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«CHI MI LIBERERÀ DA QUESTO CORPO VOTATO ALLA MORTE?». (ROMANI 7,24)

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LA SECONDA OCCASIONE

EDITORIALE

«CHI MI LIBERERÀ DA QUESTO CORPO VOTATO ALLA MORTE?». (ROMANI 7,24)

«Nascere due volte non è più sorprendente che nascere una volta sola». (François-Marie Arouet Voltaire)

Agli inizi degli anni ’80 è stato condotto nel continente europeo un importante studio sociologico, chiamato «Studio Europeo dei Sistemi di Valori» (European Values Systems Study) che coinvolgeva più istituti di ricerca. Ampio quindi il territorio preso in considerazione e diverse le culture soggette alla ricerca. Correlando i dati emersi, si è scoperto con un pizzico di stupore che vi è un’accettazione crescente della reincarnazione come aspettativa post mortem, mentre sembra essere in calo la fede nel Dio cristiano, fede che per due millenni ha segnato in modo indelebile la storia di questo nostro continente. Giusto per rendere concrete queste affermazioni, può bastare un semplice elemento: una persona su cinque «crede» nella reincarnazione, in alcune zone del continente la proporzione si riduce, diventando una persona su tre; e la tendenza sembra allo stato attuale non invertirsi. Tuttavia gli aspetti di gran lunga più sorprendenti sono altri: stando sempre allo studio citato, pare che le aree geografiche coinvolte in misura maggiore nel fenomeno siano quelle di tradizione cattolica e che la fascia di età, in cui si trova più adesione, sia quella dei giovani. Davanti a un’indagine sociologica vi è una sconfinata gamma di reazioni: toccando gli estremi, si può provare indifferenza o dispetto. Il dato oggettivo resta comunque e suscita un interrogativo di fondo che la nostra risposta emotiva non scalza: come mai molti cristiani (e tra questi, un discreto numero di cattolici) sono affascinati dalla reincarnazione, dalla certezza che la nostra anima può trasmigrare dal nostro corpo a un altro? Certamente non è nuova questa dottrina per l’umanità: è stata ed è tuttora uno dei cardini delle religioni orientali; gli antichi Greci, «padri» del pensiero razionale e della speculazione, l’accoglievano nella loro teorèsi (metempsicosi platonica). Ma come valutare nell’attuale epoca post-moderna, in una società occidentale secolarizzata, tale «riflusso» di favore alla reincarnazione? A nostro giudizio sarebbe davvero accomodante affermare che questo è un problema destinato agli specialisti, ossia da consegnare nelle mani dei sociologi, dei teologi o dei filosofi. Per chi non fosse ancora cosciente dell’incidenza, la reincarnazione tocca nel vivo uno dei punti nodali della fede cristiana, se non «il» punto nodale: la risurrezione dei morti. Mettendola in discussione, verrebbe coin­volto di riflesso anche il senso di quella Risurrezione, da cui dipende il senso ultimo della fede. San Paolo lo aveva ben presente: «Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. […] Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini» (1Cor 15,13-14.19). Senza la risurrezione di Cristo, è vana ogni nostra minima fatica di annuncio evangelico (leggasi pastorale) e risulta vuoto di significato credere in Gesù, perché la morte avrebbe chiuso la sua missione. Si badi: non si tratta di difendere strenuamente un dogma da una temuta minaccia. Va fatto invece un onesto sforzo (non escluso – ripetiamo – quello pastorale) per tentare di comprendere che cosa l’uomo moderno ricerca nella reincarnazione. Come afferma il domenicano p. Georges Cottier, «l’idea della reincarnazione deve essere presa sul serio. Il suo attuale successo non è l’effetto di una moda ideologica passeggera. Riflette l’angoscia del nostro tempo. E ciò avviene perché, al di là delle immagini e delle sistemazioni teoriche, questa idea risponde a qualche intuizione fondamentale che noi dobbiamo saper cogliere». Quale può essere questa «intuizione fondamentale»? Può apparire singolare, se non banale, ma il punto d’avvio di un fascino e del conseguente successo della reincarnazione parte dalla problematicità in cui si vive la propria attuale «incarnazione». Molte scelte che l’uomo dei nostri giorni com­pie lo entusiasmano con facilità. Tante altre però gli rendono insoddisfatta questa vita. Sono istantanee che appesantiscono il vivere quotidiano: relazioni sbagliate e deludenti, progetti falliti, rimorsi per azioni compiute in modo avventato che determi­nano il suo destino e quello altrui… Progressivamente inizia a diventare stretta questa singola esistenza. Se ci fosse una seconda possibilità, un’alternativa; se ci venisse data una seconda occasione per «riparare»! È diffi­cile rassegnarsi all’idea che esista solo questa vita per noi, che non si dia un ritorno e, soprattutto, che ogni nostra singola, quotidiana e personale azione det­tata dalla libertà sia determinante e inappellabile, nel bene e nel male. La rassegna­zione diviene poi somma quando si è messi di fronte allo «scacco fi­nale», ossia la morte, e ci si ritrova soli davanti all’estremo interrogativo: cosa c’è dopo? «Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?»: sarà la promessa della risurrezione o la ciclicità della reincarnazione? L’interrogativo paolino è l’interrogativo di ogni uomo e di ogni donna, a prescindere dal credo che si professa. La fede, la nostra fede, non può eluderlo, pensando magari che sia sufficiente ribadire i termini dottrinali della questione; è riduttiva la soluzione che preveda unicamente la rettifica di pensieri errati: a una domanda vitale gli uomini cercano una risposta altrettanto vitale, che abbia sapore di vita! Dove trovare allora tale risposta vitale, se non partendo da quel sepolcro vuoto? È nella strada aperta dalla risurrezione di Gesù che ogni uomo può far scorrere la propria esistenza, redenta, riscattata, liberata. Lì viene appagata e superata quella antica attesa di vedere non-morto ogni nostro sforzo; tutto – corpo, anima, cuore, intelligenza, spirito, sentimento – viene raccolto nella luce che trasforma la corrutibilità in incorrutibilità (cf. 1Cor 15,43-44). Lì quel Dio, che segue passo passo la storia dell’uomo, proclama estinto il debito con la morte! Interrogando profondamente l’uomo, la reincarnazione va valutata nella sua portata antropologica (Aldo Natale Terrin) e nella coniugazione di paradigmi fondanti quali persona-tempo-verità (Luigi Sartori). Nuovi movimenti (PierLuigi Zoccatelli) e antichi culti (Gaetano Favaro e Antonio Scarin) pongono la reincarnazione alla base della loro religiosità: quanto li unisce e li distingue? Uno sguardo retrospettivo sul rapporto intercorso tra reincarnazione, Sacra Scrittura e tradizione cristiana (Luigi Dal Lago) prosegue l’itinerario di questo numero. Cosa ci può dire la scienza ufficiale sulla fattibilità del processo reincarnazionista e quali sono le posizioni di alcuni recenti teologi sul nostro tema, sono i contributi di Aimone Gelardi e di Gio­vanni Ancona. Un confronto tra reincarnazione e risurrezione nel vissuto quotidiano (Giuseppe Toffanello) segna la chiusura di questa monografia.

