotidiana sollecitudine amorevole di Gesù per i peccatori, esemplare e normativa per la Chiesa di tutti i tempi. La missione di « legare e sciogliere » affidata a Pietro (Mt 16,18-19), non va forse considerata estesa in Mt 18,18 a tutti i cristiani, singoli e comunità, come la intendono molti esegeti e già Sant’Agostlno5?.
A proposito di Gv 20, « ritenere i peccati » non significa « non rimettere i peccati », come traduce la Bibbia della CEI, ma richiedere degli adempimenti al fine di poter rimettere i peccati come dono di Cristo spirituale (ruolo dello Spirito) e pasquale (evento della risurrezione)6.
Una lettura attenta del Nuovo Testamento permette di individuare diverse prospettive dottrinali e pratiche circa la remissione dei peccati che non vanno frettolosamente omologate7 e una pluralità di iniziative scalari di lotta contro il peccato, di carattere preventivo, curativo e chirurgico8.
Merita di essere rilevata anche la differenza tra la procedura di Mt 18 e la successiva penitenza pubblica della Chiesa primitiva. Il Nuovo Testamento attesta una prassi penitenziale molto ricca, che mobilita tutta la comunità e i singoli. Secondo Mt 18,15ss., per ottenere il perdono dei peccati bastava accettare l’ammonizione privata del fratello, di alcuni fratelli o della comunità, cessando di peccare. Se il peccatore prestava ascolto al fratello-cristiano non era più necessario far intervenire la comunità. Come suggeriscono esegeti contemporanei, va preso atto che il singolo non agiva privatamente, ma come membro della comunità ecclesiale che con il suo intervento correttivo in favore del fratello rendeva presente e operante9.
Anche la successiva prassi penitenziale della Chiesa primitiva in vigore nel II secolo non risulta uniforme e questo pluralismo permane fino alla pace costantiniana, quando si affermerà, almeno in Occidente, l’unicità della seconda penitenza a immagine di quella battesimale10.
La Didascalia degli apostoli ignora l’irripetibilità della penitenza postbattesimale, elemento prezioso da inserire nel dossier del pluralismo della Chiesa antica. Coesistevano, a quanto pare, prassi più rigorose con altre più comprensive, finché il laico montanista Tertulliano, nel suo De pudicitia, pretenderà di imporre come unica la sua posizione intransigente, polemizzando contro i vescovi di Cartagine e Roma.
Dopo l’editto di Milano (314) esce alla luce del sole un sistema penitenziale comunitario (in questo senso pubblico), esigente e regolamentato dai canoni (di qui la dicitura di penitenza canonica) che lo rendono sempre più uniforme e che, per il troppo rigore (interdetti), si avvia verso un progressivo inesorabile declino nel secolo Vl11.
Quali sono le ragioni che hanno indotto i pastori a non modificare una prassi penitenziale manifestamente impraticabile e a preferire il « deserto penitenziale »? Volendo essere fedeli alla tradizione, erano riluttanti a innovare, e probabilmente temevano di proporre ai barbari un cristianesimo troppo accomodante. Ma ciò nonostante « si fa fatica a capire come mai vescovi coscienti del loro ruolo pastorale, non abbiamo messo in discussione in nome del Vangelo il postulato della penitenza non reiterabile »12 e non siano riusciti a elaborare una nuova pastorale della riconciliazione e del perdono esente dagli interdetti e accessibile ai normali credenti nella nuova situazione. Questo enigma irrisolto della Chiesa antica deve far riflettere i fautori della conservazione a oltranza e dell’immobilismo pastorale.
È dagli uomini dello Spirito, dai carismatici, cioè dai monaci che nascerà una nuova forma penitenziale, la quale, dapprima collaudata all’interno del monastero, traboccherà sul resto del popolo di Dio: la penitenza celtica.
L’origine e la metamorfosi della penitenza celtica, irlandese, iro-scozzese o, come più tardi si dirà, tariffata o tassata, privata, ripetibile, senza interdetti, rimane ancora avvolta nel mistero. « I promotori di questo nuovo sistema non sono dei vescovi o dei teologi, bensì dei monaci. La disciplina che essi diffondono è una versione, a uso dei laici, di un’osservanza praticata nei monasteri »13.
La complessità e la non raggiunta chiarezza sul dossier storico di tale penitenza non ci permette di distinguere nettamente tra il ruolo del vescovo, del presbitero e del monaco guida spirituale. Anche sull’assoluzione, sulla sua necessità e sullo statuto del ministro si giungerà a chiarificazioni definitive solo nel secolo XIII. Antecedentemente, le formule erano solo o prevalentemente deprecative. Anzi « nei Penitenziali irlandesi non si trova traccia alcuna di una (rituale) riconciliazione. La mancanza di formule di riconciliazione (come anche dell’intercessione della comunità per il peccatore, componente della massima importanza nella penitenza canonica) costituisce la novità e il discrimine fondamentale tra il nuovo sistema penitenziale, che per le sue origini monastiche è aliturgico – e l’antica prassi canonica »14.
« La documentazione fornita dai penitenziali fino al secolo IX mostra che, in un primo tempo, questi monaci non davano l’assoluzione, sempre riservata al vescovo. Si accontentavano di indicare una penitenza ancora lunga, ma molto ridotta rispetto alla disciplina pubblica, che poteva essere compiuta segretamente. I formulari delle preghiere dei penitenziali dicono che al termine di questa penitenza il peccatore era ‘riconciliato con l’altare’, vale a dire riammesso all’eucaristia. In un secondo tempo (a partire dal 950), si assiste alla comparsa della menzione di assoluzione che si collega immediatamente alla confessione. La riconciliazione divenne ormai il ministero corrente del sacerdote. Questa assoluzione era da principio deprecativa, e si svolgeva sotto forma di preghiera (« Dio ti assolva…), prima di diventare indicativa (« io ti assolvo… ») « 15.
Questi inizi incerti e ambigui della penitenza monastica hanno sollevato alcuni interrogativi. Nella fase in cui essa non comportava ancora l’assoluzione, costituiva già un vero e proprio sacramento?
Secondo B. Sesboué, « si può affermare che la penitenza monastica è stata sacramentale perché si impose come dato di fatto alla Chiesa, che progressivamente la riconobbe. Ma bisogna riconoscere anche che essa è stata una forma ‘inferma’, nella misura in cui uno degli atti essenziali del sacramento non aveva significato in modo visibile, ma si inscriveva soltanto nel riconoscimento globale della Chiesa ». Egli osserva che « questo fatto, indiscutibile in ragione della sua durata, può essere considerato con interesse oggi, quando vediamo moltiplicarsi i casi in cui i laici inviati dal vescovo in missione pastorale in cappellanie (di licei, università, ospedali, prigioni…) si trovano nella situazione di ascoltare le confessioni senza potere dare l’assoluzione »16.
Concordo con Sesboué, ma vorrei aggiungere alcune considerazioni. Anzitutto « non bisogna maggiorare la grazia sacramentale a detrimento della (prima) realtà di grazia che si dispiega nella Chiesa-sacramento. Bisogna evitare di far credere – di fronte a certe richieste – che non vi sia grazia se non attraverso i sacramenti « 17. In secondo luogo gli stessi sette riti vanno intesi come sacramenti « in quanto in essi la Chiesa realizza e concretizza la sua presenza, che rivela e comunica la salvezza; e la Chiesa è sacramento, perché essa è il luogo in cui la presenza attiva e salvifica di Cristo morto e risorto, viene incontro all’uomo di oggi »18.
Sul modello di Cristo, ciò che è essenziale per comunicare il perdono di Dio è l’accoglienza del peccatore pentito da parte della Chiesa (di tutta la Chiesa, non della sola gerarchia né dei soli laici mandati dalla gerarchia). Ciò che significa e comunica il perdono di Cristo « non è per sé e necessariamente un determinato gesto o una determinata parola, ma l’atto (percepibile), con cui il capo della comunità riammette il peccatore… Di per sé non ha grande importanza, se il perdono viene espresso con il semplice gesto di offrire l’eucaristia, o con una preghiera rivolta al Signore misericordioso (forma deprecativa), o con una formula di sapore giuridico (forma dichiarativa) » 19.
La prassi penitenziale irlandese, secondo cui il monaco (non presbitero), senza mandato episcopale, ammette il penitente pentito all’eucaristia (altario reconciliatur) costituisce certo un caso singolare, ma non potrebbe essere interpretata come evento ecclesiale di riammissione suscitato dallo Spirito Santo? Quando i capi sonnecchiamo (impraticabilità della penitenza pubblica), lo Spirito suscita nella Chiesa iniziative riconciliatrici servendosi, in questo caso, di carismatici, di monaci.
La riforma carolingia della penitenza voluta dalle autorità civili e religiose rappresenta un intervento regolativo, non innovativo con luci e ombre20.
Non vanno dimenticate le altre forme di confessione e di penitenza medievali: la confessione diretta a Dio (vigente ancor oggi, se si tiene conto che, in presenza del sacerdote, è a Dio che ci si confessa: « Confesso a Dio onnipotente… »); la confessione ai laici vigente nel Nuovo Testamento, usata nel Medioevo in caso di necessità e approvata e raccomandata da San Tommaso, che le attribuisce una certa quale (imperfetta) sacramentalità21; i pellegrinaggi penitenziali e i pellegrinaggi di massa negli anni santi o giubilei. Questa pluralità di forme complementari salda la dimensione più intima e segreta della relazione con Dio con la manifestazione comunitaria del perdono e della riconciliazione che si esprime anche nello spazio (pellegrinaggio) e nel tempo (tempi significativi),
Sorvolo sul risveglio spirituale del XIII secolo, in cui l’opera di grandi papi riformatori, la nascita degli ordini mendicanti e il moltiplicarsi delle confraternite professionali preparano il terreno per l’affermarsi della penitenza privata, oltre che come mezzo di riconciliazione, come strumento di purificazione e progresso spirituale, sulla confessione frequente diffusa dai francescani e dai domenicani, che la praticano al loro interno e la estendono ai membri dei terz’ordini per giungere alla Riforma protestante e al Concilio di Trento.
li fatto che Lutero e gli altri riformatori abbiano rigettato elementi non marginali della dottrina e della prassi penitenziale ecclesiale non deve far dimenticare il loro intento principale. Essi non si limitarono a combattere gli abusi connessi con la ricerca delle indulgenze e la devozione alle reliquie, ma intesero riformare secondo la Parola di Dio una prassi penitenziale asfittica e farraginosa, incentrandola sui valori evangelici essenziali e liberandola da tutto ciò che la rendeva opprimente e torturante22.
La risposta del Concilio di Trento mirò a salvaguardare la sostanziale validità della prassi in vigore – di cui i padri conciliari non conoscevano sufficientemente le trasformazioni storiche – depurandola dagli abusi, ma recepì solo in minima parte le giuste istanze dei protestanti, Una qualche reminiscenza del pluralismo penitenziale trapela ancora dall’affermazione conciliare secondo la quale i peccati veniali « possono essere espiati con molti altri rimedi »,
La recezione del dettato conciliare a modo di summa esaustiva della dottrina e della prassi penitenziale, attuata dal cosiddetto tridentinismo, ha fatto sì che la teologia si riducesse a semplice commento dei canoni conciliari e la prassi diventasse appannaggio esclusivo della morale, del diritto canonico, della pastorale e della spiritualità. Lo Spirito che soffia dove vuole ha nondimeno suscitato confessori santi e sapienti, migliori della teologia del loro tempo.
li Concilio Vaticano II ha sancito – almeno sulla carta un cambiamento di mentalità e ha assunto ciò che era maturato negli studi teologici e liturgici, proponendo gli orientamenti fondamentali teologici e pastorali ai quali il nuovo Rito della penitenza del 1973 ha tentato di dare forma dottrinale, nelle Premesse, e celebrativa, nella parte rituale. Le premesse offrono il primo trattato organico sulla penitenza cristiana e la parte rituale propone tre riti (ordines):
- rito per la celebrazione dei singoli penitenti (ordo ad reconciliandos singulos paenitentes);
- rito per la riconciliazione di più penitenti con la confessione e l’assoluzione dei singoli (singularis);
- rito per la riconciliazione di più penitenti con la confessione e l’assoluzione generale.
Le celebrazioni penitenziali (non sacramentali) poste nell’appendice, adattabili alle diverse culture e in grado di promuovere un vero cammino penitenziale distribuito neltempo meriterebbero maggiore attenzione23. L’esame della dottrina e della prassi penitenziale delle Chiese ortodosse, anglicane e protestanti si rivela comunque indispensabile per ripensare e progettare adeguatamente il rinnovamento della prassi penitenziale cattolica.

