Archive pour la catégorie 'Lettera a Timoteo – seconda'

2 TIMOTEO 4,6-8.16-18

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2 TIMOTEO 4,6-8.16-18

Carissimo, 6 il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. 7 Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede.
8 Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione.
16 Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto di loro. 17 Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i Gentili: e così fui liberato dalla bocca del leone.
18 Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.

COMMENTO
2 Timoteo 4,6-8.16-18
La corona di giustizia
La lettera si apre con il prescritto e il ringraziamento epistolare, nel quale l’autore ricorda la fede di Timoteo, ricevuta dalla madre e dalla nonna (1,1-5). Viene poi il corpo della lettera in cui sono svolti i seguenti temi: A. Il vero pastore (1,6-18); B. Il comportamento di Timoteo (2,1-26); C. Gli ultimi tempi (3,1-17); D) Il testamento di Paolo (4,1-18). Il testo liturgico riprende la seconda parte del testamento di Paolo, dove l’Apostolo fa una sintesi del suo apostolato (vv. 6-8) e dà a Timoteo le sue ultime istruzioni (vv. 16-18). Vengono omessi i vv. 9-15 che contengono l’indicazione di alcuni compiti specifici affidati a Timoteo.
Paolo rivolge anzitutto lo sguardo al passato: «Io infatti sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (vv. 6-7). Paolo è ormai alla vigilia del martirio o dell’esecuzione capitale e dà una visione retrospettiva della sua attività. Il modello qui adottato è quello dei discorsi di addio, che viene utilizzato per esempio nel saluto di Paolo ai presbiteri di Mileto, dove ricorre la stessa immagine della corsa (cfr. At 20,24). Da questo genere letterario deriva il tono elogiativo con cui si presenta la vita passata dell’Apostolo. La prospettiva della morte imminente è evocata con le immagini del sacrificio e della partenza, mutuate dalla lettera ai Filippesi (cfr. Fil 1,23; 2,17). La morte dell’apostolo è presentata come un sacrificio: nella tradizione giudeo-ellenistica e, più tardi, in quella rabbinica, la morte del martire è interpretata come un sacrificio in quanto riconcilia il popolo con Dio. Essa è anche l’approdo alla meta definitiva. Riguardo al passato, la vita apostolica di Paolo è descritta come una battaglia e come una competizione sportiva. Il linguaggio è quello adottato da Paolo stesso, che paragona l’impegno e il rischio della sua missione apostolica alle gare nello stadio (cfr. 1Cor 9,24-27). Lo stesso linguaggio è adottato anche altrove nella Pastorali (cfr. 1Tm 6,12; 2Tm 2,5). Secondo una formula fissa, in uso nei pubblici riconoscimenti, si afferma che Paolo ha «tenuto fede» agli impegni di apostolo, missionario e maestro. Anche questo motivo della fedeltà o pieno compimento della missione rientra nel linguaggio dei discorsi di addio (cfr. At 20,20.27; Gv 17,4.6). Egli diventa così il modello o prototipo dei pastori e di tutti i credenti non solo nella sua vita e attività, ma anche nella sua morte.
Lo sguardo si rivolge poi al futuro, con il ricorso nuovamente alle immagini delle gare sportive o della lotta: «Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione» (v. 8). Al vincitore spetta l’incoronazione con il serto di alloro o con rami di sempreverde. Il simbolo della corona per l’ambiente greco-ellenistico è carico di connotazioni come onore, gioia, immortalità e trionfo. La corona viene qualificata con il genitivo «di giustizia»: non si tratta dunque di un riconoscimento umano, ma di quello che viene da Dio, basato sull’acquisizione della giustizia in quanto rapporto pieno con lui. Questa corona verrà conferita nel contesto escatologico dal Signore, che allora si manifesterà come «giusto giudice», che non delude quelli che per lui si sono impegnati senza riserve. La sorte di Paolo è un pegno per tutti i credenti che sono solidali con il suo destino (cfr. 1Ts 2,19). Essi sono definiti come quelli che vivono nell’attesa della gloriosa manifestazione del Signore. È scomparsa la componente di impazienza che deriva dalla credenza in un imminente ritorno del Signore, lasciando il posto all’impegno quotidiano per vivere secondo gli insegnamenti e l’esempio di Gesù.
Nei versetti omessi dalla liturgia, Paolo esorta Timoteo a raggiungerlo comunicandogli che i suoi compagni Dema, Crescente e Tito lo hanno lasciato solo. Con lui c’è solo Luca. A Timoteo dice ancora di portare con sé Marco e accenna all’invio di Tichico a Efeso. E aggiunge di portargli il mantello e le pergamene che ha lasciato a Troade e infine lo mette in guardia nei confronti di Alessandro. Questi accenni, che dovrebbero essere le prove dell’autenticità della lettera, sono invece chiaramente artificiosi e si riferiscono a situazioni non controllabili, anzi a volte inverosimili, soprattutto nel caso di uno che sta per essere giustiziato.
Nella seconda parte del brano si ritorna sulla situazione attuale dell’Apostolo: «Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto» (v. 16). In questo sfogo si sente il rammarico per l’abbandono da parte dei suoi. Verso di loro Paolo ha parole di perdono. È difficile sapere se si tratta di un ricordo storico o del semplice motivo del giusto abbandonato dai suoi amici, come era stato per Gesù. La solitudine di Paolo è riempita dalla vicinanza del Signore: «Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone» (v. 17). Paolo è consapevole che solo con la grazia di Dio ha potuto portare a termine la sua missione. Questo risultato è espresso con l’immagine della lotta vittoriosa dei gladiatori contro i leoni nel circo. Non si tratta però di una vittoria umana, bensì del successo dell’opera di evangelizzazione, che può benissimo coesistere con l’imminente martirio.
L’esperienza del conforto che gli viene dal Signore apre infine il cuore alla speranza: «Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen» (v. 18). La liberazione a cui tende l’Apostolo non è più quella che si attua in questo mondo ma quella che consiste nell’ingresso nel regno, che appare ormai come una realtà che ha sede nei cieli. Alla visione del regno come trasformazione di questo mondo si è ormai sostituita quella di una nuova situazione che si raggiunge dopo la morte, quando l’anima si ricongiunge definitivamente con Dio.