a. f.

L’ATTUALITÀ DELLA REGOLA DI S. BENEDETTO – SAN BENEDETTO E L’EUROPA

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L’ATTUALITÀ DELLA REGOLA DI S. BENEDETTO – SAN BENEDETTO E L’EUROPA

Dalla storia passata alla storia futura, per una nuova Europa

Estratto dal libro « SAN BENEDETTO dal passato al futuro dell’Europa » di Reginald Gregoire O.S.B.

- Edito dall’Abbazia San Benedetto – Seregno

Un progetto, un ideale, una attesa, una utopia, una profezia: l’Europa sarà nuova in quanto accetterà il cristianesimo, cioè il riferimento al Dio incarnato, all’Eterno assoluto. Il momento attuale è propizio per stimolare gli Europei (o per lo meno tanti europei) a respingere l’apostasia e la non-cristianità del continente. Come si presenterebbe un’Europa senza cristianesimo nella presente fase evolutiva? Certo, l’Europa non vive di immagini di un passato solo accettato, ma essa sarà o no capace di scoprire nella drammatica immanenza del presente un ruolo specifico nella liberazione dell’uomo e nell’evoluzione del creato? O si dovrà giudicare tutto e preparare il futuro, escludendo questa Europa stanca e invecchiata, conservandone tuttavia i valori universali di civiltà e di fede che l’hanno sempre aiutata a ritrovare pace e vigore?

