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COME PAOLO GENERA LA COMUNITÀ

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CORSO RESIDENZIALE PER IL CLERO – VERONA 2009

COME PAOLO GENERA LA COMUNITÀ

d. Lorenzo Zani

Premessa
Sappiamo quanto sia ricco il pensiero di Paolo. Perciò è importante individuare il punto di partenza della sua teologia. La persona di Gesù sta assolutamente al centro dell’esperienza di Paolo e del suo messaggio. Ma è opportuno chiederci quale aspetto della vita di Gesù ha conquistato Paolo, con quali sottolineature egli lo propone: di tutto l’abbondante materiale riferito dai vangeli circa la vita pubblica di Gesù, Paolo riporta solo piccoli frammenti. L’intonazione all’intera vita e teologia di Paolo è data dall’evento pasquale di Gesù, dall’evento salvifico della sua morte e della sua risurre-zione. Paolo prescinde dalle motivazioni storiche della morte di Gesù e va subito a coglierne il valo-re teologico e antropologico: quella morte rivela l’amore di Dio e ci procura la salvezza dal peccato, dalla legge e dalla morte. Di conseguenza, tutto il discorso su Dio, sull’uomo, sul mondo è ricondot-to da Paolo nell’ottica della pasqua.
In questo incontro cerchiamo di capire come l’evento della morte e risurrezione di Gesù Cristo ha spinto l’apostolo Paolo a generare nuove comunità cristiane e come ha svolto in diverse città la plantatio ecclesiae, come ha generato la Chiesa nelle diverse città. La riflessione si articola in cin-que punti.
Anzitutto cerchiamo di focalizzare come Paolo è stato afferrato dall’amore, dalla sollecitudine di Dio per l’uomo peccatore.
In secondo luogo cerchiamo di vedere come è nata in Paolo e come è stata vissuta da lui la tensione ad annunciare il vangelo fino ai confini della terra.
In terzo luogo analizziamo l’altra tensione che ha incalzato l’apostolo: il senso del tempo che è stato portato a pienezza da Gesù Cristo.
In quarto luogo analizziamo l’apertura globale, cosmica alla quale Cristo ha reso attento l’apostolo: Paolo ha percepito che il Risorto opera anche fuori della Chiesa e che tutto il cosmo viene ricondot-to a lui.
Infine cerchiamo di vedere come la sollecitudine organizzativa, istituzionale ha portato l’apostolo a visitare in vari modi le comunità da lui generate e a valorizzare i carismi e i ministeri che Dio di-spensa ai fedeli.

I. « L’amore del Cristo ci possiede » (2Cor 5,14)
Per Paolo il modo di concepire Dio e di concepire l’uomo sono strettamente collegati. Basta ricorda-re la frase: « Dio è per noi »! (Rm 8,31). In 2Cor 5,14 l’apostolo afferma che l’amore del Cristo ci possiede, ci avvolge, ci spinge (synechei). Questo verbo ha vari significati; uno è circolare: « avvol-gere, tenere insieme, abbracciare, stringere »; un altro è lineare: « stimolare, spingere, urgere », un ter-zo è quasi costrittivo: « contenere, catturare, possedere, violentare ». L’amore di Dio e di Cristo per noi è la fonte segreta del modo di pensare e di agire di Paolo, da qualcuno giudicato come fuori di senno, del suo nuovo modo di rapportarsi a Dio e agli uomini. Paolo ha sperimentato che l’amore di Cristo è così potente, così straordinario che non possiamo resistergli, quando lo incontriamo vera-mente.
1. Dio e l’uomo vanno visti in stretta relazione
L’amore di Dio e di Cristo ha fatto diventare Paolo nuova creatura, strappata da un vecchio modo di vivere, di giudicare. Avvolto dall’amore di Cristo, non conosce più se stesso e gli uomini secondo categorie terrene, basate sull’egoismo, sull’orgoglio o sulla paura della morte. Sperimentando la gratuità con cui è amato, la filiazione divina ricevuta in dono, Paolo capisce che tutti hanno bisogno e diritto di sentire questa lieta notizia che trasforma la vita. Paolo parte dalla situazione concreta, spesso drammatica, in cui vive l’uomo senza Cristo per annunciargli quella nuova, donata da Dio, e che noi riceviamo mediante la fede in Cristo, Figlio di Dio.
Questo comportamento di Paolo ci ricorda che per testimoniare il vangelo dobbiamo sempre tenere presente anche la condizione degli uomini nel nostro mondo. Siamo in un’epoca di profondo muta-mento sociale: tutto questo produce smarrimento, perché non permette di ancorarsi a delle abitudini, a riferimenti precisi. Viviamo in un diffuso pluralismo e questo rende sempre più difficile l’orientarsi. Il nostro mondo occidentale è improntato al consumismo: i tanti beni a disposizione all’inizio procurano soddisfazioni anche lecite, ma che poi condizionano. Forse la caratteristica più diffusa e più tipica della coscienza contemporanea è il gusto della opposizione. Non si accetta la su-premazia della verità e dei valori sui sentimenti, dell’intelligenza sulla volontà, dell’unità sul plura-lismo, dell’eternità sulla temporalità. La conseguenza è il gonfiarsi canceroso della soggettività e della libertà.
Questa situazione non è del tutto negativa, non è solo un ostacolo. Il vangelo ha la possibilità di mo-strare meglio il suo carattere di sfida, di realismo, di dono, di esercizio della vera libertà, di religio-ne legata alla vita del corpo e non solo a quella della mente; il cristianesimo appare più vicino all’uomo, più bello, più vero; il mistero dell’amore trinitario appare come fonte di significato per la vita, luce per comprendere il mistero dell’esistenza umana, per trovare risposta al bisogno di rela-zioni e di compassione che tutti sperimentiamo.
Approfondiamo come Paolo parte dalla condizione umana per annunciare la salvezza compiuta da Dio in Gesù Cristo accostando tre testi: Rm 1,18-3,31 (lo completiamo con un accenno a Rm 5,1-5); Gal 4,1-7; Ef 2,11-21. In tutti e tre i testi Paolo sottolinea, anche grammaticalmente, la svolta realiz-zata da Dio in Gesù Cristo: in Rm 3,21 e in Ef 2,13 usa l’espressione avversativa « ora invece », in Gal 4,4 usa la congiunzione avversativa « ma ».

2. Il vangelo della giustizia salvifica o dell’amore di Dio (Rm 1,18-3,31; 5,1-5)
In Rm 1,16-17 Paolo espone la tesi principale di tutta la Lettera ai Romani: « Io non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del giudeo prima e poi del gre-co. È in esso che si rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: Il giusto vivrà median-te la fede ». In questa frase risaltano solo termini positivi: potenza, salvezza, fede, giustizia, vita. Il vangelo consiste essenzialmente nell’annuncio di ciò che Dio ha compiuto in favore dell’uomo: egli sta dalla parte dell’uomo per promuoverne la dignità e, in quanto perduta, per restituirgliela appieno. L’evangelo è incentrato sulla realtà operata da Dio in Cristo.
Per Paolo la giustizia di Dio non è retributiva, ma è salvifica, indica il suo intervento fatto di miseri-cordia, di grazia, di bontà, di benedizione, con il quale nell’uomo avviene un trasferimento di signo-ria: non è più né sotto il peccato, né sotto la legge, né sotto la morte, ma è in Cristo, crocifisso e ri-sorto. Paolo sa che non è facile parlare della giustizia o della misericordia di Dio nei confronti dell’uomo: da un lato l’amore di Dio può venir banalizzato con espressioni retoriche che lo riduco-no a formule; dall’altro lato questo amore sembra negato dai problemi e dai dolori della vita. Per questo motivo prima di parlare della giustizia di Dio, Paolo parla dell’ira di Dio per la condizione negativa di coloro che vivono nel dramma del rifiuto di Dio (Rm 1,18-31) e per la condizione del credente che approfitta per così dire della sua fede per sentirsi a posto e per condannare gli altri, quindi per usurpare il posto di Dio e per comportarsi in modo ateo (Rm 2,1-3,8). In Rm 3,9-20 Pao-lo tira le conclusioni, espresse in maniera perentoria sia nella frase iniziale (« tutti sono sotto il do-minio del peccato »: Rm 3,9) come in quella finale (« nessun vivente sarà giustificato davanti a Dio »: Rm 3,20). Paolo fa una constatazione amara sulla drammatica situazione di peccato in cui si trova tutta l’umanità.
L’apostolo parte dal riconoscimento della comune condizione di peccato che tocca tutti gli uomini per proclamare e far comprendere l’incommensurabile dono della grazia che Dio ci fa in Gesù Cri-sto. Infatti, dopo aver evidenziato in Rm 1,18-3,20 la situazione di peccato in cui si trovano tutti gli uomini, Paolo presenta la giustizia o la fedeltà di Dio, realizzata per mezzo di Gesù Cristo a nostro vantaggio (Rm 3,21-26). L’uomo si trova in un cumulo di lacunosità e di insufficienze: è peccatore, non riesce a essere se stesso, a realizzarsi. Ma Dio non rimane indifferente a questa situazione, non accetta la degradazione nella quale l’uomo si colloca, non lo abbandona. Per testimoniarci concre-tamente la sua fedeltà, Dio ci dona il Figlio, diventato eguale a noi, morto e risorto per noi. Donan-doci il Figlio, il Padre continua a donare se stesso al mondo. Gesù ha preso su di sé tutto il peccato che pesa sull’umanità; nella sua obbedienza e nel suo amore tutti i comandamenti sono adempiuti, perciò in quell’obbedienza e in quell’amore si apre un nuovo orizzonte all’esistenza umana. La mor-te di Gesù, accolta con fiducia, libera l’uomo dalle sue scelte sbagliate, annulla il suo peccato. La risurrezione di Gesù irrobustisce e moltiplica i germi di bene, che sono nel cuore dell’uomo.
Per presentare l’opera realizzata da Dio per mezzo di Gesù Cristo l’apostolo ricorre a un triplice vo-cabolario: a quello commerciale del riscatto o della redenzione, a quello cultuale dell’espiazione, a quello delle relazioni interpersonali, espresso con la parola riconciliazione.
Il vocabolario commerciale della redenzione è adoperato in Rm 3,24: tutti quelli che credono « sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù ». Alla base di questo vocabolario commerciale c’è un riferimento alla liberazione d’Israele dall’Egitto, come si legge in Es 15,13: « Guidasti con il tuo amore questo popolo che hai riscattato ». Paolo non dice mai che il proprietario precedente dell’uomo era il diavolo, ma indica questo proprietario con termini impersonali, come la carne, la legge, il peccato, la maledizione, la paura: sono le condizioni negative che schiavizzano l’uomo e da esse Gesù Cristo con la sua morte lo ha liberato, lo ha sot-tratto, riscattato, prosciolto. Per riscattare gli uomini dal peccato, dalla maledizione della legge, Cri-sto ha pagato un caro prezzo: il versamento del suo sangue sulla croce (1Cor 6,20).
In Rm 3,25 Paolo passa al linguaggio cultuale dell’espiazione: « Dio ha stabilito apertamente Gesù come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giu-stizia per la remissione dei peccati passati ». Lo strumento di espiazione fa riferimento al propiziato-rio, cioè al coperchio d’oro dell’arca dell’alleanza, considerato segno, luogo della misteriosa pre-senza di Dio e del suo perdono (Es 25,17). Lì nel giorno del kippur con il sangue degli animali i peccati venivano gettati nella misericordia divina e veniva ristabilito il rapporto di alleanza con Dio infranto dai peccati. « Paolo accenna a questo rito, espressione del desiderio che si potessero real-mente mettere tutte le nostre colpe nell’abisso della misericordia divina e così farle scomparire. Ma col sangue degli animali non si realizza questo processo. Era necessario un contatto più reale tra colpa umana e amore divino. Questo contatto ha avuto luogo nella croce di Cristo. Cristo, Figlio ve-ro di Dio, fattosi uomo vero, ha assunto in sé tutta la nostra colpa. Egli è il luogo di contatto tra mi-seria umana e misericordia divina; nel suo cuore si scioglie la massa triste del male, compiuto dall’umanità, e si rinnova la vita. Con la croce di Cristo – l’atto supremo dell’amore divino divenuto amore umano – il vecchio culto con i sacrifici degli animali nel tempio di Gerusalemme è finito » (Benedetto XVI). L’espiazione, cioè il totale perdono dei peccati, è data da Dio non più per mezzo dell’effusione di sangue animale versato sul coperchio dell’arca dell’alleanza, ma esclusivamente per mezzo del sangue versato da Gesù Cristo.
In Rm 5,10-11 l’apostolo descrive l’amore di Dio e la nostra salvezza ricorrendo al vocabolario del-la riconciliazione: « Se quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della mor-te del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non so-lo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora ab-biamo ricevuto la riconciliazione ». Anche in 2Cor 5,18-20 Paolo usa cinque volte la terminologia della riconciliazione: tre volte adopera il verbo riconciliare, due volte il sostantivo riconciliazione. La riconciliazione non è solo la normalizzazione dei rapporti dopo un litigio, ma comporta il supe-ramento di una eterogeneità. Le scelte sbagliate rendono l’uomo peccatore e lo mettono in un disa-gio oscuro rispetto a Dio, proprio come se ci fosse stato un litigio. In questo senso l’uomo che pecca è nemico di Dio che invece vuole la reciprocità. La morte del Figlio di Dio libera l’uomo dalla sua eterogeneità e lo colloca in uno stato di faccia a faccia amichevole con Dio. Questo passaggio a una reciprocità tra l’uomo e Dio è chiamato da Paolo riconciliazione. Noi ora possediamo l’inizio della riconciliazione, ma ci troviamo nell’ambito operativo del mistero pasquale di Cristo e la vitalità del Risorto ci porterà alla salvezza intesa come riconciliazione piena, definitiva. Perciò possiamo dav-vero vantarci, cioè porre la fiducia, in Dio e sperare: Dio sta davanti a noi in un atteggiamento di re-ciprocità amorosa; questa situazione ci fa sfiorare l’assoluto della trascendenza, ci riempie di entu-siasmi, ci permette di gloriarci in Dio.
Per quanto riguarda la redenzione, l’espiazione e la riconciliazione noi di solito pensiamo a uno schema ascendente, riteniamo che Cristo ha pagato al Padre al nostro posto e che espiare e riconci-liarsi con Dio significa accattivarsi Dio, renderlo favorevole, portarlo dalla propria parte. Paolo pen-sa invece sempre secondo uno schema discendente. Noi pensiamo di dover riparare un torto fatto a Dio, mediante il pentimento e opportuni atti di contrizione. Paolo è convinto che dalla croce scaturi-sce l’infinita grandezza dell’amore di Dio e di Cristo per noi. La croce di Cristo non è il parafulmine nella tempesta dell’ira di Dio, ma è la rivelazione del folle amore di Dio per tutti, senza distinzioni razziali, religiose o sessuali. Paolo è evangelizzatore dell’azione con cui Dio misericordioso purifica l’uomo cancellando il suo peccato, rendendolo capace di crescere come figlio suo; Paolo annuncia che Dio ha preso l’iniziativa di realizzare la nuova alleanza, di ricomporre in modo nuovo e defini-tivo il rapporto degli uomini con lui. Dio è misericordioso senza limiti e senza ragioni: la nostra sal-vezza non sta nella nostra riparazione del peccato, ma nell’accoglienza dell’amore divino. Dobbia-mo accettare questa rivoluzione copernicana annunciata da Paolo e da tutto il Nuovo Testamento. La giustificazione, la redenzione, l’espiazione, la riconciliazione è pura grazia divina.
Il messaggio di Paolo sulla iniziativa gratuita di Dio può sembrare rischioso, perché può condurre a un’etica passiva. Tuttavia è un rischio che bisogna correre, perché prima di tutto va annunciato il dono che viene da Dio: è stato lui a riconciliarci con sé nella morte e risurrezione di Gesù Cristo. Dopo che Gesù ha rivelato sulla croce l’amore di Dio, il mondo appare nella sua profonda verità e nella sua validità. Per vivere in modo adeguato, occorre essere coscienti della misericordia di Dio, della gratuità nella quale siamo immersi, occorre anzitutto immedesimarsi in ogni istante nella mi-sericordia di Dio e porsi dal fondo dell’anima a sua disposizione.
Per capire in che senso noi siamo ministri della riconciliazione possiamo tenere presenti diversi modelli. Questo ministero può essere compreso in senso teologico, alla luce di chi è Dio, delle Per-sone divine: è sostenuto dal modello dell’amore trinitario. Può essere inteso in senso antropologico o soteriologico: è per la salvezza degli uomini, è sostenuto dalla passione per gli uomini. Può venir inteso come una realtà ecclesiologica: la Chiesa è sacramento dell’incontro di Dio con gli uomini e degli uomini tra loro. Può venir inteso in senso escatologico: il mondo è il luogo delle promesse di Dio e va portato allo shalom biblico, al regno, che è anticipato dove c’è la rivelazione di Dio come Abbà e si vive la comunione fraterna. Ognuno di questi modelli dice che la riconciliazione e il suo annuncio investono tutta la coscienza e la fede cristiana.
Con la sua vita, morte e risurrezione il Figlio ci riconduce al Padre, noi possiamo diventare come Dio ci voleva, possiamo conoscere e accogliere il suo amore e vivere in pace con lui, aperti a un fu-turo di gloria. Perché la pace tra noi e Dio sia stabile, perché il suo amore venga sempre più apprez-zato e accolto, perché noi ci sentiamo continuamente raggiunti, sostenuti e ricreati dal suo amore, il Padre effonde con abbondanza e continuità nei nostri cuori il suo Spirito, in modo che pervada tutta la nostra vita (Rm 5,1-5). Dio non si limita, quindi, a qualche atto di benevolenza; Dio ci dona il meglio di sé: assieme al Figlio ci dona il suo Spirito. L’amore di Dio non è una cosa che egli regala all’uomo, ma è lo stesso Spirito Santo.
Grazie alla presenza dello Spirito, Dio ama in noi, il suo amore diventa il nostro amore: la nostra vi-ta è alimentata dall’amore di Dio. L’amore di Dio non ci esenta dalle contraddizioni che lacerano la storia personale e di tutti gli uomini. Ma Dio non ci lascia soli: il suo Spirito opera in noi soprattutto nel momento della prova, in tutte le circostanze che disturbano la nostra vita, impedisce che le sof-ferenze nelle loro varie forme ci portino a dubitare dell’amore di Dio, a rifiutarlo; lo Spirito ci assi-cura interiormente che il Padre ci ama e perciò ci permette di vivere anche le situazioni difficili, ac-cettando la loro severa pedagogia, facendole diventare momenti che irrobustiscono la nostra fede, che verificano e consolidano la nostra speranza. Restiamo deboli, ma lo Spirito di Dio ci dà energie sufficienti per abbandonarci a Dio e gloriarci in lui, per porre cioè in lui il nostro appoggio.
3. Nella pienezza del tempo Dio mandò il suo Figlio per liberarci dalla legge e renderci figli suoi (Gal 4,1-7)
Nella Lettera ai Galati l’apostolo Paolo qualifica il tempo che precede la venuta di Gesù Cristo co-me quello dell’età minorile, aggiungendo che era il periodo della schiavitù dell’uomo agli elementi del mondo, cioè alle energie, ai poteri interni ed esterni che lo ingabbiano (possono essere le leggi biologiche, psicologiche, economiche, sociali, politiche, le presunte leggi astrali), al legalismo che lo tiene quasi in carcere e come sotto tutela (Gal 4,1-3).
Quando è giunto il momento da lui fissato, Dio ha dato pienezza al tempo mediante due missioni complementari: ha mandato il proprio Figlio e ha mandato lo Spirito del Figlio suo.
Anzitutto ha mandato il proprio Figlio. L’invio del Figlio comporta un duplice movimento: discen-dente e ascendente. Il movimento discendente è espresso dalle due caratteristiche della venuta di Gesù: è nato da donna ed è nato sotto la legge. È entrato nel mondo come ogni altro essere umano, attraverso il grembo di una donna. L’espressione « nato da donna » connota la fragilità: il Figlio di Dio è divenuto fragile, mortale, ha preso un corpo nel grembo di una donna. L’espressione « nato sotto la legge » sottolinea che è nato come membro del popolo ebraico, in una condizione di suddi-tanza alla legge che caratterizza l’erede minorenne. Con due « affinché » Paolo esprime la finalità di questo invio del Figlio, cioè il dono fatto agli uomini di poter compiere un movimento ascendente. In primo luogo il Figlio è venuto per riscattarci, per liberarci dalla sudditanza della legge, vissuta come una schiavitù e come pretesa di autosalvezza e diventata perciò fonte di peccato. La seconda finalità completa la prima: il Figlio è venuto, è disceso tra noi per darci il dono massimo, per farci diventare figli di Dio.
Poi Paolo parla della seconda missione fatta da Dio Padre: il nostro essere figli di Dio è testimoniato dallo Spirito Santo ed è opera dello Spirito Santo. Il dono dello Spirito coincide con il fine della na-scita di Gesù, della sua vita e specialmente della sua pasqua. Lo Spirito agisce prima nel Figlio e poi in ciascuno noi, nei nostri cuori, operando in noi a partire dal battesimo una creazione nuova che ci conforma al Figlio di Dio, ci fa entrare nella sua relazione filiale, spingendoci a gridare con amore e fiducia: « Abbà! Padre! ». Lo Spirito Santo è donato dal Padre a Gesù e da lui passa nel credente per-ché possa ripetere col cuore la stessa preghiera filiale al Padre. Lo scopo dello Spirito in Gesù e in noi è costituire e manifestare la condizione di figli: in senso proprio o naturale in Gesù, in senso a-dottivo in noi. Il paradosso che Paolo annuncia è questo: un Dio che si fa uomo per rendere divini gli umani. « Una funzione importante – se non la principale – del paradosso è quella di provocare meraviglia e stupore di fronte a un Dio che si rivela in maniera eccedente rispetto alle attese umane » (E. Bosetti).
Essere liberati dalla sudditanza alla legge non significa essere senza legge, ma essere guidati dalla legge dello Spirito. In Gal 4,7 Paolo presenta la conclusione: « Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio ». Per Paolo siamo nel tempo della filialità. In questo passo Paolo pone in risalto l’attualità del dono portato da Gesù, il nostro essere già figli di Dio. In Rm 8,18-30 Paolo parla del gemito di chi aspetta ancora il compimento della nostra filiazione divi-na che consiste non nella liberazione dal corpo, ma nella redenzione del corpo, nel riscatto definiti-vo dell’esistenza corporea, cioè nella risurrezione.