Linee interpretative
In questo brano si tende ad avvalorare l’autenticità paolina della lettera, mentre invece esso ne dimostra chiaramente l’origine tardiva, pur situandosi nell’alveo della tradizione paolina. La figura idealizzata di Paolo, il martire fedele e coraggioso, viene riproposta plasticamente ai cristiani grazie ad alcuni dati biografici ripresi e rielaborati dalle fonti tradizionali paoline, lettere e Atti degli Apostoli. In tal modo l’insegnamento dell’apostolo assume un valore permanente e la sua vicenda diventa paradigmatica per tutti i cristiani. Quello che si sottolinea maggiormente è la sua fedeltà fino alla fine nel compimento della missione a lui affidata di annunziatore del vangelo.
Questa rilettura idealizzata di Paolo, il prigioniero del Signore e il testimone fedele, si ispira al modello biblico del giusto abbandonato dagli amici e vicini, attaccato dai suoi nemici, il quale ripone la sua fiducia solo in Dio che lo protegge e lo libera e così alla fine può rendere grazie a Dio. Sullo sfondo di questo schema letterario diventa perfettamente plausibile la contrapposizione tra l’abbandono di tutti e la presenza del Signore che dà all’apostolo la forza per la testimonianza evangelica e alla fine lo salva in modo definitivo, conferendogli una vita nuova nel suo regno. Questa presentazione deve servire come incoraggiamento ai cristiani che come lui testimoniano il vangelo in mezzo alle sofferenze e alle contraddizioni di questo mondo.