La soluzione di tali problemi è ardua; san Benedetto non li avrà probabilmente mai sognati, perché nel suo tempo, che è il V-VI secolo, il cristianesimo non si era compromesso con la situazione storica. E’ fuorviante asserire che il monachesimo sia nato e si sia sviluppato come atteggiamento di contestazione e di rifiuto nei confronti di una Chiesa « costantiniana » e « teodosiana ». Altre erano allora le responsabilità, altre sono le nostre; altre saranno quelle dei nostri successori.
L’Europa non è un mito conclusivo, un fine ideale o reale; ciò che invece e definitivo è una civiltà elaborata sul Vangelo, in cui la presenza cristiana nel concreto storico insisterà sui diritti dell’uomo e sulla giustizia (ciò significa anche corresponsabilità nello sviluppo planetario). Il monastero era una « piccola società ideale », nel senso dell’indipendenza di quella struttura comunitaria, in cui ogni persona era perfettamente integrata In quel senso, san Benedetto ha meritato davvero di essere guida e patrono dell’Europa nuova, senza mai aver sollecitato quella responsabilità e quel destino…
Oggi è in discussione il ruolo storico del cristianesimo nella civiltà europea, e non solo quello del monachesimo. Non è data per scontata l’esistenza di punti di riferimento culturali ancora validi attualmente, come lo furono verso l’XI secolo. In quell’epoca, l’Europa si trovò (e si sentì) cristiana, e un Papato energico riusciva a stringere rapporti tra tutte le Chiese occidentali, delle quali rispettò le peculiarità: strutturali. Le grandi università poi – la prima università « statale » è creata da Federico II a Napoli, nel 1224 – organizzano il sapere. Il sistema comunale democratico e libero riprende anche il modello delle assemblee monastiche; nasce una economia cristiana che respinge l’usura. In tutti i settori esistenziali, il cristianesimo è entrato; il volto dell’Europa non è più « latino » o occidentale, bensì cristiano. E lo sarà più tardi ancora, per esempio, quando sarà avvertita l’urgenza della questione sociale, nel secolo XIX.
Non si tratta di scegliere semplicemente tra paganesimo e cristianesimo, o tra Vangelo e Corano; ma l’unico dilemma è rintracciato nel bivio: Cristo o l’indifferenza. Si sceglierà pertanto l’universalismo, come l’Europa non è europeistica, ma universale. San Benedetto è anteriore a tutte le fratture ecclesiali, ecclesiologiche e dommatiche, culturali e politiche. La Regola non accenna a situazioni politiche e religiose, culturali e filosofiche. Ma il suo pensiero presenta un’etica cristiana e sviluppa un progetto di uomo sociale », non di « uomo-isola »; allora anche l’Europa nuova respingerà il nichilismo collettivista, che degrada l’uomo a mezzo e non rispetta la sua identità di fine.
Secondo la Regola, la società significa comunione e corresponsabilità, simultaneità della crescita personale e dello sviluppo comunitario. Gli « strumenti delle buone opere » (cap. 4) insegnano un massimo di libertà nel rispetto di tutti e di tutto; e questa personalizzazione è diametralmente opposta allo sfruttamento e alle disuguaglianze, perché crea comunicazione e integrazione, senza distinzione di razze, di culture, di ruoli, di appartenenza sociale ed economica. Benedetto aveva ideato nella Regola un progetto che è stato vissuto e applicato laddove è arrivato il suo monachesimo. Il modello di società cristiana è la comunità, l’essere insieme. Questo cristianesimo, che è una fede, non si è mai identificato con un cristianesimo-umanesimo, perché il Vangelo non trasmette una cultura, bensì una fede. Questa fede è personale, ma questa morale non insegna l’individualismo.
***
L’Europa nuova sarà un’Europa libera; la libertà non è un regalo, è un dovere e un diritto che non ammette condizionamenti ideologici. Con il Vangelo, san Benedetto vuole uomini liberi e semplici, accoglienti e disponibili. I suoi riferimenti dottrinali e teologici sono i Padri della Chiesa (cap. 73), cioè quegli scrittori che hanno accolto tutto il pensiero filosofico e scientifico accumulato dal tardo Impero e dalla civiltà greco-romana, e l’hanno incorporato nella interpretazione della Verità rivelata e incarnata, cioè del Dio manifestato nella Parola e comunicato nei sacramenti. L’orizzonte della storia è una pienezza; il prologo della Regola benedettina insiste nel proclamare la conclusione – la Risurrezione, il Regno – attraverso la Croce, cioè l’umiltà e l’obbedienza o, se si preferisce, la disponibilità e la gratuità. E’ il pensiero di san Paolo che riconosceva l’evoluzione universale verso una totalità, cioè verso il « pleroma » (Ef. 1). Infine, questa Europa nuova dimostrerà la capacità del pluralismo, che ammette la pluralità: non nel senso della convivenza o connivenza tra verità e errore, tra giustizia e ingiustizia, e altri contrasti analoghi, ma nella proclamazione di una unità di morale e di speranza, nel servizio e nella sussidiarietà. La quarantunesima Settimana sociale dei cattolici italiani, svoltasi a Roma dal 2 al 5 aprile 1991, ha realizzato un esame di una problematica importante nella presente fase storica: « I cattolici italiani e la nuova giovinezza dell’Europa ». In particolare si chiede di porre attenzione agli aspetti religiosi del « problema Europa », all’esigenza di un ricentramento evangelico; e si conclude: « Il nostro sforzo comune è orientato all’elaborazione di una nuova pedagogia di trasmissione della visione evangelica della vita, affinché questa penetri e fermenti, liberi e potenzi ogni esperienza umana ».