Il rinnovamento della prassi penitenziale compete a tutti i cristiani

La storia attesta che la prassi penitenziale neotestamentaria richiedeva la partecipazione di tutti i cristiani (fratelli) e di ciascuno di essi. I capi della Chiesa intervenivano solo in ultima istanza (cfr. Mt 18 e 1Cor 5). La lotta contro il peccato era affidata a tutti i credenti nella diversità dei loro compiti.
Nella Chiesa dei padri la partecipazione non solo coreografica di tutto il popolo di Dio è ancora una realtà, che si attenua però con l’accentramento dei compiti nelle mani dei vescovi, con l’irrigidirsi della disciplina penitenziale e con il rifiuto opposto dai fedeli di sottoporsi a una disciplina penitenziale impraticabile caparbiamente conservata dai vescovi.
La nuova disciplina penitenziale sorge per opera dei carismatici, i monaci e, solo successivamente e non senza riluttanza, viene accolta dai vescovi. Agli ordini mendicanti si deve la diffusione della penitenza privata.
La nuova fase che si apre di fronte a noi non potrebbe comportare il ruolo attivo dei christifideles laici sia nella progettazione che nell’ attuazione di una rinnovata prassi penitenziale? L’ecclesiologia del Vaticano II offre notevoli impulsi in questa direzione. Dopo la riscoperta dell’uguale dignità di tutti i christifideles, della loro corresponsabilità nella vita della Chiesa e del loro ruolo attivo; dopo il riconoscimento della loro partecipazione all’ufficio profetico e regale di Cristo, che comportano tra l’altro « la denuncia coraggiosa del male » e « il combattimento spirituale per vincere il male in se stessi » e nel mondo24, nonché del sensus fidei che dà ad essi di aderire indefettibilmente alla fede, di penetrare in essa più a fondo con retto giudizio e di applicarla più pienamente alla vita25, non è più ammissibile una progettazione penitenziale sopra la testa dei laici.
Soltanto dai laici potranno giungere suggerimenti e proposte atti a rendere la prassi penitenziale più incisiva sui gravi mali che ci affliggono personalmente e socialmente. La complessità dei problemi e delle situazioni è tale da richiedere un impegno corale e concertato dei credenti, che mettano al servizio gli uni degli altri le specifiche competenze e i carismi personali per approdare a proposte veramente profetiche. Sono finiti i tempi dei dotti confessori dai responsi oracoli per qualsivoglia questione morale.
È illusorio attendere solo dalla gerarchia l’auspicato rinnovamento della prassi ecclesiale. I vescovi sono chiamati a custodire le forme celebrative vigenti, ma anche a farsi, più che autori, promotori di una prassi penitenziale dinamica e multiforme, che tragga dalla meditazione della parola di Dio e dai tesori del passato cose nuove e antiche sia nell’ordine della penitenza quotidiana vissuta sia nelle varie forme penitenziali celebrate, non solo sacramentali. A tal fine devono essere disposti a concedere a teologi, liturgisti, pastori e comunità che operano in sinergia credito, spazio e tempo per la sperimentazione delle forme penitenziali con le opportune verifiche.
Certo questo rimarrà lettera morta se i presbiteri, che formano un unico presbiterio col loro vescovo e sono fra loro legati da un’intima fraternità, non s’impegnano per primi a riflettere fraternamente sulla prassi penitenziale nei loro incontri.
Non soltanto nella fase progettuale, ma anche in quella esecutiva tutti i christifideles sono chiamati a svolgere il loro ruolo. Il restringimento a imbuto della prassi penitenziale alla sola confessione dei peccati di esclusiva pertinenza dei vescovi e dei presbiteri ha privato i laici e i religiosi non presbiteri di ogni iniziativa penitenziale, particolarmente nella vita quotidiana. Ho già ricordato che la grazia non è legata ai sacramenti e l’azione materna della Chiesa inizia ben prima dell’amministrazione dei sacramenti e continua dopo di essi. Oggi, in molti luoghi, la Chiesa è presente e operante solo attraverso il ministero (ministratio) dei laici. E poiché la riconciliazione va testimoniata, annunciata e vissuta, e non solo celebrata, si dischiude un immenso campo di lavoro per i laici a servizio della riconciliazione e della conversione. La stessa consulenza spirituale non è appannaggio esclusivo del clero. Lo spirituale può essere un monaco, un laico, un insegnante,
un padre di famiglia, ecc.
Si tratta di rendere consapevoli i laici della loro missione di individuazione del male e di lotta contro di esso anzitutto nella loro persona e poi nel mondo, nelle strutture e nelle situazioni ingiuste.
Nella preparazione e nell’attuazione delle celebrazioni penitenziali i laici possono fornire preziosi contributi, se finalmente si cesserà di considerarli semplici destinatari delle iniziative del clero. Anche nella fase di verifica della prassi penitenziale possono offrire utili correzioni e proposte.

Le molte vie della riconciliazione e della penitenza

La storia della prassi penitenziale registra fino al Concilio di Trento una mobile pluralità di forme che dopo il Concilio cessa almeno di fatto26. I « molti altri rimedi »27 per espiare i peccati veniali evocati dal testo conciliare rimangono lettera morta. Dopo Trento alcune vie penitenziali (per esempio la confessione ai laici) si estinguono e quelle superstiti vengono ignorate dalla teologia e trascurate dalla pastorale. Bisogna attendere il nuovo Rituale del 1973 per vedere finalmente riconosciuti i « molti e diversi modi con cui il popolo di Dio fa continua penitenza e si esercita in essa « 28. Essi si esprimono nella vita (sopportazione delle prove, opere di misericordia e di carità, intensificazione della conversione evangelica, ecc.) e nella liturgia (proclamazione della parola di Dio, preghiera, elementi penitenziali della celebrazione eucaristica, celebrazioni penitenziali, ecc.)29.
Nella Reconciliatio et paenitentia, Giovanni Paolo II ricorda che la Chiesa svolge il suo ministero non solo « in quanto proclama il messaggio della riconciliazione [...] ma anche in quanto mostra all’uomo le vie e gli offre i mezzi per la quadruplice riconciliazione con Dio, con se stesso, con i fratelli e con tutto il creato »30.
Le vie sono la conversione del cuore e la vittoria sul peccato; i mezzi l’ascolto della Parola di Dio, la preghiera personale e comunitaria, i sacramenti tra cui eccelle il sacramento della Riconciliazione31. I due mezzi principali per la promozione della penitenza e della riconciliazione sono la catechesi e i sacramenti, due mezzi da impiegare « in forme e modi antichi e nuovi », particolarmente con il ricorso a quel « mezzo e soprattutto modo » che è il dialogo32.
Altre vie di riconciliazione sono la preghiera, la predicazione, l’azione pastorale e la testimonianza33. Il sacramento della penitenza e della riconciliazione « non esaurisce in se stesso i concetti di conversione e di riconciliazione. La Chiesa, infatti, sin dalle sue origini conosce e valorizza numerose e svariate forme di penitenza: alcune liturgiche o paraliturgiche, che vanno dall’atto penitenziale della messa alle funzioni propiziatorie, ai pellegrinaggi; altre di carattere ascetico, come il digiuno. Tuttavia, di tutti gli atti nessuno è più significativo, né più divinamente efficace, né più elevato e in pari tempo accessibile nel suo stesso rito, del sacramento della penitenza »34.
È tempo di riscoprire le forme penitenziali antiche e inventarne di nuove, non a scapito del sacramento della riconciliazione, ma collegandole ad esso. Le varie forme penitenziali possono essere dislocate secondo un itinerario che inizia con le vie quotidiane della conversione e, attraverso le forme paraliturgiche e liturgiche, giunge fino al sacramento della penitenza.
La triade biblica (preghiera, elemosina, digiuno) costituiva il nerbo della penitenza quotidiana, quella ordinaria dei cristiani nella Chiesa antica dal momento che la penitenza pubblica era riservata ai peccati gravi e quindi straordinaria. Oggi essa richiede di essere ripristinata e arricchita di forme nuove, di nuove vie quotidiane della riconciliazione.
Possono essere considerate forme moderne della penitenza quotidiana il compimento diligente del proprio dovere in famiglia, nella società e nella Chiesa, l’accettazione delle situazioni che mettono alla prova (disgrazie, contrattempi, infermità), la carità attiva verso i fratelli, la correzione fraterna esercitata e accettata, il perdono reciproco, l’impegno per la giustizia, la semplicità di vita, la povertà liberamente scelta, l’ autolimitazione nei guadagni, l’assunzione di lavori non gratificanti, l’accettazione della monotonia del quotidiano, la sopportazione delle persone con cui si vive, la partecipazione al compito di evangelizzazione, la lettura personale della Parola di Dio, la preghiera, in primo luogo il Padre Nostro, il dialogo penitenziale in famiglia e tra amici, la confessione a un laico, la revisione di vita e tante altre iniziative. Queste vie quotidiane della riconciliazione sono concrete ed efficaci. Si pongono al centro della vita vissuta e la rinnovano dall’interno. Sono sempre a disposizione. Persuadono anche i lontani che diffidano delle celebrazioni e sono fruibili da quanti non possono accostarsi al sacramento della riconciliazione.
Naturalmente la riconciliazione e il perdono vissuti acquistano la massima intensità nei momenti forti della vita (nascita, matrimonio, morte, congedo, perdono concesso agli uccisori di una persona cara, rievocazioni di un passato di ingiustizia per chiedere perdono, ecc.).
Con la riconciliazione vissuta previa al culto (« riconciliati prima con tuo fratello… ») o susseguente, si supera la deleteria divaricazione tra vita e celebrazione e si reimpara a celebrare ciò che si vive e a vivere ciò che si celebra.
Le forme celebrative della penitenza non sacramentali, che promuovono il cammino penitenziale sia personale sia comunitario, sono anch’esse numerose: l’uso dell’acqua benedetta, la Via crucis, i pellegrinaggi, le processioni, l’imposizione delle ceneri, le celebrazioni penitenziali comunitarie, i riti penitenziali all’interno dell’eucaristia, i riti quaresimali, ecc.
Le celebrazioni penitenziali comunitarie senza assoluzione poste nella seconda appendice del nuovo Rito della penitenza rivestono una particolare importanza. Permettono di ascoltare e meditare insieme la Parola di Dio che annuncia la misericordia divina e svela i peccati, di sperimentare la dimensione comunitaria del peccato, della riconciliazione e della conversione, di accogliere chi è ancora spiritualmente immaturo e di aiutarlo a convertirsi. Educano le coscienze e insegnano il linguaggio per dire francamente i propri peccati. Offrono ai partecipanti l’opportunità di donarsi il perdono reciproco. Ne possono pienamente usufruire anche i fedeli in situazioni irregolari. Pur non possedendo l’efficacia sacramentale, promuovono la conversione e beneficiano della supplica della Chiesa, che quando prega ottiene. Non sono alternative al sacramento, ma neppure solo preparatorie a esso. Possiedono un valore autonomo e nel contempo incrementano e migliorano le confessioni sacramentali. La loro diffusione è purtroppo ostacolata dal « feticismo dell’assoluzione », dall’idea cioè che la celebrazione consista soltanto nell’assoluzione che « fa tutto » e perdona in modo quasi automatico. Per questa ragione alcuni disertano le celebrazioni penitenziali e rincorrono l’assoluzione individuale o generale, salvo poi, urtati dal formalismo rituale di assoluzioni senza conversione, abbandonare tutto35.
Occorre poi riscoprire e valorizzare la dimensione penitenziale e riconciliatrice di tutti i sacramenti, segni « oltre che della grazia propria, anche di penitenza e riconciliazione »36.
Il battesimo è la prima e radicale riconciliazione sacramentale alla quale tutte le altre si riferiscono. La confermazione significa e realizza « una maggiore conversione del cuore e una più intima ed effettiva appartenenza alla medesima assemblea dei riconciliati « 37. L’eucaristia ha tra i suoi effetti la riconciliazione comunitaria (unitas et caritas) ed « è antidoto che libera dalle colpe quotidiane e preserva dai peccati mortali »38. L’ordine costituisce i pastori « testimoni e operatori di unità » contro i fermenti di divisione e dispersione39. Il matrimonio « concede agli sposi di riportare la vittoria sulle forze che deformano e distruggono l’amore »40. L’unzione degli infermi è « segno della definitiva conversione al Signore e della suprema riconciliazione con il Padre »41.
Il sacramento della riconciliazione e della penitenza esige di essere celebrato in tutta la ricchezza delle sue dimensioni (ancor prima dell’impegno etico esprime il dono di salvezza elargito dal Padre, per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito e nella Chiesa), dei suoi momenti (è sacramento della fede e della conversione e non della sola assoluzione) e delle sue forme celebrative (i tre riti sono complementari nelle loro valenze personali e comunitarie).
La celebrazione del terzo rito presenta rischi soprattutto se lo si riduce all’assoluzione generale o collettiva. Ma lasciarlo sulla carta per riesumarlo in situazioni di emergenza, con celebranti e penitenti impreparati, senza lunghe sperimentazioni e accurate verifiche, significa porre le premesse per un pessimo impiego. Non vedo come si possa sentenziare che oggi non si verificano mai le circostanze che ne consigliano l’utilizzazione. In alcune circostanze ritengo sia l’unica forma attivabile rispettosa di Dio e dei penitenti.
La dimensione comunitaria, diversamente da quella collettiva, esige e include la dimensione personale. il dialogo personale, ricco di umanità e vissuto nella fede e nella grazia, sia extrasacramentale che sacramentale, rimane fondamentale e la sua estinzione sarebbe una perdita incalcolabile.
« Più che spingere con misure di obbligo alla necessità della confessione auricolare, il compito della Chiesa è di rendere questa confessione desiderabile. Per questo bisogna mettere in campo anche difficili strumenti pastorali: formazione dei preti a questo compito; ripristino o creazione nei grandi centri urbani di luoghi in cui i fedeli possano facilmente incontrare un sacerdote per tutto il tempo necessario; presentazione materiale di questi luoghi, ecc. D’altra parte, il caso nuovo, ma che conosce già un reale sviluppo, delle confessioni fatte a un laico [e religioso/a] inviato ufficialmente dalla Chiesa in certi campi pastorali (cappellanie, ecc.) deve essere l’oggetto di una indifferibile riflessione teologica »42.