4. Cristo è la nostra pace (Ef 2,11-22)
La situazione in cui si trovano gli uomini, lasciati a se stessi, e l’opera di salvezza realizzata da Ge-sù Cristo sono descritte anche in Ef 2,12-22. Anzitutto l’autore dice che gli uomini lasciati a se stes-si sono al di fuori di Cristo, vivono spiritualmente separati da lui. Subito dopo elenca le carenze che caratterizzano quella lontananza: sono « esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei ai patti della promessa »; sono « senza speranza e senza Dio »; poi alla fine la loro situazione è riassunta con le pa-role « nel mondo ». La svolta è stata resa possibile solo mediante Cristo, anzi, « in Cristo Gesù », « gra-zie al sangue di Cristo »: « Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diven-tati vicini, grazie al sangue di Cristo » (Ef 2,13).
Gesù Cristo ha annullato la distanza abissale che ci separava da Dio. Egli ha creato in se stesso un solo uomo nuovo. Perciò in Cristo si realizza la pace, anzi, egli è la nostra pace, in quanto ci ha ri-conciliati tutti in un solo corpo. Questa riconciliazione avviene in un solo corpo. Alcuni ritengono che quel solo corpo nel quale avviene la nostra riconciliazione è il corpo del Cristo crocifisso. Se-condo altri, l’espressione « in un solo corpo » indica la Chiesa. « Paolo ha capito che con Cristo il Dio di Israele, l’unico vero Dio, diventava il Dio di tutti i popoli. Il muro tra Israele e i pagani non è più necessario: è Cristo che ci protegge contro il politeismo e contro tutte le sue deviazioni; è Cristo che ci unisce con Dio e nell’unico Dio; è Cristo che garantisce la nostra vera identità nella diversità del-le culture. Il muro non è più necessario, la nostra identità comune nella diversità delle culture è Cri-sto, è lui che ci fa giusti. E questo basta. Non sono necessarie altre osservanze » (Benedetto XVI).
Poi Paolo specifica che la pace consiste nella possibilità di accedere al Padre (Ef 2,18). L’accesso (prosagoge) è un termine tecnico e indica la dimensione cultuale, sacerdotale della vita, l’essere ac-colti nella vita trinitaria, il poter incamminarci verso il Padre assieme al Figlio con la forza dello Spirito. Nella parte finale del brano (Ef 2,19-22) viene descritta la nostra nuova situazione ricorren-do a due immagini: la prima è presa dall’ambito familiare e sociale (siamo concittadini dei santi e familiari di Dio), la seconda dalla sfera dell’architettura (siamo l’edificio, il tempio santo nel Signo-re, l’abitazione di Dio). Dio per mezzo del suo Spirito raccoglie attorno a sé la sua famiglia.
5. Sintesi: il lieto annuncio dell’amore di Dio in Gesù Cristo genera e purifica la Chiesa
Raccogliamo il messaggio di Paolo sull’amore di Dio ascoltando tre frasi contenute nella Lettera ai Romani. All’inizio, dopo essersi qualificato come servo e apostolo, specifica che si rivolge « a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata » (Rm 1,7): lui è totalmente posto al ser-vizio di Gesù Cristo e del suo vangelo; loro insieme a lui appartengono a un originale vincolo di amore proveniente da Dio e per questo si trovano in una condizione di santità gratuitamente donata. Poi Paolo dice che « l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato » (Rm 5,5): è Dio che per primo ci ama e mette nei nostri cuori la potenza di amo-re dello Spirito Santo. Così ci rende capaci di amarlo con un amore autentico che cambia la nostra esistenza. La terza parola che Paolo pronuncia sull’amore di Dio ci riporta all’aspetto più quotidiano e più realistico della nostra esistenza, costituito dalla sofferenza. L’apostolo elenca esemplificati-vamente sette difficoltà della vita (tribolazione, angoscia, persecuzione, fame, nudità, pericolo, spa-da) e afferma che « in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né po-tenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cri-sto Gesù, nostro Signore » (Rm 8,37-39).
Per questo, quando interviene a correggere i fedeli di Corinto per le divisioni sorte nella comunità, Paolo ricorda loro la centralità del mistero di Cristo, cioè la centralità della sua croce, del suo amore (1Cor 1,10-2,16). Paolo si rende conto che non basta rivolgere un’esortazione alla concordia, alla carità, ma occorre aiutarli a riflettere sul nucleo della fede: la salvezza viene non dai nostri sforzi o dal nostro sapere o dai ministri, ma da Dio che si è rivelato e donato a noi nella croce di Gesù Cri-sto. Anche quando esorta i fedeli di Filippi a una maggior carità fraterna, Paolo li invita a far pro-prio il cammino di Gesù (Fil 2,5-11). Non si superano le divisioni confrontandosi a vicenda, perché questo troppe volte esaspera i conflitti; si superano le divisioni guardando tutti a Gesù. Finché ci si misura l’un l’altro e si stilano elenchi di virtù e di carismi personali, le differenze si approfondisco-no, mentre il riferimento comune a Gesù, in particolare al suo mistero pasquale, costituisce una rea-le alternativa al protagonismo ecclesiale.
6. Come presentare oggi il messaggio di Paolo?
Il vocabolario della redenzione usato da Paolo (giustizia, redenzione, espiazione, riconciliazione) cerca di esprimere l’amore di Dio per noi ed è il cemento che unifica tutte le tessere costituite dalle varie affermazioni della nostra fede: circa la Trinità, la cristologia, la Chiesa che è mistero di comu-nione, l’antropologia, i sacramenti, il tempo, l’al di là (compreso il purgatorio che non è un inferno ridotto, ma è piuttosto paragonabile a un corso di esercizi spirituali). Occorre tenere sempre presente la realtà dell’amore di Dio per noi: nell’annuncio e specialmente nel sacramento della riconciliazio-ne.
II. La tensione missionaria dell’apostolo Paolo
L’amore di Dio è il vangelo che a Paolo è stato rivelato e che lo ha sostenuto. Paolo si è sentito an-che chiamato ad annunciarlo agli altri: ha sperimentato la tensione missionaria già al momento della sua esperienza sulla via di Damasco, come testimoniano gli Atti degli Apostoli, quando narrano quell’evento (At 9,15; 22,15; 26,16-18), e come testimonia lui stesso, quando afferma che Dio ha rivelato in lui il Figlio suo perché lo annunciasse in mezzo alle genti (Gal 1,14-15). Paolo è apostolo per chiamata divina; non vuole che la grazia della chiamata sia vana, perciò esclama: « Guai a me se non annuncio il vangelo! » (1Cor 9,16-17).
1. La testimonianza degli Atti degli Apostoli
La tensione missionaria di Paolo è testimoniata negli Atti degli Apostoli che descrivono il cammino della parola di Dio da Gerusalemme a Roma per opera soprattutto di questo apostolo. Presentano il cosiddetto primo viaggio missionario di Paolo come « l’opera » che lo Spirito gli ha affidato (la paro-la « opera » ricorre all’inizio, al centro e alla fine di quel viaggio: At 13,2.41; 14,26). Dio per mezzo dell’apostolo apre ai pagani la porta della fede, la porta della salvezza mediante la fede (At 14,27). La parola « opera » ritorna in At 15,38. Il ruolo dello Spirito Santo, anzi di tutta la Trinità, nell’opera missionaria di Paolo emerge chiaramente in At 16,6-10, dove si descrive perché l’annuncio cristiano è stato portato dall’apostolo in Europa: per due volte le Spirito è intervenuto a muovere Paolo e i suoi compagni verso l’Europa. A indirizzare Paolo nel suo cammino missionario è lo Spirito Santo, è lo Spirito di Gesù, e poi è lo stesso Dio Padre. Questa esperienza trinitaria dell’apostolo ci dice che noi operiamo in un terreno già preparato da Dio: prima che arrivi la nostra persona, la nostra pa-rola o il nostro esempio, lo Spirito di Gesù è già là ad aprire le porte. Occorre però esercitarci nel di-scernimento della sua presenza e della sua opera.
2. Paolo è stato chiamato a diffondere il profumo della nuova alleanza (2Cor 2,14-3,6)
Nella seconda Lettera ai Corinzi Paolo presenta se stesso come uno che vive l’umiliazione, speri-mentata dai prigionieri che erano costretti a partecipare alla sfilata nel corteo del vincitore (2Cor 2,14-17). Un po’ più avanti Paolo dirà: « Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù » (2Cor 4,11); in Fil 3,12 si definisce « conquistato da Gesù Cristo »: è uno schiavo che annuncia il vangelo come una necessità che gli è stata imposta (1Cor 9,16). Il vincitore di Paolo è Dio in Cristo.
Dall’immagine del corteo trionfale, Paolo passa a quella del profumo della conoscenza di Dio: la predicazione del vangelo è un profumo che dà vita anzitutto all’apostolo e per mezzo di lui la vita si diffonde nella comunità e nel mondo. L’immagine del profumo può indicare la diffusione della vera sapienza (in Sir 24,15 la Sapienza dice: « Come cinnamomo e balsamo di aromi, come mirra scelta ho sparso profumo »). L’immagine del profumo può avere anche un significato sacrificale: « Allora Noè edificò un altare al Signore; prese ogni sorta di animali puri e di uccelli puri e offrì olocausti sull’altare. Il Signore ne odorò il profumo gradito e disse: Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo » (Gen 8,20-21); « Quando vi avrò liberati dai popoli e vi avrò radunati dai paesi nei quali foste dispersi, io vi accetterò come soave profumo, mi mostrerò santo in voi agli occhi delle nazio-ni » (Ez 20,41; cf. Sir 35,5; 38,11). Subito dopo Paolo presenta non solo la predicazione del vangelo, ma anche se stesso come il profumo di Cristo: il suo impegno è un sacrificio profumato, cioè gradito a Dio. La morte di Gesù è il sacrificio di soave odore gradito a Dio (Ef 5,2). Paolo si presenta come l’aroma di questo sacrificio, in quanto ne è l’annunciatore con la parola e con tutta la sua vita.
Anche in Rm 15,16 Paolo interpreta la sua attività missionaria come azione sacerdotale, come un atto cultuale: la definisce un essere ministro (leitourgos) di Gesù Cristo tra le genti, adempiendo il sacro ministero (hierourgein), cioè il servizio sacerdotale, perché i pagani diventino un’offerta gra-dita (prosphora), santificata dallo Spirito. « Innanzitutto, san Paolo interpreta la sua azione missio-naria tra i popoli del mondo per costruire la Chiesa universale come azione sacerdotale. Annunciare il vangelo per unire i popoli nella comunione del Cristo risorto è un’azione « sacerdotale ». L’apostolo del vangelo è un vero sacerdote, fa ciò che è il centro del sacerdozio: prepara il vero sa-crificio. E poi il secondo aspetto: la meta dell’azione missionaria è – così possiamo dire – la liturgia cosmica: che i popoli uniti in Cristo, il mondo, diventi come tale gloria di Dio, « oblazione gradita, santificata nello Spirito ». L’autodonazione di Cristo implica la tendenza di attirare tutti alla comu-nione del suo Corpo, di unire il mondo. Solo in comunione con Cristo, l’uomo esemplare, uno con Dio, il mondo diventa come tutti desideriamo: specchio dell’amore divino » (Benedetto XVI).
La predicazione apostolica è « per gli uni odore di morte per la morte e per gli altri odore di vita per la vita » (2Cor 2,16): porta vita a coloro che accolgono la forza liberatrice del vangelo, porta morte a coloro che persistono nella schiavitù della legge o di altre realtà che promettono salvezza, senza po-terla dare. L’apostolo è consapevole della sua grande responsabilità: il suo ministero determina la sorte degli ascoltatori per il presente e per tutta l’eternità, perciò si chiede: « E chi è mai all’altezza di questi compiti? » (2Cor 2,16). Poco dopo risponde: « La nostra capacità viene da Dio, il quale an-che ci ha resi capaci di essere ministri di una nuova alleanza, non della lettera, ma dello Spirito; per-ché la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita » (2Cor 3,5-6). La coscienza che Paolo ha del suo mi-nistero va alla radice: è cosciente della sua chiamata e del suo servizio, perché è soprattutto coscien-te della realtà della nuova alleanza, vergata con lo Spirito del Dio vivente, scritta su tavole che sono i cuori di carne. Egli sa che la nuova alleanza ha come prima caratteristica Dio stesso che nel Figlio suo riconcilia a sé l’uomo, lo istruisce, lo muove, lo riscalda, lo anima, lo riempie di entusiasmo e di buona volontà mediante il suo Spirito. Paolo si sente servitore di quest’alleanza nuova.
3. Lo sforzo di inculturazione fatto da Paolo: « tutto a tutti » (1Cor 9)
In 1Cor 9 Paolo ci offre la regola della sua esistenza missionaria e lo fa con tono appassionato, me-diante diciotto domande. Paolo è stato chiamato da Dio, perciò si sente libero da tutti. Tuttavia vive questa libertà rinunciando a molti diritti, per non mettere ostacoli al vangelo di Cristo (1Cor 9,12), facendosi servo di tutti. Si è fatto come giudeo per i giudei, come sotto la legge per i proseliti, come senza legge per i pagani, debole per i deboli, tutto a tutti per guadagnare a Cristo il maggior numero di persone, per diventare partecipe del vangelo (1Cor 9,19-23). Paolo si configura all’atteggiamento di Gesù: anche Gesù, per salvarci, ha rinunciato a dei privilegi che gli competevano, ha usato la condiscendenza o la solidarietà nei nostri confronti (la liturgia parla di admirabile commercium): « Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, per-ché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà » (2Cor 8,9); « Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio… svuotò se stesso… a gloria di Dio Padre » (Fil 2,6-11); « Colui che non aveva co-nosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giusti-zia di Dio » (2Cor 5,21). L’amore di Gesù Cristo ha portato Paolo ad abbracciare « la legge di Cristo » (1Cor 9,21). Sentiamo qui l’anticipo delle parole che ricorrono nell’elogio della carità: « tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta » (1Cor 13,7). Contemplando Cristo, Paolo ha capito che l’altro non è uno che diminuisce la libertà, ma è una condizione positiva e necessaria per vivere la propria libertà in maniera incarnata; la vera libertà, infatti, non è una autonomia slegata, ma è servi-zio.
Paolo ha capito che il vangelo attraversa tutte le culture, perché non è riducibile solo a cultura, ma è di un ordine diverso, è metaculturale. Perciò l’apostolo si è dimostrato totalmente disponibile verso le varie culture, ha sempre cercato di annunciare il vangelo in un linguaggio vicino alla sensibilità, alla comprensione degli uditori. In questo farsi tutto a tutti Paolo non giudica il kerigma in base alla cultura, ma fa sempre il cammino opposto: pone il kerigma della Chiesa sulla morte e risurrezione di Gesù Cristo come criterio fondamentale per valutare la realtà, per far maturare o per modificare la cultura.
Paolo sa che esiste anche per lui il rischio del fallimento, di essere alla fine escluso da quella sal-vezza che ha portato agli altri. Illustra questo con l’esempio delle gare atletiche che si svolgevano proprio a Corinto (1Cor 9,24-27): prendere parte a una gara non garantisce il premio; tra gara e premio non c’è connessione automatica, e non c’è nemmeno tra l’essere diventati cristiani e il con-seguire la salvezza. In vista di una corona che marcirà, l’atleta si sottopone a una dura disciplina. Allo stesso modo l’apostolo esercita su se stesso un forte autocontrollo, si sottomette a molte priva-zioni per non essere egli stesso squalificato in quella gara che è la vita missionaria cristiana e per ot-tenere invece la corona incorruttibile, la vita eterna.
4. L’adattamento agli uditori nei discorsi di Paolo riportati negli Atti degli Apostoli
L’esempio della capacità di Paolo di adattare l’annuncio del vangelo agli uditori, restando fedele al kerigma, è offerto dai suoi tre discorsi riportati negli Atti degli Apostoli: quello rivolto ai giudei di Antiochia di Pisidia (At 13,16-48), quello tenuto davanti a un pubblico pagano nell’areopago di A-tene (At 17,16-34), quello rivolto agli anziani della Chiesa di Efeso, convocati a Mileto, dove fa un bilancio della propria vita: è l’unico discorso rivolto ad ascoltatori cristiani riportato negli Atti de-gli Apostoli (At 20,17-38).
Il discorso ai giudei di Antiochia di Pisidia è una riflessione midrashica o un commento attualizzan-te della promessa fatta dal profeta Natan al re Davide (2Sam 7,6-16). Nel discorso gli uditori sono interpellati tre volte: dapprima come « uomini israeliti » (At 13,16) e due volte come « fratelli » (At 13,26.38). Perciò il discorso può essere diviso in tre parti: la prima ricorda la promessa fatta ai padri (At 13,16-25), la seconda annuncia che la promessa si è adempiuta per i figli (At 13,26-37), la terza contiene l’invito alla fede (At 13,38-41). La profezia di Natan ruotava intorno alla parola « casa » e giocava sul duplice significato di questo termine (edificio o casato); il discorso di Paolo ruota intor-no al verbo « far alzare », che pure ha due significati, in quanto può significare anche « risuscitare ». L’evento Gesù appare non come un beneficio che si aggiunge a quelli di cui Dio aveva gratificato Israele, ma come il beneficio che dà compimento in maniera assolutamente gratuita e insuperabile alla vicenda storica iniziata nell’Antico Testamento, quando Dio ha scelto i padri e il popolo. Dio non offre più un giudice o un re, ma un salvatore. Nella parte centrale del discorso per tre volte si dice che questo salvatore è stato risuscitato e glorificato da Dio (At 13,30.33.37). La risurrezione di Gesù costituisce la sua intronizzazione: egli è il Figlio che realizza il Sal 2,7. La risurrezione è quindi il primo passo dell’adempimento delle promesse: è la condizione perché si realizzi l’azione salvifica del Signore glorificato nei confronti di tutti. In virtù della sua risurrezione Gesù possiede il potere di rimettere i peccati e di donare la giustificazione e la risurrezione a tutti coloro che credono in lui. Sfuggire alla corruzione e condividere il cammino di Gesù, risuscitato dai morti, è la speranza che può pervadere ogni uomo. Accogliere questa speranza significa rinunciare a qualsiasi pretesa di giustizia, ricevere la salvezza dall’unico salvatore che ha il potere di rimettere i peccati. Si può dire che, partendo dalla profezia di Natan, Paolo parla di Gesù risorto facendo una lettura unitaria della Scrittura. L’esegesi e la lectio divina ci abituano di solito a una lettura analitica di un testo biblico, tuttavia è importante presentare anche una visione di insieme. Dobbiamo saper fare anche una sinte-si che permetta di familiarizzarsi con le tappe principali della storia della salvezza che trova sempre in Gesù, crocifisso e risorto, il suo compimento.
Ad Atene la buona notizia inaugura ufficialmente il suo cammino fra le nazioni. Paolo si rivolge a-gli ateniesi, molto sensibili alla religione come dimostrano le molte statue, e nello stesso tempo ca-paci di confessare una certa ignoranza in materia religiosa, al punto che hanno elevato una statua a un dio sconosciuto. Paolo non si propone di far loro conoscere razionalmente questo Dio ignoto, ma annuncia questo Dio per portarli alla conversione a lui: annuncia il Dio che ha creato gli uomini e tutte le cose e che mantiene in ogni creatura il dinamismo vitale. Quindi c’è una certa parentela tra Dio e gli uomini, come hanno intuito anche i poeti, dicendo: « di lui anche noi siamo stirpe » (At 17,28). Se Dio ha creato il mondo e tutti gli uomini, il mondo e la storia umana sono le due strade da percorrere per dare senso e fondamento all’esistenza e per incontrare Dio, lasciandosi aiutare an-che dai poeti. Pure in Rm 1,20 Paolo dice che le perfezioni invisibili di Dio si possono contemplare mediante le opere da lui compiute. La molteplicità degli idoli manifesta che l’uomo non è stato ca-pace di percorrere rettamente queste due strade per mettersi in giusta relazione con Dio e ha preferi-to adorare le opere delle proprie mani. L’annuncio cristiano mette fine a questa situazione e procla-ma che la storia umana sta sotto il segno del giudizio. Dio offre la conversione e il perdono tramite un giudice che è un uomo, ma accreditato a questo compito, in quanto Dio lo ha fatto passare attra-verso la morte, donandogli la risurrezione. Questa parola incontra resistenza tra i pagani di Atene come la parola di Gesù aveva incontrato resistenza presso gli abitanti ebrei di Nazaret. Per gli ebrei lo scandalo è costituito soprattutto dalla morte del Messia, per i pagani è costituito anche dalla sua risurrezione.
Focalizzando i punti principali del discorso, tenuto da Paolo ad Atene, possiamo tirare quattro con-clusioni.
Anzitutto Paolo non indulge verso la pratica religiosa dei pagani: il culto degli idoli non ha niente di autentico, non è onorare Dio in modo implicito, anzi in qualche modo questo culto lo offende e quindi è necessaria la conversione. In secondo luogo, Paolo riconosce che gli uomini possono arri-vare a comprendere che c’è un Dio ignoto: questo riconoscimento può essere un punto di inizio, una disposizione d’animo per una ulteriore ricerca, per l’accoglienza del messaggio cristiano. In terzo luogo, Paolo è conscio che l’annuncio cristiano va portato ai pagani in termini che siano il più pos-sibile accettabili; perciò presenta i temi fondamentali della fede di Israele, come la creazione e la pa-rentela degli uomini con Dio, senza narrare la storia di questo popolo. Infine, Paolo accetta gli arric-chimenti che vengono dalla cultura pagana, proclamando un Dio nel quale viviamo, ci muoviamo ed esistiamo (At 17,28): un giudeo, preoccupato di salvaguardare la trascendenza di Dio, difficilmente avrebbe osato fare questa affermazione. Il dialogo con la cultura pagana è arricchente, tuttavia resta difficile, perché incontra lo scoglio della morte e della risurrezione di Gesù Cristo, costituito da Dio salvatore di tutti gli uomini.
Il terzo discorso, quello rivolto da Paolo agli anziani di Efeso, ha un carattere parenetico, diverso da quello kerigmatico che propone il primo annuncio cristiano. Il discorso parenetico era abituale per Paolo, quando prendeva commiato da una comunità, dopo un certo periodo di attività pastorale (At 16,4-5; 18,23; 20,1.2). Se Paolo si sente chiamato a consolare o esortare è segno che i fedeli si tro-vavano in una situazione di fragilità: di fronte a quella fragilità l’apostolo non si meraviglia, non cerca capri espiatori, ma ricorre all’opera di incoraggiamento, di rianimazione. Dopo aver dato uno sguardo al suo impegno missionario e avere espresso la sua coscienza del presente e di ciò che lo at-tende, Paolo rivolge ai presbiteri la sua esortazione. Domanda loro di vegliare su loro stessi e su tut-to il gregge (At 20,28); al v. 31 domanderà di vigilare. Il fatto che sono usati due verbi diversi sotto-linea l’importanza della vigilanza. Vegliare nell’attesa del Signore è l’atteggiamento dell’uomo del-la speranza, che non si appiattisce su sicurezze presenti, ma è proteso verso il futuro.
L’apostolo non raccomanda agli anziani di vegliare soltanto su loro stessi o soltanto sul gregge, ma su entrambi: devono attendere a se stessi e insieme a tutto il gregge. Non lascia quindi spazio per una sovrapposizione ideologica di chi pensa che curando se stessi si cura anche il gregge oppure che badando al gregge si bada anche a se stessi. Siamo davanti a una dialettica ineliminabile. Un presbi-tero che non prega, che non trova il tempo per la lettura, per la sua vita spirituale non può addurre a scusa l’incessante servizio alla gente: in quel caso veglia sul gregge, ma non su di sé. Parimenti non può disinteressarsi dei fedeli, dicendo che dedica le sue giornate alla preghiera, alla lettura, allo stu-dio della teologia: in tal modo veglia su di sé, ma non sul gregge. Le due realtà si richiamano e si ar-ricchiscono vicendevolmente, si completano, ma non si confondono. Siamo sempre tentati di elimi-nare il bipolarismo che Paolo sottolinea con molta semplicità.
I motivi che Paolo porta per esortare i presbiteri alla vigilanza sono due. Da un lato la natura trinita-ria del loro ministero pastorale e della Chiesa: i presbiteri sono stati costituiti dallo Spirito Santo a pascere la Chiesa di Dio che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio (At 20,28), e dall’altro lato i pericoli incombenti, rappresentati dai lupi rapaci che verranno dall’interno e proporranno di non accontentarsi della sola mediazione di Cristo (At 20,29-30).
5. Paolo lavora in equipe, non senza difficoltà
Paolo vive la tensione missionaria in una rete di relazioni, di collaborazione fraterna. Il numero di coloro che collaborarono quotidianamente con lui per l’espansione del vangelo, per la crescita delle comunità cristiane è molto elevato. Nella seconda Lettera a Timoteo sono nominate quattordici per-sone che fanno da sfondo all’amicizia tra Paolo e Timoteo; nella Lettera ai Romani l’apostolo ricor-da trentasei persone con delle qualifiche che indicano l’intensità di rapporti. Il successo missionario di Paolo non sarebbe stato possibile senza questi legami di collaborazione.
Il lavoro in equipe non si è svolto sempre senza qualche intoppo o incidente. Nell’esperienza mis-sionaria e pastorale di Paolo ci sono state anche relazioni venute meno: basta leggere At 15,39 (la rottura con Barnaba), 2Tm 1,15 (questa indicazione fa capire che era faticoso seguire l’esempio di Paolo), 2Tm 4,9-10 (Dema a un certo punto ha preferito il secolo presente: nessuno è esente dalla tentazione), 2Tm 4,14-15 (in 1Tm 1,19 Alessandro è collocato tra coloro che hanno fatto naufragio nella fede, dopo aver collaborato nel ministero apostolico), 2Tm 4,16 (quelli che hanno abbandona-to Paolo si sono spaventati dei rischi, delle difficoltà che avrebbero potuto incontrare). Ci sono state anche relazioni perdute e poi ritrovate e tra queste basta ricordare quella con Marco (2Tm 4,11). La fraternità, il sostegno degli altri è un elemento indispensabile nel ministero, specialmente nei giorni difficili.