LA FESTA DELLE LUCI

dal sito:

http://www.foroexegesis.com.ar/Articulos_Varios/feste_delle_luci.htm

LA FESTA DELLE LUCI

Por Pia Compagnoni

Tomado de la revista de la Custodia Franciscana  de Tierra Santa: «Terra Santa» Nov.-Dic. 1985 

L‘Oriente è il paese della luce. In Terra Santa ci si augura ogni giorno la pace e la luce. Al saluto: “Ti auguro un giorno buono”, si risponde: “Ti auguro un giorno di luce”, sia in ebraico come in arabo. Anche Gesù salutava cosi.
C’è un verso nel “Rigveda” (III, 62,10), uno dei libri sacri dell’induismo, che è detto “gayatri” per il suo metro, ma viene chiamato “madre dei Veda” per l’importanza che riveste. Questo versetto è ripetuto tre volte al giorno —mattino, mezzogiorno e sera — dai fedeli, soprattutto mentre si lavano gli occhi con l’acqua del Gange a Benares o in qualche altra città sul fiume sacro.
Proprio per la sua preziosità la luce è diventata simbolo privilegiato e frequente delle realtà eterne e divine di tutte le religioni. P. Dumont fa osservare giustamente che tutte le religioni sono nate in Oriente.

“Luce, mia luce,
luce che riempi il mondo
luce che baci gli occhi
luce che addolcisci i cuori…
Le farfalle stendono le loro vele
sul mare della luce.
Il fiume del cielo ha straripato
e ha inondato il mondo di gioia”
(Tagore).