 

Publié dans:Lettera a Timoteo - seconda |on 2 janvier, 2017 |Pas de commentaires »

BRANO BIBLICO SCELTO – 2 TIMOTEO 2,8-13

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BRANO BIBLICO SCELTO – 2 TIMOTEO 2,8-13

Carissimo, 8 ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il mio vangelo, 9 a causa del quale io soffro fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata! 10 Perciò sopporto ogni cosa per gli eletti, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna.
11 Certa è questa parola: Se moriamo con lui, vivremo anche con lui; 12 se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, anch’egli ci rinnegherà; 13 se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso

COMMENTO
2 Timoteo 2,8-13

Sofferenza e missione
La Seconda lettera a Timoteo si apre con il prescritto e il ringraziamento epistolare, nel quale l’autore ricorda la fede di Timoteo, ricevuta dalla madre e dalla nonna (1,1-5). Viene poi il corpo della lettera in cui sono svolti i seguenti temi: A. Il vero pastore (1,6-18); B. Il comportamento di Timoteo (2,1-26); C. Gli ultimi tempi (3,1-17); D) Il testamento di Paolo (4,1-18). Nella seconda di queste parti l’autore riporta alcuni brani in cui affronta i seguenti temi: trasmissione delle verità udite (2Tm 2,1-2); partecipazione alle sofferenze dell’apostolo (2Tm 2,3-7); comunione totale con Cristo (2Tm 2,8-13); lotta contro le false dottrine (2Tm 2,14-26). La liturgia riporta soltanto il terzo di questi brani, il quale si apre con una composizione in forma innica in cui è messo in luce il ruolo salvifico di Cristo (vv. 8-9a); ad essa fa seguito una dichiarazione in prosa nella quale si accenna al significato della sofferenza (vv. 9b-11a); in conclusione è riportata un’altra composizione innica riguardante il nostro rapporto con Cristo (vv. 11b-13).
Il presente capitolo era cominciato con un riferimento all’incarico dato da Paolo al discepolo/figlio Timoteo, a cui aveva fatto seguito l’esortazione alla perseveranza e all’impegno nonostante le sofferenze che si prospettano. A questo punto ha luogo l’esortazione rivolta a Timoteo perché si ricordi di Gesù Cristo: «Ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio Vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore» (vv. 8-9a). Al centro dei pensieri di Timoteo deve stare la persona di Cristo. Di lui si dice, con riferimento a un’antica professione di fede, che è risorto dai morti ed è discendente di Davide. Il collegamento immediato è con l’apertura della Lettera ai Romani, in cui Gesù è presentato come discendente di Davide secondo la carne e Figlio di Dio in forza della risurrezione dai morti (cfr. Rm 1,3-4). L’allusione alla discendenza davidica potrebbe suggerire l’origine giudeo-cristiana o palestinese di questa formula. Ma la sua associazione con il tema della risurrezione rientra nello schema tipico della tradizione paolina. L’origine davidica di Gesù Cristo, il Messia, richiama al fatto che per mezzo suo si sono attuate le promesse. Parlando della sua risurrezione, non può prescindere dalla sua morte di croce. Su questo sfondo la sua risurrezione dai morti è il senso ultimo e profondo delle sofferenze che ora toccano in sorte a tutti i credenti, dei quali Paolo rimane il prototipo o il modello ideale. Perciò egli può a buon diritto considerare la logica della croce, che è fedeltà nelle sofferenze, fondata sulla speranza nella risurrezione, come il «mio vangelo».
Il tema della sofferenza dell’Apostolo e della sua attuale prigionia introduce un’affermazione di principio cui fa seguito un nuovo riferimento alla sua esperienza: «Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna» (vv. 9b-10). Nonostante Paolo sia incatenato come un criminale comune, non così è per la parola di Dio, cioè per il vangelo di Gesù Cristo, che raggiunge tutti gli uomini di buona volontà. La parola di Dio non può essere sequestrata o incatenata. Anzi, si può dire che la partecipazione personale di Paolo all’esperienza di morte e risurrezione di Cristo serva alla diffusione del vangelo più dell’annuncio pubblico che egli ne fa con la sua parola. L’efficacia dell’annuncio o della testimonianza deriva infatti dalla fedeltà nonostante le resistenze o le pressioni esterne. La sofferenza che Paolo sopporta non consiste semplicemente nello stress fisico o psicologico che accompagna in misura più o meno intensa ogni esistenza umana, ma deriva dalla scelta cristiana e dall’impegno missionario.
L’esempio di Paolo, figura ideale e tipica dell’apostolo e martire per il vangelo, introduce la citazione di un altro inno in cui questo pensiero è applicato a tutti i cristiani: «Questa parola è degna di fede: Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso» (2,11-13). Questo inno è introdotto con una formula che indica l’autorevolezza di quanto si sta per dire. Di essa si fa garante l’Apostolo, in sintonia con la tradizione della Chiesa. Il brano innico si distingue dai versi precedenti per il passaggio delle forme verbali dal singolare al plurale. Esso contiene affermazioni abbinate in un parallelismo sinonimico (2,11-12) e antitetico (2,13a), che rivelano l’indole innica e semitizzante tipica di una composizione primitiva. L’alternanza di esortazione e formule di fede è un tratto caratteristico delle lettere pastorali. Il tema è quello dei versi precedenti: la solidarietà con il destino di Gesù morto e risorto, che dà senso e valore alle sofferenze e tribolazioni di ogni cristiano. Il morire con lui comporta di riflesso il vivere con lui. La perseveranza nelle prove ha come effetto l’ingresso con lui nel suo regno. Il rinnegarlo comporta invece l’essere rinnegati da lui. Il termine «rinnegare» (arnêomai), che ricorre nel contesto della pubblica professione di fede in un ambito conflittuale (cfr. Mt 10,33; 26,70.72), indica il rifiuto e la ribellione nei confronti di Cristo. A questo rifiuto corrisponde simmetricamente il rifiuto da parte di Cristo. Quest’ultima affermazione viene però subito corretta: anche in caso di infedeltà da parte del discepolo, Gesù rimane fedele, perché questo fa parte del suo modo di essere, venendo meno al quale egli rinnegherebbe se stesso. Si tratta quindi di un rapporto che non può venire meno perché non si basa sulla buona volontà del credente, ma su una scelta irrevocabile di Dio. L’affinità tematica con Rm 6,5.8, e Col 2,20; 3,1 depone non solo a favore dell’aspetto tradizionale e paolino di questo frammento, ma anche del suo originario contesto battesimale.

