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PER UNA LETTERATURA D’ISPIRAZIONE CRISTIANA

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PER UNA LETTERATURA D’ISPIRAZIONE CRISTIANA

Ferdinando Castelli

Per impostare bene l’argomento – per una letteratura d’ispirazione cristiana – prendiamo le mosse da tre moderni autori classici. Nel dramma Spettri di Henrik Ibsen il giovane Osvaldo è minato da un male oscuro che lo porta al delirio e al desiderio della morte. Deve scontare i vizi del padre e le menzogne della madre. Il male lo coglie in maniera violenta al sorgere del sole. Immobile, le spalle contro la luce, la voce sorda e atona, invoca: «Il sole… il sole…». E si immerge in un torpore di morte. In Lazzaro Luigi Pirandello mette in scena la piccola Lia, incapace di reggersi sulle gambe. Condannata all’immobilità? Per tutta la vita terrena, sì. Ma nell’aldilà avrà le ali e potrà volare. Quando si viene a sapere che l’aldilà non esiste, la bambina precipita in una sorda disperazione. «Le mie alucce! Le alucce d’angeletta… Dovevo averle in cambio dei piedi che mi sono mancati per camminare sulla terra… Addio voli lassù!…». Senza la speranza dell’aldilà (che per Pirandello è illusione) non si può vivere. Lucio, fratello di Lia, per ridare alla sorellina la speranza (l’illusione) dell’aldilà, riveste la tonaca di prete, che aveva abbandonato, e si immola, come Cristo che è morto per darci la speranza (l’illusione) dell’aldilà. In un racconto Franz Kafka così fa dire a un personaggio: «Per fortuna scorsi un agente nelle vicinanze. Corsi da Lui e, col fiato in gola, gli domandai la strada. Mi disse sorridendo: – È da me che vuoi sapere la strada? – Sì – gli dissi – perchè da solo non la posso trovare. – Rinuncia, rinuncia, – disse voltandosi d’un tratto, come quelli che vogliono ridere da soli». I tre episodi ci fanno comprendere il significato di fondo della letteratura. Non è un gioco, un divertimento o un’evasione; è un’interrogazione sull’uomo: sul suo destino, sul suo confrontarsi con la vita e con la morte, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla coscienza, su Dio e sulla storia: Reagendo ad una concezione prettamente formale della letteratura, il nostro tempo ne sottolinea il suo valore di rivelazione e di profezia. La letteratura «è una strada, e forse la strada più completa per la conoscenza di noi stessi, per la vita della nostra coscienza», afferma Carlo Bo (Letteratura come vita, Milano Rizzoli, 1994); «È un’esplorazione dell’abisso: quello dell’autore e anche il nostro» incalza p. André Blanchet (La littérature et le spirituel, Paris, Aubier, 11). La scrittrice statunitense Flannery O’Connor sostiene che «compito della narrativa è incarnare il mistero attraverso le maniere (i generi letterari, lo stile), il mistero della nostra posizione terrena e le maniere che sono quelle convenzioni che, nelle mani dell’artista, rivelano quel mistero» (Nel territorio del diavolo, Milano, Theoria, 1993, 85). Con la magia della parola, delle immagini e dei simboli, facendo leva sulle potenze dell’anima, soprattutto del sentimento e dell’immaginazione, la letteratura fissa lo sguardo sull’uomo nel tentativo di comprenderne la struttura, i fremiti, le nostalgie, le esigenze, la storia. Insomma il mistero. Quali sono le sue esigenze più avvertite? Negli Spettri Ibsen risponde: il sole (la verità, la luce, la vita); in Lazzaro Pirandello indica la speranza nell’aldilà (nel quale si realizzino i nostri desideri fondamentali); Kafka parla di strada (dove andiamo? Quale direzione dobbiamo prendere?). Ma il sole, invocato da Osvaldo, si spegne nella sua follia; la speranza della piccola Lia è soltanto illusione; la strada che cerca Kafka o non esiste o è introvabile. La lettera mette a nudo gli abissi che abitano l’uomo, ma quasi mai getta in essi una luce che ne rileva il senso. Descrive, mostra, analizza, non spiega. Come potrebbe, dal momento che «solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo?» (Gaudium et Spes, n.22). A questo punto si presenta il problema di una letteratura d’ispirazione cristiana. Impostiamolo chiaramente. Ambito della letteratura non è certamente il dogma o la fede, ma la vita nella sua espressione più vasta; la vita, cioè, con le sue ambiguità, miserie, oscurità, conquiste, capacità, esperienze. Ora lo scrittore non è una macchina che scrive, è una persona che ritrae il dramma dell’esistenza. Da lui si richiede onestà e fedeltà nel ritrarre questo dramma , non che cessi di essere una persona che pensa con la sua testa. Non deve alterare o violentare la realtà, ma può interpretarla, giudicarla. Se è cristiano, la sua fede e la morale evangelica gli offriranno gli archetipi per interpretare e giudicare, quanto possibile, il dramma umano. «Uno scrittore che faccia professione di cattolicesimo – scriveva Giovanni Cristini – a me pare il più qualificato ad affrontare l’inferno dell’esistenza e l’inferno della scrittura. E proprio per il fatto che egli sa che la vita è altrove è meglio attrezzato a cogliere con lacerante partecipazione il dramma del limite, della finitudine, della precarietà, insomma il dramma del male metafisico (la creaturalità dell’essere) e del peccato originale, in cui si radicano tutti i modi e le forme possibili dell’esistenza e della coscienza; modi e forme che lo scrittore ripercorre nel suo fervido immaginario, alla caccia di quella conoscenza del bene e del male che è la conoscenza stessa dell’uomo e del suo destino»(Il ragguaglio librario, 1992, 7/8). Per inoltrarsi nel mistero dell’uomo e sforzarsi di comprenderlo, Julien Green, scrittore dichiaratamente cattolico, si fa guidare dalla verità contenuta nella seguente espressione: tout ce qui est vrai est ailleurs. Pertanto egli rifiuta la verité de roman (la piatta realtà che inganna e seduce), la verité conventionelle (che elude i veri problemi e aliena la mente) e opta per la réalité de vision che può essere raggiunta soltanto dallo «sguardo di uno che sa»: sa che la storia è governata da Dio-Amore, sa anche dell’esistenza di una realtà misteriosa, nascosta nel nostro io profondo, generata dalla notte, sa che l’uomo è il campo di battaglia di due forze nemiche che si disputano la sua anima; sa che nel regno del male c’è schiavitù e disperazione; sa che il peccato è come una diga che si squarcia e devasta; sa che «il paese d’altrove ossessionerà sempre l’umanità»; sa che Dio, per entrare nel nostro cuore, lo spezza, sa che il «cristiano ha bisogno di Dio come il pesce ha bisogno dell’acqua». Tante altre cose sa, rivelategli dallo Spirito che abita in lui. Grazie a questa ricchezza di conoscenze, lo scrittore è in grado di proiettare sulla realtà che descrive una luce penetrante che giustifica il mistero dell’uomo. Si pensi alle opere di Dostoevskij, Léon Bloy, Charles Péguy, Graham Greene, Flannery O’Connor, Georges Bernanos, Paul Claudel, Mario Pomilio, Julien Green. Per costoro non esistono due mondi, il naturale e il soprannaturale investe tutta la realtà, la spiega anche, quando possibile. Riescono anche a presentare il mistero attraverso il sociale, la Grazia attraverso la natura, la Presenza attraverso le brutture. Qualche semplificazione? La protagonista del Lino della Veronica di Gertrud von Le Fort vive arroccata nell’odio e nel rifiuto di tutto. Lo squallore della sua vita è impressionante. Come è successo? La cattolica von Le Fort risponde, ma sottovoce, mentre accompagna il suo lettore per le bolge dell’inferno che gli mostra: quando si rifiuta Dio e al suo posto si mettono le creature, ci si condanna all’inferno. In Groviglio di vipere François Mauriac descrive l’inferno che è la vita di un vecchio avvocato. Perché, un inferno? Perché nulla -onori, ricchezza, piaceri – lo soddisfa? Il vecchio non lo sa, e si dispera; il cattolico Mauriac lo sa: perché l’uomo è creato per l’amore (soprattutto per l’Amore) senza cui la vita è squallore. Questa verità Mauriac non l’afferma, la fa scaturire dalla presentazione di un uomo che ha tutto ma non l’amore (l’Amore). Di una letteratura d’ispirazione cristiana oggi c’è un grande bisogno. Nella Lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente il Santo Padre parla di «strade sbagliate» sulle quali l’uomo «tende ad inoltrarsi sempre più». E aggiunge: «Satana lo ha ingannato persuadendolo di essere egli stesso dio e di poter conoscere, come Dio, il bene e il male»(n.7). Su queste strade i valori cristiani sono scomparsi. Crediamo che la magia dell’arte possa scuotere quest’uomo. Quando poi tale magia è ammantata di luce cristiana può succedere che le «strade sbagliate» si trasformino in «strade di salvezza». È un traguardo esaltante e urgente. Perché si abbia una letteratura d’ispirazione cristiana sono necessari quattro elementi: che lo scrittore conosca bene il suo mestiere: comunicare emozioni, raggiungere profondità dell’anima e farne sentire i fremiti; che viva la sua fede dal di dentro, come parte del suo essere; che si cali nella storia di oggi, e la descriva così com’è, senza però dimenticare la dimensione religiosa dell’uomo; che abbia l’arte e il coraggio della provocazione. «La provocazione cristiana – affermava Mario Pomilio in un convegno su « La provocazione cristiana e lo scrittore » (1975) – è nel portare la letteratura sulla spirale verticale, come espressioni di valori, di inquietudini, d’interrogazioni esistenziali, in una ricerca autentica di finalità: cioè di affermazione di principi e di proposte sul destino dell’uomo, sotto il segno della speranza e della rinata fiducia nella Parola, in un mondo dilacerato da opposti dogmatismi avvilenti e disperanti». Alla vigilia del Giubileo questo dell’umile e grande Pomilio è un testo che gli scrittori d’ispirazione cristiana devono accogliere con intelligenza d’amore. Con la magia della parola, delle immagini e dei simboli, facendo leva sulle potenze dell’anima, soprattutto del sentimento e dell’immaginazione