 A Gerusalemme il sole giunge molto presto al mattino ed è subito giorno. Quando il sole si leva dai monti di Moab, al di là del deserto di Giuda e, scavalcando il monte Oliveto si spande sulla Città Santa, in Estremo Oriente è già giorno da circa sei ore. La luce che visita dall’alto la città e il popolo di Dio all’inizio del nuovo giorno (Lc. 1, 78-79) parte dal paese e dai mari del Sol Levante, da un oceano che richiama alla memoria le acque del principio della creazione (Gen 1,1-2). Quando esso spunta sulla piccola Terra Santa è già alto sui paesi sconfinati e sulle grandi culture della Cina, del Sud-Est asiatico e dell’India. P. Francesco Rossi De Gasperis (del Pont. Ist. Biblico di Gerusalemme) mi faceva notare che “la creazione muove dall’Estremo Oriente verso Israele, mentre La salvezza viene dagli ebrei (Gv. 4,22) e il Vangelo parte da Gerusalemme per giungere fino alle estremità della terra (Lc 24,46-49; Atti 1,8). E’ il medesimo sole, quello della creazione e quello della salvezza storica e non bisogna separare mai quel che Dio ha unito e che in lui è uno” (cf. Mt. 19,6; Mc. 10,9).

Il tema della luce pervade tutta la rivelazione biblica, per cui tutti i libri biblici ne sono intrisi.
“Cammineranno i popoli alla tua luce,
i re allo splendore del tuo sorgere” (Is. 60,3).
“Ma io ti renderò luce delle nazioni,
perché porti la mia salvezza
fino all’estremità della terra” (Is. 49.6).

 Per questo motivo già la prima generazione cristiana ha acclamato Cristo “Sole che sorge dall’alto” e ha prefigurato la redenzione come vita nella luce.

“Dio è luce e in lui non ci sono tenebre” (I Gv. 1,5).

Gesù si è definito “luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv. 8, 12).
Da qui l’invito insistente di Paolo: “Comportatevi come figli della luce” (Ef. 5,8).