NOTE SUL SITO

CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, OMELIA, 2006 – 1 COR – BIBLICA – SACRAMENTARIA

http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccatheduc/documents/rc_con_ccatheduc_doc_20060918_collegio-s-paolo_it.html  

CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA

CELEBRAZIONE EUCARISTICA PER I PARTECIPANTI AL SEMINARIO DI AGGIORNAMENTO PER I VESCOVI DEI TERRITORI DIPENDENTI DALLA CONGREGAZIONE PER L’EVANGELIZZAZIONE DEI POPOLI -

1 COR – BIBLICA – SACRAMENTARIA

OMELIA DEL CARD. ZENON GROCHOLEWSKI

Pontificio Collegio di San Paolo Apostolo, Roma

Lunedì, 18 settembre 2006

In questi giorni di preghiera e di riflessione siamo desiderosi di essere illuminati e rafforzati, per saper dedicarci con tutte le forze ed efficacemente al servizio del Signore. In tale prospettiva la comune celebrazione dell’Eucaristia non è qualcosa accanto, ma svolge un ruolo rilevante. Proprio alla Celebrazione Eucaristica vorrei dedicare la mia breve riflessione. Le odierne letture (lunedì della 24 sett. del T.O. anno pari), infatti, ci suggeriscono qualche considerazione al riguardo.

1. L’esame di coscienza per come celebriamo l’Eucaristia Nella prima lettura (1 Cor 11, 17-26) san Paolo si dimostra amareggiato a motivo del fatto che i Corinzi, per le loro divisioni, per il comportamento scorretto e soprattutto per la mancanza di carità, per egoismo, profanano il loro « mangiare la cena del Signore », profanano la Celebrazione Eucaristica. Ci impressionano i fatti denunciati che hanno accompagnato tali celebrazioni, come la golosità e l’ubriachezza. Sono quindi dure le parole di san Paolo: « Fratelli, non posso lodarvi per il fatto che le vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio [...] Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo! ». Nel seguito del brano che abbiamo ascoltato, san Paolo continua:  « Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore ». Di conseguenza, l’Apostolo invita a fare l’esame di coscienza: « Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna » (1 Cor 11, 27-29). Noi, celebrando oggi l’Eucaristia, certamente non meritiamo un rimprovero per i fatti scandalosi descritti da san Paolo. Forse ci sono, però, altre mancanze nei nostri cuori che fanno sì che il nostro atteggiamento non corrisponda pienamente a quello che dovrebbe caratterizzare ogni ministro sacro nella celebrazione dell’Eucaristia. Il grave rimprovero di san Paolo ai Corinzi, comunque, ci suggerisce di esaminare la coscienza e di riflettere sull’incidenza dell’Eucaristia sul nostro ministero episcopale. L’Esortazione Apostolica Post-sinodale Pastores gregis « sul Vescovo servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo » (16 ottobre 2003), osserva:  « l’Eucaristia è al centro della vita e della missione del Vescovo, come di ogni sacerdote » (n. 16a). Anzi, dice: « Tra tutte le incombenze del ministero pastorale del Vescovo, l’impegno per la celebrazione dell’Eucaristia è il più cogente e importante [!] » (n. 37d), sia per quanto riguarda la propria celebrazione sia per quanto concerne il compito di provvedere affinché i fedeli abbiano la possibilità di partecipare fruttuosamente alle degne celebrazioni eucaristiche. Infatti, se nell’Eucaristia è realmente presente il Mistero Pasquale, da cui nacque la Chiesa, di cui la Chiesa vive, si nutre e si edifica (cfr Enc. Ecclesia de Eucharistia); se « l’Eucaristia è fonte e culmine di tutta la vita cristiana »; se « tutti i sacramenti, come pure tutti i ministeri ecclesiastici e le opere ecclesiastiche di apostolato, sono strettamente uniti alla sacra Eucaristia e ad essa sono ordinati » (CCC, n. 1324); allora non ci può essere una cosa più importante per un Vescovo che l’Eucaristia, qualsiasi dimensione della sua vita e del suo apostolato prendiamo in considerazione. Quindi anche nell’aspetto delle vocazioni agli Ordini Sacri, per le quali preghiamo nell’odierna Messa in modo del tutto particolare, l’Eucaristia rimane « fonte e culmine » del nostro operato e della nostra preoccupazione in questo campo. Con l’Eucaristia, infatti, per renderla quello che essa deve essere nella nostra vita e nel nostro apostolato, dobbiamo misurarci ogni giorno di nuovo. Pertanto, mentre siamo sempre pieni di stupore di fronte al mistero che celebriamo, all’inizio di ogni Santa Messa invochiamo la misericordia del Signore su di noi. Sia fatto questo sempre con serietà e riflessione, allo scopo di rendere costantemente più perfetta la nostra celebrazione.

2. La carità la fede e l’umiltà Vediamo che cosa ci dice a tale riguardo il Vangelo che abbiamo ascoltato (Lc 7, 1-10)! Esso non parla dell’Eucaristia, ma della guarigione del servo di un centurione pagano. Nondimeno questa scena del Vangelo getta pure una luce sull’atteggiamento necessario per una degna e fruttuosa celebrazione dell’Eucaristia, tanto più che prima di assumere il Corpo e Sangue di Cristo durante la Messa ripetiamo proprio le parole del centurione, un po’ parafrasate:  « Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa:  ma dì soltanto una parola e io sarò salvato ». Il racconto di Luca è molto significativo. Egli espone gli elementi dell’atteggiamento del centurione che gli hanno guadagnato la benevolenza di Gesù. Essi appaiono progressivamente in due distinti momenti. Nel primo momento, gli anziani dei Giudei, mandati dal centurione a Gesù, intercedono per lui dicendo:  « Egli merita che tu gli faccia questa grazia [...], perché ama il nostro popolo, ed è stato lui a costruirci la sinagoga ». Il primo elemento, quindi, che capta la benevolenza di Gesù è la bontà, la carità che il centurione ha esercitato. Dopo questa raccomandazione, quindi, Gesù si incammina verso la casa del centurione. San Paolo nella prima lettura rimproverava ai Corinzi proprio la mancanza di carità. La carità, l’amore di Dio e dei fratelli ci ottiene la benevolenza del Signore anche nel nostro accostamento all’Eucaristia. Si deve avere presente a tale riguardo che l’Eucaristia racchiude il più grande atto d’amore di Dio verso di noi. L’amore quindi ci predispone per la fruttuosa celebrazione dell’Eucaristia e questa, dal canto suo, celebrata degnamente, ci fa crescere nell’amore. Ecco, il primo aspetto dell’atteggiamento corretto, ricavato dall’odierno Vangelo, nel celebrare degnamente l’Eucaristia: l’amore, la carità. Nel secondo momento, quando già i protagonisti della scena dell’odierno Vangelo erano non molto distanti dalla casa del centurione, accade una cosa straordinaria, che suscita l’ammirazione di Gesù. Il centurione manda alcuni amici a dire a Gesù:  « Signore, non stare a disturbarti, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo non mi sono neanche ritenuto degno di venire da te, ma comanda con una parola e il mio servo sarà guarito. Anch’io infatti sono uomo sottoposto a un’autorità, e ho sotto di me dei soldati; e dico all’uno: Va ed egli va, e a un altro:  Vieni, ed egli viene, e al mio servo: Fa questo, ed egli lo fa ». L’Evangelista nota:  « All’udire questo Gesù restò ammirato e rivolgendosi alla folla che lo seguiva disse: « Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande! »". E il servo all’istante è stato guarito. Quante volte, del resto, Gesù ha compiuto miracoli scorgendo e premiando la fede! La fede costituisce certamente un atteggiamento che permette a Dio di colmarci dei suoi doni. Senza la fede, comunque, neppure si capisce l’Eucaristia. Mi permetto qui ripetere le parole di san Paolo citate all’inizio:  « chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore [ossia senza la fede eucaristica], mangia e beve la propria condanna ». In ogni caso, non c’è alcun dubbio che quanto più grande è la nostra fede in Gesù, nell’Eucaristia, tanto più degna e più fruttuosa sarà la nostra celebrazione, tanto essa sarà più incisiva sull’efficacia del nostro apostolato. Non è difficile scorgere che la fede del centurione è unita con una impressionante umiltà:  « Signore, non stare a disturbarti, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto; [...] non mi sono neanche ritenuto degno di venire da te ». Commovente umiltà! C’è stretta relazione fra fede e umiltà. Mentre la superbia è un ostacolo perché la fede possa crescere in noi, la vera fede ci rende umili. Di questa realtà Maria è il più brillante esempio e manifestazione. Le parole prima della comunione, quindi, « Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa:  ma dì soltanto una parola e io sarò salvato » non siano mai una formalità sulla nostra bocca, ma un sentito respiro del cuore, una consapevolezza, un impegno.

Conclusione L’amore vero del Signore e dei fratelli, la fede viva che esige di essere sempre di più rafforzata e maturata nei nostri cuori, e l’umiltà da conquistare giorno per giorno, a motivo dell’egoismo che in minore o maggiore grado c’è in ogni cuore umano, ci predispongono alla benevolenza del Signore; ci predispongono alla degna e fruttuosa celebrazione dell’Eucaristia, ossia alla degna e fruttuosa celebrazione del più grande avvenimento della nostra vita; al vivere in modo consapevole ed efficace ciò che è « fonte e culmine » della nostra esistenza sacerdotale e del nostro apostolato.

Signore, sia questa celebrazione per noi un momento di crescita!

IL SACERDOZIO UNIVERSALE DEI CREDENTI

http://camcris.altervista.org/sacerdozio.html

IL SACERDOZIO UNIVERSALE DEI CREDENTI

(anche Paolo, naturalmente)

di Filippo Chinnici

Non raramente è capitato di sentire alcuni che, dietro la facciata di un servizio di culto « ordinato », affermavano la necessità di uno stretto « controllo ». Le testimonianze, tanto per fare un esempio, prima dovrebbero essere ascoltate dal pastore che, dopo aver messo il proprio imprimatur ne consente la viva partecipazione alla comunità. In taluni casi, si è arrivati addirittura a sostenere l’abolizione delle stesse. Questo modo di pensare, però, non solo non tiene conto del fatto che le testimonianze erano parte integrante del culto dei cristiani del tempo apostolico (cfr. At 21:17-19; 12:12-17; 11:4), ma mina anche uno dei pilastri del cristianesimo biblico, qual è appunto quello del sacerdozio universale dei credenti. La concezione di un cristianesimo separato tra clero e laicato trae origine da influssi sociologici pagani e giudaici che man mano, nel corso dei secoli, si è sempre piú sviluppato. E ci sorprende che alcuni, usando una terminologia diversa, arrivino sostanzialmente a cadere nello stesso errore. È vero che Dio ha chiamato alcuni al «ministerio della Parola» per l’edificazione del Corpo di Cristo, ma secondo il Nuovo Testamento tutti coloro che sono nati di nuovo e sono salvati, sono dei «laici» (dal gr. laòs = popolo, folla, gente), in quanto appartengono al popolo di Dio, ma contemporaneamente sono anche membri del «clero», ossia «sacerdoti». D’altra parte, Pietro usa il termine greco kleroi (plurale di «clero») per i credenti affidati alle cure degli anziani (cfr. 1 P 5:3). Quindi, è da escludere il luogo comune secondo cui «io vado ad assistere al culto» e, invece, riaffermare «io vado ad offrire il culto al Signore».