Publié dans:LETTERATURA, LETTERATURA E FEDE |on 21 avril, 2016 |Pas de commentaires »

LEGGERE SECONDO IL METODO DI SAN PAOLO – IL RAPPORTO CON LA PAROLA POETICA…

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LEGGERE SECONDO IL METODO DI SAN PAOLO

IL RAPPORTO CON LA PAROLA POETICA IN UN “CRITICO LETTERARIO” ATIPICO

16 FEBBRAIO 2009

ROMA, lunedì, 16 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo a firma di padre di Antonio Spadaro, SJ, Redattore letterario de “La Civiltà Cattolica” e docente di “Introduzione all’esperienza della letteratura” presso la Pontificia Università Gregoriana, apparso sull’ottavo numero della rivista « Paulus » (febbraio 2009), dedicato al tema della bellezza.
* * *

di Antonio Spadaro SJ

Il lettore di un testo letterario non è mai semplicemente il destinatario di un messaggio, quello cioè dello scrittore. Al contrario, è una persona attivamente coinvolta a inoltrarsi in un terreno poco stabile e definito, perché la letteratura, come giustamente ebbe a dire Carlo Bo, tende ad avere la stessa qualità della vita. Leggere non significa innanzitutto “interiorizzare” un testo, quanto piuttosto “interagire” con la pagina. L’atto della lettura è allora come un atto di “discernimento”, nel quale il lettore è implicato in prima persona come soggetto di lettura e, nello stesso tempo, oggetto di ciò che legge. Il lettore, leggendo un romanzo o un’opera poetica, in realtà vive l’esperienza di “essere letto” dalle parole che legge. Così il lettore è simile a un giocatore sul campo: egli fa il gioco, ma nello stesso tempo il gioco si fa attraverso di lui, nel senso che egli è totalmente preso dalla situazione che vive. È questa anche l’esperienza cristiana della letteratura che, a mio avviso, deve sempre avere come modello di riferimento la lettura della parola di Dio. Per i cristiani, tutte le parole umane vivono un’intrinseca nostalgia di Dio e tendono alla sua Parola. Lo ha scritto anni fa Karl Rahner: «La parola poetica invoca la parola di Dio».
Seguendo questo ragionamento, san Paolo diventa una guida praticamente imprescindibile. Basta ricordare gli Atti degli Apostoli, lì dove si parla della presenza di Paolo all’Areopago (At 17,16-34). In particolare Paolo, parlando di Dio, afferma: «In lui, infatti, viviamo, ci muoviamo ed esistiamo», come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: «Poiché di lui stirpe noi siamo». In questo versetto sono presenti due citazioni: una indiretta nella prima parte, dove cita il poeta Epimenide (sec. VI a.C.), che riecheggia la triade platonica di vita-movimento-essere; e una diretta, dove cita i Fenomeni del poeta Arato di Soli (sec. III a.C.), che canta le costellazioni e i segni del buono e cattivo tempo.
Paolo, insomma, qui si rivela radicalmente “lettore” di poesia e lascia intuire il suo modo si accostarsi al testo letterario. Egli viene definito dagli ateniesi spermológos, cioè «cornacchia, chiacchierone, ciarlatano»… un vocabolo che però, alla lettera, significa «raccoglitore di semi». Quella che era certamente un’ingiuria sembra, paradossalmente, una verità profonda. Paolo, interagendo con quella manciata di versi letti chissà dove e chissà come, raccoglie i semi della poesia pagana e, uscendo da un precedente atteggiamento di profonda indignazione (At 17,16), giunge a riconoscere gli ateniesi come «religiosissimi» e vede in quelle pagine una vera e propria preparatio evangelica.
Si potrebbe dire allora che la parola veramente poetica partecipa analogicamente della parola di Dio, così come ce la presenta in maniera dirompente la Lettera agli Ebrei (4,12-13), probabilmente di un collaboratore di Paolo. Così dunque la parola poetica autentica «è vivente [zón: è viva, brulicante; è – come affermò lo scrittore statunitense H. D. Thoreau – così vera e forte da schiudersi come gemma a primavera] ed energica [energhés: non è “atto”, ma “potenza”, energia] e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; penetrante fino a dividere anima e spirito, articolazioni [cioè la spina dorsale] e midollo; capace di discernere [kriticós: la parola poetica è il vero “critico”! Se la parola è poetica essa stessa ha una funzione critica nei confronti della mia vita] sentimenti e pensieri. Non c’è creatura invisibile [aphanés: la parola poetica vede il mondo, vede tutto, non oscura, ma illumina anche il dettaglio più apparentemente trascurabile; il suo sguardo è aperto] davanti ad essa, ma tutto è nudo e vulnerabile ai suoi occhi». È tutta qui la capacità di penetrazione di un testo che muove la persona a un coinvolgimento pieno.
Come, allora, non avvertire in sintonia con la parola creativa della poesia la parafrasi di Baldovino di Canterbury (sec. XII): «Quando parla questa parola, le sue parole trapassano il cuore, come gli acuti dardi scagliati da un eroe. Entrano in profondità come chiodi battuti con forza e penetrano tanto dentro, da raggiungere le intimità segrete dell’anima». Del resto, Kafka, in una sua lettera all’amico Oscar Pollak, aveva scritto: «Se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia con un pugno in testa, perché mai lo leggiamo? [...] un libro dev’essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi.