6. Paolo annuncia un modo diverso di stare insieme, reso possibile dalla filiazione divina
L’annuncio missionario di Paolo nelle città dell’impero romano ha avuto un notevole successo. Que-sto è dovuto a due motivi. Un primo è stato il contenuto del vangelo, cioè la gratuità dell’amore di Dio. Il secondo è dovuto al fatto che il vangelo, oltre a mettere in giusta relazione filiale con Dio, comporta anche un modo nuovo di stare insieme. Paolo riconosce subito a tutti i cristiani di ogni lo-calità il titolo di Chiesa di Dio. Poi afferma che Gesù è il primogenito tra molti fratelli (Rm 8,29). Dalla loro unione con Gesù deriva che i cristiani sono chiamati ad amarsi gli uni gli altri con affetto fraterno, a gareggiare nello stimarsi a vicenda, a non cercare il proprio interesse, ma quello degli altri (Rm 12,10-16; Fil 2,3-4).
Il testo forse più significativo a questo proposito si trova in Gal 3,26-28: « Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestititi di Cristo. Non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù ». Paolo nega non l’esistenza, ma l’efficacia di tre distinzioni su cui si fondava la società al suo tempo: la prima riguarda il piano religioso o razziale (giudeo e greco), la seconda il piano della vita civile o sociale (schiavo e libero), la terza il piano della vita sessuale (uo-mo e donna). In Cristo si costituisce una realtà nuova: la Chiesa che è il luogo dell’affratellamento, in cui vengono eliminati la separazione e l’isolamento. In Cristo risorto non c’è e non c’è mai stato giudeo né greco, schiavo né libero. In Cristo risorto ogni credente gode della piena dignità di figlio di Dio. In Cristo non c’è maschio e femmina. Paolo sa che il battesimo non sopprime i sessi e che i co-niugi credenti hanno il diritto e il dovere di avere rapporti sessuali. Ma al livello più profondo dell’esistenza cristiana non c’è posto per una discriminazione sessuale, non esiste una superiorità dell’uomo sulla donna.
Al tempo di Paolo si distinguevano religioni di liberi e di schiavi, di maschi e di donne, di giudei e di greci: ognuno aveva la propria religione, ma in stretta dipendenza del ceto di appartenenza. Paolo af-ferma che in Cristo le differenze religiose, civili, sessuali vengono ridimensionate e relativizzate: per se stesse non salvano e non condannano. Cristo con la sua morte in croce ci ha liberati e perciò i cri-stiani, anziché identificarsi mediante un rapporto di opposizione, che rende estranei nei confronti de-gli altri, si identificano mediante la loro unione con Cristo e la loro relazione vicendevole; quello che conta non è ciò che diversifica, ma il Cristo che unisce. Tutti, infatti, siamo « uno solo » (heis è ma-schile) in Gesù Cristo. Contemplando Cristo, Paolo ha capito che la libertà donata da lui non è indi-pendenza, non è un’autonomia slegata, ma è la possibilità di mettersi a servizio dello Spirito il cui frutto è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà (Gal 5,22). Il soggetto principale della libertà cristiana non è la persona umana, ma è Gesù Cristo che mediante la sua morte ha riscattato i credenti. La libertà è lasciare disporre di sé. La morte di Cristo in croce genera l’unità ecclesiale, la spiega e la esige. È specialmente nella liturgia che i cristiani fanno esperienza di questa profonda comunione con Cristo e tra loro.
Per presentare questa comunione ecclesiale Paolo ricorre alle due categorie di popolo di Dio e di cor-po di Cristo. La categoria di popolo di Dio richiama maggiormente la storia, ha una connotazione diacronica. Nella categoria del corpo è più evidente l’articolarsi attuale, la connotazione sincronica e l’idea della donazione di sé. Popolo e corpo indicano rispettivamente le due coordinate del tempo e dello spazio, ed entrambe sono indispensabili perché la Chiesa sia nel mondo. Cristo, con la sua morte e risurrezione, è all’origine di questo corpo e nello stesso tempo è la forza che lo fa crescere nella storia come popolo fino alla sua pienezza. A differenza della società civile, in cui tutto separa-va gli uomini, i credenti in Gesù Cristo si riconoscono reciprocamente come fratelli e sorelle, cioè come figli davanti a Dio. La diffusione del cristianesimo nelle città fu dovuta alla sua capacità di te-nere insieme una minoranza di ricchi e una maggioranza di persone considerate marginali. Le comu-nità cristiane radunavano ciò che la società urbana separava e divideva in categorie impermeabili, permettevano una vita conviviale, il pregare insieme, il profetizzare insieme, l’assumere diaconie ar-ticolate, necessarie per la vita ecclesiale. Tutto questo non aveva equivalenti nella società civile.
III. La tensione temporale
In Paolo c’era anche un’altra tensione, quella temporale, c’era cioè la consapevolezza del nuovo senso del tempo che è stato portato a pienezza da Dio in Gesù Cristo. Paolo sa che i cristiani sono « consapevoli del tempo » (Rm 13,11) e che sono chiamati a riscattare il tempo presente, a farne buon uso (Col 4,5; Ef 5,16). L’invio del Figlio di Dio ha contrassegnato il tempo, facendolo pieno, cioè denso, maturo, senza ulteriore bisogno di integrazioni sostanziali (Gal 4,4): con la venuta di Gesù il tempo da chronos (tempo che scorre e che segna tutti inesorabilmente) per noi è diventato kairos (momento favorevole, tempo opportuno e decisivo). In Cristo la storia ha toccato il proprio culmine, il vertice che regge e che dà significato all’insieme dei tempi nuovi (Ef 1,10). Paolo è convinto che nella morte e risurrezione di Gesù Cristo il tempo si è fatto breve, è stato raccorciato (1Cor 7,29), nel senso che si è compiuto tutto ciò che lo ha preceduto e che è stato anticipato tutto ciò che dovrà ancora avvenire.
Ai nostri giorni si parla molto di ecologia, ma non è altrettanto diffusa l’attenzione per un rapporto corretto con il tempo. L’uomo occidentale si trova spesso schiavo del tempo o in cattiva relazione con esso. L’idea del tempo, della sua fuga, della sua irreversibilità è continuamente presente nella coscienza dell’uomo frettoloso di oggi. È strano che, proprio nella società caratterizzata dal « tempo libero », nessuno ha più tempo. Dall’altro lato spesso l’uomo prova un senso di noia o di vuoto per il tempo che sembra troppo lento e allora cerca di evadere in vari modi dal tempo.
1. La riflessione di Paolo nella prima Lettera ai Tessalonicesi
La necessità di chiarire in che cosa consiste e che cosa comporta la tensione temporale verso il com-pimento finale sta alla base del primo scritto di Paolo giunto a noi, cioè della prima Lettera ai Tessa-lonicesi, che probabilmente costituisce anche il primo scritto del Nuovo Testamento. Mentre gli e-vangelisti a partire dalla pasqua leggono tutta la precedente vita di Gesù, Paolo a partire dalla pa-squa legge in modo nuovo la conclusione del tempo o la parusia verso la quale tutti siamo incammi-nati. Nella prima Lettera ai Tessalonicesi l’apostolo tocca più volte il tema della parusia o della ve-nuta del Signore (1Ts 1,9; 2,11-12.16.19; 3,13) e nella seconda parte dello scritto dedica due sezioni a questo argomento (1Ts 4,13-18 e 5,1-11). Possiamo cogliere due pensieri del messaggio di Paolo: il fatto che noi siamo « figli del giorno » e il valore del lavoro o dell’impegno nelle realtà terrene.
Per quanto riguarda l’ora finale i credenti hanno una certezza e una incertezza. La certezza è che la storia è in cammino verso il compimento. Gesù Cristo risorto è il paradigma, la caparra del trionfo di Dio sulla morte, Cristo risorto è anche il mediatore del nostro trionfo sulla morte. La risurrezione di Gesù implica quella dei credenti e la parusia di Gesù implica che i credenti sono chiamati a essere partecipi della sua vittoria, membri del suo corteo trionfale. Paolo ricorda che questa certezza deve diventare fonte di consolazione e di incoraggiamento vicendevole per tutti.
L’incertezza riguarda la data. Il giorno del Signore viene di notte, come i grandi eventi salvifici (la creazione del mondo, il passaggio del mar Rosso, la risurrezione di Cristo) che si sono realizzati di notte, portando nella storia il trionfo della luce divina, del bene. I cristiani sanno che sono figli della luce e che sono figli del giorno. L’espressione « figli della luce » è tradizionale nell’ebraismo (Lc 10,6; 16,8; Gv 12,36): gli ebrei sanno che il mondo non poggia sul male o sul peccato, ma sulla primogenitura della luce, che è stata la prima realtà creata, sanno che sono chiamati a essere testi-moni della luce, a orientarsi e a orientare verso la luce, a sperare e a infondere speranza. Invece l’espressione « figli del giorno » è nuova, è stata coniata da Paolo: i cristiani sono figli del giorno del-la risurrezione di Gesù e sono anche figli del giorno della sua venuta finale; quel giorno, inteso in entrambi i sensi, li ha generati e opera in loro, a quel giorno appartengono. Perciò sono in grado di indossare l’armatura necessaria per non farsi sorprendere alla venuta del Signore. Questa armatura è costituita dalle tre virtù teologali.
Sappiamo che Paolo ritorna di frequente sul tema della risurrezione dei morti, come frutto della ri-surrezione di Gesù Cristo. Il testo più noto è 1Cor 15. Paolo proclama che Cristo risorto è primizia di coloro che sono morti: se tutti muoiono in Adamo, tutti riceveranno la vita in Cristo. Dio Padre per mezzo di Gesù Cristo porta a compimento la sua promessa di vita piena e definitiva. Cristo è il prototipo, il capostipite della nuova umanità: egli è l’uomo celeste, è diventato spirito vivificante, in grado di rendere l’uomo pienamente capax Dei, in modo che Dio, fonte della vita, sia tutto in tutti. La speranza nella risurrezione ci permette di accettare il limite creaturale della morte: attraverso es-sa diventiamo disponibili all’azione vivificante di Dio in Gesù Cristo, ci apriamo alla realizzazione piena della nostra eredità filiale. È significativo che la prima Lettera ai Corinzi inizia parlando della croce di Cristo e delle sue conseguenze e termina parlando della risurrezione di Gesù Cristo e delle sue conseguenze. I due momenti dell’evento pasquale vanno costantemente tenuti presenti: su di es-si si basa la fede e la vita cristiana.
La riflessione sul tempo porta poi Paolo a esortare cristiani di Tessalonica a lavorare con le proprie mani. Egli basa la sua esortazione su due motivi: condurre una vita decorosa di fronte ai non creden-ti e non aver bisogno di nessuno (1Ts 4,12). Da un lato non si può perdere la buona reputazione agli occhi di quelli che si vuole convincere della verità della propria fede; il lavoro, l’impegno nelle real-tà terrene rappresenta perciò un importante prerequisito della evangelizzazione. Dall’altro lato il la-voro costituisce un modo per progredire nell’amore fraterno, per concretizzarlo, evitando almeno di essere di peso agli altri. Paolo lega il dovere del lavoro a quella che noi chiameremmo « antropologia sociale ». Per Paolo la fuga dal lavoro crea uno squilibrio nel tessuto sociale: da una parte crea la pretesa di un diritto ingiusto e dall’altra crea un dovere altrettanto ingiusto: mentre qualcuno non la-vora, qualche altro deve lavorare per lui. Il lavoro è dunque un nome diverso per dire giustizia, ri-spetto, amore fraterno. « La speranza escatologica non diminuisce l’importanza degli impegni terre-ni, ma anzi dà nuovi motivi a sostegno della loro attuazione » (Gaudium et Spes, 21).
2. Il vivere è Cristo e il morire è un guadagno (Fil 1,21)
Il valore del tempo emerge anche in Fil 1,21. Paolo afferma anzitutto che per lui il vivere è Cristo e in questa visuale anche la morte perde i suoi connotati negativi. L’espressione « per me il vivere è Cristo » dice che Cristo è la ragione profonda del suo vivere. Questa espressione può avere due si-gnificati. Da un lato indica che per Paolo vivere è essere sempre in piena comunione con Cristo ri-sorto, ma più verosimilmente ha un secondo significato e indica che per lui il vivere è annunciare, testimoniare Cristo. Il morire è un guadagno non nel senso che è la liberazione dal tedio di una vita faticosa, ma nel senso che è un più rispetto alla vita terrena, è un potenziamento della vita autentica e vera che è Gesù Cristo dentro di noi. Cristo abbraccia la vita terrena, ma nello stesso tempo la tra-scende.
3. Tutto è vostro… Vivere come se (1Cor 3,21; 7,29-31)
Anche nella prima Lettera ai Corinzi l’apostolo Paolo ritorna sul significato del tempo. Ai cristiani di Corinto dice: « Tutto è vostro » (1Cor 3,21). L’intera realtà, la vita, la morte, il presente, il futuro, tutto appartiene a loro. Però subito dopo Paolo aggiunge: « Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio »: il fondamento della sovranità, della libertà dei credenti sta nel loro rapporto con Gesù Cristo. Il cre-dente è libero di disporre di tutto, alla condizione di essere disponibile al Signore. Tutto è vostro, a condizione che voi siate di Cristo e tramite lui veniate orientati a Dio. Poiché è di Cristo, il cristiano è chiamato anche a non assolutizzare nessuno dei vari ambiti della vita, a rendersi conto della relati-vità della loro configurazione, a vivere come se tutto non fosse definitivamente suo. Perciò, sempre ai cristiani di Corinto, Paolo scrive: « Questo vi dico fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non pianges-sero e quelli che gioiscono come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo! » (1Cor 7,29-31). Tutto è dei credenti in Cristo, ma lo è come se non lo fosse. Nessu-no di questi due aspetti deve prevaricare sull’altro. L’equilibrio tra questi due aspetti è sempre diffi-cile, ma è il rischio del cristiano. La salvezza del cristiano è attuale, presente, nella storia, ma è una salvezza che comporta anche un elemento di attesa, di tensione verso un compimento futuro.
In 1Cor 7,29-31 Paolo non proibisce il matrimonio e nemmeno i rapporti coniugali (li ha espressa-mente raccomandati in 1Cor 7,1-7), non proibisce di piangere, di gioire, di comprare, di possedere, di usare i beni di questo mondo (in 1Cor 7,17.20.24 ha ripetuto tre volte che ciascuno deve vivere nella condizione in cui si trovava quando Dio lo ha chiamato alla fede). Però Paolo ricorda che tutta la realtà terrestre, anche se voluta da Dio e accompagnata dalla sua benedizione, appartiene a un or-dine che passa. Analogamente agli altri uomini, il cristiano piange, gioisce, si sposa, acquista, tutta-via non lo fa come gli altri che non hanno fede, poiché tutte queste attività umane cessano di essere per lui un fine e diventano un mezzo per vivere già qui la vita dell’amore a Dio e ai fratelli. « Vivere come se » significa impegnarsi nei compiti terreni con discernimento evangelico, inserendoli nell’orizzonte dell’attesa della venuta di Cristo. Occorre tenere sulla storia uno sguardo che ne rico-nosce la provvisorietà, la finitezza e soprattutto l’attesa del compimento escatologico. Ciò che fa l’uomo grande è la capacità di rendersi conto di avere un futuro che abbraccia la morte e che va ol-tre la morte. Abramo e Ulisse incarnano l’etica del viaggio, in compagnia dell’ignoto e dell’imprevisto, ma anche in compagnia della divinità. Però per Ulisse la meta è il ritorno a casa, al passato, la nostalgia; il simbolo del viaggio di Ulisse è il cerchio, completo, finito, logico. Abramo, invece, si mette in viaggio per non ritornare, senza meta terrena, verso un futuro, perché sa che la vita vera è oltre il mondo tangibile: il viaggio di Abramo non ha come simbolo il cerchio, ma il per-corso di una freccia che annuncia che la nostra meta è oltre noi.
4. La verginità è segno dei tempi escatologici
Paolo propone il carisma della verginità come segno particolarmente eloquente del nuovo significa-to del tempo (1Cor 7,32-35). La verginità è una tensione totale, senza distrazioni alla comunione con il Signore, è la via più conveniente per essere totalmente uniti a lui. La verginità è anche una dedizione totale, senza distrazioni anche alla missione. Comunione e missione sono due strutture fondamentali dell’esperienza fatta dai primi discepoli di Gesù. La verginità costituisce la condizione ideale per il cristiano, annuncia la secondarietà di ciò che è terrestre e il primato assoluto del Signo-re: dell’incontro con lui e dell’annuncio del suo vangelo. La persona vergine è tutta del Signore e in lui ama in modo nuovo le persone e le cose. Decisivo per la scelta della verginità è perciò il motivo cristologico che spinge Paolo a preferire questo stato di vita e a consigliare di rimanere liberi dal vincolo coniugale. La verginità nasce dal fatto che qualcosa di definitivo ha fatto irruzione in una persona e questo qualcuno è Gesù.
La verginità non è disprezzo dei sentimenti e degli affetti che compongono la nostra umanità, ma è il loro incanalamento in Dio. La verginità è una vita di amore, riempita dall’unico amore di Cristo in modo totale. La verginità si connota così non solo di sponsalità, ma anche come un’oblazione cul-tuale: la verginità è vissuta per piacere al Signore, per essere santi nel corpo e nello spirito, cioè per appartenergli con tutta la persona. Essere santi nel corpo e nello spirito significa essere consacrati, essere totalmente riservati al Signore. La vocazione verginale porta nel corpo stesso la dimensione dell’attesa, del desiderio, della distanza, porta nel corpo quel misterioso vuoto che grida un’assenza, ma che nello stesso tempo preannuncia una pregnante presenza.
La verginità degli uomini e delle donne trova nella verginità di Gesù la sua sorgente, la sua custodia, la sua ispirazione. Gesù ha parlato di uomini che sono celibi per il regno (Mt 19,11-12); l’espressione « per il regno » (dia ten basileian) può avere due significati: causale (a causa del regno, perché il regno opera in loro) o finale (in vista del regno); a sua volta il senso finale può venir inteso nel senso duplice di servire il regno o di disporsi ad entrarvi. I due significati, cioè quello causale e quello finale, non si escludono. Forse si può specificare ulteriormente dicendo che il regno, più che lo scopo della verginità, è la sua sorgente. La verginità è generata dal regno, si è vergini per mezzo del regno. La verginità va letta prima di tutto come consacrazione all’amore del Signore, non come stile di vita che permette di donarsi di più agli altri. Donarsi agli altri è il fiore, il frutto, non la radi-ce. Perché il fiore e il frutto resista in tutte le stagioni, dobbiamo badare alla radice che è l’amore di Gesù fino alla morte di croce, è sentirsi amati e perdonati da Gesù per poi riamarlo sopra ogni cosa e amare la gente con la forza di amore che lui ci dona.
5. La riflessione nella Lettera a Tito (Tt 2,11-14)
Nella Lettera a Tito l’apostolo ci dice quale è la fonte dalla quale il cristiano attinge energia e ispira-zione per il suo comportamento: « È apparsa infatti la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrie-tà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo. Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni ini-quità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone » (Tt 2,11-14). La vita nuova alla quale tutti aspiriamo è frutto della grazia di Dio che è apparsa tra noi per ap-portare salvezza a tutti gli uomini. L’amore di Dio inserito nella storia ci insegna a rinnegare l’empietà, la irreligiosità, il vivere come se Dio non ci fosse, in un vuoto di valori, senza di riferi-menti ultimi. Ci insegna a rinnegare i desideri mondani, il porre come idolo ultimo e unico le cose e se stessi. Ci insegna a vivere in questo mondo, dentro la nostra storia la sobrietà, cioè la temperan-za, il saggio uso dei beni di questo mondo; ci insegna a vivere la giustizia, ad agire secondo la vo-lontà di Dio nella correttezza dei rapporti con gli altri, diventando trasparenza della fedeltà, della te-nerezza, della misericordia di Dio; ci insegna a vivere la pietà, ad aver Dio familiare, a sentirne con gusto la vicinanza.
6. Conclusione: sintesi tra trascendentale e categoriale
Riflettendo sulla risurrezione di Gesù e sul suo ritorno, Paolo aiuta i cristiani a fare una sintesi, a trovare il giusto equilibrio, come direbbe K. Rahner, tra il trascendentale e il categoriale, tra il quali-tativo e il quantitativo. Il trascendentale è costituito dai grandi ideali, dai grandi temi della vita, dall’essere fatti per tendere a qualcosa di grande, per parlare con Dio. Il categoriale è il luogo della quotidianità, sono le mille cose da fare e i mille impegni da assolvere, sono le realtà quotidiane nelle quali di solito si butta l’uomo, dimenticando le altre. Paolo vuole portare i cristiani a una sintesi tra il trascendentale e il categoriale, a vedere come il categoriale è avvolto dal trascendentale, a non di-menticare le cose quotidiane, però a vederle alla luce dell’eterno. La storia è giudicata dal suo fine, dall’eternità. L’eternità non è qualcosa di lontano, di esterno, ma è qualcosa che ci avvolge.
Quasi adducendo come scusa il fatto che i primi cristiani per una certa fretta, per un errore di pro-spettiva ritenevano imminente il ritorno di Cristo, noi abbiamo lasciato largamente il passo alla de-lusione, all’indifferenza, alla diffidenza e abbiamo lasciato affievolire il senso dell’attesa. La morte individuale tiene certamente desto in ciascuno il senso della fine, ma si tratta di un fatto piuttosto personale; preghiamo certamente perché venga il regno di Dio, ma se guardiamo il nostro desiderio più profondo è che esso venga il più tardi possibile, che non ci sia subito la fine di tutto. La nostal-gia del ritorno di Cristo dovrebbe equilibrare le sollecitudini per gli interessi umani. Molti, forse, ad essere sinceri, non aspettano più nulla.
IV. La tensione cosmica: Gesù risorto è il capo della Chiesa e del cosmo
Nelle sue prime Lettere Paolo ha sottolineato la libertà dalla legge e questo ha contribuito alla rottu-ra tra i cristiani e la maggior parte del popolo di Israele. Questo fatto doloroso ha avuto anche con-seguenze positive, quali l’affermazione del primato di Gesù Cristo e della grazia, la convinzione profonda che la sola cosa necessaria è la fede. C’è stata anche un’altra conseguenza positiva: la comprensione di quello che Paolo chiama « il mistero », cioè la comprensione dell’unità del disegno salvifico di Dio sulle sorti dell’uomo, dei popoli e del mondo. « Non è possibile pensare e adorare il beneplacito di Dio, la sua sovrana disposizione, senza confrontarci personalmente con Cristo in per-sona, in cui il « mistero » si incarna e può essere tangibilmente percepito » (Benedetto XVI). In lui prende forma la multiforme sapienza di Dio, il mistero che sorpassa ogni conoscenza (Ef 3,10.19). Questo pensiero è sviluppato specialmente nelle Lettere ai Colossesi e agli Efesini. Come conse-guenza della risurrezione di Cristo, Paolo in queste Lettere non pone in primo piano il suo ritorno glorioso, ma la sua opera efficace nella creazione e di conseguenza in tutta la storia. L’autore di queste lettere si allarga a una visione sapienziale dell’intera storia umana, del mistero nascosto da secoli e ora rivelato in Gesù Cristo (Col 1,26-27; 2,2; 4,3; Ef 1,9; 3,3.4.9; 5,32; 6,19). Nasce così una più profonda comprensione della Chiesa, che è il corpo del Cristo, e del ruolo di Gesù Cristo verso di lei e sul mondo intero.
1. La Chiesa è il Corpo di Cristo da amare
Gesù Cristo, crocifisso e risorto, è il centro, il capo della Chiesa non solo nel senso che ha autorità su di essa, la guida (Col 1,18), ma anche nel senso che la vivifica, la innerva, le dà la forza di agire in modo retto, ne favorisce la crescita come avviene in un organismo vivente: essa è il suo corpo (Ef 4,14-16). Nelle Lettere ai Colossesi e agli Efesini la parola Chiesa non indica più la singola comuni-tà locale, come di solito avviene nelle prime Lettere di Paolo (in queste egli si rivolge alla Chiesa dei Tessalonicesi, alla Chiesa di Corinto, alla Chiesa di Roma, alle Chiese della Galazia). La Chiesa indica ormai la totalità dei cristiani, considerati unitariamente come una grande comunità. La Chiesa è più che l’aggregato delle singole Chiese locali, è più che una realtà terrena: è il corpo di Cristo ri-sorto, è il corpo del quale Cristo è il Capo, il Signore, il Salvatore, lo Sposo (Ef 1,22-23; 5,21-33). La Chiesa vive della vita di Cristo stesso. Cristo l’ha amata, ha dato se stesso per lei (Ef 5,25), la nutre e la cura incessantemente (Ef 5,29). La Chiesa è divenuta il fine della morte di Gesù Cristo: è morto per santificarla, per purificarla, per farla sua sposa, « tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata » (Ef 5,27). Il mistero del piano nascosto di Dio coinvolge l’amore di Cristo per la Chiesa: i due diventano uno (Ef 5,31-32), in modo che la Chiesa può essere identificata con il regno di Cristo nel quale i cristiani sono stati trasferiti per partecipare alla sorte dei santi (Col 1,12).
La Chiesa, in quanto è corpo di Cristo, appartiene a lui in modo specialissimo, è il luogo dove la re-galità di Cristo si esprime nel modo più puro, dove viene riconosciuta e annunciata. La Chiesa è la pienezza, il pleroma di Cristo (Ef 1,22-23), cioè l’ambito pienamente riempito dalla sua presenza, dalla sua grazia, dalla sua forza, dai suoi doni. La Chiesa è il pleroma di Cristo anche nel senso che dona a Cristo la sua pienezza, rendendolo, per così dire, completo. Insieme con Cristo, la Chiesa viene a formare quello che potremmo chiamare il Cristo totale. Di conseguenza, se Paolo descriveva se stesso come ministro di Dio (2Cor 6,4), di Gesù Cristo (Rm 1,1), della nuova alleanza (2Cor 3,6), ora si definisce servo, ministro della Chiesa (Col 1,24). Se Cristo ha dato se stesso per la Chiesa, al-trettanto è disposto a fare l’apostolo. Proprio perché è profondamente unita a Cristo al punto da co-stituire il suo corpo, la Chiesa è una realtà da amare, una realtà per la quale si è disposti a dare la vi-ta, una realtà che suscita la generosità di generazione in generazione.
2. Il progetto di Dio Padre è ricondurre al Cristo tutte le cose
Gesù è anche il Signore di tutte le cose: « tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui » (Col 1,16). La risurrezione permette di cogliere la presenza del Cristo nell’atto creatore come mediatore universale, come centro, modello e fine di tutto il creato, come fonte e meta ultima di tut-to ciò che esiste. Dio vuole che tutto il creato abbia un rapporto con il Cristo risorto. Dio, creando il mondo e l’uomo, si ispira a Cristo risorto. Fin dall’inizio del mondo il Padre guarda a lui come al modello e alla meta della sua opera; il Padre crea il mondo a immagine del Figlio, anzi lo ha già con sé come autore dell’intera creazione. Tutte le creature fin dall’inizio sono orientate al Cristo risorto e tendono a lui per essere veramente se stesse.
Il Risorto è anche il capo delle potenze angeliche e del cosmo (Col 2,10.15). I principati e le potenze hanno un potere che svanisce nei confronti di quello di Cristo. Quindi essi non possono più incutere timore, hanno un potere debole, perché Gesù ha trionfato su di loro. Possiamo interpretare questo linguaggio vedendo nei principati e nelle potenze tutte quelle strutture culturali, politiche, religiose, sociali, ideologiche e persino psichiche che rischiano di condizionare l’uomo e addirittura di schia-vizzarlo. Mentre l’immagine di Cristo capo riferita alla Chiesa sottolinea una omogeneità, nel senso che la nutre e la cura, l’immagine di Cristo capo riferita al mondo esprime piuttosto la sudditanza del cosmo a lui. Cristo ha privato i principati e le potestà della loro forza (Col 2,15), perché è al di sopra di ogni potenza e dominazione (Ef 1,21). « Cristo non ha da temere nessun eventuale concor-rente, perché è superiore a ogni qualsivoglia forma di potere che presumesse di umiliare l’uomo. Perciò, se siamo uniti a Cristo, non dobbiamo temere nessun nemico e nessuna avversità; ma ciò si-gnifica dunque che dobbiamo tenerci ben saldi a Lui, senza allentare la presa! » (Benedetto XVI).
Il Padre vuole ricapitolare ogni cosa in Gesù Cristo, il Figlio unigenito, fatto uomo, crocifisso e ri-sorto (Ef 1,10). Per mezzo di lui il Padre conferisce ad ogni cosa la perfezione e il senso definitivo. Il verbo ricapitolare suggerisce due idee importanti e complementari. Una viene dal significato di ricapitolare, compendiare, sintetizzare, nel senso di raccogliere gli elementi sparsi e unificarli: Cri-sto riconduce a unità ciò che nel mondo appare frammentato, diviso e lacerato. Egli assolve la fun-zione che nella Bibbia ha la Sapienza. L’altro significato è suggerito dal fatto che Cristo è colui che sta sopra, è il preposto di tutte le cose ed esse tendono a convergere verso di lui come verso il pro-prio capo. Ricapitolare esprime quindi l’idea di dare un nuovo capo, di intestare, di poter dominare. Tutto è chiamato a divenire unità nel Cristo, ogni cosa ha questa ragion d’essere. Solo situando il cosmo in questa visione complessiva, possiamo coglierne il significato decisivo. Quando abbiamo questa chiave di lettura, possiamo anche chinare il capo di fronte a tanti misteri della storia, di fron-te a tante sofferenze del cosmo e dell’umanità, di fronte a tante catastrofi naturali che ci lasciano sconvolti e sopraffatti.
Questo pensiero è riassunto stupendamente nell’inno cristologico con il quale l’apostolo apre la Let-tera ai Colossesi (Col 1,15-20). L’inno si compone di due strofe nelle quali, a partire dal suo mistero pasquale, Gesù Cristo è celebrato prima come mediatore di tutta la creazione (Col 1,15-17) e poi come operatore della salvezza della Chiesa e del cosmo (Col 1,18-20). La prima strofa celebra la si-gnoria cosmica di Cristo, la seconda celebra la signoria salvifica di Cristo: in entrambe emerge che egli è l’unico mediatore sia della creazione di tutto come della salvezza di tutto.
Da questa consapevolezza del ruolo cosmico di Cristo derivano due conseguenze importanti. Anzi-tutto la Chiesa non può pretendere di ridurre Cristo entro i propri confini, perché i cristiani sanno che Cristo è più grande della Chiesa. Dall’altro lato deriva che la signoria cosmica di Gesù è cono-sciuta solo da chi è nella Chiesa.
Oggi abbiamo particolare bisogno di uno sguardo sapienziale sull’intera storia, che abbracci anche gli altri popoli, le altre religioni e culture; abbiamo bisogno di una sintesi epocale, presente appunto nella Lettera ai Colossesi e agli Efesini. Possiamo dire, in un linguaggio contemporaneo, che il mes-saggio di queste Lettere è l’universalismo della fede e della salvezza, è l’unità degli uomini in Cri-sto, è la globalizzazione della solidarietà. Dio opera, perché l’umanità diventi un’unica famiglia di famiglie di popoli, un solo uomo nuovo, dove tutti sono fratelli e sorelle, perché tutti sono amati, tutti sono salvati, tutti sono redenti dal sangue del suo Figlio Gesù.
Nella Lettera agli Efesini l’espressione « uomo nuovo » ricorre due volte, in due punti importanti, fo-cali. Ricorre anzitutto in Ef 2,15, dove l’autore condensa il tema dell’unione ecumenica tra i cristia-ni provenienti dal paganesimo e quelli provenienti dall’ebraismo, e ricorre in Ef 4,24, dove l’autore esprime la nuova identità del battezzato a livello ontologico ed etico. Scopo di ogni ministerialità è condurre tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, all’uomo nuovo, all’uomo perfetto, cioè all’età cristiana adulta, alla statura della pienezza di Cristo (Ef 4,11-14).
Per la sua ricchezza cristologica, ecclesiale ed anche cosmica la Lettera agli Efesini è citata 33 volte nella Lumen Gentium (è citata 17 volte nel capitolo I, riguardante il mistero della Chiesa).
Possiamo concludere questa riflessione circa il ruolo che Gesù Cristo, crocifisso e risorto, ha sul tempo e sul cosmo, ricordando che in lui Paolo ha trovato il senso delle due coordinate fondamenta-li sulle quali si snoda la vita di ogni uomo: il tempo e lo spazio. Paolo ha compreso che in Gesù Cri-sto è arrivata per noi la pienezza del tempo, ha compreso che Gesù Cristo è il luogo in cui tutti gli uomini e l’intero cosmo vengono riunificati, riconciliati e possono incontrare Dio. Paolo ha capito che, per mezzo di Gesù Cristo crocifisso e risorto, Dio entra nel nostro tempo e nel nostro spazio, si incarna nei giorni e nelle strade dell’uomo e vi innalza il vessillo della speranza.
V. La sollecitudine organizzativa o la dimensione istituzionale
Paolo ha pensato anche alla perseveranza, al futuro delle comunità nelle quali annunciava il vangelo e nelle quali non poteva continuare a essere fisicamente presente. Ha concretizzato questa sollecitu-dine specialmente in quattro modi. Anzitutto, tornando a visitarle di persona, o tramite qualche col-laboratore, o mediante le sue lettere. In secondo luogo, istituendo in esse dei ministri. In terzo luogo, valorizzando, coordinando in esse i carismi elargiti dallo Spirito. In quarto luogo, sottolineando la necessità della relazione di tutte le Chiese con la Chiesa di Gerusalemme e tra di loro.
1. Paolo visita in vari modi le sue comunità
Paolo ha visitato più volte le comunità già fondate e lo ha fatto in tre maniere: o personalmente, o per mezzo dei suoi collaboratori, o per mezzo delle sue Lettere. Per capire il valore della visita pa-storale di Paolo è opportuno ricordare la ricchezza di questo gesto. Lo aveva vissuto Gesù, al punto che l’evangelista Luca riassume con questa immagine tutta la sua vita pubblica: Gesù è il Dio che visita gli uomini camminando sulle loro strade, parlando con loro, chinandosi su di loro con solleci-tudine e fermandosi a mangiare con loro; questo gesto lo aveva vissuto Pietro (At 8,14-17; 9,32.40), lo aveva vissuto Barnaba ad Antiochia, coinvolgendo anche Paolo (At 11,22-26).
Gli Atti degli Apostoli ci dicono che alla fine del primo viaggio missionario Paolo, giunto a Derbe, città vicina alle porte della Cilicia, non prosegue verso Tarso, sua città natale, e poi verso Antiochia, come geograficamente sarebbe stato più logico e più agevole, ma sente il bisogno di tornare indietro con Barnaba nelle comunità di Listra, Iconio e Antiochia di Pisidia, per visitare i discepoli persegui-tati e per rianimarli (At 14,21-26). Il loro viaggio risultava così singolarmente allungato e li espone-va a pericoli gravi. Infatti non potevano mostrarsi senza rischio a Listra, dove Paolo era stato lapida-to, e a Iconio, dove un complotto li aveva costretti a fuggire, a Antiochia di Pisidia, da dove erano stati cacciati. Intraprendono il cammino verso queste città, perché sono spinti da ragioni molto serie. I versetti seguenti ne rilevano due: i missionari vogliono incoraggiare i neoconvertiti a perseverare e poi vogliono organizzare le comunità, istituendo dei responsabili.
Per prima cosa, dopo aver offerto il primo annuncio, Paolo e Barnaba fortificano gli animi dei di-scepoli e perciò li esortano con queste parole a restare saldi nella fede: « Dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni » (At 14,22). È significativo che questo ministero di visitare i fe-deli per confermarli nella fede venga descritto già alla fine del primo viaggio missionario di Paolo, quasi a indicare che si tratta di un servizio che sarà sempre necessario nella vita della Chiesa. Nelle sue parole di conferma nella fede Paolo presenta le persecuzioni come una cosa necessaria, un mi-sterioso adempimento del piano divino. Nella persecuzione i cristiani sanno di essere chiamati a vi-vere come Gesù il mistero della sofferenza e della morte come mistero di disponibilità a Dio, come scelta di amore e di fiducia in lui. Il ministero della visita che consola e che fortifica nella fede viene esercitato da Paolo anche all’inizio del secondo viaggio missionario (At 15,36.41). Pure all’inizio del terzo viaggio missionario Paolo visita le regioni della Galazia e della Frigia « confermando tutti i discepoli » (At 18,23).
Oggi in Europa non siamo in situazione di persecuzione. Però spesso siamo nella strettoia del rifiu-to, della emarginazione culturale e sociale, della privazione dei grandi mezzi della comunicazione pubblica. Inoltre tutti abbiamo difficoltà personali, familiari e sociali. Possiamo chiederci se vivia-mo queste situazioni negative nostre o degli altri con ira e rivalsa, con amarezza, con scoraggiamen-to e depressione, o se le viviamo e aiutiamo a viverle con rassegnazione, con pazienza, con perdono, con tolleranza, con consolazione interiore, con coraggio e creatività. La nostra più specifica missio-ne è dire a noi stessi e a ogni uomo o donna che soffre attorno a noi: « Se riesci a credere all’amore e a vivere nell’amore, hai già trovato la salvezza »; siamo chiamati a esercitare per noi e per gli altri il ministero della fortificazione.
Quando non può visitare di persona le comunità da lui fondate, Paolo invia ad esse i suoi collabora-tori: manda Timoteo a Tessalonica (1Ts 3,2-5); manda ancora Timoteo a visitare i cristiani di Corin-to (1Cor 4,17); successivamente a Corinto ha mandato Tito per ricomporre l’unione in quella Chiesa (2Cor 12,18); a Colosse manda Epafra il quale può verificare che in quella Chiesa operava « l’amore nello Spirito » (Col 1,7).
Un altro modo scelto da Paolo per curare la formazione permanente delle comunità è costituito dalle Lettere. Sono scritti occasionali, composti dall’apostolo per visitare le sue comunità, per rispondere a problemi concreti dei destinatari, per mettere in comune la consapevolezza del primato di Dio, della forza del Risorto, della dignità dell’uomo, per completare ciò che mancava alla loro fede (1Ts 3,10), per comunicare ai fedeli qualche suo dono spirituale, per fortificarli e anche per rinfrancarsi assieme a loro mediante la medesima fede (Rm 1,11-12), per vedere i doni di grazia con i quali Dio li arricchiva e ringraziarlo insieme a loro (1Cor 1,4-7).