Il «sacerdozio» tra Antico e Nuovo Testamento È vero che nel tempio ebraico dell’Antico Testamento vi erano i sacerdoti i quali rappresentavano il popolo d’Israele davanti a Dio, e molto del loro lavoro consisteva nell’offrire olocausti, oblazioni e sacrifici a Dio per il popolo. Però, la Bibbia afferma esplicitamente che oggi ogni credente può liberamente entrare nel « santuario » di Dio (Eb 10:19-22; 1 P 2:5-9) senza alcun bisogno di un mediatore, in quanto il Signor Gesú Cristo è l’unico Mediatore (1 Ti 2:5). Paolo dice che attraverso Gesú Cristo «abbiamo accesso al Padre in un medesimo Spirito» (Ef 2:18). Questo versetto è particolarmente interessante perché sia prima che dopo Paolo parla riferendosi all’immagine del Tempio. Cosí lo Spirito Santo stabilisce una diretta relazione tra noi e Dio. E poiché questa è opera dello Spirito Santo, Pietro può riferirsi a tutti i credenti come a «un sacerdozio santo» a «un sacerdozio regale» (1 P 2:5, 9), un pensiero che riecheggia nel libro dell’Apocalisse, dove l’idea del sacerdozio è legata alla chiamata a regnare al fianco di Cristo (Ap 1:6; 5:10; 20:6). Il Nuovo Testamento parla spesso di sacrifici personali – già adombrati nell’Antico Patto (cfr. Osea 6:6) – e poiché il sacerdozio è spirituale, cosí come il tempio che è il nostro corpo (1 Co 3:16; 6:19) anche i sacrifici da offrire a Dio devono essere spirituali (1 P 2:5), non in quanto metaforici, ma in quanto mossi dall’impulso interiore dello Spirito Santo. Il sacrificio supremo è stato offerto alla croce, ma ora Dio chiede sacrifici viventi. Paolo parla di questo principio quando afferma: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale» (Ro 12:1). Quindi, come il sacerdote ebraico era un maestro, un uomo di preghiera e l’offerente qualificato di sacrifici a Dio, cosí il cristiano oggi è l’ambasciatore di Dio, l’uomo di preghiera e l’offerente.

Ambasciatore di Dio Il cristiano è chiamato a proclamare il Vangelo della salvezza in Cristo al mondo. Questo compito, che Paolo considerava un obbligo, è presentato dall’apostolo con una terminologia sacerdotale: «Ma vi ho scritto un po’ arditamente su alcuni punti [...] di essere un ministro di Cristo Gesú tra gli stranieri, esercitando il sacro servizio del vangelo di Dio, affinché gli stranieri diventino un’offerta gradita, santificata dallo Spirito Santo» (Ro 15:15, 16). Per cui l’annuncio della salvezza in Cristo è un atto sacro da offrire a Dio non soltanto durante le campagne di evangelizzazione, ma sempre; ed è un compito che spetta a tutti i credenti e non solamente a coloro che Dio ha chiamato al ministerio. Come i «segni che accompagnano» sono per tutti i credenti allo stesso modo anche il mandato di Gesú Cristo è riferito ad ogni credente: «Andate per tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mr 16:15-18).

L’uomo di preghiera Nel tempio venivano sacrificati quotidianamente degli animali, quindi un profumo di odor soave saliva a Dio; allo stesso modo tutti i cristiani «abbiamo la libertà di accostarci a Dio, con piena fiducia, mediante la fede in lui» (Ef 3:12). In questo contesto viene detto ai nati di nuovo: «offriamo continuamente a Dio un sacrificio di lode: cioè, il frutto di labbra che confessano il suo nome» (Eb 13:15). Questo «sacrificio di lode» sale a Dio come il profumo dell’incenso, cioè come atto squisitamente sacerdotale (cfr. Ap 8:3-5).

L’offerente L’atto sacerdotale per eccellenza è pur sempre il sacrificio che, però, dopo la morte di Gesú sulla croce non è più congiunto con lo spargimento di sangue. L’apostolo Pietro afferma che i cristiani devono offrire dei sacrifici spirituali (1 P 2:5). Il sacrificio consiste nell’offrire a Dio qualcosa che ci è prezioso e con il quale noi mostriamo il nostro amore e la nostra dipendenza da Lui. Esso può essere vario:

A. L’offerta di denaro Le offerte che Paolo ricevette dai credenti di Filippi per supplire alle sue necessità, vengono da lui chiamate «servizi» (Fl 2:30), «profumo di odore soave, un sacrificio accetto e gradito a Dio» (Fl 4:18). Perciò la lettera agli Ebrei suggerisce: «Non dimenticate di esercitare la beneficenza e di mettere in comune ciò che avete; perché è di tali sacrifici che Dio si compiace» (Eb 13:16). Le offerte per l’Opera di Dio e le collette per i poveri sono anch’essi un «sacrificio a Dio» che ogni credente è chiamato ad offrire, esse vanno molto al di là di ciò che è materiale e fanno parte del culto.

B. Vita conforme a quella di Cristo Ad imitazione di Cristo il cristiano deve dire: «Ecco, vengo per fare la tua (di Dio) volontà» (Eb 10:9). La vita del Signore Gesú comportò dei sacrifici continui perché si conformò alla profezia del «Servo sofferente» (cfr. Is 53; 1 P 2:20-25). Per cui il cristiano è chiamato a vivere la propria vita sull’esempio di Cristo: «come colui che vi ha chiamati è santo, anche voi siate santi in tutta la vostra condotta» (1 P 1:15). I sacrifici spirituali del cristiano, quindi, sono prima di ogni cosa un’imitazione volontaria della vita e del sacrificio di Cristo, necessaria conseguenza del nostro essere uniti a Lui (cfr. Gv 15:1-5; 17:21). Questo concetto è espresso chiaramente nella lettera ai Romani: «Vi esorto dunque, fratelli, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale» (Ro 12:1).

C. Il dono della vita Talvolta potrebbe essere necessario dare la propria vita per conservare la fede in Cristo o per aiutare i propri fratelli. Poiché la vita non appartiene piú a noi stessi, ma a Cristo che l’ha acquistata con il proprio sangue (1 Co 6:19) come Gesú ha dato la propria vita per i peccatori, cosí pure noi, se è necessario, dobbiamo essere pronti ad offrire la nostra vita in sacrificio per Cristo o per i nostri fratelli (cfr. 1 Gv. 4:11). L’apostolo Paolo era pronto anche a questo pur di difendere e onorare il Vangelo: «Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi» (Fl 2:17). E ciò che era un suo sentimento, piú tardi divenne una realtà, e – alludendo ai sacrifici ebraici sui quali si versava il vino prima della loro offerta a Dio (Nu 28:7) – Paolo scriveva: «Quanto a me, io sto per essere offerto in libazione» (2 Ti 4:6; cfr. 2 Co 4:10-12).

Conclusione Fino a quando i credenti comprenderanno a fondo il proprio ruolo di sacerdoti e lo metteranno in pratica, noi continueremo a vivere e perpetuare un genuino risveglio evangelico pentecostale. Il cristiano non è chiamato a fare lo spettatore durante le riunioni di culto, ma ad essere un protagonista, un sacerdote che partecipa attivamente al culto attraverso il « sacrificio » della testimonianza, della lode, della preghiera, dell’offerta generosa, del dono della propria vita… Nessuno nega che nel dare spazio alla spontaneità si corrano certi rischi, tuttavia è un « rischio » che vale la pena di correre, perché eliminare la spontaneità dal culto cristiano equivale a «spegnere lo Spirito» (1 Te 5:19), quasi a volerlo controllare o ingabbiare dentro i nostri schematismi. Ma c’è di piú, un corretto ammaestramento dei conduttori disciplinerà i credenti fino ad avere dei culti ordinati e contemporaneamente spontanei dove si manifesta la potenza dello Spirito Santo. Non è assolutamente vero che «ordine» e «spontaneità» non possano coesistere, in quanto esse si integrano a vicenda. «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale» (Ro 12:1).

 

“SACERDOTI, FORGIATORI DI SANTI PER IL NUOVO MILLENNIO” SULLE ORME DELL’APOSTOLO PAOLO

 http://www.clerus.org/clerus/dati/2004-10/20-13/11MAIT.htm

CONGREGATIO PRO CLERICIS

Universalis Presbyterorum Conventus

“SACERDOTI, FORGIATORI DI SANTI PER IL NUOVO MILLENNIO” SULLE ORME DELL’APOSTOLO PAOLO 

 Santità cristocentrica del Sacerdote

  Mons. Juan Esquerda Bifet

Conferenza, Malta, 20 ottobre 2004

Indice:
Presentazione: Linea cristocentrica della santità del sacerdote, requisiti, possibilità e ministero.

Chiamati a essere trasparenza della vita e dei modi di tradurre in vita Cristo Buon Pastore
Chiamati a essere maestri e forgiatori di santi, innamorati di Cristo
Alcune osservazioni sulla santità sacerdotale all’inizio del terzo millennio

Linee conclusive

* * * *
Presentazione: Linea cristocentrica della santità del sacerdote, requisiti, possibilità e ministero.
             Il titolo della nostra riflessione (la santità cristologica del sacerdote) ci colloca in un’attitudine relazionale con Cristo Risorto, sempre presente nel nostro percorso storico ed ecclesiale. Quando diciamo “santità” ci riferiamo al desiderio profondo di Cristo di vedere in noi la sua espressione, il suo segno personale, la sua trasparenza: “Io sono glorificato in loro … Santificali nella verità: la tua Parola è verità … Per loro io santifico me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (Gv 17, 10, 17, 19). La dimensione cristocentrica o cristologica è connaturale alla santità cristiana e sacerdotale.
            Essere sacerdote e, allo stesso tempo, non essere o non desiderare di essere santo, sarebbe una contraddizione teologica, dal momento che l’essere e l’operare sacerdotale, visti come partecipazione e prolungamento dell’essere e dell’operare di Cristo, comportano il tradurre in vita ciò che siamo e ciò che facciamo. Questa santità sacerdotale è possibile.[1]
            La “santità” fa riferimento alla realtà divina, perché soltanto Dio è il “tre volte Santo” (Is 6, 3), il Trascendente, il Dio Amore. Gesù è l’espressione personale del Padre (cf. Gv 14, 9). Noi cristiani siamo chiamati ad essere “espressione” di Cristo, “figli nel Figlio” (Ef 1, 5; cf. GS 22).
            Noi sacerdoti, ministri ordinati, siamo l’espressione o il segno personale e sacramentale di Gesù Sacerdote e Buon Pastore. La santità ha un senso “relazionale”, di appartenere affettivamente ed effettivamente a colui che è il Santo per eccellenza. Siamo “ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio” (1 Cor 4, 1). Il sacerdote ministro è “uomo di Dio” (1 Tim 6, 11).
            La “santità” del sacerdote possiede, quindi, una dimensione cristocentrica o cristologica, e precisamente per questo possiede anche una dimensione trinitaria, pneumatologica, ecclesiologica e antropologica. La dimensione cristologica della santità sacerdotale è, di conseguenza, mariana, contemplativa e missionaria. Si tratta dunque di un cristocentrismo inclusivo, non esclusivo, dal momento che rimane aperto a tutte le dimensioni teologiche, pastorali e spirituali. Attraverso il “carattere” o grazia permanente dello Spirito Santo, ricevuto nel sacramento dell’Ordine, partecipiamo dell’unzione sacerdotale di Cristo (inviato dal Padre e dallo Spirito), prolunghiamo la sua stessa missione nella Chiesa e nel mondo e, conseguentemente, siamo chiamati a vivere in sintonia con gli stessi gesti di vita di Cristo.
            In questa prospettiva cristologica, parlare di santità non equivale, dunque, a parlare di un peso, bensì di una dichiarazione d’amore, sperimentata e accettata affettivamente e responsabilmente. Dobbiamo e possiamo essere santi e aiutare gli altri a essere santi, per ciò che siamo e per ciò che facciamo, vale a dire, attraverso la partecipazione alla consacrazione di Cristo e attraverso il prolungamento della sua stessa missione. Cristo ci ha scelti per una sua iniziativa d’amore (cf. Gv 15, 16) e, conseguentemente, ci ha resi in grado di rispondere in modo coerente a quello stesso amore. La nostra vita è chiamata alla santità ed è, allo stesso tempo, ministero di santità. Siamo forgiatori di santi.[2]
            Decidersi a essere “santi” non significa nulla di più che impegnarsi a essere coerenti con l’esigenza di una relazione personale con Cristo, che comprende il condividere la sua stessa vita, imitarla, trasformarsi in lui, farlo conoscere e amare. Questo equivale a “mantenere lo sguardo fisso in Cristo” (Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 5) per poter pensare, sentire, amare, operare come lui. “Il riferimento a Cristo, quindi, è la chiave assolutamente necessaria per la comprensione delle realtà sacerdotali” (PDV 12). Questa santità è possibile.[3]