È DIO RESPONSABILE DEL MALE? – DI G. RACINE,

http://camcris.altervista.org/diomale.html

È DIO RESPONSABILE DEL MALE?

DI G. RACINE, DAL SITO DIO PARLA OGGI

Questa è una domanda solenne e merita una risposta.
Qual è l’essere umano che, durante la sua vita non sia stato almeno una volta, preoccupato da questo problema? Ecco, sono molti quelli che, nella loro follia e cecità, hanno risposto affermativamente. Cosa tragica, da quando l’uomo è in rivolta contro Dio, egli non ha mai cessato di accusare il suo Creatore.
Trovatemi, amici, un crimine, un’ignominia, un’ingiustizia, una guerra, un cataclisma di cui Dio non sia accusato di essere l’autore!
Nei tempi di prosperità, non si crede in Lui, non ci si cura di Lui, ma ci si beffa piuttosto. Coloro che credono ancora in un Essere supremo non pensano affatto a ricercarlo. La fede dei più è quasi spenta e se non se ne sono ancora completamente sbarazzati, nondimeno Dio è pressochè dimenticato.
Poichè gli sono state costruite delle cattedrali, dei templi, delle cappelle, si pensa di essere più ospitali dell’oste di Betlemme, il quale chiuse la sua porta a quel Dio che il mondo aspettava da tanto tempo.
Oggi, Egli, non è più sulle nostre strade! Credendo di poter trovare l’Iddio-Spirito negli edifici di pietra, folle di uomini e di donne pensano di adempiere il loro dovere verso di Lui, visitandolo quando ciò fa loro comodo… una volta l’anno o alla settimana, seguendo le loro abitudini o le disposizioni di un temperamento più o meno religioso… Però, praticamente, malgrado queste forme esteriori, Dio è dimenticato e non ha che un piccolo posto nel solo tempio che Egli desidera abitare e vuol occupare continuamente nel nostro cuore.
Ma nel sopraggiungere della malattia, del lutto o di un rovescio di fortuna, ecco che coloro i quali non avevano mai sentito il bisogno di ringraziarLo per i benefici che continuamente riceviamo da Lui Lo prendono di mira, e mormorano amaramente contro quel Dio che non ha ritenuto di risparmiarli sempre.
Sorgono le difficoltà materiali e la folla di coloro che non hanno mai reso grazie per un solo dei loro pasti, si leva per maledire quel Dio e bestemmiarlo, accusandolo di impotenza e di cattiveria per non aver assicurato il pane quotidiano.
Che una siccità o un uragano annienti o comprometta i raccolti ed ecco tutti quelli che non hanno mai benedetto Dio per la pioggia e per le fertili stagioni accusare senza vergogna il Signore degli elementi, di voler la loro miseria e di compiacersi nel vederli nell’afflizione…
Che una guerra infine si scateni e voi vedrete la moltitudine che non ha mai lodato Dio per gli anni di pace, levare il pugno contro il cielo, rendendo Dio responsabile di tutte le atrocità che gli uomini commettono contro i loro fratelli.
Mescolando il dubbio alle loro accuse, essi esclamano: « Se Dio esiste, perchè permette tali cose? ». Troppo orgogliosi e troppo negligenti per riconoscere le conseguenze dei propri falli, gli uomini preferiscono lavarsi le mani nell’innocenza e rendere responsabile l’Autore della loro vita. Se essi lo conoscessero, se essi lo interrogassero, invece di parlare senza comprendere le meraviglie che li superano e che essi non conoscono, metterebbero la mano sulla bocca e si pentirebbero nella polvere e nella cenere.
Se volessero ascoltare, anzichè discutere, riceverebbero le risposte dell’Onnipotente e, lungi dal maledire, lo glorificherebbero. Imparerebbero così, nel libro in cui Dio parla, che il Creatore non ha fatto l’uomo per l’infelicità e l’insuccesso, ma per la felicità e la gloria. Confusi, riconoscerebbero che la libertà che Dio aveva loro data creandoli a Sua immagine, l’impiegarono per separarsi da Lui e per opporsi alla Sua Volontà Sovrana, privandosi così della gloria di Dio.
Alla luce delle Sacre Scritture e degli avvenimenti, confesserebbero che sul cammino della scienza, nel quale si sono impegnati, camminano verso la rovina e la morte, incapaci di impiegare la loro conoscenza per fare il bene, disposti a servirsene per fare il male, seminando così la desolazione e la distruzione sulle loro vie. E siccome si sono volontariamente privati della sorgente della vita, si venderebbero perduti per la loro propria colpa.
Allora, Dio potrebbe rivelare loro il fatto più sconvolgente che esista: L’Iddio Santo, l’Iddio Giusto, l’offeso non ha voluto imputare agli uomini i loro falli. Colui che non deve nulla ad alcuno, ma al quale tutte le creature devono tutto, ha accettato, nel suo amore, di prendere su di Sè la responsabilità del peccato. Egli, l’Essere senza macchia, ha voluto salvare così l’umanità colpevole…
Lungi dal lasciare la sua creatura separata da Lui e portare da solo il peso del proprio peccato, in un atto di amore più grande di quello della creazione, Dio ha compiuto la redenzione dell’uomo.
Mistero insondabile dell’amore divino! Incarnandosi in Gesù Cristo, Dio stesso discese fra gli uomini, si caricò di tutte le loro sofferenze, prese su di sè tutti i delitti di cui lo si accusava, tutte le iniquità che gli uomini commettono e li espiò sulla croce del Golgota, sotto gli occhi dei veri colpevoli. Così Dio non ritiene l’uomo responsabile del suo peccato, ma bensì del rifiuto della sua grazia, della ripulsa del Suo amore, rivelato in questa grande salvezza che Egli ha compiuto per la sua creatura, mediante il sacrificio della croce. In tal modo Dio è giustificato di tutte le accuse che le sue creature osano lanciare contro di Lui.
Amico, io ti supplico di non parlare alla leggera contro quel Dio, che non solo ti ha dato tutto ma ha dato se stesso per salvarti dalla morte eterna. Evita, ti prego, le facili ma vane conclusioni dell’incredulità e cerca nella Bibbia la risposta al tuo problema.
Non ascoltare coloro che sprezzano le Sacre Scritture con la pretesa di conoscerle, quando invece ben sovente non le hanno mai lette. Non lasciarti convincere da coloro i quali, avendole lette, ti dicono di non averle mai comprese. Ricordati che questo Libro rimane chiuso allo spirito profano ed ai cuori orgogliosi.
Non imitare, sopratutto, coloro che, leggendo la Bibbia, vi scoprono delle verità, ma non vogliono sottomettervisi, preferendo crearsi una propria filosofia che non offre nulla agli altri che illude loro stessi.
Leggi con uno spirito di preghiera, di perseveranza e di fede.
Ciò che ieri faceva ribellare perchè non lo capivi, oggi sarà per te motivo di adorazione e di lode. 

Publié dans:LETTERATURA, MEDITAZIONI |on 28 mai, 2015 |Pas de commentaires »

KIERKEGAARD E SAN PAOLO: DUE GRANDI A CONFRONTO

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KIERKEGAARD E SAN PAOLO: DUE GRANDI A CONFRONTO

20 marzo 2014

Felice Diego Licopoli

L’”età dell’ansia”, così come viene denominato il periodo precedente le due guerre mondiali, contraddistingue un crocevia storico dominato dall’angoscia, dalla paura su un futuro apocalittico che incombe sulla popolazione mondiale come una spada di Damocle, che nel pensiero collettivo si traduce nella “grande mietitrice” pronta a devastare l’umanità, gettandola così in un abisso senza fine, in una notte eterna.