2. La costituzione dei ministri
Luca dice che durante il primo viaggio missionario nelle singole comunità Paolo e Barnaba costitui-rono dei presbiteri (At 14,23). Non è facile capire in che modo è avvenuta la loro elezione e in che cosa consisteva il loro ministero. Il testo parla di imposizione delle mani. Possiamo ritenere che si tratti di una cerimonia di investitura, di una specie di ordinazione che assicura agli anziani un ordi-ne, un posto speciale nella comunità su cui devono vigilare. Mediante la preghiera, resa ancora più intensa dal digiuno, vengono affidati insistentemente al Signore. Coloro che ricevono un incarico a favore della comunità sono chiamati anziani o presbiteri. Questo titolo è stato dato fin dall’inizio ai responsabili della comunità cristiana di Gerusalemme (At 15,2; 21,18), ma è assente nelle prime Lettere di Paolo: ricorre solo nelle Lettere pastorali. Nelle Lettere di Paolo coloro che hanno un mi-nistero sono chiamati con vari nomi. Nella Lettera ai Filippesi Paolo parla di episcopi (ispettori) e di diaconi (il senso di questo titolo è discusso); in altri passi parla di servizi in modo più generico, no-minando coloro che fanno da guida (1Ts 5,12-13), alle volte nomina uomini o donne che esercitano dei ministeri (1Cor 16,15; Rm 16,1; Fil 4,2-3; Col 1,7; 4,12-13.17). Nei loro confronti Paolo usa il verbo « faticare » (1Ts 5,12; 1Cor 16,16; Rm 16,6.12), che indica l’impegno missionario, e usa il ti-tolo « diacono » e « apostolo » anche per le donne (Rm 16,1-7.12).
Scopo dei presbiteri costituiti da Paolo e Barnaba è garantire la perseveranza della comunità nella fede. Hanno una responsabilità che possiamo dire dottrinale: devono garantire la continuità della tradizione apostolica. Questo compito sarà precisato più chiaramente nel discorso fatto da Paolo ai presbiteri di Efeso convocati a Mileto (At 20,31). Non si dice in che modo va esercitata questa vigi-lanza, ma se l’aggressione alla fede è fatta mediante un abuso della parola, la prima forma di vigi-lanza consiste nell’annuncio autentico della parola.
Va notato che in tutto il Nuovo Testamento e fino alla fine del II secolo si evitò di chiamare i capi delle comunità cristiane con il titolo « sacerdote » o « sommo sacerdote ». Il titolo sacerdote è usato dal Nuovo Testamento per designare i sacerdoti ebrei o quelli pagani (Lc 1,5; 14,13), per Gesù (la Lettera agli Ebrei gli attribuisce frequentemente il titolo sacerdote o sommo sacerdote) e per tutti i cristiani (1Pt 2,5.9; Ap 1,6; 5,9-10; 20,6). Il titolo sacerdote non è mai usato per designare i respon-sabili delle comunità, probabilmente per non confonderli con i sacerdoti di casta ebraici, addetti ai sacrifici rituali nel tempio, o con i sacerdoti addetti ai sacrifici pagani.
Anche la qualifica di pastore resta esclusiva di Gesù (Eb 13,20; 1Pt 2,25): gli apostoli, i vescovi, i presbiteri sono chiamati a svolgere le azioni del pastore, sono stati chiamati dallo Spirito Santo a pascere la Chiesa di Dio (At 20,8), ma non ricevono il titolo di pastori, tranne che in Ef 4,11, dove però il titolo ha un valore simile a quello di altre funzioni (apostoli, profeti, dottori) e non quello di una funzione privilegiata.
Le pecore sono affidate da Dio Padre all’amore di Gesù e Gesù esprime questo suo amore anche at-traverso l’amore dei presbiteri. Non ci deve stupire che il segno scelto da Gesù per incarnare il suo amore così grande sia così piccolo: uomini con i limiti di ogni uomo. Rientra nello stile di Dio otte-nere effetti straordinari con mezzi umilissimi, perché si veda che la potenza viene da lui. È espresso qui anche il grande tema della libertà e del primato della coscienza al quale è sempre più sensibile l’età moderna. Gli apostoli e i presbiteri esercitano il loro compito pastorale su pecore che sono di Gesù. I cristiani sono liberi perché appartengono soltanto al Signore e in quanto appartengono al Si-gnore si lasciano guidare dai servi del Signore.
Può essere interessante ricordare come avveniva la scelta di questi responsabili delle chiese locali. Essa era il risultato di un accordo tra il candidato, la comunità, gli altri incaricati già in funzione e l’apostolo fondatore. Così, ad esempio, Timoteo è scelto da Paolo e approvato dalla comunità (Fil 2,22; At 16,2). Epafrodito (Fil 2,25) ed Epafra (Col 4,12-13) sono scelti dalla comunità ed approvati da Paolo. Quelli della casa di Stefana sembra si siano offerti di propria iniziativa per il ministero nella comunità di Corinto (1Cor 16,15-16): Paolo li accetta e raccomanda alla comunità di ricono-scerli.
3. Il coordinamento dell’esercizio dei carismi (1Cor 12.14)
La parola « carisma » (charisma) non è usata nel greco classico prima degli scritti del Nuovo Testa-mento. Nel Nuovo Testamento ricorre diciassette volte (sedici volte nelle lettere di Paolo e una in 1Pt 4,10). Il termine carisma acquista un significato specifico in alcuni passi importanti, e precisa-mente in 1Cor 12,4-31; Rm 12,6 e 1Pt 4,10. I carismi sono una capacità, data dalla grazia di Dio per ogni tipo di servizio che contribuisce alla costruzione e alla crescita della Chiesa. I carismi sono di-versissimi: ciò che crea la loro unità profonda è il fatto che provengono tutti da un’unica fonte, la Trinità, e che hanno tutti un unico fine, la vitalità della Chiesa. Paolo parte dalla sua esperienza per-sonale ed è convinto che i carismi fanno parte sia della sua vita come anche di quella dei cristiani. Nel sottolineare l’esistenza dei carismi, la loro molteplicità e la loro destinazione, Paolo paragona la Chiesa a un corpo, a un organismo vivente nel quale ci sono varietà di membra e di funzioni (1Cor 12,12-27). Paolo dà subito la motivazione cristologica di questa realtà: l’origine di questo corpo u-nico sta nel battesimo. I carismi sono il principio di differenziazione all’interno del corpo di Cristo, determinano quali funzioni può e deve avere ogni membro del corpo e lo rendono capace di eseguir-le. Perciò per Paolo una comunità senza carismi è impensabile: non sarebbe più un corpo vivo, non sarebbe più il corpo di Cristo visibile, ben strutturato.
Paolo presenta alcune liste di carismi (1Cor 12,8-10.28-30; Rm 12,6-8), ma non intende offrire un loro elenco completo o sistematico. Si può dire che tra i carismi elencati alcuni riguardano la comu-nicazione della fede mediante la parola, altri sono operativi o pastorali, altri, infine, riguardano atti-vità che derivano da una fede e da una carità pure e assolute. Nelle Lettere pastorali assistiamo a una riduzione dei carismi: ogni comunità ha a capo un episkopos, preposto a dei presbyteroi e a dei dia-konoi.
Paolo dà alcune norme per l’esercizio dei carismi.
Sottolinea anzitutto che i carismi sono un dono che va accolto con riconoscenza; Paolo esorta a non spegnerli (1Ts 5,19-21). Insiste sul dovere di mettere i carismi a servizio degli altri, per la crescita, per il bene della comunità (1Cor 12,7; 14,4.5.12.26). Il dono individuale deve essere funzionale al bene comune: unica è la sorgente (la Trinità) e unica deve essere la meta di destinazione (la Chiesa). Chi ha un carisma non può rifiutare la sua legittimazione e la sua verifica. Paolo sottopone le mani-festazioni carismatiche anzitutto alla verifica fondamentale della confessione di fede in Gesù Signo-re: « nessuno può dire « Gesù è Signore » se non sotto l’azione dello Spirito Santo » (1Cor 12,3). Il se-condo criterio di verifica dei carismi è la loro effettiva utilità ecclesiale. La verifica dei carismi, quindi, ha un criterio cristologico (la fede in Gesù Signore) e uno ecclesiologico (l’identità e la cre-scita della Chiesa). Paolo introduce anche regole dettagliate per il buon funzionamento dei carismi, per evitare che il loro esercizio crei
confusione o appesantisca lo svolgimento delle riunioni ecclesiali (1Cor 14,27-31). Nessun testo del Nuovo Testamento parla di una opposizione tra carismi e istituzione.
Giustamente Paolo sottolinea che la via più sublime di tutte (1Cor 12,31) per vivere i carismi è l’agape, perciò al centro della riflessione sui carismi inserisce il celebre inno alla carità (1Cor 13,1-13). La carità è una virtù teologale, non perché consiste nell’imitare Dio, ma perché è una forza che ci viene donata da Dio, è una partecipazione all’amore stesso di Dio « che è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato » (Rm 5,5).
4. La relazione di tutte le Chiese con la Chiesa di Gerusalemme e tra di loro (2Cor 8-9)
Paolo sa che il vangelo crea e qualifica le relazioni tra le comunità e che nello stesso tempo il van-gelo ha bisogno, come suo elemento costitutivo, di un dinamico tessuto relazionale, fatto di incontri diretti, di progetti, di ricordi, di attese, di espressioni di affetto e di sollecitudine; l’evangelizzazione crea relazioni e si nutre di esse. Il vangelo genera la relazione di tutte le Chiese con la Chiesa di Ge-rusalemme e quella di ogni Chiesa con le altre comunità. La relazione con la Chiesa di Gerusalem-me ha dato origine alla celebre colletta, di cui Paolo parla in 1Cor 16,1-4; Rm 15,25-31 e soprattutto in 2Cor 8-9. Paolo faceva gran conto su questa colletta, anzitutto perché era segno eloquentissimo della novità scaturita dalla fede in Gesù Cristo come Signore di tutti, senza distinzione tra razze e classi sociali o religiose, e poi perché poteva favorire la comunione tra le Chiese. Anche una raccol-ta di denaro era per Paolo un’autentica esperienza di Chiesa.
In 2Cor 8,9 Paolo dà la motivazione teologica della colletta: « Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mez-zo della sua povertà ». Il gesto di aiuto alla comunità di Gerusalemme è inserito nel cuore stesso dell’adesione di fede alla iniziativa di salvezza realizzata da Gesù Cristo. Il gesto dei cristiani di Co-rinto e di tutte le Chiese fondate da Paolo nei confronti della comunità di Gerusalemme è una grazia concessa da Dio, come è stato grazia il gesto di amore di Gesù Cristo che Paolo propone come mo-dello e soprattutto come forza. Con l’aiuto economico era in gioco non solo la realtà di un gesto di amore solidale, ma anche e soprattutto un’esigenza sentitissima di unità ecumenica ecclesiale. La Chiesa di Gerusalemme avrebbe potuto vedere con favore quel contributo dei cristiani provenienti dal paganesimo quale dimostrazione del loro amore e quale riconoscimento della sua posizione di madre di tutte le Chiese. La comunione con Gerusalemme si riversa poi sulla coesione delle Chiese provenienti dal paganesimo.
La condivisione per i cristiani abbracciano è un riflesso della povertà scelta da Gesù Cristo. Il gesto dei cristiani che si impoveriscono li arricchisce, perché inserisce essi e i loro beneficati nel mondo dell’amore, cioè della realtà stessa di Dio, di Cristo e dello Spirito. Perciò per descrivere questa atti-vità, che certamente ha avuto anche un aspetto economico e che ha occupato tempo ed energie da parte dell’apostolo e dei suoi collaboratori, Paolo non usa termini presi dal mondo economico o giu-ridico, ma usa nomi molto significativi, presi dall’esperienza religiosa.
Anzitutto Paolo chiama per ben dieci volte la raccolta di denaro col termine « grazia », cioè « carità », « dono », « bontà » (2Cor 8,1.4.6.7.9.16.19; 9,8.14.15; cf. anche 1Cor 16,3). La colletta è la capacità di partecipare all’amore misericordioso di Dio. La colletta viene poi chiamata « servizio » che le Chiese paoline sono chiamate a prestare a favore dei santi di Gerusalemme (2Cor 8,4; 9,1.12.13). Paolo usa anche la parola « comunione » (2Cor 8,4; 9,13). Nella colletta si esprime e insieme si realizza l’unità tra i cristiani. Nello stesso tempo con la colletta si riconosce apertamente un primato spirituale della Chiesa di Gerusalemme, dalla quale l’evangelo aveva preso l’avvio, diffondendosi in tutto il mondo. Quindi la comunione di per sé non esige un egualitarismo esasperato: ci sono delle funzioni specifi-che che non si possono negare o confondere con altre; riconoscerle è segno di realismo e di onestà storica. Anzi è proprio con queste diversità che occorre fare comunione. Paolo adopera due volte anche la parola « giustizia » (2Cor 9,9.10): la colletta è espressione della giustizia di Dio, cioè della continua fedeltà alla sua alleanza. Paolo attribuisce alla colletta una dimensione liturgica, chiaman-dola « liturgia o servizio sacro », cioè atto pubblico di culto (2Cor 9,12). Di conseguenza la colletta farà nascere nel cuore dei cristiani di Gerusalemme una « eucaristia » o rendimento di grazie rivolto non ai benefattori umani, ma al vero Dio (2Cor 9,11.12): lo glorificheranno perché ha reso possibile questo segno concreto di unione tra pagani ed ebrei convertiti a Cristo (2Cor 9,13-14). La colletta è chiamata anche « benedizione » (2Cor 9,5), che significa dono salvifico che da Dio scende sugli uo-mini. Sullo sfondo di questa immagine sta la benedizione che Dio ha promesso ad Abramo e in lui a tutti i popoli (Gen 12,1-3). Per questo Paolo può dire che la colletta è una « prova dell’amore » (2Cor 8,8.24). Oltre che prova dell’amore, la colletta è anche « prova » della comunione, della fede, dell’obbedienza dei cristiani (2Cor 8,2; 9,12.13). Criterio e nello stesso tempo frutto atteso di questa raccolta deve essere la « eguaglianza » (2Cor 8,13-14).
Dopo queste riflessioni teologiche, si comprende quali sono le disposizioni con le quali Paolo vuole che i cristiani di Corinto compiano il loro gesto concreto di solidarietà: non basta un aiuto freddo che non coinvolge, ma occorre che diano se stessi come avevano fatto i cristiani di Macedonia (2Cor 8,5). Perciò egli parla di « sollecitudine » o « premura » o « zelo » (2Cor 8,8.17.22; 9,3), di « prontezza d’animo » o « buona volontà » o « impulso del cuore » o « slancio di volontà » (2Cor 8,11.12.19; 9,2), di « generosità » (2Cor 8,2), di « spontaneità » (2Cor 8,3); non si tratta né di un « co-mando » (2Cor 8,8) né di un’azione da compiere con « tristezza » (2Cor 9,7). Soprattutto li esorta a dare con interiore libertà e con gioia: « perché Dio ama chi dona con gioia » (2Cor 9,7).
La fecondità e la necessità delle relazioni tra le Chiese emergono anche dal fatto che Paolo conclude alcune lettere inviando alla comunità destinataria, o a suoi membri espressamente nominati, non so-lo i suoi saluti, ma anche quelli della Chiesa dalla quale scrive (1Cor 16,19; Rm 16,1-23) e dal fatto che domanda che il suo scritto sia reso noto anche ad altre comunità (Col 4,16).