Il primo atto di Dio fu la separazione della luce dalle tenebre. “Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte” Gen. 1, 4-5). Al termine della storia della salvezza, la nuova creazione avrà Dio stesso per luce (Apoc. 21,23). Dalla luce fisica che si avvicenda quaggiù con l’ombra della notte, si passerà cosi alla luce senza tramonto che è Dio stesso (I Gv. 1,5).
Tra i simboli biblici, uno dei più can è il candelabro a sette bracci, fatto per ordine di Dio secondo il modello che Mosè aveva visto sul monte Sinai.
“Farai anche un candelabro d’oro puro. Il candelabro sarà lavorato a martello, il suo fusto e i suoi bracci; i suoi calici, i suoi bulbi e le sue corolle saranno tutti di un pezzo.
Sei bracci usciranno dai suoi lati: tre bracci del candelabro da un lato e tre bracci del candelabro dall’altro lato.
Vi saranno su di un braccio tre calici in forma di fiore di mandorlo, con bulbo e corolla e cosi anche sull’altro braccio tre calici in forma di fiore di mandorlo, con bulbo e corolla. Cosi sarà per i sei bracci che usciranno dal candelabro. Il fusto del candelabro avrà quattro calici in forma di fiore di mandorlo, con i loro bulbi e le loro corolle: un bulbo sotto i due bracci che si dipartono da esso e un bulbo sotto gli altri due bracci e un bulbo sotto i due altri bracci che si dipartono da esso; cosi per tutti i sei bracci che escono dal candelabro. I bulbi e i relativi bracci saranno tutti di un pezzo: il tutto sarà formato da una sola massa d’oro puro lavorato a mantello.
Farai le sue sette lampade: vi si collocheranno sopra in modo da illuminare lo spazio davanti a esso. I suoi smoccolatoi e i suoi portacenere saranno d’oro puro. Lo si farà con un talento di oro puro, esso e tutti i suoi accessori” (Es. 25, 3 1-39).
Lo studioso ebreo Alexandre Adler, in un articolo sul candelabro a sette bracci (in ebraico si chiama Menorah al singolare e Menoroth al plurale) si chiede perché è diventato un emblema. Egli dice che la risposta esatta scaturisce dal posto che la menorah occupava nel Tempio presso l’Arca, dunque presso la Torah. C’è un rapporto tra la Torah e il candelabro a sette bracci? Certo, poiché la menorah serve la Torah illuminandola. Essa è l’espressione dell’esistenza della Torah, la Legge che Dio ha dato al suo popolo. Infatti Dio ha ordinato che una lampada bruci presso il tabernacolo, sia per la Torah che per riflettere la sua luce verso Dio. La stessa Torah è la luce della umanità, come Dio è la luce dell’universo. La menorah stabilisce un flusso ininterrotto fra Dio e il popolo e con la sua presenza, la sua fiamma, il suo legame con Dio, è testimonianza della proclamazione di una legge divina.
Anche noi cattolici abbiamo una lampada sempre accesa davanti al tabernacolo in cui non c’è il rotolo della Torah (cioè i primi cinque libri della Bibbia), ma la Parola di Dio fatta carne, Gesù eucaristia.
Adler dice che il candelabro è una stilizzazione, un derivato dell’albero, ove le luci han preso il posto dei frutti. La forma dell’albero a sette rami risale a tempi antichissimi e si ritrova nelle religioni antiche di millenni, dal momento che, nei tempi più remoti, l’albero aveva un profondo significato religioso: esso incarnava la divinità. Arrivando nella Terra Promessa i patriarchi recarono con sé il mito dell’albero cosmico della vita. Albero imponente, i cui rami toccano il cielo e portano frutti che danno l’immortalità. Con l’andar del tempo l’albero pende la sua forma e il suo aspetto originale per diventare un ornamento: il candelabro a sette rami. Da qui viene il suo simbolismo. La menorah è dunque un’ emanazione dell’albero della vita, ma la sua forma, le sue funzioni, le sue fiamme, ne fanno l’albero della luce.
E’ un albero che conduce gli uomini verso la luce e la luce verso gli uomini. Per mezzo di questa luce, che scorre come un torrente verso il mondo, Dio è presente ovunque. La prima lampada della menorah è questa luce del Signore, la luce perpetua che doveva andare giorno e notte. La luce della menorah è un simbolo della presenza di Dio sulla terra, il che spiega il fatto che essa sia l’unico oggetto del Tempio che abbia trovato posto nella sinagoga, divenendo cosi un possente legame tra le due case di Dio.
Nelle sette lampade della menorah c’è il simbolo della creazione dell’universo in sette giorni. La luce centrale rappresenterebbe il sabato. I sette bracci sarebbero i sette cieli inondati dalla luce di Dio. La cifra sette ha un’importanza particolare, perché significa la perfezione. Sette sono anche gli occhi di Dio che scrutano il mondo (Zac. 4,10). Nell’Apocalisse, Giovanni vede l’Agnello come immolato, con sette coma e sette occhi, simbolo dei sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra (Apoc. 5,6). Le sette coma sono simbolo della potenza e i sette occhi della conoscenza che il Cristo possiede con pienezza.
Anche nell’icona della Sapienza divina, l’Angelo — lo Spirito Santo — poggia con le ali su un trono con sette colonne.
La menorah è anche simbolo astrale. Da una parte essa è fatta di una sola materia puma, l’oro, al pan del cielo che è anch’esso costituito di una sola sostanza: l’etere, la quintessenza. D’altra parte essa simbolicamente rappresenta il sistema planetario: il cielo, con il sol al centro e pianeti da ambo le parti (Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere e la Luna). I pianeti, come le lampade del candelabro ricevono la luce del sole, la luce celeste, che è eterna e che anche quella del Tempio. Cosi la Legge nel Tempio è eterna ed esisterà tanto a lungo quanto il sole, i pianeti e l’universo. I pianeti sono considerati, nella credenza popolare, come espressione della potenza creatrice e della volontà del Signore: essi indicano il destino dell’umanità, che è eterna come eterna è la collocazione dei pianeti nel cosmo.
Fino alla distruzione del Tempio (nel 70 d. Cr.) La riproduzione della menorah era inesistente, dal momento che i rabbini vietavano ogni menorah che fosse la riproduzione di quella del Tempio. Ci sono alcune riproduzioni del candelabro, tra cui quella del bassorilievo sull’Arco di Tito a Roma e porta la data dell’80 d. Cr. cioè dieci anni dopo la distruzione del Tempio. Nel Museo d’lsraele a Gerusalemme c’è una bellissima menorah (del 20-15 av. Cr.) scoperta recentemente. E’ la più antica. La sua forma più arcaica è a bracci più allungati e dà un’idea precisa di come fosse il candelabro a sette bracci, perché l’ignoto scultore avrà certamente visto l’originale nel Tempio.
La menorah è anche il candelabro della salvezza, così come si vede scolpita sulle tombe, a partire dall’epoca in cui si è diffusa fuori del Tempio, cioè dopo il 70.    Sono state scoperte molte tombe dei primi secoli con questo simbolo di salvezza. Ne ho vista una a Gerusalemme con scolpite accanto alcune invocazioni del salmo 119:

“La tua Parola è lampada ai miei passi,
luce sul mio sentiero,
la tua Parola è mia per sempre,
è il grido di gioia del mio cuore”

Oggi è molto diffuso il candelabro a nove bracci (in ebraico si chiama Hannukáh). La sua storia è più recente della menorah. nel 164 av. Cr. Giuda Maccabeo, riconquistata Gerusalemme, purificò il Tempio che era stato profanato per tre anni da Antioco Epifane dei Seleucidi e ordinò di ripetere la festa della Dedicazione (in ebraico si chiama Hannukáh) ogni anno, per otto giorni, con gioia e letizia (I Mac. 4,5 9).

Coincide sempre con il nostro Avvento.
All’epoca di Gesù la festa aveva acquistato un carattere popolare, civile e patriottico e fu chiamata la “festa delle luci” (Giuseppe Flavio in “Antichità Giudaiche” XII, 325, la chiama con questo nome). Non si pensò più tanto alla dedicazione del Tempio, quanto piuttosto al “miracolo della lampada”. Questo miracolo sarebbe consistito nel fatto che, al momento della vittoria degli Asmonei, non fu trovata nel Tempio profanato che una piccola ampolla di oli, ancora con il sigillo del Sommo Sacerdote. Questa sarebbe dovuta bastare per illuminare la menorah per un giorno e invece bastò miracolosamente per tutti gli otto giorni della festa. Ancora una volta, come al tempo di Neemìa Dio faceva rivivere Israele spento dalle avversità dei suoi nemici (2 Mac. 1,18-6).
Il candelabro a nove bracci, ricorda gli otto giorni di festa, più la piccola ampolla (8 più 1 = 9). Quasi sempre il braccio che ricorda l’ampolla è diverso dagli altri otto. Incominciando dalla era della vigilia, si accende una lampada delle otto, più quella che ricorda l’ampolla. Ogni sera se ne accende una in più, fino all’ottavo giorno, in cui ardono tutte. Gli ebrei si salutano con l’augurio “Gioisci e brilla per la festa delle luci” Anche Gesù salutava cosi.
Oggi ancora in Israele questa festa si celebra fra canti e danze ed è rallegrata da luminarie per le case e le strade. “Ti esalterò Signore perché mi hai liberato”, è il canto di questa festa e dice tutta La gioia del popolo (Salmo 30).
La hannukáh viene messa dentro la casa, nella parte destra della porta. Il rabbino Sefat Emet spiega che “il lume messo vicino alla porta suggerisce, a chi entra ed esce, che i giorni di Hannukáh sono apertura e inizio per la Redenzione che avverrà presto ai nostri giorni”.
In ogni casa è sempre la mamma che accende i lumi della lampada, come ogni venerdì sera è ancora lei che accende la candela del sabato. Subito dopo la recita della preghiera della sera mentre accende le fiammelle, prega cosi: “Lode a te, o Eterno nostro Dio, re dell’universo, che ci santificasti con i tuoi comandamenti e ci hai imposto di accendere la lampada della Hannukáh. Lode a te, o  Eterno nostro Dio, re dell’universo, che ci hai protetti, serbati in vita fino a questo giorno”.
L’espressione ebraica per “accendere il lume di Hannukáh” ha numericamente il valore di “una nuova luce”. Il rabbino Bené Issachar dice che questo ci deve insegnare che la luce di Hannukáh è la “nuova luce” che il Signore farà risplendere su Gerusalemme, presto, ai nostri giorni. Manca però una “alef” (= a, in ebraico) per insegnare che ci manca ancora la luce fino a quando non si rivelerà su Gerusalemme.