In questo tremendo caos, l’unico epicentro comune, l’unico barlume di salvezza diviene Dio, la speranza universale di un mondo senza più guerre, senza più conflitti, senza più esplosioni atomiche. Il ruolo centrale di Dio, così come quello del Kristos, ovvero il Messia, viene ripreso concettualmente nella corrente filosofica dell’Esistenzialismo, in cui spiccano come figure dominanti due grandi menti, lontane nel tempo tuttavia vicine nel pensiero: San Paolo e Kierkegaard.Proprio su quest’ argomento si è tenuto un interessantissimo dibattito nel nuovo appuntamento con la cultura, alla libreria “Cultura” Di Reggio Calabria. Come sempre, dopo l’elegante presentazione del presidente del CIS Rosita Lorelay Borruto, sono intervenuti nel dibattito, presentati e coordinati da Gianfranco Cordì, Rosaria Catanoso, Marco Comandè, Franco Iaria ed Emilia Serranò “ L’età dell’ansia può essere vista in diversi modi” ha così cominciato Cordì: “. Braz, ad esempio, afferma che tutto ciò che si riverberava nella storia, durante quel periodo, nella fattispecie quest’ansia che era insita nelle società,assumeva anche un significato letterario,. Per quanto riguarda Kierkegaard, egli è senza dubbio autore dell’angoscia, e fa di essa la condizione degna dell’uomo affinché possa stare al mondo. San Paolo invece è il primo autore della storia dell’occidente a parlarci di ansia” E’ poi intervenuta Catanoso, la quale ha asserito:”San Paolo e Kierkegaard rappresentano senza dubbio due figure molto diverse, sia dal punto di vista temporale che filosofico. Abbiamo da un lato il filosofo dell’Ottocento, che controbatte all’Idealismo, in contrapposizione all’apostolo, che ha avuto l’onere di portare l’Annuncio in giro per il mondo.
Sono entrambi pensatori che si interrogano sull’individuo e sul male che affligge l’uomo. Secondo San Paolo, l’animo umano è scisso da due leggi in contrapposizione l’una con l’altra.
Per Comandè:”L’età dell’ansia fa venire in mente l’età dell’uomo, espressa nel famoso enigma della Sfinge; in codesto caso, l’ansia stessa corrisponde alla vecchiaia a cui l’uomo è costretto a far fronte.
Kierkegaard potrebbe costituire un tramite tra mondo antico e moderno, in quanto egli si pone il problema della libertà. L’età dell’ansia cammina di pari passo con l’età del dubbio, se non si supera l’una di conseguenza non può essere superata l’altra.” Successivamente ha preso la parola Iaria, il quale ha sostenuto che “L’angoscia non è una categoria astratta, bensì fa parte del vissuto di ognuno di noi. Kierkegaard fa parte secondo me, della filosofia dell’Irrazionale. Noi quando parliamo dell’età dell’ansia, identifichiamo in genere il Novecento. Secondo me invece, questo periodo è da retrodatare all’Ottocento, epoca in cui si sono generati i due poli da cui poi è nata l’angoscia, ovvero il progresso e la decadenza. Nell’Ottocento, abbiamo inoltre le grandi fratture rivoluzionarie con lo stesso Kierkegaard, il quale contesta il cristianesimo storico, e si impegna invece per la definizione del singolo, che diventa cristiano dopo duemila anni.”
Per a Serranò: “Il tema è molto complesso. Il problema che mi sono personalmente posta come età dell’ansia, è la condizione individuale degli autori nei confronti non solo della religione, ma della scelta della fede. L’ansia è una sorta di cambiamento interiore, una rivoluzione del proprio modo di essere e di pensare, che non è di certo un passaggio semplice da compiere. L’attinenza con Kierkegaard, sta nella complessità del percorso esistenziale, avvenuta in ambo i personaggi. Kierkegaard pone l’aut-aut, espresso negli stati dell’esistenza. Kierkegaard fonda la sua filosofia sul singolo, che non appartiene a nessuna categoria; egli ha costruito al filosofia della totalità, partendo dall’Assoluto dove tutto si dissolve”. La stessa Borruto ha successivamente sostenuto: “In quel periodo abbiamo la corrente del Positivismo, dove cadono tutti i grandi riferimenti, eccetto il concetto di Dio, che rimane un punto cardine della filosofia.” Cordì, che asserisce il significato etimologico della parola “filosofia” come “amici della sapienza”; significato eccellentemente appropriato per definire questa straordinaria disciplina, in grado di aprire la mente umana al concetto stesso di esistenza, che è molto facile da riscontrare anche all’interno della nostra società.