1.CHIAMATI A ESSERE TRASPARENZA DELLA VITA E DEI MODI DI TRADURRE IN VITA CRISTO BUON PASTORE
 La dimensione cristocentrica della santità sacerdotale ci colloca in una relazione profonda di amicizia con Cristo. Siamo stati chiamati per sua iniziativa (cf. Gv 15, 16). Egli ci ha chiamati uno ad uno, ci ha chiamati per “nome”, per poter partecipare del suo stesso essere Sacerdote-Vittima, Pastore, Sposo, Capo e Servo.[4]
Questa dimensione cristocentrica aiuta a entrare nella dinamica interna della propria identità: siamo chiamati a un incontro che si trasforma in relazione profonda, si concretizza in sequela per condividere il suo stesso stile di vita, si vive in fraternità (comunione) con gli altri chiamati e orienta l’intera esistenza alla missione. Quindi, in questa santità vanno inclusi tutti gli aspetti della vocazione: incontro, sequela, fraternità e missione evangelizzatrice.
            La dinamica relazionale si basa su una realtà ontologica: partecipiamo al suo essere (consacrazione), prolunghiamo il suo agire (missione) e viviamo in sintonia con i suoi stessi sentimenti e atteggiamenti, secondo l’espressione paolina: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2, 5).
            Senza il desiderio di corrispondere con la vita a questa relazione con Cristo non si potrebbe cogliere la dinamica apostolica e sacerdotale che include l’”incontro” e la “missione”. Egli ci ha chiamati per “stare con lui” e per inviarci a “predicare” (Mc 3, 14-15).
            Se si intende parlare dell’”identità” o della propria ragion d’essere, questo equivale a trovare il senso della propria esistenza vocazionale. È relativamente facile fare elucubrazioni sull’identità. Alla luce del Vangelo, tuttavia, appare chiaro che si tratta di tradurre in vita quel che siamo e facciamo: “Voi mi renderete testimonianza, poiché siete stati con me sin dal principio” (Gv 15, 27). Quando domandarono a Giovanni Battista della sua ”identità”, egli non cadde nella trappola di rispondere con elucubrazioni e teorie, ma indicò una persona che dava un senso alla sua esistenza e al suo agire: “Io sono la voce… Ma in mezzo a voi c’è qualcuno che voi non conoscete” (Gv 1, 23, 26).[5]
            Molti interrogativi cristiani che sembrano problematici cessano di esserlo quando si affrontano partendo da una “conoscenza di Cristo vissuta personalmente” (VS 88). Parlare di santità sacerdotale senza partire dalla propria esperienza di incontro e sequela di Cristo equivale a votarsi al fallimento o a discussioni sterili. La santità sacerdotale si coglie soltanto dalla persona di Cristo profondamente amata e vissuta: “Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14, 21).
            Da questa prospettiva di vita vissuta, che non esclude, anzi ha bisogno del sostegno della riflessione teologica sistematica, la parola “santità” passa ad essere una realtà di grazia che forma parte del processo di configurazione a Cristo. Quando qualcuno si sa amato da Cristo, lo vuole amare e farlo amare. Vale a dire, vuole abbandonarsi in modo totalitario al cammino di santità e di missione.[6]
            La decisione di essere “santi” è la risposta alla dichiarazione d’amore da parte di Cristo: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (Gv 15, 9). Per discernere se qualcuno avanza decisamente in questo cammino di santità, possiamo andare a verificare tre punti forti: non sentirsi mai soli (cf. Mt 28, 20), non dubitare del suo amore (Gv 15, 9), non anteporre nulla a Cristo.[7]
            Le caratteristiche della nostra santità, nella sua dimensione cristocentrica o cristologica, ci parlano della relazione con ognuno dei titoli biblici di Cristo (che abbiamo ricordato pocanzi) e, conseguentemente, spingono il sacerdote a tradurre in vita i suoi ministeri come espressione della sua “carità pastorale”, il che equivale a mettere in pratica la stessa carità del Buon Pastore. In questo senso, il Concilio Vaticano II riassume la santità sacerdotale con questa prospettiva: “I presbiteri raggiungeranno la santità nel loro modo proprio se nello Spirito di Cristo eserciteranno le proprie funzioni con impegno sincero e instancabile” (PO 13).
            Si tratta di far vedere in trasparenza Cristo nel momento di annunciarlo e di celebrarlo, si tratta di esserne il prolungamento… L’intera azione pastorale è eminentemente cristologica e costituisce anche un’urgenza e una possibilità di essere santi. Annunciamo Cristo, lo rendiamo presente e lo comunichiamo agli altri, vivendo ciò che siamo e ciò che facciamo. La dimensione cristologica della santità sacerdotale segue, quindi, la linea profetica (annunciare Cristo), liturgica (rendere presente Cristo), diaconale (servire Cristo nei fratelli).
            Il modello apostolico dei Dodici rappresenta il punto di riferimento obbligato della santità sacerdotale, come qualcosa di specifico. È la “Vita Apostolica”, vale a dire, la sequela radicale di Cristo Buon Pastore, sull’esempio degli Apostoli. Noi che siamo successori degli Apostoli (benché in grado diverso) siamo chiamati a vivere questo riferimento evangelico.[8]
            La “Vita Apostolica” (“Apostolica Vivendi Forma”), che riassume lo stile di vita degli Apostoli, assume una forma concreta nella sequela evangelica (cf. Mt 19, 27), nella fraternità o vita comunitaria (cf. Lc 10, 2) e nella missione (cf. Gv 20, 21; Mt 28, 19-20).[9]
            Il cammino della santità sacerdotale si intraprende lasciandosi conquistare dall’amore di Cristo, sull’esempio di San Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (…) vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2, 20). Ed è questo stesso amore che conduce alla missione: “L’amore del Cristo ci spinge” (2 Cor 5, 14).
            Il cristocentrismo di San Paolo scaturisce dalla fede vissuta come incontro con Cristo, “il Figlio di Dio” (At 9, 20), “il Salvatore” (Tt 1, 3), che “è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione” (Rm 4, 25). Cristo “vive” (At 25, 19) e dimora nel credente (cf. Fil 1, 31), comunicandogli la forza dello Spirito che lo rende figlio di Dio (cf. Gal 4, 4-7; Rm 8, 14-17). Per il battesimo, il cristiano viene configurato a Cristo (cf. Rm 6, 1-5). Paolo vive di questa fede. Sin dal suo incontro iniziale con il Signore, Paolo ha imparato che Cristo vive in tutto l’essere umano e, in maniera speciale, nella sua comunità ecclesiale, che egli descrive come “corpo” o espressione di Cristo (cf. 1 Cor 12, 26-27), “sposa” o consorte (cf. Ef 5, 25-27; 2 Cor 11, 2) e “madre” feconda di Cristo (cf. Gal 4, 19, 26).
            Le rinunce del sacerdote ci vengono presentate in forma sintetica nell’espressione di San Pietro: “Noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito” (Mt 19, 27). La rinuncia totale non sarebbe possibile né avrebbe significato senza la “sequela” vissuta come incontro e amicizia. La “solitudine piena di Dio” (di cui parlava Paolo VI nell’enciclica Sacerdotalis coelibatus) è, per il sacerdote ministro, la riscoperta di una presenza e di un amore più bello e profondo: “Non aver paura … perché io sono con te” (At 18, 9-10).[10]
            Cristo ci porta nel suo cuore sin dal primo momento del suo essere uomo. Se il mistero dell’uomo si decifra soltanto nel mistero che è Cristo, ogni essere umano ha nella propria vita delle impronte del suo amore: “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo… Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo” (GS 22). In questa prospettiva antropologico-cristiana, alla luce dell’Incarnazione, il sacerdote-ministro si sente interpellato da alcuni gesti di vita di Cristo, che amò “i suoi” (Gv 13, 1) e li presentò con affetto al cospetto del Padre: “coloro che tu mi hai dato” (Gv 17, 2 ss), “li hai amati come hai amato me” (Gv 17, 23).
            La chiamata apostolica (“vieni”, “seguimi”) comporta relazione, imitazione e configurazione a Cristo. Se qualcuno vuole essere conseguente con questo atteggiamento relazionale impegnato, che chiamiamo “santità” (come imitazione della carità del Buon Pastore e, in quanto tale, riflesso di Dio Amore), in tutte le circostanze della sua vita troverà tracce di una presenza che oltrepassa la sensazione di assenza: “Io sarò con voi” (Mt 28, 20). Il decreto Presbyterorum Ordinis ricorda questa presenza, che è fonte di santità e di gioia pasquale: “I presbiteri non devono perdere di vista che nel loro lavoro non sono mai soli” (PO 22).[11]
            La dimensione cristologica della santità è, per questo stesso fatto, dimensione eucaristica. “Siamo nati dall’Eucaristia … Il sacerdozio ministeriale ha la sua origine, vive, agisce e dà frutti «de Eucharistia» … Non c’è Eucaristia senza sacerdozio, come non esiste sacerdozio senza Eucaristia” (Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 2).[12]
            Per garantire la dimensione cristologica della santità sacerdotale è necessaria porla in relazione con la dimensione mariana. Cristo Sacerdote e Buon Pastore non è un’astrazione, ma è nato da Maria Vergine e ha associato quest’ultima alla sua opera redentrice. Maria, Madre di Cristo Sacerdote e Madre nostra, vede in ognuno di noi un “Gesù vivente” (secondo l’espressione di San Giovanni Eudes), vale a dire, con parole del Concilio, “strumenti vivi di Cristo Sacerdote” (PO 12) che vogliono vivere “in comunione di vita” con lei come il discepolo amato (cf. RMa 45, nota 130). Abbiamo bisogno di vivere la nostra dimensione sacerdotale cristologica “alla scuola di Maria Santissima” (Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 7).[13]
            La dimensione cristologica della santità sacerdotale include l’amore leale, sincero e incondizionato alla Chiesa. È, quindi, una dimensione ecclesiologica. L’Apostolo Paolo, nell’invitarci a configurarci a Cristo, ci esorta a vivere dei suoi stessi sentimenti (cf. Fil 2, 5) e delle sue stesse espressioni d’amore: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25). “Per ogni missionario la fedeltà a Cristo non può essere sepa­rata dalla fedeltà alla sua Chiesa” (RMi 89).