Conclusione
« Paolo è stato l’uomo dell’incontro: dell’incontro con il Risorto, quindi dell’incontro con il Padre e di conseguenza dell’incontro con gli altri uomini, ebrei e non ebrei. Dotato di una grande umanità, è stato capace di entrare nella concretezza della società del suo tempo, nel mondo delle diverse cultu-re, invitandole a incontrarsi e non a scontrarsi. Paolo ha intercettato la sete di dialogo e di comunio-ne inscritta nell’uomo. Prima ha percorso la strada dell’estremismo, di Babele, dell’imposizione di un’unica mentalità, quella del fariseismo ebraico, e poi quella dell’incontro, votandosi totalmente alla civiltà del convivere. Paolo consegna alla comunità cristiana il grande impegno di ricercare as-siduamente il confronto, la comunicazione vitale delle differenze » (A. Riccardi).
Per vivere questo incontro e per promuoverlo nelle Chiese, Paolo si basa su due motivazioni: una cristologica e una ministeriale. Paolo mette a fondamento di tutto Gesù Cristo. Gesù risorto è con-temporaneamente sia il soggetto sia l’oggetto del suo ministero. Di conseguenza l’annuncio di Paolo non deve la sua validità alle capacità dell’annunciatore, ma alla persona annunciata. L’autorevolezza del ministero di Paolo non risiede nell’abilità persuasiva del portavoce, ma nella forza che promana dalla persona proclamata. Qui sta dunque la motivazione cristologica.
Garanzia di questo fondamento cristologico è, paradossalmente, proprio la debolezza dell’apostolo: Paolo presenta come migliore credenziale del suo ministero la libertà dall’affanno di doversi autole-gittimare. Egli si può addirittura vantare della propria vulnerabilità, cioè di ciò di cui di solito ci si vergogna. A garantire l’autenticità del suo annuncio è la potenza di Cristo risorto, attivamente pre-sente nella debolezza dell’apostolo. Qui abbiamo la motivazione ministeriale dell’arte pastorale di Paolo: grazie al suo incontro con il Risorto, egli è diventato l’uomo che ha fatto della debolezza la propria forza, la propria adesione di fede all’amore di Dio, alla potenza vitale della risurrezione di Gesù. Così Paolo, mosso dalla motivazione cristologica, può parlare autorevolmente, con forza, ad-dirittura con veemenza; mosso dalla motivazione ministeriale non teme di presentarsi vulnerabile, genera e guida le comunità da apostolo cristiano, camminando nella vulnerabilità.