SOGNO DI NATALE – DI LUIGI PIRANDELLO

http://www.ilnatale.org/leggende/sogno-di-natale.htm

SOGNO DI NATALE – DI LUIGI PIRANDELLO

Sentivo da un pezzo sul capo inchinato tra le braccia come l’impressione d’una mano lieve, in atto tra di carezza e di protezione. Ma l’anima mia era lontana, errante pei luoghi veduti fin dalla fanciullezza, dei quali mi spirava ancor dentro il sentimento, non tanto però che bastasse al bisogno che provavo di rivivere, fors’anche per un minuto, la vita come immaginavo si dovesse in quel punto svolgere in essi.
Era festa dovunque: in ogni chiesa, in ogni casa: intorno al ceppo, lassù; innanzi a un Presepe, laggiù; noti volti tra ignoti riuniti in lieta cena; eran canti sacri, suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori… E le vie delle città grandi e piccole, dei villaggi, dei borghi alpestri o marini, eran deserte nella rigida notte. E mi pareva di andar frettoloso per quelle vie, da questa casa a quella, per godere della raccolta festa degli altri; mi trattenevo un poco in ognuna, poi auguravo:
- Buon Natale – e sparivo…
Ero già entrato così, inavvertitamente, nel sonno e sognavo. E nel sogno, per quelle vie deserte, mi parve a un tratto d’incontrar Gesù errante in quella stessa notte, in cui il mondo per uso festeggia ancora il suo natale. Egli andava quasi furtivo, pallido, raccolto in sé, con una mano chiusa sul mento e gli occhi profondi e chiari intenti nel vuoto: pareva pieno d’un cordoglio intenso, in preda a una tristezza infinita.
Mi misi per la stessa via; ma a poco a poco l’immagine di lui m’attrasse così, da assorbirmi in sé; e allora mi parve di far con lui una persona sola. A un certo punto però ebbi sgomento della leggerezza con cui erravo per quelle vie, quasi sorvolando, e istintivamente m’arrestai. Subito allora Gesù si sdoppiò da me, e proseguì da solo anche più leggero di prima, quasi una piuma spinta da un soffio; ed io, rimasto per terra come una macchia nera, divenni la sua ombra e lo seguii.
Sparirono a un tratto le vie della città: Gesù, come un fantasma bianco splendente d’una luce interiore, sorvolava su un’alta siepe di rovi, che s’allungava dritta infinitamente, in mezzo a una nera, sterminata pianura. E dietro, su la siepe, egli si portava agevolmente me disteso per lungo quant’egli era alto, via via tra le spine che mi trapungevano tutto, pur senza darmi uno strappo.
Dall’irta siepe saltai alla fine per poco su la morbida sabbia d’una stretta spiaggia: innanzi era il mare; e, su le nere acque palpitanti, una via luminosa, che correva restringendosi fino a un punto nell’immenso arco dell’orizzonte. Si mise Gesù per quella via tracciata dal riflesso lunare, e io dietro a lui, come un barchetto nero tra i guizzi di luce su le acque gelide.
A un tratto, la luce interiore di Gesù si spense: traversavamo di nuovo le vie deserte d’una grande città. Egli adesso a quando a quando sostava a origliare alle porte delle case più umili, ove il Natale, non per sincera divozione, ma per manco di denari non dava pretesto a gozzoviglie.
- Non dormono… – mormorava Gesù, e sorprendendo alcune rauche parole d’odio e d’invidia pronunziate nell’interno, si stringeva in sé come per acuto spasimo, e mentre l’impronta delle unghie restavagli sul dorso delle pure mani intrecciate, gemeva: – Anche per costoro io son morto…
Andammo così, fermandoci di tanto in tanto, per un lungo tratto, finché Gesù innanzi a una chiesa, rivolto a me, ch’ero la sua ombra per terra, non mi disse:
- Alzati, e accoglimi in te. Voglio entrare in questa chiesa e vedere.
Era una chiesa magnifica, un’immensa basilica a tre navate, ricca di splendidi marmi e d’oro alla volta, piena d’una turba di fedeli intenti alla funzione, che si rappresentava su l’altar maggiore pomposamente parato, con gli officianti tra una nuvola d’incenso. Al caldo lume dei cento candelieri d’argento splendevano a ogni gesto le brusche d’oro delle pianete tra la spuma dei preziosi merletti del mensale.
- E per costoro – disse Gesù entro di me – sarei contento, se per la prima volta io nascessi veramente questa notte.
Uscimmo dalla chiesa, e Gesù, ritornato innanzi a me come prima posandomi una mano sul petto riprese:
- Cerco un’anima, in cui rivivere. Tu vedi ch’ìo son morto per questo mondo, che pure ha il coraggio di festeggiare ancora la notte della mia nascita. Non sarebbe forse troppo angusta per me l’anima tua, se non fosse ingombra di tante cose, che dovresti buttar via. Otterresti da me cento volte quel che perderai, seguendomi e abbandonando quel che falsamente stimi necessario a te e ai tuoi: questa città, i tuoi sogni, i comodi con cui invano cerchi allettare il tuo stolto soffrire per il mondo… Cerco un’anima, in cui rivivere: potrebbe esser la tua come quella d’ogn’altro di buona volontà.
- La città, Gesù? – io risposi sgomento. – E la casa e i miei cari e i miei sogni?
- Otterresti da me cento volte quel che perderai – ripeté Egli levando la mano dal mio petto e guardandomi fisso con quegli occhi profondi e chiari.
- Ah! io non posso, Gesù… – feci, dopo un momento di perplessità, vergognoso e avvilito, lasciandomi cader le braccia sulla persona.
Come se la mano, di cui sentivo in principio del sogno l’impressione sul mio capo inchinato, m’avesse dato una forte spinta contro il duro legno del tavolino, mi destai in quella di balzo, stropicciandomi la fronte indolenzita. E qui, è qui, Gesù, il mio tormento! Qui, senza requie e senza posa, debbo da mane a sera rompermi la testa.

(Racconto di Natale di Luigi Pirandello)

Publié dans:LETTERATURA, NATALE 2014 |on 3 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

HIGOUMÈNE DANIEL – VIAGGIO IN TERRA SANTA

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HIGOUMÈNE DANIEL – VIAGGIO IN TERRA SANTA

Proveniente da un monastero della provincia di Chemigov Higoumène Daniel è protagonista di un viaggio in terrasanta, viaggio riportato in un diario che si può considerare una delle più importanti testimonianze dell’ambiente russo.
Il viaggio parte da Kiev raggiunge Costantinopoli, poi prosegue via mare per Giaffa , Efeso, Cipro. E’ stato a Gerusalemme dal 1093 al 1112 durante il regno di Baldovino I , re di Gerusalemme, ma ha anche visitato molti luoghi della Palestina, dei quali farà delle dettagliata descrizioni.
Importanti sono anche gli incontri con dei connazionali.
Nel viaggio di ritorno da Beirut, Antiochia verso Costantinopoli ebbe anche un incontro con dei pirati , ma riuscì a salvarsi e a ritornare in patria .