2. CHIAMATI A ESSERE MAESTRI E FORGIATORI DI SANTI, INNAMORATI DI CRISTO
             La nostra chiamata alla santità include l’impegno ministeriale ad aiutare i fedeli a intraprendere il medesimo cammino di santificazione. Si tratta del “ministero e funzione di istruire, santificare e governare il popolo di Dio” (PO 7), in qualità di collaboratori dei vescovi. Per questo motivo, “la prospettiva in cui deve porsi tutto il cammino pastorale è quella della santità” (NMi 30). La dimensione cristocentrica della santità si concretizza necessariamente in dimensione ecclesiologica.
            In realtà, dalla santità dei sacerdoti dipende, in gran parte, la santità, il rinnovamento e la missionarietà dell’intera comunità ecclesiale. Ecco cosa dice in proposito il Concilio Vaticano II: “Perciò questo sacro Sinodo, per il raggiungimento dei suoi fini pastorali di rinnovamento interno della Chiesa, di diffusione del Vangelo in tutto il mondo e di dialogo con il mondo moderno, esorta vivamente tutti i sacerdoti ad impiegare i mezzi efficaci che la Chiesa ha raccomandato in modo da tendere a quella santità sempre maggiore che consentirà loro di divenire strumenti ogni giorno più validi al servizio di tutto il popolo di Dio” (PO 12).
            Tutta l’azione pastorale tende a costruire la comunità ecclesiale come riflesso della Trinità attraverso un processo di unificazione del cuore secondo l’amore, grazie al quale diventa possibile giungere ad essere “un cuor solo e un’anima sola” (At 4, 32). In questo modo si costruisce la Chiesa come “mistero”, vale a dire, come popolo “congregato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (LG 4). È un mistero di comunione missionaria: “La santità è apparsa più che mai la dimensione che meglio esprime il mistero della Chiesa. Messaggio eloquente che non ha bisogno di parole, essa rappresenta al vivo il volto di Cristo” (NMi 7).
            L’azione ministeriale profetica, liturgica e diaconale, oltre a essere il mezzo e il luogo privilegiato della propria santificazione, è la palestra per orientare l’intera comunità ecclesiale verso il cammino della santità. I ministeri sono servizi che costruiscono una scuola di santità e di comunione ecclesiale. Siamo chiamati ad essere forgiatori di santi.
            La nostra vita sacerdotale si può riassumere nell’azione ministeriale eucaristica: “Questo è il mio corpo (…) Questo è il mio sangue” (Mt 26, 26, 28). In quel momento agiamo in nome di Cristo e ci trasformiamo in lui. Tuttavia, quell’azione ministeriale eucaristica include l’annuncio (profetismo) e la comunione (diaconia). Inoltre, l’effetto delle parole del Signore non solo raggiunge il più profondo del nostro essere, trasformandolo, ma si trasmette anche a tutta la Chiesa e a tutta l’umanità.
            Alla luce di questo servizio ministeriale (in relazione con il corpo eucaristico e con il corpo mistico di Cristo), tutto può essere ridotto all’urgenza di essere santi e far santi gli altri, come conseguenza del mandato eucaristico: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22, 19; 1 Cor 11, 24). Il compito è quello di annunciare, celebrare e comunicare Cristo. La trasformazione eucaristica del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo penetra l’essere e l’agire sacerdotale, per essere trasmessa alla Chiesa e all’intera umanità. L’incarico che Gesù dà ai sacerdoti colloca “il sigillo eucaristico sulla loro missione” (Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 3). Per mezzo dell’Eucaristia, siamo forgiatori di santi.[14]
            La dedizione apostolica di Paolo ha questa caratteristica di “completare” Cristo per amore alla sua Chiesa (cf. Col 1, 24) e di preoccuparsi “per tutte le Chiese” (2 Cor 11, 28). Nella dottrina paolina, la vocazione cristiana è elezione in Cristo (cf. Ef 1, 3) per essere “gloria” o espressione sua per mezzo di una vita santa (Ef 1, 4-9) impegnata nella missione di “ricapitolare tutte le cose in Cristo” (Ef 1, 10) e contrassegnata con “il suggello dello Spirito” (Ef 1, 13). È una vita unita all’oblazione di Cristo (cf. Fil 2, 5-11) per partecipare al sacrificio eucaristico che rende presente l’oblazione del Signore “finché egli venga” (cf. 1 Cor 11, 23-26). Paolo è forgiatore di santi (cf. Gal 4, 19).[15]
            Il significato sponsale del ministero mira a costruire la Chiesa santa, come sposa di Cristo, santificata dal suo amore sponsale: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5, 25-27).
            Santificare la comunità ecclesiale equivale a renderla missionaria e “madre”, vale a dire, strumento di vita in Cristo per gli altri. La Chiesa, quindi, “Mediante la carità, la preghiera, l’esempio e le opere di penitenza, la comunità ecclesiale esercita una vera azione materna nei confronti delle anime da avvicinare a Cristo” (PO 6).
            Se si annuncia la Parola, è per chiamare a un atteggiamento di ascolto, di conversione e di risposta generosa da parte dei credenti. La predicazione della Parola riunisce il popolo di Dio per edificarlo nella carità. Tramite questa predicazione, si mira a “invitare tutti insistentemente alla conversione e alla santità” (PO 4).
            La celebrazione dell’Eucaristia e dei sacramenti in generale, nell’ambito dell’anno liturgico, è una chiamata a tutti i fedeli per fare della loro vita un’oblazione in unione con Cristo: “Sono in tal modo invitati e indotti a offrire assieme a lui se stessi, il proprio lavoro e tutte le cose create” (PO 5).
            L’azione ministeriale che consiste nell’orientare, animare e sostenere la comunità, sempre in uno spirito di servizio, ha come obiettivo “che ciascuno dei fedeli sia condotto nello Spirito Santo a sviluppare la propria vocazione personale secondo il Vangelo, a praticare una carità sincera e attiva, ad esercitare quella libertà con cui Cristo ci ha liberati” (PO 6).
            Nei tre ministeri si tende a formare Cristo nei credenti, attraverso un processo di santificazione che è trasformazione di criteri, scala di valori e attitudini, al fine di relazionarsi con Cristo, imitarlo e trasformarsi in lui. Così riassume San Paolo la sua azione santificatrice: “Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!” (Gal 4, 19) “Io provo infatti per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2 Cor 11, 2).
            Il nostro ministero consiste nell’essere “strumenti vivi di Cristo Sacerdote” (PO 12). Proprio per questo, siamo servitori di una Chiesa chiamata alla santità. Il Quinto Capitolo della Lumen gentium è un solco tracciato per l’itinerario della santificazione: esiste una chiamata universale della Chiesa alla santità (LG 39-42) che consiste nella “perfezione della carità” e che si realizza nella vita quotidiana secondo il proprio stato di vita, utilizzando i mezzi adeguati per conseguire questo obiettivo (LG cap. VI, nn. 39-42). In tal modo, quindi, “tutti coloro che credono nel Cristo di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (LG 40).
            Il battesimo è, per sua stessa natura, una chiamata e una possibilità di santità: pensare, sentire, amare e operare come Cristo. “Il Battesimo è un vero ingresso nella santità di Dio attraverso l’inserimento in Cristo e l’inabitazione del suo Spirito” (NMi 31). L’impegno fondamentale di coloro che si battezzano consiste nella decisione di farsi santi per il cammino indicato nel Discorso della Montagna: « Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste » (Mt 5, 48).
            L’esperienza del proprio incontro personale con Cristo e della sequela evangelica, secondo il percorso delle beatitudini, rappresenta la migliore preparazione per poter accompagnare altre persone lungo lo stesso cammino di santificazione che, come abbiamo indicato, è un cammino di rapporto con Cristo, imitazione e trasformazione in lui. Il sacerdote è maestro di contemplazione, di perfezione, di comunione e di missione.
            Il tema della santità sacerdotale nella sua dimensione cristocentrica appare in tutte le figure sacerdotale della storia. Quei santi sacerdoti furono maestri e modelli di santità sacerdotale e cristiana. Alcuni santi sacerdoti hanno lasciato degli scritti sulla vita e il ministero del sacerdote. Nella sua prima lettera del Giovedì Santo (1979), Giovanni Paolo II invita a ispirarsi alle figure sacerdotali della storia: “Sforzatevi di essere « artisti » della pastorale. Ce ne sono stati molti nella storia della Chiesa. Occorre elencarli? A ciascuno di noi parlano, ad esempio, san Vincenzo de’ Paoli, san Giovanni d’Avila, il santo Curato d’Ars, san Giovanni Bosco, il beato Massimiliano Kolbe, e tanti, tanti altri. Ognuno di loro era diverso dagli altri, era se stesso, era figlio dei suoi tempi ed era «aggiornato» rispetto ai suoi tempi. Ma questo «aggiornamento» di ciascuno era una risposta originale al Vangelo, una risposta necessaria proprio per quei tempi, era la risposta della santità e dello zelo”.[16]

3. ALCUNE OSSERVAZIONI SULLA SANTITÀ SACERDOTALE ALL’INIZIO DEL TERZO MILLENNIO
 La santità costituisce il “fondamento della programmazione pastorale che ci vide impegnati all’inizio del nuovo millennio” (NMi 31). Questa affermazione di Giovanni Paolo II costituisce una sfida per la vita e il ministero sacerdotale. Siamo chiamati a essere santi e a costruire comunità che siano scuole di santità e di comunione.
            In una società “iconica” che domanda dei segni, è necessario edificare una Chiesa che faccia trasparire le beatitudini come “autoritratto di Cristo” (VS 16). Effettivamente, “l’uomo contemporaneo crede più ai testi­moni che ai maestri… La testimonianza della vita cristiana è la prima e inso­stituibile forma della missione” (RMi 42). Coloro che oggi si sentono chiamati alla fede cristiana manifestano “il desiderio di trovare nella Chiesa stessa il Vangelo vissuto” (RMi 47).
            Urge, quindi, presentare la figura del sacerdote come espressione della vita del Buon Pastore. San Paolo si considerava “fragranza di Cristo” (2 Cor 2, 15). Il Signore ci descrive come sua “espressione” o sua “gloria”: “Sono stato glorificato in loro” (Gv 17, 10). La nostra identità sacerdotale consiste nell’essere “prolungamento visibile e segno sacramentale di Cristo” (PDV 16).[17]
             Non si tratta di un segno meramente esterno, bensì di una realtà ontologica (trasformazione in Cristo) che necessariamente deve manifestarsi sotto forma di testimonianza. Allo stesso tempo, questa realtà si traduce in vissuto personale e comunitario, per poter dire, come San Pietro il giorno di Pentecoste, con parole da lui ripetute in altri discorsi:  “Noi siamo testimoni” (At 2, 32; 3, 15; 5, 32; 10, 39). È, quindi, relazione, imitazione, trasformazione in Cristo, che si concretizza nel farlo trasparire in noi.
            Il mondo di oggi chiede testimoni dell’esperienza di Dio (cf. EN 76; RMi 91). Ogni apostolo, e in modo speciale il sacerdote, deve poter dire come San Giovanni: “Quel che abbiamo visto e udito, noi ve lo annunciamo” (1 Gv 1, 3). Lo Spirito Santo, ricevuto specialmente il giorno dell’ordinazione, rende capaci di trasmettere agli altri la propria esperienza di Gesù.[18]
            L’inizio del terzo millennio costituisce un invito pressante ad essere segni trasparenti ed efficaci del Buon Pastore. La Parola, l’Eucaristia, i sacramenti e l’azione pastorale ci plasmano come espressione di Cristo e come segni santificatori.
            Sulla base della mia esperienza di incontri sacerdotali in differenti latitudini e culture, sono giunto alla conclusione che, in questi primi anni del terzo millennio, può aver luogo un risorgimento sacerdotale, se si riscoprono gli enormi tesori dottrinali dei documenti conciliari e postconciliari (i quali, a loro volta, raccolgono una storia millenaria di grazia). Il giorno in cui ogni sacerdote novello avrà letto quei documenti e vi si sarà formato, ci sarà certamente un grande rinnovamento di vita e di vocazioni sacerdotali, per il fatto di aver riscoperto “un tesoro nascosto”, quale la “mistica” della propria spiritualità sacerdotale specifica.[19]
            Giovanni Paolo II chiede di elaborare un progetto di vita sacerdotale nel Presbiterio che abbracci tutti questi aspetti (cf. PDV 79). Solo essendo fedeli al processo di santità arriveremo ad essere sacerdoti per una nuova evangelizzazione (cf. PDV 2, 9-10, 17, 47, 51, 82. Direttorio 98).[20]
            Quando il Papa ricorda a noi sacerdoti le linee-guida della nostra santità, ci indica la relazione tra la consacrazione e la missione come binomio inseparabile: « La consacrazione è per la missione » (PDV 24).
            Si potrebbe parlare del “carisma” apostolico e sacerdotale di Giovanni Paolo II, che si concretizza nella dinamica evangelica: dall’incontro alla missione. Mi pare che questa sia la chiave per comprendere i suoi documenti, a partire dal primo momento del suo pontificato, quando disse: “Spalancate le porte a Cristo”. Le sue encicliche, esortazioni apostoliche, lettere del Giovedì Santo e messaggi mostrano l’armonia tra la consacrazione (vista come abbandono totalizzante ai piani di Dio) e la missione (come vicinanza all’uomo e alla realtà concreta). Questa dinamica però è relazionale: dall’incontro con Cristo si passa alla sequela di Cristo e all’annuncio di Cristo.[21]
            Le lettere del Giovedì Santo (dal 1979 al 2004) costituiscono un’eredità apostolica, una sorta di testamento sacerdotale di Giovanni Paolo II, che potrebbero essere riassunte nella litania rivolta a Cristo Sacerdote in cui si chiedono “Pastori secondo il suo Cuore” (Litania citata nella Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 7).
            Le cinque Esortazioni apostoliche postsinodali continentali rappresentano una chiamata alla santità che si concretizza in un processo di pastorale “inculturata” nelle varie circostanze storiche e geografiche. A questo compito di santificazione siamo chiamati specialmente noi sacerdoti. Per la prima volta nella storia, viene raccolto il contributo di tutte le Chiese in questa maniera così concreta, quale è la celebrazione dei Sinodi Episcopali (continentali) accompagnata dalle rispettive Esortazioni postsinodali.[22]
            Risulta particolarmente urgente, in queste Esortazioni continentali, la chiamata alla santità rivolta ai sacerdoti e alle persone consacrate: « In forza del sacramento dell’Ordine che li configura a Cristo Capo e Pastore, i Vescovi ed i sacerdoti devono conformare tutta la loro vita e la loro azione a Gesù » (Ecclesia in Europa 34).[23] « L’Europa ha sempre bisogno della santità, della profezia, dell’attività di evangelizzazione e di servizio delle persone consacrate » (ibid. 37).[24]
            La propria identità sacerdotale potrà essere compresa e assimilata se si vive come segno personale e sacramentale del Buon Pastore, riconoscendo che si possiede una spiritualità sacerdotale specifica entusiasmante. È la gioia di essere e sentirsi segno di Cristo, qui e ora, con il proprio Vescovo, con la propria Chiesa particolare, nel proprio Presbiterio, al servizio della Chiesa locale e universale, ispirandosi alle figure sacerdotali della storia e anche, quando qualcuno si sente chiamato, facendo riferimento a carismi particolari più concreti della vita religiosa o associativa.
            La diocesanità include tutta questa storia di grazia, che costituisce un patrimonio apostolico. Senza la relazione personale e comunitaria con Cristo Sacerdote e Buon Pastore, la spiritualità sacerdotale diocesana non troverebbe la propria pista d’atterraggio. Se è sacerdote, segno del Buon Pastore, nel qui e ora della propria Chiesa particolare, presieduta sempre da un successore degli Apostoli (in comunione con il Sommo Pontefice e il Collegio Episcopale) colui che concretizza per i suoi sacerdoti le linee evangeliche della sequela di Cristo.[25]
            Una linea caratteristica della spiritualità cristiana e sacerdotale all’inizio del terzo millennio è la speranza, che presuppone la fede e deve farsi concreta nella carità. Oggi è possibile essere santi e apostoli. È possibile evangelizzare nelle situazioni nuove, perché abbiamo grazie nuove. C’è però bisogno di apostoli rinnovati.[26]
            Nella spiritualità e santità sacerdotale, questo tono di speranza si traduce in “gioia pasquale” (PO 11). La vita dell’apostolo riflette la gioia pasquale, anche nei momenti di difficoltà, dando testimonianza della speranza cristiana: « Il missionario è l’uomo delle Beatitudini… Vivendo le Beatitudini, il missio­nario sperimenta e dimostra concretamente che il Regno di Dio è già venuto ed egli lo ha accolto. La caratteristica di ogni vita missionaria autentica è la gioia interiore che viene dalla fede » (RMi 91). È la gioia di far “passare” o di trasformare la sofferenza in amore di donazione, come eredità che ci ha lasciato Gesù nell’ultima cena (cf. Gv 15, 11; 17, 13).