 

SAN PAOLO ALLE ORIGINI DELL’EUROPA

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SAN PAOLO ALLE ORIGINI DELL’EUROPA

Intervista a Michael Heseman

Michael Heseman è uno studioso e scrittore tedesco che ha già pubblicato alcuni libri ben noti anche in Italia, come Titulus Crucis, in cui dimostra come le più moderne ricerche confermano la veridicità storica di alcune delle reliquie che la tradizione ha tramandato. In questo caso, appunto, il frammento del “titolo”(o tavoletta) affissato per ordine di Pilato sulla Croce di Cristo e conservato nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma. Più recentemente ha scritto un libro, dal titolo Paolo di Tarso – archeologi sulle orme dell’apostolo delle Genti, sulle recenti scoperte che riguardano la figura di san Paolo. Proprio sulla figura dell’Apostolo delle Genti Radici Cristiane lo ha voluto sentire.

di Matthias von Gersdorff
Cosa l’ha particolarmente affascinata nell’apostolo san Paolo sia come cattolico che come storico?
Per uno storico è stupefacente come un solo individuo abbia potuto raggiungere ciò che Paolo ha raggiunto. Per chi poi è un cristiano credente è un indizio chiaro dell’operare della Provvidenza divina. Gesù stesso lo scelse come Apostolo dei Gentili giustamente perché riuniva tutti i requisiti.
Ma più di tutto mi sono sentito attirato sentendo la sua presenza nei luoghi dove ha operato. Ciò l’ho scoperto visitando assieme a un amico ecclesiastico i luoghi paolini di Filippi, Atene e Corinto, prima del viaggio in Grecia del Papa Giovanni Paolo II.
Per noi era una continua e grata sorpresa constatare come san Luca è un buon cronista. Paolo, più che qualsiasi altra figura biblica, lasciò una sua impronta. Così iniziò la mia ricerca durata otto anni e i cui risultati sono in questo libro.
Paolo è a volte una figura controversa per cristiani e teologi. Qualcuno si sente in imbarazzo per quanto dice sul ruolo della donna in chiesa, altri giungono persino ad accusarlo di avere falsato la purezza della dottrina di Cristo.
La “gente di Cloe” – probabilmente si parla di impiegati di una imprenditrice di buona posizione – stabilirono il contatto con Corinto durante il suo soggiorno a Efeso. E quando si parla di Prisca e Aquila sono menzionate prima le donne perché quasi sicuramente guidavano le comunità domestiche.
Durante 8 anni lei ha viaggiato nel Mediterraneo sulle impronte dell’Apostolo delle Genti. Quali furono le sue esperienze più toccanti?
Guardando questi posti ho nutrito la convinzione che si trattava di un racconto fatto da qualcuno che aveva presenziato ai fatti.
Emozionante è anche la forma in cui è stato scoperto il sarcofago di san Paolo, che verrà aperto in un prossimo futuro a San Paolo fuori le Mura.
Ma dove ho sentito più la presenza di san Paolo fu a Malta. Il Papa Paolo VI con tutta ragione la definì “l’isola di san Paolo”. In nessuna parte, eccettuando Roma, si trovano così fresche e ben conservate le orme di Paolo come a Malta.
Sotto l’ampia dimora di Publio, il “primo dell’isola”, è stata scoperta una chiesa cristiana. Pochi anni fa alcuni palombari trovarono quattro ancore di una nave alessandrina che trasportava cereali, la quale potrebbe ben essere quella sulla quale Paolo naufragò a Malta. Ora si cerca, con l’aiuto di palombari locali, di trovare i resti della nave stessa.
Nessuna figura biblica ha lasciato le orme in tanti luoghi storici come san Paolo. Da questo fatto si possono trarre deduzioni sull’importanza che ebbe l’Apostolo sulla Chiesa in quei giorni?
Giustamente un problema con cui s’imbattono le ricerche paoline è che la Chiesa primitiva era molto cristocentrica e non aveva una grande considerazione per i luoghi dove agirono gli Apostoli.
Ciò nonostante sono sopravvissute molte tradizioni locali. Ma è stata una grande sorpresa la riscoperta di luoghi caduti nell’oblio, perché molti di essi si presentano così come san Paolo li ha visti. Soltanto nel secolo IV si costruirono chiese sul Bema di Corinto (la tribuna delle arringhe), la sinagoga di Antiochia di Pisidia e il carcere di Filippi.
Qualche esegeta ha messo in dubbio l’autenticità di alcune epistole di san Paolo. Anche la verità storica di alcuni fatti degli Atti degli Apostoli sono stati messi in discussione. Tuttavia dagli archeologi arrivano continue conferme dei racconti biblici. Come si spiega?
Si spiega anche la fine un tanto repentina degli Atti dopo i due anni di cattività di san Paolo a Roma, dicendo che l’autore già conosceva il suo martirio ma non ha voluto inserirlo. Se leggo una biografia su Giovanni Paolo II che finisce col suo viaggio in Polonia del 2002, ciò significa per me che quella biografia è stata scritta non oltre il 2003; non certo che l’autore l’ha scritta nel 2008, ma ha voluto risparmiare ai lettori la drammaticità della morte di quel grande Papa.
Molti luoghi menzionati nelle epistole di san Paolo non sono stati ancora scavati o lo sono stati in modo parziale. Potrebbe l’Anno Paolino servire da spinta in questo senso?
Io lo vorrei ma ne dubito. Il motivo è semplice: i luoghi paolini non scavati ancora – e fra questi alcuni molto importanti come Listra e Iconio – si trovano in un Paese, la Turchia, che non si interessa particolarmente per il suo passato cristiano. Gli scavi sull’altopiano di Anatolia non offrono neppure una grande prospettiva di sviluppo turistico.
L’unica possibilità è che qualche grande università straniera se ne occupi, ma di norma i loro budget per scavi archeologici sono molto limitati.
L’arcivescovo di Colonia, cardinale Meisner, vuole incentivare la costruzione di un centro per pellegrinaggi a Tarso, luogo della nascita di san Paolo. Come vede questa iniziativa?
Per noi cristiani avere una chiesa a Tarso sarebbe un segno di buona volontà. Da noi le moschee proliferano dappertutto e per la Turchia concedere una chiesa non sarebbe troppo…
Un’ottima opportunità anche per il governo di Erdogan, che si sta dando da fare tanto per l’ingresso nell’Unione Europea, di far vedere che la libertà religiosa non esiste solo sulla carta.
Poi il fatto che questa iniziativa parta dal cardinale Meisner, il mio vescovo, perché io sono di Düsseldorf, mi rallegra in modo particolare.
Che si attende lei concretamente dell’anno paolino 2008/2009?
Theodor Heuss, il primo Presidente della Repubblica federale tedesca, in una certa occasione disse che l’Europa era stata costruita su tre colline: l’Aeropago, simbolo del pensiero e della democrazia, il Campidoglio, simbolo del diritto e il Golgotha, simbolo della visione cristiana dell’uomo.
Bene, nella persona di Paolo troviamo insieme questi tre elementi per la prima volta: il Vangelo che trova la filosofia e conquista Roma. La cultura dell’Occidente è una luce da mettere sul lucernario, non sotto il moggio. Profittiamo di questo Anno Paolino per riscoprire questa grandiosa eredità.
Il suo libro Paolo di Tarso è appena apparso. Quando avremo un altro libro suo e quale sarà la tematica?
Presto, sto facendo ricerche che mi riportano nel secolo XX. Il mio prossimo libro tratterà di un grande Papa vissuto in un momento difficile, a volte mal compreso e persino diffamato vilmente: Pio XII.
Dall’apertura degli archivi vaticani e dal processo di beatificazione, giunto alla fase finale, arrivano elementi notevoli che ricollocano la sua opera sotto una luce completamente nuova.
Ci vedo almeno due grandi opportunità. La prima è invitare ogni cristiano a meditare sulle origini della propria fede, anzi, a trovarle in modo vivo. D’altra parte vediamo che Europa si trova in un processo di ricerca e definizione e quest’anno paolino può aiutarla a riscoprire le radici della sua identità culturale. È una iniziativa meravigliosa, anche perché a Tarso dovrebbe esistere un centro di pellegrinaggi già da molto tempo. Nel luogo della nascita di san Paolo non esiste neppure una chiesa. La cappella che si trova sulla casa dove nacque, è divenuta museo.
Tarso si trova in riva al Mediterraneo, si può raggiungere da Antalya (Attalia) e quindi interessa ai fini del turismo, cosa che il governo turco già ha capito, e almeno negli ultimi anni lì sono stati realizzati scavi. Siamo giunti al paradosso per cui gli storici e gli archeologi credono più alla verità delle epistole paoline che qualche teologo ed esegeta. A volte mi viene da pensare che questi teologi neppure si interessano ai ritrovamenti archeologici, perché potrebbero smentire le ipotesi da loro costruite sul Nuovo Testamento.
Certe speculazioni sono talmente lontane dalla realtà da sembrare uno scherzo. Così qualcuno trova, ad esempio, che gli autori degli Atti sono diverse persone e non solo Luca. Perché? Per che a volte il racconto cambia alla prima persona del plurale, usa il “noi”. Come se a Luca, cronista geniale, non fosse possibile adattare il linguaggio alle circostanze.Mi sono sorpreso di ritrovarmi in diverse esperienze piccole e grandi dicendo a me stesso: “Eureka!”, ovvero in quei momenti in cui, con gli Atti degli Apostoli in mano, mi recavo ad un luogo paolino e trovavo tutto tale e quale l’ha descritto san Luca, il nostro tanto affidabile cronista.
Ciò è molto chiaro, ad esempio, quando si vedono gli scavi – realizzati negli ultimi anni a Cesarea, in Israele – del Pretorio che include il carcere di san Paolo, il tribunale dove fu interrogato, la sala delle udienze dove fu presentato dal governatore Festo al Re Agrippa II. Le femministe moderne l’hanno dichiarato “nemico della donna” perché dice che devono restare zitte in Chiesa e devono sottomettersi al marito. Ma per un ebreo del I secolo queste erano cose normali. La prima esigenza in questo senso proveniva dalla Torah. Se egli avesse detto qualcosa di diverso, sarebbe stato molto più incompreso.
Ma egli agì in modo ben diverso! Il suo primo battesimo fu quello di una commerciante di porpora, Lidia. In genere si direbbe che simpatizzava con “donne forti”. A Cencre mise «la nostra sorella Febe» (Rm. 16,1-2) a capo della comunità e la inviò con l’Epistola ai Romani come “ambasciatrice” nella capitale. Paolo di Tarso è niente meno che il padre dell’Europa cristiana, cioè della nostra civiltà. A lui dobbiamo che da un movimento quasi esclusivamente giudaico attorno alla figura di Gesù sia sorta una religione di ampiezza mondiale.
Egli osò gettare un ponte verso la cultura greco-latina ed ebbe successo, anche perché proveniva da Tarso, città di studi dove si trovavano i due mondi: quello ebreo e quello greco-latino. (RC n. 36 – Luglio 2008)