Testo
Io, Daniel, indegno hégoumène russo il più piccolo, tra i monaci, scontento dei miei molti peccati e delll’inadeguatezza delle mie opere buone, sono stato colpito dall’idea, il desiderio impaziente di vedere la Città Santa di Gerusalemme e la Terra Promessa.
Per la grazia di Dio, sono giunto alla città santa di Gerusalemme e ho visto i luoghi santi, ho visitato tutta la Galilea e tutti i luoghi santi per la città santa di Gerusalemme che Cristo, nostro Dio, ha percorso con i suoi piedi, e quando fece miracoli sorprendenti. E ho visto tutto con i miei occhi di peccatore e Dio, nella sua misericordia, si è degnato di farmi vedere ciò che i miei pensieri hanno a lungo desiderato. I miei fratelli, i miei padri, i miei signori! Perdonami, un peccatore, e perdona la mia ignoranza e la semplicità della storia che darò della città santa di Gerusalemme, la terra benedetta e il sentiero che conduce in questi luoghi sacri.
Ma, con la speranza che la misericordia divina e le vostre preghiere mi salverà dal Signore Gesù Cristo per il perdono dei miei tanti peccati , ho descritto in questo modo i luoghi santi non per faarmi un erito ma per dare al moi viaggio un risultato di aver fatto qualcosa di buono. Ma è solo per amore di questi luoghi sacri che ho descritto quello che ho visto con i miei occhi, in modo da non dimenticare ciò che Dio degnò di mostrarmi nonostante fossi indegno.
Temendo l’esempio del servo pigro che ha seppellito il talento del suo padrone senza renderlo redditizio, ho scritto ai fedeli, in modo che l’ascolto della descrizione dei luoghi santi, porti buon effetto alle loro anime. Molte persone giuste, senza uscire di casa, fanno del bene e danno l’elemosina ai poveri perchè possano raggiungere questi luoghi santi e lo rendono degno di una maggiore remunerazione del nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo. Altri, e me per primo, vengono ai luoghi santi ed alla città santa di Gerusalemme, e si vantano nelle loro menti, come se avessero fatto qualcosa di meritorio ,altri ritornano dopo il pellegrinaggio in fretta a casa senza aver visto un sacco di cose buone.
Io, indegno hégoumène Daniel, venni a Gerusalemme, trascorsi sedici mesi in mérochie la Lavra di San Sabba , e questo è quanto ho potuto visitare e esplorare tutti questi luoghi santi. E ‘impossibile camminare o vedere tutti i luoghi santi senza una buona guida e interprete. Non ho risparmiato nulla del mio povero avere, quello che avevo tra le mani, per premiare coloro che conoscevano tutti i luoghi santi della città e l’esterno, in modo che mi motrassero tutto in dettaglio. E Dio mi ha dato la grazia di incontrare un santo e uomo molto vecchio ben versato nelle Scritture. Dio dispose il cuore di questo santo uomo di amare me indegno, e fu lui che mi ha mostrato con attenzione tutti i luoghi santi di Gerusalemme e tutto il paese.
GERUSALEMME
Ecco il percorso che conduce a Gerusalemme. Ci sono 300 miglia da Costantinopoli al grande mare seguendo le sinuosità della costa, e 100 verste per l’isola di petalo . Questa è la prima isola nel mare stretto, e su questa strada, è la grande città di nome Eraclea ,dove c’è un buon porto, nei confronti della città, l’olio santo dalle profondità del mare, per molti santi martiri furono sepolti dai carnefici. Isola petalo a Gallipoli ci sono centinaia di verste, e da Gallipoli verso la città di Abido 80 verste. Vis-à-vis la città è sepolto S. Eutimio il nuovo. Da lì a cri è la distanza di venti miglia, dove si apre nel mare grande il sentiero a sinistra conduce a Gerusalemme, a destra, il Monte Santo, a Salonicco e Roma. Di Crite sull’isola di Tenedo , ci sono una trentina di verste. Questa è la prima isola del mare grande e questo è dove si trova il Avnoudimos santo martire. Sulla sponda opposta di questa isola un tempo era una grande città chiamata Troade , dove l’apostolo Paolo è venuto a insegnare e battezzare tutto il paese. L’isola di Tenedo per l’isola di Mitilene ci sono cento verste la santa Metropolitan Mitilene è sepolto lì. Ci sono un centinaio di verste da Mitilene sull’isola di Chios , sepoltura del santo martire Isidoro, l’isola produce mastice, il buon vino e tutti i tipi di verdure.
CITTÀ DI EFESO
La città di Efeso è di quaranta miglia dall’isola di Chios .
Qui è dove si trova la tomba di Giovanni il Teologo, e la polvere da questa sacra tomba nell’anniversario della sua morte, i credenti la raccolgono come un rimedio contro tutte le malattie, la tunica indossata da John è anche lì. Nelle vicinanze si trova la grotta dove si trovano i corpi dei Sette Dormienti, che dormivano 360 anni, dopo essersi addormentati sotto l’imperatore Decio e l’ora del risveglio è avvenuta sotto Teodosio. Nella stessa grotta sono le reliquie dei Trecento Padri e S. Alexander nel cui santuario di Maria Maddalena si trova la testa, e il Santo Apostolo Timoteo, discepolo di St. Paul, ha lì la sua bara. Sono conservate nella vecchia chiesa l’immagine della Vergine con i santi che fecero confondere l’eretico Nestorio. E ‘anche lì dove il Dioscoride Giovanni il Teologo ha lavorato con Procoro. Abbiamo anche visto il porto, chiamato Porto Marmo , dove Giovanni respinse il Teologo in riva al mare, dove abbiamo trascorso tre giorni. La città di Efeso , si trova nelle montagne quattro verste dal mare abbonda in tutte le cose. Abbiamo adorato il santo sepolcro, e protetto dalla grazia di Dio e con le preghiere di Giovanni il Teologo, siamo andati in gioia. La distanza tra Efeso e l’isola di Samos è di quaranta verste. L’isola è ricca di pesce e il suo suolo è molto fertile. Di Samos nell’isola di Ikaria ci sono venti verste.
ISOLA DI PATMOS
Ci sono quaranta chilometri di Ikaria l’isola di Patmos , che si protende fino al mare dove esiliato con Procoro, Giovanni il Teologo scrisse il suo Vangelo. Poi ci sono le isole di Leros, di Calimnos , di Nicera , e quella di Cos , che è grande. Quest’ultimo è molto ricco in bestiame e popolato. Poi viene Telos , notevole per il tormento di Erode è fuoco e di zolfo, che viene venduta dopo essere stati puliti, e abbiamo usato per mettere in evidenza il fuoco. È inoltre l’isola di Khárkia . Tutte queste isole, popolate e ricche di bestiame, sono lontani gli uni dagli altri dieci verste e altro. L’isola di Rodi è molto grande e molto produttiva. Il principe russo Oleg vi ha trascorso due estati e due inverni.
Di Samo Isola diRodi , ci sono 200 miglia, e da Rodi a Macrie Sessanta. In queste città e nella campagna circostante fino Myre ,si ha un prodotto thymiame bianco e gomphyte che deriva da un albero come una sorta di midollo viene raccolto con un ferro appuntito. Questo albero chiamato zyghia e come la luce. Un altro arbusto, che ricorda il pioppo e il cui nome è raka viene mangiato sotto la corteccia da una specie di vermi grandi bruchi di grandi dimensioni, ed i fori di vite senza fine che il prodotto si distinguono dalla arbusto come crusca di frumento e cadere a terra come una gomma come quella ciliegia. E ‘raccolto e mescolandolo al primo albero, il tutto cotto in un calderone, preparando così il mercante che vende thymiame gomphyte in bottiglia. Ci sono quaranta verste Macrie alla città di Patara , la città natale di San Nicola, Patara è una sede e il luogo della sua origine. Di Patara a Myra , dove si trova la tomba di San Nicola, ha quaranta verste da Myra a Chélydonie 30, e del Chélydonie alla grande isola di Cipro 200 verste.
ISOLA DI CIPRO
Cipro è un’isola grande, popolosa e abbondante in tutte le cose. E ‘venti vescovi, uno metropolitane e ha un numero infinito di reliquie. Questo è dove S. Epifanio base, l’apostolo Barnaba, S. Zeno e Philagrios santo vescovo, che fu battezzato dall’apostolo Paolo.
MONTAGNA IN CUI SANT’ELENA ha eretto una croce .
C’è una montagna molto alta, in cima alla quale Sant’Elena fece erigere una grande croce in legno di cipresso, per scacciare i demoni e guarire ogni sorta di malattie, si ritirò in un chiodi della croce di Cristo sacri. Eventi e miracoli grandi che si svolgono in questo luogo così lontano e presso la croce. Questa croce è sospeso in aria senza nulla attaccato alla terra, è lo Spirito Santo che sostiene lo spazio. Io, indegno, ho amato questa santa e miracolosa, e ho visto con i miei occhi la grazia divina peccatore riposo in posizione. Ho esplorato tutta l’isola.
THYMIAME
Il thymiame incenso si verifica lì, cade dal cielo e si è raccolto in arbusti. In queste montagne molti arbusti crescono non più alto del prato, ed è qui che cade sulla thymiame bene solo nei mesi di luglio e agosto. Di Cipro per la città di Jaffa 400 miglia via mare da Costantinopoli per l’isola di Rodi 800 verste da Rodi a Jaffa anche otto centesimi, per un totale di 1600 traversata via mare fino al ‘a Jaffa . quest’ultima è una città situata sul bordo del mare, non lontano da Gerusalemme, e dove si è andato a Gerusalemme a terra, e la distanza di venti miglia, e ci sono dieci verste la pianura di San Giorgio . Una grande chiesa vi era alta sotto il nome di San Giorgio, e la sua tomba è stata anche l’altare, perché è qui che troviamo San Giorgio Martire. Ci sono molte fonti in questo luogo, nei pressi della quale i pellegrini si fermano con grande paura, perché è un luogo deserto e vicino alla città di Ascalon , dove i Saraceni fuori e massacrando i pellegrini che passano sul strada, in modo che la paura è grande da questo luogo nel quale entrano le montagne. Ci sono venti verste da grandi St. George a Gerusalemme attraverso le montagne di pietra, questo percorso è doloroso e molto spaventoso.
ARMATHEM DELLA MONTAGNA
C’è una montagna molto alta nei pressi di Gerusalemme, fin dal Jaffa , la montagna porta il nome Armathem . Su questa montagna sono le tombe del santo profeta Samuele, suo padre Elkan e Maria Egiziaca, ci erano villaggio e casa dei santi. Questo luogo è circondato da un muro e si chiama così perché la città di Armathem .
GERUSALEMME La città santa di Gerusalemme, si trova nelle valli aride tra alte montagne pietrose. Per prima cosa vede la Torre di Davide , poi, avanzando un po ‘, vediamo il Monte degli Ulivi , il Santo dei Santi , la Chiesa della Resurrezione , dove è il Santo Sepolcro , e infine la città. A circa un chilometro e mezzo prima di Gerusalemme, c’è una montagna appiattita dove tutti vanno a cavallo e fare il segno della croce. Ogni cristiano sperimenta quindi una grande gioia alla vista della città santa di Gerusalemme, e le lacrime cadono dai fedeli. Nessuno può smettere di piangere vedendo questa terra se lo si desidera e di questi luoghi sacri, dove Cristo nostro Dio, subito la passione per la remissione dei nostri peccati. A sinistra, vicino alla strada, è la chiesa di Saint-Etienne, il primo martire, e questo è dove è stato lapidato dagli ebrei e si vede la sua tomba. Poi i pellegrini vengono, pieno di gioia nella città santa di Gerusalemme da parte della porta accanto della casa di Davide, quella porta si trova di fronte a Betlemme.
All’ingresso del paese c’è un percorso che porta verso al Santo dei Santi e la sinistra al Santa Resurrezione , dove il Santo Sepolcro .