Il rabbino Pinhàs di Konitz diceva:
“Sappiate qual’è il significato del miracolo della luce di Hannukáh. In essa si è manifestata allora la Luce nascosta dal tempo della creazione. Ogni anno, quando si accende la hannukáh, si manifesta di nuovo la luce nascosta. E questa luce è il Messia”. Al momento dell’accensione dei lumi, egli apriva le finestre, affinché le luci risplendessero verso la strada, per rendere pubblico questo miracolo.
Issachar Baer indicò qualcosa fuori della finestra al suo amico, il rabbino di Mogielnica. “Vedi, rav di Mogielnica?” gli chiese. Finita la festa il rabbino danzò cantando sottovoce: “Mi ha mostrato una grande luce… ma chissà quanti anni dovranno passare ancora, quanto tempo dovremo attendere ancora, prima che il Messia venga da noi!” Questa pagina riferita da Martin Buber mi richiama la poesia che è un canto e una preghiera di Edmond Fleg:

“Che tu venga per la tua prima venuta
o che tu ritorni per la tua seconda venuta,
pur che tu venga presto…”

Nell’inverno dell’anno 29-30 Gesù è a Gerusalemme.

“Ricorreva in quei giorni a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era d’inverno. Gesù passeggiava nel Tempio, sotto il portico di Salomone” (Gv. 10, 22-23).
Poiché con la rinascita del Tempio, restaurato dai Maccabei, era rinato in un certo senso lo stesso Israele, portato a libertà politica e religiosa dai suoi nuovi capi, nelle sinagoghe si Leggevano anche in questa festa passi biblici riguardanti i “pastori” del popolo e il suo vero pastore, Dio. Testo ideale era il capitolo 34 di Ezechiele. Queste espressioni dovevano suscitare echi profondi in Gesù che si era già definito il “Buon Pastore” (Gv. 10,1-18).
Alla domanda diretta dei Giudei: “Fino a quando terrai l’animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dilo a noi apertamente” (Gv. 10,24), Gesù rispose: “Ve l’ho detto e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi dànno testimonianza; ma voi non credete, perché non siete mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io dò loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. Io è il Padre siamo una cosa sola” (Gv. 10, 25-30).
I Giudei portarono di nuovo delle pietre per lapidarlo (Gv. 10,31). Gesù continuò a dire: “Non è forse scritto nella vostra Legge: Io ho detto: voi siete dèi? Ora, se essa ha chiamato dèi coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio (e la Scrittura non può essere annullata), a colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo, voi dite: Tu bestemmi, perché ho detto: Sono Figlio di Dio? Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre” (Gv. 10, 34-3 8).
I suoi nemici cercavano di prenderlo di nuovo, ma Gesù sfuggi dalle loro mani.
Il luogo di incontro non sarà più il Tempio riconsacrato a Dio, ma egli stesso, il Figlio “che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo” (Cv. 10, 36).

Pia Compagnoni

NOTA:

Torah:  dalla radice jarah (“mostrare, insegnare”), significa letteralmente “dottrina, insegnamento”, benché siamo soliti tradurlo con “Legge”. La Torah si riferisce al complesso della rivelazione mosaica: sono Torah le dieci parole del Sinai come l’insieme della legislazione veterotestamentaria, che viene fatta risalire tutta quanta a Mosè. Di conseguenza, lo sono pure i primi cinque libri della Bibbia (Pentateuco): La Torah si chiude solamente con la morte di Mosè, narrata nell’ultimo capitolo del Deuteronomio. Perciò non si tratta solamente di “legge” ma anche di “storia”: quella che va dalle origini fino all’ingresso nella Terra Promessa. Nella Torah è inclusa l’esperienza storica fondamentale di Israele. Al tempo stesso l’“insegnamento” della Torah continua lungo tutta la storia successiva: accanto alla Torah scritta cresce sempre più nel giudaismo rabbinico l’importanza della Torah orale (La Tradizione). Anche quest’ultima vien fatta risalire all’esperienza originaria di Mosè sul monte Sinai, attraverso la mediazione storica degli Anziani, dei Profeti e dei Sapienti.

Publié dans:STUDI RELIGIOSI |on 25 octobre, 2011 |Pas de commentaires »

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