THEOTOKOS OVVERO LA MADRE DI DIO – (IL CONCILIO DI EFESO)

http://www.artcurel.it/ARTCUREL/RUBRICHEAUTORI/alessiovariscoteologiadellarte/AVtheotokosovverolaMadrediDio.htm

THEOTOKOS OVVERO LA MADRE DI DIO – (IL CONCILIO DI EFESO)

DI ALESSIO VARISCO

 SGUARDO DI MARIA, MADRE DI GESÙ, SUL MONDO

Maria è la la Madre di Dio. Per noi cattolici è la Beata Vergine Maria, è la madre di Gesù: il Cristo-uomo che l’opera dello Spirito Santo ha unito ipostaticamente –nella duplicità della natura e unicità della persona– al Verbo eterno di Dio. Per questo motivo il Concilio di Efeso le ha attribuito il rango « Genitrice di Dio » dichiarandola, a livello dogmatico, dal punto di vista teologico, la Theotókos ossia la « Madre di Dio ».

Dal punto di vista storico Maria risulta quindi la “Madre di Dio”, la Theotókos. In seno alla Chiesa, attorno a questa definizione, si infiammò una delle più pesanti e accorata disputa che si risolse col Concilio di Efeso nel 431. Il nome di Efeso fa riecheggiare alla mente «grande è Diana Efesia!» grido che leggiamo negli Atti degli Apostoli. Sorgeva, infatti, in Efeso un magnifico tempio, chiamato Artemision, offerto a Diana. Un luogo di culto che specchiava le sue cento colonne di marmo e di porfido, alte venti metri, col simulacro della dea d’avorio e d’oro nell’acque del mare antistante. Efeso era una delle sette meraviglie del mondo. La città si era guadagnata un’enorme fama ed era mèta d’innumerevoli pellegrinaggi; ciò diede modo ad alcuni artigiani, gli orefici, a larghi guadagni e comportò un aumento di capitali rendendo la città molto ricca e sontuosa, sfavillante agli occhi del visitatore. Gli orafi accrescevano sempre più le loro ricchezze commercializzando delle riproduzioni, in piccolo, dell’enorme tempio, oltre a statue di Diana e medaglioni rappresentanti l’effigie della dea in gran numero.  San Paolo, Saulo di Tarso ex pubblicano, arrivò, alle parti inferiori di quelle colonne lisciate, un uomo dall’aspetto piccolo –miserabilmente povero e sproporzionato rispetto la maestosità sontuosa del luogo- e cominciò a parlare alla gente E il tempio parve tremare quando iniziò a proferire parola, sembrò crollare quella meschina patina di perbenismo. Ecco che Demetrio, uno degli orafi, mise insieme gli artigiani della città, in una specie di comizio sindacale, accendendoli contro l’uomo che aveva l’audacia di dir male della Diana. Come un tuono si alzò la voce dei convenuti che cercavano di zittire, soffocando col chiasso e le grida, la predicazione dell’Apostolo. Il loro motto gridato era « Grande è Diana Efesia! ».

Il Concilio di Efeso Dopo neppure trecent’anni, di fianco al tempio andato in rovina s’innalzava una stupenda Basilica, dedicata alla Madonna. In questo tempio mariano si riunirono i Padri della Chiesa, per stabilire se Maria dovesse essere indicata col titolo di: “Theotókos” o semplicemente “Christotókos”. Scopo dell’audizione conciliare stabilire se Maria era la Madre di Dio o la Madre di Cristo. In modo inconsapevole noi oggi ripetiamo le parole “Maria”, “Vergine” o « Madre di Dio » non pensando -quasi mai- a quel che comportò quest’attributo mariano. Inoltre in pochi ricordano che tutti gli altri dogmi riguardanti la Madonna derivino proprio da lì, dall’essere Vergine e Madre di Dio. Purtroppo in Efeso si scontrarono -sotto l’efficace arbitrato della Chiesa di Roma- due fazioni contrapposte: quella appartenete alla Chiesa d’Alessandria -condotta da San Cirillo- e quella della Chiesa di Costantinopoli -capitanata dal grande Nestorio-. Con una “bizantina sottigliezza” Nestorio inseguiva la tendenza, tutta orientale, di fare di Gesù qualche cosa di sovrastante, più alto, e di scollato dall’umanità. Secondo lui non era possibile -e secondo molti altri teologi orientali, che vi fosse « una sola persona » costituita di due nature: divina e umana. Stando a quest’assunto Dio sarebbe sempre rimasto -in qualche modo- distaccato dall’uomo. E che quindi dalla Vergine Maria non sarebbe nato il Dio bensì l’uomo. La tesi nestoriana appare un’eresia essenzialmente cristologia. Nestorio fa derivare inevitabilmente l’eresia mariana, tanto è vero che ogni errore compiuto sul Cristo si riflette –per contro ed in misura diretta- sulla Madre, e dicasi, oltremodo per inversione, pure il contrario. Eppure, va detto, ad onor del vero l’errore di Nestorio era provvisto di tutte le esteriorità della assennatezza, e che esclusivamente chi comprendeva l’importanza teologica della dottrina cattolica -sostenente la natura divina e la natura umana in una sola persona- era in grado, in quel momento, di vedere in anticipo e quantificare tutte le disastrose conseguenze di quell’errore minutissimo. Il Vescovo d’Alessandria, San Cirillo, si erse contro il Vescovo di Costantinopoli, Nestorio. Questo comportò uno spaccamento verso la Capitale dell’Impero d’Oriente e numerosi seguaci nestoriani. Nestorio pareva dovesse avere il sopravvento, fra i due antagonisti, tanto la sua magniloquenza era suasiva e convincente. Nestorio era il favorito e sembrava la sua linea fosse “travolgente”. Giovò forse quel suo aspetto di conventuale ieraticità, il suo tono intenso e caldo certamente persuasivo. Basti pensare che l’Imperatore Teodosio il Grande posava le sue aspettative su di lui perché era capace di suaderlo. Sant’Agostino, il grande Vescovo di Ippona, filosofo, era morto ormai da un anno. Chi era capace di tener testa a colui che possedeva il titolo di « incendiario »? E San Cirillo d’Alessandria non si fiaccò: «Noi, per la fede di Cristo – disse – siamo pronti a soffrire tutto: prigione, catene, decesso». Rivolse un appellò a Roma e Celestino I affidò a lui la preservazione della dottrina cattolica: «l’autorità della nostra Sede vi è detta». Fu l’Imperatore, Teodosio, a convocare il Concilio. Si scelse la città che era già di Diana ed ora di Maria; quivi giunsero -da ciascuna parte della Cristianità- i Padri della Chiesa. In realtà l’imperatore Teodosio aveva promosso il Concilio tranquillo della vincita del suo Vescovo. Nestorio già assaporava il gusto della buona riuscita. Alla fine del Concilio, nella grande chiesa efesina, sarebbe certamente rimbombato il grido -tuttavia non oltraggioso né indegno- di Christotókos. E invece, altissimo si  portò in alto, approvato da tutti, quello di Theotókos, Madre di Dio. E San Cirillo d’Alessandria godette del titolo d’«invincibile difensore della divina maternità della Vergine». Quando pervennero ad Efeso i due Legati di Roma, non ebbero che da confermare il Decreto del Concilio. Il titolo di ‘Madre di Dio’, da quel giorno, riconobbe alla Vergine il più importante degli onori e il più alto dei vanti. Tutte le generazioni, da quel momento la chiamarono “Madre di Dio”.   Maria era divenuta: Madre di Dio ed ora Madre della Chiesa. La Beata Vergine aveva partecipato alla nascita della divinità del Fondatore della Chiesa -sposa del Cristo- e diveniva la Madre dell’Umanità e della Chiesa stessa. Maria era la “Madre di tutti i redenti”. Nella illustrazione a lato possiamo notare la dicitura « Sancta Trinitas unus Deus »: è qui miniata la ‘Litania lauretana’ in cui Maria è esaltata quale « Madre di Dio ». Nell’ottica della supplica alla Vergine di Loreto si trova un riferimento dogmatico importantissimo –comunicato per tramite dell’orazione dai fedeli recitanti-: Maria sarebbe « la più vicina alla Trinità » ["B proxima primae (litterae, A)"]. Inoltre la Beata Vergine sarebbe -per noi cattolici- la »Sancta Dei Genitrix » ed anche qui l’ausilio iconico ci aiuta ad addentrarci nei meandri di un Mistero grandioso. Inoltre nell’illustrazione di quest’altra ‘Litania’ si ricorda l’evento della nascita di Gesù, “Figlio di Dio”. Maria è divenuta: la Madre di tutti i Santi, la Madre di tutte le Grazie, secondo la convinzione che attende ancora la sua solenne definizione,

«Donna, se’ tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia ed a te non ricorre, sua disïanza vuol volar sanz’ali».

[A. Dante, Paradiso.  XXXIII, 13-15]

da secoli poeticamente Dante, aveva espresso nella « preghiera di San Bernardo ».

Titolo mariano per antonomasia … dal punto di vista teologico Maria è la “Madre di Dio” e questo titolo –oltre ad essere una definizione misteriologica che attiene la teologia mariana- è anche il titolo primo e principale. «Nel Vangelo Maria è presentata come la « madre di Gesù ». Gesù è il Cristo, il Messia, un uomo che l’opera dello Spirito Santo ha unito ipostaticamente – duplicità della natura e unicità della persona – al Verbo eterno di Dio. Per questo al Concilio di Efeso, nel 431, Maria fu dichiarata Theotókos, « Madre di Dio », « Genitrice di Dio». [Tullio Faustino Ossanna, "L’Ave Maria – Storia, contenuti, problemi", ‘Edizioni San Paolo’, pp. 78-79]. Il dogma della divina Maternità di Maria è presentatato in modo accessibile nel volumetto di padre Osanna in cui risulta ben argomentata –brevemente- la riflessione biblico-teologica. Bisogna puntualizzare che Maria non può essere intesa come la madre della divinità, né tantomeno madre della Trinità. Maria è la Madre di Gesù, cioè del Verbo eterno del Padre in Lei incarnatosi. Ecco che Maria risulta la collaboratrice del Padre che per mezzo dello Spirito Santo ha reso possibile l’Incarnazione dell’Unigenito. Di qui si spiegherebbe Maria l’intima e particolare relazione che Essa ha in relazione alla Trinità; Maria acquista ogni grado più elevato nella Chiesa in ragione anche di ciò. È Maria il “ponte” fra l’umanità di peccatori redenta in Cristo –per mezzo suo che ha schiacciato le sorti riscattando la progenie di Eva- e quella Divinità che in Lei ha albergato. Maria è perciò “avvocata nostra”… Myriam è Colei che è stata scelta per collaborare all’Incarnazione del Figlio di Dio –è la Madre- e perciò la chiamiamo col nome di « Madre di Dio » perché Gesù-Dio è nato da lei: « nato da donna » [Gal 4, 4]. Maria è madre nel senso più fisico, psicologico e spirituale: sa di contribuire con Dio offrendo il suo assenso libero e dando alla luce nell’amore il Verbo che è l’Amore. Maria non si presenta unicamente come la « genitrice », Essa è la madre che esercita la sua funzione, la sua posizione od il suo ruolo verso Dio e l’umanità in Lei redenta, la sua mandato materno –una vera missione- verso il Figlio si realizza mettendosi –in Lei preservata da ogni traccia di male- totalmente a disposizione del Padre in modo silenzioso e umile. Maria è la madre che vive per il figlio -con l’ansia-, nella compartecipazione alla missione di Lui fino alla morte e anche dopo la morte: Donna dell’Attesa, del venerdì e del Sabato Santo.

Maria è Colei che anche oggi è accanto a Lui nella gloria in Cielo presso il Padre.  Da tutto ciò deriva la sua grandezza e anche la sua forza: ha i suoi diritti materni d’essere amata, onorata, ascoltata; è motivo per noi di fiducia. Maria è stata scelta anche per essere collaboratrice nella missione di salvezza di Gesù, che dalla Croce la volle madre dell’umanità: « Donna, eccoil tuo figlio! […] Ecco tua madre! » [Gv 19, 26-27]. Alla Madre di Dio la Chiesa – che l’ha proclamata anche sua madre: « Madre della Chiesa » – va per conoscere Cristo, contando su di lei per essere portatrice di Salvezza ».

 

EZIOLOGIA STORICO-RELIGIOSA DELLA « SVOLTA » COSTANTINIANA

http://www.zenit.org/article-30311?l=italian

EZIOLOGIA STORICO-RELIGIOSA DELLA « SVOLTA » COSTANTINIANA

La prolusione di monsignor dal Covolo al Convegno internazionale su Costantino e le radici dell’Europa