la traduzione non riporta il testo integralmente, le frasi di non chiara traduzione sono state omesse

Publié dans:LETTERATURA, LETTERATURA STRANIERA |on 13 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

CH. PÉGUY: IL MISTERO DEI SANTI INNOCENTI

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MOMENTI DELLO SPIRITO / CH. PÉGUY: IL MISTERO DEI SANTI INNOCENTI

CH. PÉGUY: IL MISTERO DEI SANTI INNOCENTI

Dolente, anche se rassegnata, tutta pena e proteste, la condanna di Dostojevski contro la prepotenza dei potenti che infierisce sui poveri e soprattutto sui bambini innocenti: l’ultimo Dostojevski è tutta una passione di trasfigurazione nella partecipazione a tanto innocente dolore che sembra sprofondare l’uomo nell’orrore dell’insignificante e dell’inutile. Il martirio dei Santi Innocenti diventa invece per il cattolico Péguy un poema e prodigio di amore[1]. Il martirio per Péguy, come per S. Caterina da Siena, è festa d’amore ed il martirio dei bimbi tenerelli, in braccio alle madri straziate, è tale ma in una cornice ben precisa: la celebrazione della purezza che domina la parte precedente del mirabile poema cristiano. Il tutto nel contesto di una robusta ecclesiologia che poggia sulla divinità del Figlio di Dio e sulla Comunione dei Santi nell’assemblea celestiale dell’Uomo-Dio, preceduto dai Profeti e seguito dai Santi.

Prologo[2] – Gesù predilige i bambini – è il Padre che parla: «È mio figlio che ha detto una volta: sinite parvulos venire ad me, – lasciate che i bambini vengano a me». E il Figlio di Dio l’aveva detto di alcuni bambini che stavano giocando i quali, presa appena la benedizione, lo lasciarono per tornare a giocare. Ma io dico, ma lo si fa dire ad ogni bambino che non ritornerà più a giocare…: «Se non nel mio Paradiso». E qui Péguy, con mirabile fantasia poetica descrive il funerale di un bambino preceduto dalla Croce, le donne piangono ma il celebrante canta il vecchio Salmo di David: Beati immacolati in via – Felici coloro che non si sono macchiati nella via.

L’applicazione ai Santi Innocenti. – Tali sono, passa a dire Péguy, i soli senza macchia, questi disgraziati bambini che i soldati di Erode massacrarono nelle braccia delle madri – O Santi Innocenti voi sarete dunque i soli – Santi Innocenti voi sarete dunque i puri – Santi Innocenti voi sarete dunque i bianchi e senza macchia. – Beati immaculati in via. Beati gli innocenti, quelli senza macchia nella via.

Ed ora il cerchio lirico teologico si allarga ed entra Cristo stesso a partecipare alla festa. Leggiamo, infatti: «Ego sum via, veritas et vita. – Io sono la via, la verità e la vita. – O Santi Innocenti non sarà detto che voi sarete e che voi siete i soli innocenti». Ma allora, si chiede Péguy con una luminosa digressione[3], che è di tutti gli altri Santi, di S. Francesco, di S. Luigi re dei Francesi, di tanti altri grandi Martiri e grandi Santi che hanno condotto tutta una vita di santità, che hanno riavuto – se fossero caduti – la bianchezza originaria di tutta la loro prima innocente infanzia: anche un foglio di carta imbrattato può tornare bianco, anche un pezzo di stoffa sporcato può tornare bianco. Ma un foglio smacchiato ed un tessuto ripulito non è né un foglio bianco né un tessuto bianco.

Ed è qui che si annunzia il trionfo e la gloria dei Santi Innocenti: «I più vicini a me saranno questi lattanti bianchi, che non hanno fatto nulla nella vita e nulla hanno fatto dell’esistenza se non di ricevere un buon colpo di sciabola. Intendo assestato nel momento buono», – segue la traduzione del terrificante racconto della venuta dei Magi, della fuga in Egitto e della Strage degli Innocenti – che la liturgia romana legge al Vangelo del 28 dicembre, Festa dei Santi Innocenti.

Il trionfo dei puri nel Giudizio universale vicino all’Agnello. – Infatti, quasi per una illuminazione mistica, Péguy trasferisce subito in cielo l’esito del martirio dei piccoli Innocenti, un esito che sarà il massimo trionfo di Cristo quando col Giudizio farà la chiusura definitiva della storia universale. Ed è ovviamente l’Apocalisse di Giovanni che gli offre quest’ultimo orizzonte escatologico, nel testo che la liturgia romana preconciliare leggeva all’Epistola del medesimo 28 dicembre: la glorificazione dei 144.000 che avevano sulla fronte scritto il Nome dell’Agnello e il Nome del suo Padre[4]. Nel suo commento poetico Péguy mette in rilievo non più lo strazio dell’evento, quanto lo splendore della purezza degli Innocenti:

a) …qui empti sunt de terra ch’egli traduce: «…furono tolti dalla terra»[5] nel senso che la terra non lasciò in loro traccia alcuna di materia, della sua pesantezza, della sua ingratitudine, della sua amarezza, del suo invecchiamento, dei suoi gusti « terrosi »… staccati come fiori col gambo e «seguono l’Agnello dovunque vada».

b) «…Hi empti sunt ex hominibus» = e furono tolti da mezzo degli uomini; «primitiae Deo et Agno» = primizie a Dio e all’Agnello; «et in ore eorum non est inventum mendacium» = e nella loro bocca non fu trovata menzogna». E Péguy commenta fra parentesi: «la menzogna dell’uomo, la menzogna adulta, la menzogna terrestre. La menzogna terrena. La menzogna terrosa».