LINEE CONCLUSIVE
             La santità sacerdotale è essenzialmente di dimensione cristologica e, per questo stesso motivo, si apre alle dimensioni trinitaria, pneumatologica, ecclesiologica e antropologica. Precisamente la carità pastorale, come imitazione della vita del Buon Pastore, ha questo orientamento nei confronti dei disegni del Padre (cf. Gv 10, 18) e ricalca le orme dell’azione dello Spirito Santo (cf. Lc 10, 1, 14, 18). « Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando » (At 10, 38).
            La consacrazione sacerdotale del ministro ordinato, in quanto partecipazione alla consacrazione sacerdotale di Cristo per prolungare la sua stessa missione, ha la sua radice nel mistero del Verbo incarnato: « Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo… Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo » (GS 22).
            Essendo segno personale e comunitario di Cristo Sacerdote e Buon Pastore, noi sacerdoti siamo espressione del suo amore nei confronti di tutti e di ognuno dei redenti. Il contatto del sacerdote con qualsiasi essere umano deve essere annuncio e testimonianza di questo amore, affinché tutti si sentano amati da Cristo e resi capaci di amare lui e, con lui, di amare tutti gli altri fratelli. La vita sacerdotale costituisce un invito missionario e basato sulla vita come espressione testimoniale di quell’annuncio: Dio ti ama, Cristo è venuto per te.
            La dimensione cristologica della santità sacerdotale fa ricordare la realtà del “martirio” come parte integrante del “kerigma” o primo annuncio. Siamo stati scelti per essere “testimoni” (“martiri”) di colui che è stato crocifisso ed è risorto: « Noi siamo testimoni » (At 2, 32), « e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui » (At 5, 32). Il ricordo della figura sacerdotale del martire San Massimiliano Kolbe indica questa linea di carità pastorale oblativa.[27]
            La « gioia pasquale » (PO 11) riassume bene tutti i contenuti della dimensione cristocentrica della santità sacerdotale. In realtà, è la gioia delle “beatitudini” e del “Magnificat”, per il fatto di sapersi amato da Cristo e reso capace di amarlo e farlo amare. È partecipazione alla gioia stessa di Cristo (cf. Lc 10, 21). È la gioia che ci ha lasciato il Signore come lascito (Gv 15, 11; 16, 22, 24; 17, 13). È la gioia che nasce dall’incontro permanente con lui. Quando, nel Cenacolo, gli Apostoli scelscero Mattia, fecero la sintesi di un percorso di vita sacerdotale e apostolica: un uomo che sarebbe stato insieme al Signore, per essere testimone gioioso della sua risurrezione (cf. At 1, 22). È la gioia di Paolo: « Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione » (2 Cor 7, 4).
 La dimensione cristocentrica o cristologica della santità sacerdotale si traduce in:
-        Dichiarazione reciproca di amore, come scelta e chiamata:
            « Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi; Rimanete nel mio amore » (Gv 15, 9); « io ho scelto voi » (Gv 15, 16); « vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2, 20).
- Relazione fatta di incontro, amicizia, intimità, contemplazione:
            « Si fermarono presso di lui » (Gv 1, 39); « ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare » (Mc 3, 14-15); « voi siete miei amici » (Gv 15, 14); « sarò con voi » (Mt 28, 20); « per me infatti il vivere è Cristo » (Fil 1, 21).
- Relazione di appartenenza:
            « Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine » (Gv 13, 1); « Padre… coloro che mi hai dato, sono tuoi »… (Gv 17, 9 ss); « non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (Gal 2, 20).
- Relazione di trasparenza e missione:
            « Voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio » (Gv 15, 27); « Egli (lo Spirito) mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà » (Gv 16, 14); « Padre… Io sono glorificato in loro » (Gv 17, 10); « Come il Padre ha mandato me, io mando voi » (Gv 20, 21)…; « l’amore del Cristo ci spinge » (2 Cor 5, 14).
Alla luce della presenza di Cristo Risorto, che continua ad accompagnare « i suoi » (Gv 13, 1), si giunge a comportamenti che potremmo chiamare di sapienza e di buon senso cristiano e sacerdotale, e che costituiscono il segnale per sapere se una persona sta percorrendo seriamente il cammino della santità nella dimensione cristologica. La traduzione in vita della nostra realtà di partecipazione all’essere di Cristo e di prolungamento della sua missione si potrebbe così esprimere in concreto:
-        Non dubitare dell’amore di Cristo:
Mons. Francesco Saverio Nguyen van Thuan, Arcivescovo di Saigón, rimase tredici anni nel carcere di quella città. I primi giorni della sua dura prigionia, sentendosi scoraggiato per la sua apparente inutilità, seppe discernere la voce del Signore nel proprio cuore: “Voglio te, non le tue cose”.[28]
-        Non sentirsi mai soli:
Mons. Tang, Vescovo di Cantón, trascorse 22 anni in carcere. Al suo arrivo a Roma gli venne chiesto di parlare delle sofferenze subite in quella solitudine. Quando gli domandarono che cosa lo avesse aiutato a perseverare, rispose: « Cristo non abbandona”.[29]
-        Non poter prescindere da lui:
Paolo, nel carcere di Roma: « Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato… Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza » (2 Tm 4, 16-17).
-        Non anteporre nulla a lui:
“Negli innamorati la ferita di uno è di entrambi, e i due hanno un medesimo sentimento” (San Giovanni della Croce, Cant. B, c. 30, n. 9).