ROMA, giovedì, 19 aprile 2012 (ZENIT.org) – Riportiamo di seguito l’intervento di monsignor Enrico dal Covolo, rettore della Pontificia Università Lateranense, nel corso del convegno internazionale « Costantino il grande. Alle radici dell’Europa », svoltosi ieri 18 aprile nello stesso Ateneo.
Il convegno è promosso dal Pontificio Comitato di Scienze Storiche, con il patrocinio dell’Archivio Segreto Vaticano, della Biblioteca Apostolica Vaticana, del Consiglio Nazionale delle Ricerche, della Biblioteca Ambrosiana, del Consiglio Regionale del Lazio, della Delegazione dell’Unione Europea presso la Santa Sede e della Pontificia Università Lateranense.
***
La prolusione del Convegno prende il suo avvio dagli imperatori Severi (193-235), visti come “i precursori” della cosiddetta “svolta costantiniana”.
Più ampiamente, si mostra che le radici della svolta vanno cercate assai indietro nel tempo, e che – di conseguenza – l’alleanza tra impero romano e religione cristiana, sancita da Costantino, non possiede quel “carattere rivoluzionario esplosivo”, che certa manualistica ancor oggi le attribuisce.
A tale scopo, si affronta il tema dell’ideologia religiosa imperiale e dei conseguenti “incontri-scontri” tra pagani e cristiani.
In verità – come ci si propone di dimostrare nei due paragrafi conclusivi – la svolta costantiniana ubbidiva alla politica religiosa della tradizione classica, soprattutto romana: la protezione della divinità, e il culto senza impedimenti che la propiziava, erano considerati indispensabili per la stabilità delle istituzioni civili.
Gli interventi legislativi in materia religiosa – da Costantino a Teodosio –, mentre gradualmente riconoscevano ai cristiani la piena libertà di culto e, all’inverso, limitavano l’esercizio della religione pagana, si collocavano paradossalmente sulla linea della tradizione romana, una volta decisa, dopo Galerio, l’inopportunità della persecuzione contro i cristiani.
Di fatto, occorreva sostituire il culto pagano con il culto cristiano, pur lasciando intatto il sistema del raccordo tra politica e religione, unica garanzia di sopravvivenza per l’impero nella tradizione greco-romana.
1. Gli imperatori Severi, precursori di Costantino?
Il titolo di questo paragrafo introduttivo evoca il testo della comunicazione offerta nel 1986 da Robert Turcan ai membri dell’Associazione “Guillaume Budé” di Lione.
Turcan esordiva con questa domanda: “Héliogabale précurseur de Constantin?”; per concludere, dopo attenta disamina, che Elagabalo non fu monoteista, come non fu – propriamente parlando – “un precursore di Costantino”.
Tuttavia il privilegio da lui accordato al Sol Invictus, il grande Baal di Emesa di cui egli stesso era il sacerdote circonciso, prefigurava in qualche modo l’“imperatore-vescovo”, cioè – a dire di Turcan – quel “cesaropapismo” che avrebbe gravato pesantemente sull’impero cristiano.
Un anno prima, nella “tavola rotonda di inaugurazione dell’anno accademico 1985-1986 presso l’Istituto Patristico Augustinianum, Raffaele Farina – oggi Cardinale Bibliotecario e Archivista di Santa Romana Chiesa: uno dei più importanti studiosi dell’imperatore Costantino e delle prima teologia politica del cristianesimo – osservava che “le radici della cosiddetta ‘epoca costantiniana’ sono da ricercarsi più indietro nel tempo”, e che, di conseguenza, l’alleanza tra impero romano e religione cristiana realizzata da Costantino“non possiede quel carattere esplosivo rivoluzionario che le viene attribuito”.
Oggi, a venticinque anni di distanza, occorre riconoscere la validità delle intuizioni – diversificate, e tra loro indipendenti – di Turcan e di Farina.
Lo storico delle origini cristiane, come lo studioso della letteratura cristiana antica, devono ritenere ormai che la cosiddetta “svolta costantiniana”, con le sue enormi conseguenze, fu anticipata di oltre un secolo dalla politica religiosa di Commodo e dei Severi.
Come è noto, tra la fine del II e i primi decenni del III secolo l’impero denuncia le crepe di una  crisi profonda. E’ celebre la radicalizzazione di Santo Mazzarino: a suo parere, “non esiste epoca, in tutta la storia della nostra cultura, la quale sia così densa di assurdità, pressoché paradossali, come questa sconvolta epoca di Commodo e dei Severi”.
Sul versante politico-istituzionale, la crisi viene ritardata appunto dall’avvento della dinastia severiana (193-235), vistosamente impegnata nel consolidamento e nella propaganda religiosa della monarchia; mentre l’adesione ormai palese al cristianesimo dell’entourage di corte e delle clarissimae famiglie senatorie prefigura l’atto definitivo della conquista dell’impero da parte della Chiesa.
Allo stesso tempo, i molteplici contatti fra le due istituzioni si riflettono anche nella consonanza tra l’ideologia religiosa della corte imperiale e l’egemonia monarchiana nella Chiesa di Roma.
E’ pur vero che l’“apertura” dei Severi al cristianesimo si rivolgeva più che altro a una minoranza intellettuale, che amava definire la propria fede con il termine filosofia, piuttosto che con quelli di religione o di teologia. Costantino, invece, aveva ormai visto nei cristiani una minoranza sociale ben organizzata, capace di vantaggiose, e addirittura necessarie alternative rispetto alla tradizione religiosa precedente.
2. L’ideologia religiosa imperiale
Come si vede, bisogna approfondire anzitutto il concetto di religio, per cogliere il punto di vista degli imperatori – prima e dopo i Severi – nei confronti della religione cristiana.
Dobbiamo riconoscere tuttavia che il ricorso all’etimo di religio non è decisivo per la nostra analisi. Si tratta in effetti di un’etimologia controversa. Secondo alcuni, il vocabolo va connesso con religere/relegere (“raccogliere di nuovo”, “rileggere”); secondo altri, si riallaccia invece a religare (“riunire”, “legare”, “riannodare”).
 Ma è un fatto che, a prescindere dalla questione dell’etimo, il modo di intendere la religione nel mondo romano si accorda di più con l’orientazione semantica di religere/relegere che con quella di religare.
“Ricominciare una scelta già fatta (retractare, dice Cicerone), rivedere la decisione che ne risulta, tale è il senso proprio di religio. Indica una disposizione interiore, e non una proprietà oggettiva di certe cose, o un insieme di fede e di pratiche”: così afferma É. Benvéniste nel suo Vocabolario delle istituzioni indoeuropee. A suo dire, “religio è un’esitazione che trattiene, uno scrupolo, e non un sentimento che dirige verso un’azione, o che incita a praticare il culto”.
Così nell’età classica religio indica anzitutto un atteggiamento fatto di scrupoloso rispetto verso le istituzioni, ed è questo il senso che mantiene lungo il tragitto della latinità. In rapporto all’identità del cittadino, impegnato per la sua stessa sopravvivenza a conservare la polis, la religio è ciò che dà forza alle istituzioni civili, e ne garantisce la durata.
Dentro queste prospettive, la nozione di religio rimane sempre connessa con la diligentia e con la scrupolosa osservanza del culto.
Nella medesima direzione, Virgilio (+ 19 a.C.) giunge a identificare religio con rito, e ad “oggettivarne” – almeno per qualche aspetto – la soggettività originaria. Quando, nel secondo libro dell’Eneide, Priamo chiede a Sinone quae religio sottenda la costruzione del cavallo, egli si riferisce evidentemente a una pratica cultuale.
La risposta di Sinone – secondo cui il cavallo sarebbe stato di così ampie dimensioni per impedirne il passaggio entro porte nemiche neu populum antiqua sub religione tueri (possit) –ribadisce il medesimo significato, nel senso che il culto, una volta acquisito dalla città nemica, avrebbe recato con sé la protezione del dio dedicatario.
D’altra parte, Virgilio usa il termine religio anche nel senso di “timore reverenziale”: tuttavia rimane da stabilire se ciò dipenda o meno da una sua “ricostruzione antiquaria”. Il problema da risolvere – e non è questione di poco conto – è se sussista nella memoria storica dei romani uno “strato primitivo” permanente legato al “timore reverenziale”, ovvero se questo uso debba riferirsi a una rielaborazione poetica (“antiquaria”, appunto) di Virgilio stesso.
3. Incontri e scontri tra pagani e cristiani
La domanda che ci poniamo a questo punto è quella affacciata, ancora di recente, da Giorgio Filoramo: “Ci fu un contributo cristiano al costituirsi di una tradizione interpretativa della religione?”.
A questa domanda egli stesso risponde: “La risposta sembrerebbe negativa. I polemisti cristiani, da Arnobio a Lattanzio, da Eusebio ad Agostino, nel loro confronto con gli dèi pagani utilizzarono senza alcuna novità l’armamentario ideologico che secoli di critica filosofica alle tradizioni mitico-religiose”, da Senofane e da Democrito in poi, “avevano elaborato”.
Sul versante della critica filosofica, dunque, l’“incontro” tra cristiani e pagani appare sicuramente attestato.
Ma “se una qualche novità si vuole trovare” – ed è questa l’area dello “scontro” –, essa, prosegue Filoramo, “va individuata nella diversa prospettiva con cui gli autori cristiani guardarono, per altro sulla scia dell’apologetica giudaico-ellenistica, al mondo delle tradizioni religiose. Per un verso, infatti, il confronto con l’idolatria pose il problema di individuare la ‘vera’ religione, di contro a quelle religiones che si rivelavano invenzione umana o, peggio, creazione diabolica; per un altro, un’incipiente teologia naturale, innestata su un modo nuovo di concepire e strutturare la storia, doveva fornire quel quadro generale di storia sacra, al cui interno per secoli si sarebbe collocata l’interpretazione della religione e delle religioni”.
Partiamo da questo secondo elemento dello “scontro”.
L’alfiere delle relative argomentazioni è Tertulliano (+ dopo il 220), il primo autore della letteratura cristiana in lingua latina. Il suo ragionamento è semplice, mentre coniuga la natura delle cose con il primo articolo della fede cristiana: “Quello che noi adoriamo”, egli confessa, “è il Dio unico, che trasse dal nulla questa gigantesca mole”. Nessun altro, in verità, lo ha aiutato nel suo immane lavoro di Creatore.
“Se dunque”, prosegue poco più oltre l’Africano, “i vostri dèi non esistono, è altrettanto vero che la vostra religio non esiste; e se non vi è religio, perché non vi sono gli dèi, neppure noi possiamo essere ritenuti colpevoli di lesa religione (lesae religionis). Al contrario, ricadrà tale rimprovero su di voi, che adorate la menzogna, non solo negligendo la vera religio del vero Dio (veram religionem veri Dei non modo negligendo), ma per di più combattendola, cadendo in tal modo in un delitto di autentica irreligiosità (crimen verae irreligiositatis)”.
 Da parte sua Minucio Felice, contemporaneo di Tertulliano, ne completa il “colpo di mano” semantico applicando il sintagma vera religio alla realtà cristiana, mentre superstitio e impietas giungono a definire la religio romana e le altre religiones.
Torniamo così al primo argomento dello “scontro”, cioè al dibattito sulla vera religio.
A questo riguardo uno dei testi più interessanti della letteratura cristiana antica è il famoso scritto indirizzato A Diogneto verso la fine del II secolo. I cristiani, scrive l’anonimo autore, “sono avversati dai giudei come un altro popolo, e dai greci sono perseguitati, e coloro che li odiano non sanno dire la causa del loro odio”.
E’ qui accennata la celebre tripartizione religiosa, per cui i cristiani figurano come un tertium genus rispetto ai giudei e ai greci (si noti che nelle fonti patristiche parallele questi ultimi sono intercambiabili con i romani). La “terza stirpe” si caratterizza come tale proprio per il suo “discorso” (logos)assolutamente nuovo nei confronti della religione.
“Su dunque”, così esordisce il secondo capitolo dell’apologia, apostrofando vivacemente il pagano chiamato alla conversione; “purìficati da tutti i pregiudizi che ti imprigionano lo spirito, spogliati dalla consuetudine acquisita che trae in inganno, diventa un uomo nuovo, quasi appena nato, così come nuovo (tu stesso l’hai riconosciuto) è il discorso (logos) che ti appresti ad ascoltare, e osserva – non solo con gli occhi, ma anche con l’intelligenza – quale sia la sostanza o quale la forma di quelli che continuate a chiamare e a ritenere dèi”.
Un’eco di simili espressioni si trova negli Stromati di Clemente Alessandrino (+ 215 ca., che cita a sua volta le Predicazioni apocrife di Pietro): “Le cose dei greci e dei giudei”, vi si legge nel sesto libro, “sono ormai vecchie (palaiá); noi cristiani, invece, adoriamo Dio in modo nuovo (kainôs), come una terza stirpe”.
 Ecco dunque la tipologia fondamentale dello “scontro”. I cristiani con il loro logos religioso assolutamente nuovo sfidano i pagani a valutare la consistenza dei miti tradizionali. Di fatto, per quanto la critica filosofica ne avesse ormai smantellato la credibilità, i romani vi restavano abbarbicati per consuetudine, nel timore che l’abbandono della religione tradizionale dovesse coincidere con il caos delle istituzioni.
Contestualmente i cristiani investono il termine religio di una valenza nuova. Nel linguaggio cristiano, infatti, la voce religio rinvia a contenuti oggettivi che originariamente le erano estranei, se davvero – come abbiamo visto all’inizio – religio presso i paganiindicava prima di tutto una disposizione soggettiva, uno “scrupoloso rispetto verso le istituzioni”, piuttosto che un insieme di credenze oggettive.
Tuttavia, come abbiamo già accennato, non è il termine religio quello privilegiato dai nostri Padri per definire il loro logos radicalmente nuovo nei confronti della religione. Neppure theologhía – termine eccessivamente compromesso con la triplice teologia descritta da Varrone e dai suoi epigoni – era in grado di appagarli.
Rimaneva piuttosto la voce philosophía, che rappresentava pur sempre l’area dell’“incontro” tra paganesimo, giudaismo e cristianesimo sul piano della critica alla religione tradizionale e ai suoi falsi miti.
“La nostra filosofia…”: così in effetti definisce la nuova religione il vescovo di Sardi, Melitone, nell’Apologia da lui indirizzata a Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, verosimilmente nei medesimi anni in cui l’anonimo autore dell’A Diogneto assimilava il cristiano al filosofo (inteso platonicamente come “re nel cuore della città”), e per questa via poteva affermare che i cristiani, pur ubbidendo alle leggi, “con la loro vita superano le leggi”.
In tal modo – precisamente optando per la filosofia e rinnegando la falsa religio, identificata con irreligiositas e superstitio –i cristiani intendevano rassicurare i romani del loro lealismo verso le istituzioni civili, e si difendevano – ritorcendola contro i pagani – dalle accuse di “ateismo” e di “empietà”.
4. La svolta costantiniana
E’ su questo ampio sfondo storico-religioso che va collocata la cosiddetta “svolta costantiniana”, ai fini di una sua corretta interpretazione.
Come recita l’aggettivo stesso, protagonista indiscusso ne è Costantino il Grande. Egli è, nello stesso tempo, il depositario coerente della tradizione storico-religiosa fin qui rivisitata.
Come già Diocleziano e Galerio, e come tutti gli imperatori prima di loro, egli vedeva nella religione l’unica garanzia di prosperità dell’impero e della sua unità. Costantino però – a differenza dei suoi predecessori – si rese conto lucidamente che, per diversi motivi, la religio tradizionale non era più in grado di assolvere il suo compito, e che occorreva “sostituire” gli dei dell’Olimpo con il Deus Christianorum, senza intaccare per questo il nodo saldo che univa tra loro religione e politica.
In tale prospettiva si comprende quello che abbiamo anticipato fin dall’inizio: cioè che la “svolta costantiniana” è nella realtà assai meno rivoluzionaria di quanto molto spesso si voglia credere; e si capisce anche il grave equivoco con cui la nuova religione veniva accolta e riconosciuta fra le istituzioni dell’impero.
Da Costantino, infatti, essa fu compresa anzitutto come un’etica: per lui, Gesù Cristo non era tanto il Logos, quanto piuttosto il Nomos, e la religione dei cristiani aveva essenzialmente lo scopo di propiziare, mediante un culto esatto, il favore della Divinità, senza la quale era impossibile la sopravvivenza e la prosperità dell’impero. La novità era che – mentre prima il giusto culto della divinità sembrava esigere necessariamente la repressione della religione cristiana, non integrabile nel culto tradizionale – ora invece la Divinità da cui si attendeva protezione, l’unica capace di garantire l’unità e la durata dell’impero, era quella dei cristiani.
La “svolta” fondamentale – che inaugura i nuovi rapporti tra la Chiesa e l’impero – è segnata dalla conversione dell’imperatore nel 312 e dalla pubblicazione del cosiddetto editto di Milano del 313.
Così all’inizio del IV secolo si verifica una delle rivoluzioni più importanti che la Chiesa abbia mai conosciuto: ignorata e perseguitata nel periodo precedente, quasi all’improvviso essa acquista completa libertà, fino a godere privilegi sempre più ampi sotto la “cura” e la “sollecitudine previdente” di Costantino e dei suoi successori.
Stando a Eusebio di Cesarea, suo entusiasta biografo, Costantino definiva se stesso episkopos ton ektos, cioè “vescovo di quelli di fuori”, “vescovo al di fuori della gerarchia”. Santo Mazzarino ha tradotto Eusebio in modo singolare, ma certo efficace, definendo Costantino “vescovo dei laici”.
Da parte mia, ritengo più vicino alla realtà ciò che lo stesso Mazzarino annota nel medesimo contesto.
Eliminato Licinio dopo la battaglia di Crisopoli del 18 settembre 324, l’imperatore diventa l’unico Augusto. Così Costantino attuava la monarchia politica universale; e un anno dopo, nel 325, in occasione del concilio di Nicea – da lui stesso convocato e presieduto – partecipava alla definizione del concetto cattolico di monarchia, nel quadro del dogma trinitario. Come sulla terra si realizzava l’unità assoluta di governo – la monarchia costantinianadell’oikoumene –, così nel cielo trionfava la monarchia divina, l’unico vero Dio dei cristiani.
In maniera coerente, Costantino favorì in tutti i modi l’episcopato, adottando misure di protezione, elargendo privilegi e donazioni, e facendo edificare basiliche in molte città dell’impero. Per lo stesso motivo egli intervenne attivamente nelle dispute teologiche che laceravano le comunità cristiane, segnatamente nella controversia ariana e nella crisi donatista.
In tutti questi casi la politica religiosa di Costantino inaugurava quell’atteggiamento, che sarebbe diventato caratteristico dell’imperatore cristiano: una politica religiosa ispirata alla ricerca non tanto dell’ortodossia, quanto piuttosto di formule conciliative, sulle quali l’imperatore imponeva concordia e unità. Proprio per questo motivo l’imperatore cristiano giunse a perseguitare i cristiani, facendosi protettore potente di non poche eresie.
E’ questa politica religiosa che dà il suo vero contenuto alla formula sopra citata di episkopos ton ektos. Di fatto l’imperatore – soprattutto nell’Oriente bizantino, dove assai più a lungo si mantenne il sistema politico-religioso inaugurato da Costantino –non smise mai di sentirsi coerente depositario di quella tradizione, che da sempre aveva riconosciuto all’Augusto la funzione di mediatore tra il divino e l’umano.
5. L’editto di Tessalonica
Ma il vero “capovolgimento” dei rapporti tra la Chiesa e l’impero fu sancito dall’editto Cunctos populos dell’imperatore Teodosio (379-395), pubblicato a Tessalonica il 27 febbraio 380. Come è noto, tale editto prescriveva a tutti i sudditi dell’impero di “perseverare nella religione trasmessa dall’apostolo Pietro ai Romani”, “professata dal pontefice Damaso, e da Pietro, vescovo di Alessandria”.
In realtà anche l’editto di Tessalonica – come già la “svolta costantiniana” – obbediva puntualmente alla logica che la repressione religiosa aveva sempre assunto nella tradizione romana, non solo durante l’impero cristiano, ma anche e soprattutto durante l’impero pagano e la repubblica: il culto da reprimere era assimilato, a seconda dei casi, al sacrilegio, all’empietà, alla magia o all’ateismo. La repressione non si dichiarava mai diretta contro la religione, ma contro una perversione della religione, contro una sua profanazione colpevole e pericolosa per la respublica. La politica religiosa dell’impero, infatti, voleva garantirsi in ogni caso la protezione della divinità, presentando ad essa la sottomissione di un culto senza impedimenti.
Gli interventi legislativi – dall’editto di Galerio a quello di Teodosio –, mentre gradualmente riconoscevano ai cristiani la piena libertà religiosa e, all’inverso, limitavano l’esercizio del culto pagano, si mantenevano sempre, paradossalmente, sulla linea della tradizione romana, una volta decisa, dopo Galerio, l’inopportunità della persecuzione contro i cristiani. Di fatto, la sostituzione degli dèi dell’Olimpo con il Deus Christianorum, definitivamente sancita dall’imperatore Teodosio, non intendeva minimamente scalfire il sistema tradizionale del raccordo tra religione e politica – sistema sul quale poggiava la stabilità della polis nell’antica Grecia e della respublica a Roma –.
In definitiva, il passaggio dell’impero al cristianesimo abolì i riti pagani, ma non la mentalità che questi riti esprimevano.
Sono evidenti le ambiguità di questo processo di sostituzione, come pure gli ampi spazi di ingerenza ecclesiale che l’imperatore si riservava, sempre attento da parte sua – giova ripeterlo – alla concordia religiosa e all’unità dei sudditi per la salvezza dell’impero, molto di più che all’ortodossia della fede.
Non si devono dimenticare tuttavia le enormi possibilità che la svolta costantiniana assicurava alla Chiesa. Essa poteva finalmente definire le sue strutture interne – a partire dai vari gradi gerarchici e dalla formazione dei sacri ministri –, e organizzare vantaggiosamente la propria azione missionaria.
In definitiva, il sacerdozio dell’imperatore cristiano, inaugurato dalla “svolta costantiniana”, fondava nella teologia politica il modello teocratico “eusebiano-bizantino” del rapporto tra sacerdotium e imperium.

Publié dans:STORIA DELLA CHIESA |on 20 avril, 2012 |Pas de commentaires »

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