c) «…sine macula enim sunt ante thronum Dei» – senza macchia infatti essi si trovano davanti al trono di Dio. Il commento non la cede alla più alta poesia teologica: «Questo, dice Dio, è il segreto della tenerezza e della grazia. Che è nell’infanzia stessa, nel punto di origine del bambino. Tale è quest’innocenza, questa bianchezza, questo cominciamento. Tale è questo segreto, questo favore della mia grazia». E mette, stupito anche lui ma non scandalizzato, l’impressione (fra parentesi!): («Questa giustizia ingiustificabile!»). Lungi dall’essere uno scandalo, la morte è per questi Innocenti un privilegio. Infatti, e qui Péguy riprende il versetto 3:

d) «Et cantabant quasi canticum novum ante sedem» che Péguy abbrevia: «nemo poterat dicere canticum» – nessuno poteva dire questo canto. Ed il commento insiste ripetendo: nessuno, nessuno… (nemo = personne). Nessuno: neanche Francesco, neanche San Luigi re, neanche i primi quattro testimoni Matteo, Marco, Luca e Giovanni…, neppure coloro che daranno la vita per la liberazione del S. Sepolcro. Nemo poterat dicere canticum, e fra parentesi il sorprendente ancora mirabile paradossale commento: «Tale è il loro esorbitante privilegio e il grande favore ingiusto – della mia grazia eternamente giusta». E Péguy continua: «non c’è martirio il più inaudito, il più atroce, il più spaventoso… che i credenti di tutti i tempi abbiano sofferto per Cristo… che valga il privilegio dei 140.000 bambini: privilegio eminente, esorbitante, privilegio unico, ingiusto. Giusto. Puramente grazioso, propriamente grazioso». E Péguy continua con una nuova variazione sullo stesso tema terminando con una notazione di tenerezza idillica, il conversare delle madri dei piccini quando ciascuna (come in tutti i paesi) dice: «È il mio il più bello!» E per essere belli, ad essi bastava saper poppare e dormire… quando avevano fame e sonno e di strillare quando volevano strillare: erano queste le loro grandi occupazioni. La conclusione è ormai pronta: «È così che essi trovarono – non solamente il regno di Dio e la vita eterna – ma soli di portarvi scritto sulla loro fronte il mio nome e il nome del mio Figlio e soli di cantarvi un cantico nuovo» (p. 449). La difficoltà degli scandalizzati è capovolta: la loro strage li pone, come la liturgia ha profondamente afferrato, nella posizione del più alto privilegio fra tutti i predestinati.

Le sette ragioni di privilegio degli Innocenti[6]: esse meritano almeno di essere elencate, tanta è la loro bellezza e profondità mistica.
La prima[7], è che essi mi piacciono, dice Dio e questo basti: una ragione che farebbe la gioia di un S. Tommaso d’Aquino[8].
La seconda, è che essi mi piacciono, dice Dio, e questo basti. Tale, aggiunge qui come alla prima, è la gerarchia delle mie grazie.
La terza, è che mi piace così, dice Dio, e questo basti. Ed insiste: «Tale è la gerarchia, tale è l’ordine, tale è l’ordinamento della mia grazia». E col tema della grazia Péguy ha già toccato il fondo del problema.
La quarta ragione è tutta poesia ed innocenza: cioè, dice Dio, essi non hanno nessuna piega alle labbra… nessuna d’ingratitudine e d’amarezza, questa ferita d’invecchiamento, questa piega di memoria che noi vediamo su tutte le labbra.
Con la quinta ragione anche Péguy non può evitare il cuore del dramma che ha tanto turbato gli autori precedenti. Egli non ignora, ma descrive con realismo lo strazio dei corpicini… abbandonati per le strade e considerati meno di agnelli, di capretti, di lattonzoli, abbandonati sul corpo delle loro madri. E qui Péguy entra nel vivo dello «scandalo»: «Durante questo tempo mio Figlio fuggiva (è sempre il Padre che parla). Bisogna dirlo: questo è grave. Furono presi per Lui. Furono massacrati per Lui. Al suo posto, solamente per causa sua, ma per Lui. Al suo posto»[9]. Ed ora, con maggiore rigore teologico: «In sua rappresentanza, per così dire. In sua sostituzione. Essendo come Lui. Essendo quasi altrettanti Lui. In rappresentanza, in sostituzione, al suo posto. Ora tutto questo è grave, dice Dio, tutto questo conta. Essi furono simili al mio Figlio e lo sostituirono…». Ecco l’unica interpretazione teologica che solo un grande poeta cristiano come Péguy ha saputo far scintillare dall’antica liturgia: i piccoli morti per Cristo, conclude Péguy, hanno acquistato così un credito con Dio.
La sesta ragione (di sapore kierkegaardiano)[10] e questo – mi si permetta di confessarlo – mi ha dato una particolare soddisfazione «è ch’essi erano contemporanei del mio Figlio. Della stessa età e nati nello stesso tempo. Proprio in questo stesso punto del tempo del Figlio. E questo ha procurato ad essi un amore specialissimo del Padre così ch’essi ebbero una speciale promozione, non soltanto una promozione di Giudei ma una promozione di uomini (tale era la nuova Legge), la promozione di Gesù Cristo…» compagni [perché martiri innocenti] della sua promozione.
La settima (ed ultima ragione che conclude ed è sulla linea della precedente) è «ch’essi erano simili al mio Figlio». Egli era simile a loro ed il poeta immagina che «i teneri infanti avanzino in schiera sullo stesso fronte di Cristo verso la sponda dell’eternità». Ed il poeta-teologo continua le sue riflessioni mescolando, con volute sempre nuove e più ardite, il mistero della vita di Cristo con il massacro dei piccoli, inermi, ignari martiri innocenti. Péguy, come invasato dalla visione apocalittica del trionfo finale dei suoi prediletti termina, con l’inno, ch’è tutto fulgori, di Prudenzio: «Salvete flores Martyrum – quos, lucis ipso in limine, – Christi insecutor sustulit, – ceu turbo nascentes rosas. E la seconda strofa: Vos prima Christi victima – Grex immolatorum tener, – Aram sub ipsam simplices – Palma et coronis luditis»[11].
La conclusione finale non può essere che la semplicità della gioia più alta: «Tale è il mio paradiso, dice Dio. Il mio paradiso è ciò che c’è di più semplice: un altare, e bimbi che giocano con le loro palme e le loro corone. E la « palma » – è l’ultimo tocco di tanta poesia – serve sempre loro apparentemente da bastoncino».
Così Péguy ha celebrato la gloria del «mistero dei Santi Innocenti» con la glorificazione fatta dalla liturgia cattolica: mistero di fede che arriva però fino alla gloria del Paradiso nelle folgorazioni dell’Apocalisse di Giovanni.
Certamente il mistero del male resta ancora: resta il «mistero dei Santi Innocenti» con tutta la rosa dei misteri, evocata qui dalla teologia lirica di Péguy. E il mistero, nessun mistero quand’è tale ossia quando procede dalla trascendenza di Dio che s’incontra con la finitezza dell’intelletto umano, «divarica» la coscienza come si è detto: o la ragione si rifiuta e cade nell’ateismo cioè nel buio dell’apparente evidenza, e perciò contraddittoria, delle apparenze oppure sale con la fede nell’apertura della Verità incommutabile.
Il teismo, sia pure in vari modi, ha sempre accompagnato l’esercizio della coscienza umana, insidiata dall’ateismo. Le tante difficoltà restano (possiamo ammetterlo, contro una «teodicea» troppo a buon prezzo) se non del tutto nascoste, sempre misteriose soprattutto quando si studiano le convinzioni che l’uomo si è fatto sù Dio fuori della religione biblica. Ma il teismo non è assurdo, non è contraddittorio, non lascia l’uomo in balìa del divenire dei fenomeni e pertanto nell’indifferenza – è questo il momento cruciale per difendere la dignità di ogni uomo da ogni tirannia. Purtroppo la storia insegna che l’uomo preferisce alla libertà la schiavitù, che è la schiavitù del peccato secondo la Bibbia da cui ci ha liberato solo Cristo; è la schiavitù delle tenebre che gli uomini hanno preferito alla liberazione della luce. Ma il figlio di Dio che è il cristiano prega sempre perché «venga il regno di Dio» e che «Dio ci liberi dal male» (Matt. 5, 11 ss.).
Così il mistero dei Santi Innocenti che aveva scandalizzato gli atei A. Camus e Ivan Karamazov[12], come mistero del male invincibile e prova dell’inesistenza di Dio, diventa per il convertito Péguy il segno del trionfo dell’amore di Dio e l’aurora di speranza della nostra salvezza.

(1981)

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