            Il nostro modo di pregare si può realizzare soltanto con il « mantenere fisso lo sguardo su Cristo » (Lettera del Giovedì Santo 2004, n.5). Questo incontro quotidiano di vita concreta con Cristo, nell’Eucaristia, nella Scrittura e nei fratelli, dà senso alla vita sacerdotale; tuttavia, deve essere un incontro d’amore appassionato che deve convertirsi in annuncio appassionato. La nostra identità si dimostra nel vivere e far vivere la presenza di Cristo Risorto nella Chiesa e nel mondo. Si tratta di uno « stupore eucaristico » che suscita vocazioni sacerdotali (cf. Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 5), perché allora i giovani in noi « intuiscono la chiamata di un amore più grande » (ibidem, n. 6).
            La relazione personale con Cristo, che è la sorgente della missione, si plasma « in comunione di vita » con Maria (cf. RMa 45, nota 130). È « comunione viva con Gesù attraverso il Cuore della sua Madre » (Rosarium Virginis Mariae 2). Nel cuore di Maria, Madre di Cristo Sacerdote e Madre nostra, si può udire l’eco di tutto il Vangelo (cf. Lc 2, 19, 51).[30]
            Maria ci accompagna in tutte le nostre celebrazioni eucaristiche e in tutto il nostro ministero. Ella continua ad essere il dono di Cristo a tutti i suoi fedeli e, in modo particolare, ai suoi ministri. « Vivere nell’Eucaristia il memoriale della morte di Cristo implica anche ricevere continuamente questo dono. Significa prendere con noi – sull’esempio di Giovanni – colei che ogni volta ci viene donata come Madre » (Ecclesia de Eucharistia, n. 57). Possiamo unirci ai “sentimenti di Maria” quando ella ascolta dalle nostre labbra le parole della consacrazione (« il mio corpo… il mio sangue ») (cf. ibid. n. 56).[31]
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[1] « Imitamini quod tractatis » (imita quello che fai) è l’espressione che ora si trova nel testo dell’allocuzione durante l’ordinazione presbiterale, quando il vescovo spiega “la funzione di santificare in nome di Cristo”. Secondo San Tommaso d’Aquino, “il Sacro Ordine presuppone la santità” (cf. II-II, q.189, a.1, ad 3), per poter servire degnamente il corpo eucaristico e il corpo mistico di Cristo (cf. Suppl. q.36, a.2, ad 1) e per guidare altri lungo il cammino della santità.
[2] Il “carattere” sacerdotale del sacramento dell’ordine esige santità, per il fatto di poter operare in nome di Cristo; la grazia sacramentale comunica la possibilità di essere santi, vale a dire, di essere coerenti con ciò che siamo e facciamo.
[3] Indichiamo alcuni studi sulla santità e sulla spiritualità sacerdotale: AA.VV., Espiritualidad sacerdotal, Congreso (Madrid, EDICE, 1989); C. BRUMEAU, Les éléments spécifiques de la vie spirituelle des prêtres d’après Vatican II: Le prêtre, hier, aujourd’hui, démain (Paris, Cerf, 1970) 196-205; J. CAPMANY, Apóstol y testigos, reflexiones sobre la espiritualidad y la misión sacerdotales (Barcelona, Santandreu, 1992); M. CAPRIOLI, Il sacerdozio. Teologia e spiritualità (Roma, Teresianum, 1992); J. ESQUERDA BIFET, Teología de la espiritualidad sacerdotal (Madrid, BAC, 1991); Idem, Signos del Buen Pastor, Espiritualidad y misión sacerdotal (Bogotá, CELAM, 2002); A. FAVALE, El ministerio presbiteral, aspectos doctrinales, pastorales y espirituales (Madrid, Soc. Educ. Atenas, 1989); G. GRESHAKE, Essere preti, Teologia e spiritualitá del ministero sacerdotale (Brescia, Queriniana, 1995); J.L. ILLANES, Espiritualidad y sacerdocio (Madrid, Rialp, 1999); D. TETTAMANZI, La vita spirituale del prete (Casale Monferrato, PIEMME, 2002); R. SPIAZZI, Sacerdozio e santità. Fondamenti teologici della spiritualità sacerdo­tale (Roma 1963); K. WOJTYLA, La sainteté sacerdotale comme carte d’identité: Seminarium (1978) 167-181; P. XARDEL, La flamme qui dévore le berger (Paris, Cerf, 1969).
[4] Sono i titoli biblici utilizzati e spiegati in PO nn.1-3 e PDV cap.II (cf. nn.20-22).
[5] AA.VV., Identità e missione del sacerdote (Roma, Città Nuova, 1994);  F. ARIZMENDI, Vale la pena ser hoy sacerdote? (México, Lib. Parroquial, 1988); M. THURIAN, L’identità del sacerdote (Casale Monferrato, PIEMME, 1993). Cf. gli altri saggi citati nella nota 4.
[6] Un bramino convertito (poi diventato sacerdote e missionario)mi descriveva la sua conversione ricordando la sua esperienza di incontro con Cristo. Visitando la cappella dell’Ospedale di cui era direttore, il suo sguardo si fermò sull’immagine del crocifisso e udì dentro di sé queste parole: “Mi ha amato”. Subito ne trasse questa conclusione: “Se lui mi ama, io voglio amarlo e farlo amare”…
[7] Cf. S. Benedetto, Regola, 4, 31; 72, 11.
[8] Pastores dabo vobis indica la « vita apostolica » come punto di riferimento della santità sacerdotale, sempre come imitazione della vita del Buon Pastore e secondo lo stile degli Apostoli (cf. PDV 15-16, 42, 60, etc.). Spiego questi contenuti e offro bibliografia, in: Spiritualità sacerdotale per una Chiesa missionaria (Roma, Urbaniana University Press, 1998) cap.V (Essere segno trasparente del Buon Pastore). Trad. in inglese: Priestly Spirituality and Mission (Roma, Pont. Univ. Urbaniana, 1995).
[9] Le linee di questa vita apostolica, eminentemente evangelica, potrebbero essere così riassunte: 1ª: Scelta, vocazione, per iniziativa di Cristo (cf. Mt 10,1ss; Lc 6, 12ss; Mc 3,13ss; Gv 13,18; 15,14ss). 2ª: « Sequela Christi » o sequela evangelica (cf. Mt 4,19ss; 19, 21-27; Mc 10,35ss); 3ª: Carità del Buon Pastore (cf. Gv 10; At 20,17ss; 1Pe 5,1ss), 4ª: Missione di totalitarietà e di universalismo (cf. Mt 28,18ss; Mc 16,15ss; At 1,8; Gv 20,21; PO 10). 5ª: Comunione fraterna (cf. Lc 10,1; Gv 13,34.35; 17,21-23). 6ª: Eucaristia, centro e sorgente dell’evangelizzazione (cf. Lc 22,19-20; 1Cor 11,23ss; Gv 6,35ss). 7ª: Sintonia con la preghiera sacerdotale di Cristo (cf. Gv 17; Mt 11,25ss; Lc 10,21ss). 8ª: Al servizio della Chiesa sposa (cf. 2Cor 11,2; Ef 5,25-27; Gv 17,23; 1Tim 4,14: « grazia » permanente). 9ª: Con Maria, « la Madre di Gesù » (cf. Gv 19,25-27; At 1,14; Gal 4,4-19).
[10] Varrebbe la pena riflettere sulla realtà della verginità di Maria e di Giuseppe, che permise loro di scoprire in Cristo una predilezione singolare nei loro confronti, aperta sempre all’intera umanità e a ogni essere umano in particolare, in maniera irripetibile. La vita sacerdotale centrata su Cristo si riassume nell’imitazione del suo sguardo sui fratelli, scoprendo in essi una storia d’amore sponsale ed eterno. Tutti occupiamo un luogo privilegiato nel Cuore di Cristo.
[11] Può essere applicata ad ogni apostolo, e specialmente a ogni sacerdote, quest’affermazione dell’enciclica missionaria di Giovanni Paolo II: « Proprio perché « inviato », il missionario spe­rimenta la presenza confortatrice di Cristo, che lo accompagna in ogni momento della sua vita… e lo aspetta nel cuore di ogni uomo » (RMi 88).
[12] La dimensione eucaristica della santità sacerdotale è oggetto di un altro contributo in questo Convegno Internazionale di Sacerdoti.
[13] Anche la dimensione mariana costituisce l’oggetto di un altro contributo nel presente Incontro Internazionale. Sulla spiritualità sacerdotale mariana, ho riassunto contenuti e bibliografia in: (Sacerdoti) Maria nella spiritualità sacerdotale: Nuovo Dizionario di Mariologia (Paoline 1985), 1237-1242.
[14] « In persona Christi vuol dire di più che «a nome», oppure «nelle veci» di Cristo. In persona: cioè nella specifica, sacramentale identificazione col sommo ed eterno Sacerdote » (enc. Ecclesia de Eucharistia n.29).
[15] Cf. F. PASTOR RAMOS, Pablo, un seducido por Cristo (Estella, Verbo Divino, 1993). Il tema paolino è stato trattato da un altro contributo in questo convegno sacerdotale.
[16] Giovanni Paolo II, Lettera del Giovedì Santo 1979, n. 6. Occorrerebbe diventare imbevuti degli scritti sacerdotali di tutta la storia, specialmente di epoca patristica: S. Ignazio d’Antiochia (Lettere), S. Giovanni Crisostomo (Libro sul sacerdozio), S. Ambrogio (De officiis ministrorum), S. Gregorio Magno (Regula Pastoralis), S. Isidoro di Siviglia (De ecclesiasticis officiis); nell’epoca di Trento: S. Giovanni d’Avila (Pratiche dei sacerdoti; Trattato sul sacerdozio), S. Carlo Borromeo, S. Giovanni di Ribera, ecc. Cf. figure e scrittori di ogni epoca storica in: Teologia della spiritualità sacerdotale, o.c., cap. IX (sintesi storica); Segni del Buon Pastore, o.c., cap. X (sintesi e sviluppo storico) (or. Spagnolo, trad. italiano, inglese).
[17] La parola “segno” si ripete con frequenza in PDV (cf. nn. 12,15-16,22,42-43,49). Ha la connotazione di “sacramentalità” nel contesto della Chiesa “sacramento”: segno trasparente e PORTADOR. Indica la trasparenza che riflette il proprio essere e il proprio stile di vita e che si converte in strumento efficace di santificazione e di evangelizzazione.
[18] « La missione della Chiesa, come quella di Gesù, è opera di Dio o – come spesso dice Lu­ca – opera delLo Spirito. Dopo la risurrezione e l’ascensione di Gesù gli Apostoli vivono un’espe­rienza forte che li trasforma: la Pentecoste. La ve­nuta dello Spirito Santo fa di essi dei testimoni e dei profeti (cf. At 1, 8; 2, 17-18), infondendo in loro una tranquilla audacia che li spinge a trasmet­tere agli altri la loro esperienza di Gesù e la spe­ranza che li anima » (RMi 24).
[19] Sono ancora pochi quelli che si ordinano sacerdoti avendo studiato (o letto) questi documenti. È necessario compiere una rilettura comparata di Presbyterorum Ordinis in relazione a Pastores dabo vobis e ad altri documenti (le Lettere del Giovedì Santo, il Direttorio, ecc.). Allora si scopre il proprio essere come partecipazione all’essere o consacrazione di Cristo (PO 1-3; PDV cap.II; Direttorio cap.I), per prolungare la sua stessa missione(PO 4-6; PDV cap.II, Direttorio cap.II), nella comunione ecclesiale che si concretizza anche nel proprio Presbiterio (PO 7-9; PDV 31, 74; Direttorio 25-28), che esige e rende possibile la santità sacerdotale come « carità pastorale » (PO 12-14; PDV cap.III; Direttorio 43-56), che si traduce nelle virtù del Buon Pastore (PO 15-17; PDV 27-30; Direttorio 57-67), senza dimenticare gli strumenti concreti e la formazione permanente (PO 18-21; PDV cap.VI; Direttorio cap.III). Occorre aggiungere l’esortazione apostolica Pastores gregis (2003), così come il Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi (2004).
[20] Presento le motivazioni e le possibilità di questo progetto in: Ideario, objetivos y medios para un proyecto de vida sacerdotal en el Presbiterio: Sacrum Ministerium 1(1995) 175-186. Cf. inoltre: J.T. SANCHEZ, Los sacerdotes protagonistas de la Evangelización, in: (Pontificia Comisión para América Latina), Evangelizadores, Obispos, sacerdotes y diáconos, religiosos y religiosas, laicos (Lib. Edit. Vaticana 1996) 101-110. Una buona base per un progetto di vita nel Presbiterio: Proposta di vita spirituale per i presbiteri diocesani (Bologna, EDB, 2003).
[21] Ho studiato e riassunto i documenti del Papa, visti in questa prospettiva, in: El carisma misionero de Juan Pablo II: De la experiencia de encuentro con Cristo a la misión: Osservatore Romano (ed. sp.), 17.7.2001, pp.8-11; Juan Pablo II, el carisma del encuentro con Cristo para la Misión: Omnis Terra n.321 (2002) 234-248; Jean Paul II: le charisme de la rencontre avec le Christ pour la mission: Omnis Terra (fr.) n.383 (2002)234-248; John Paul II, the Charisma of the encounter with Christ for Mission: Omnis Terra (Ing.) n.328 (2002) 233-247.
[22] « Decisivi sono, quindi, la presenza e i segni della santità: essa è prerequisito essenziale per un’autentica evangelizzazione, capace di ridare speranza. Occorrono testimonianze forti, personali e comunitarie, di vita nuova in Cristo. Non basta, infatti, che la verità e la grazia siano offerte mediante la proclamazione della Parola e la celebrazione dei Sacramenti; è necessario che siano accolte e vissute in ogni circostanza concreta, nel modo di essere dei cristiani e delle comunità ecclesiali. Questa è una delle scommesse più grandi che attendono la Chiesa che è in Europa all’inizio del nuovo millennio » (Ecclesia in Europa 49). « Frutto della conversione operata dal Vangelo è la santità di tanti uomini e donne del nostro tempo. Non solo di quanti sono stati proclamati ufficialmente tali dalla Chiesa, ma anche di coloro che, con semplicità e nella quotidianità dell’esistenza, hanno dato testimonianza della loro fedeltà a Cristo » (ibidem, 14). Cf. citazioni simili in: Ecclesia in America 30-31 (vocazione universale alla santità, Gesù, l’unico cammino verso la santità); Ecclesia in Africa 136; Ecclesia in Oceania 30.
[23] Cf. anche: Ecclesia in America 39; Ecclesia in Africa 97-98; Ecclesia in Asia 43; Ecclesia in Oceania 49.
[24] Cf. anche: Ecclesia in America 43; Ecclesia in Africa 94; Ecclesia in Asia 44; Ecclesia in Oceania 51-52.
[25] Nell’esortazione apostolica postsinodale Pastores gregis si sottolinea la necessità che il vescovo si assuma le proprie responsabilità nel promuovere la spiritualità dei suoi sacerdoti; cf. in particolare nn. 47 e 48. Il Direttorio per il Ministero Pastorale dei Vescovi indica le medesime linee: nn. 75-83.
[26] Gli ultimi documenti di Giovanni Paolo II tracciano con decisione questa linea di speranza. Gli apostoli sono animati dalla speranza (cf. Nmi 24). È sufficiente leggere le Esortazioni Apostoliche postsinodali , che incoraggiano ad affrontare le nuove situazioni seguendo i segni positivi dell’azione provvidenziale di Dio. Anche in Novo Millennio ineunte, in cui si cerca di approfondire il mistero dell’Incarnazione come « segno di genuina speranza » (NMi 4). La storia di ogni credente è « una storia di vita, fatta di gioie, ansie, dolori; una storia incontrata da Cristo, e che nel dialogo con lui riprendeva il suo cammino di speranza » (NMi 8). « Ci anima la speranza di essere guidati dalla presenza del Risorto e dalla forza inesauribile del suo Spirito, capace di sorprese sempre nuove » (NMi 12). « Duc in altum! Andiamo avanti con speranza! Un nuovo millennio si apre davanti alla Chiesa come oceano vasto in cui avventurarsi, contando sull’aiuto di Cristo » (NMi 58).
[27] Un sacerdote martire della mia diocesi, Lleida, durante la persecuzione del 1936 in Spagna, dopo essere stato fucilato era ancora vivo  e recitava il Credo; quando l’aguzzino gli si avvicinò per finirlo con il colpo di grazia, domandò che gli lasciassero terminare la professione di fede…
[28] Cf. alcune delle sue testimonianze del tempo trascorso in carcere, in: Testimoni della speranza (Roma, Città Nuova, 2000). È lo stile di vita paolino: « Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? » (Rm 8,35).
[29] Santa Teresa invita a « portarle sempre con sé », perché « con un così buon amico presente, tutto si può sopportare » (Vita, 22,6).
[30] La preghiera sacerdotale di Gesù, pronunciata nell’ultima cena, può facilmente essere posta in relazione con il Cuore o l’interiorità di Maria, specialmente dal momento in cui ricevette l’incarico di essere nostra Madre (cf. Gv 19, 25-27: « ecco il tuo figlio »): « Io sono glorificato in loro… li hai amati come hai amato me… Io sono in essi » (Gv 17,10.23.26).
[31] Con il trascorrere degli anni del nostro sacerdozio potremmo avere la sensazione, alcune volte, di sentirci con le “mani vuote”; tuttavia, l’esempio di S. Teresa di Lisieux è entusiasmante, quando dice al Signore: “Poni le tue mani nelle mie e non saranno più vuote”. Da parte mia, debbo dire che nel corso dei miei 50 anni di sacerdozio (1954-2004) non mi sono mai pentito del mio primo incontro con Cristo, quando cominciai a sentire la vocazione al sacerdozio. La vita sacerdotale è sempre una storia di grazia e di misericordia. È una vita che si sforza di essere spesa con gioia, per amare Cristo e farlo amare. Talvolta, ho avuto l’impressione di essere “uno straccio” inutile. Ma l’incontro personale con Cristo, rinnovato quotidianamente nell’Eucaristia e nel suo Vangelo, mi ha fatto sentire nel cuore le sue parole incoraggianti: “Questo straccio è mio”, lavato con il mio sangue redentore (cf. Ap 7, 14).

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