Linee interpretative
Il tema di questo brano è quello dell’annunzio del vangelo, che diventa lo scopo di tutta la vita di Paolo. Questo annunzio ha come oggetto la persona di Cristo, nella sua duplice prerogativa di discendente di Davide e di Figlio di Dio risorto dai morti. Per svolgere il suo compito, Paolo è disposto a sostenere qualsiasi tipo di prova. Anche le catene che gli impediscono di muoversi liberamente non sono da lui considerate non come un ostacolo, ma come un valido mezzo per la propagazione del vangelo. In primo piano vi è dunque non una dottrina, ma un rapporto personale che viene proposto come modello di vita.
Il valore della sofferenza dipende unicamente dalla logica della croce e non da concetti più o meno misticheggianti o da finzioni giuridiche, quali il soffrire al posto di altri o in forma vicaria. La fedeltà e la perseveranza nelle prove è lo spazio ideale in cui si rivela l’efficacia salvifica dell’amore di Dio in Cristo. Da lui solo viene la salvezza definitiva e gloriosa. Però la perseveranza cristiana non consiste in una qualità eroica, riservata a pochi, ma nell’adesione a una persona, Gesù Cristo, inaugurata con il battesimo e fondata sulla fedeltà estrema di Dio che in lui ha rivelato il suo amore. È una fedeltà che spezza la logica della pura «giustizia» in senso di premio e castigo, per dare spazio alla gratuità di un amore incondizionato.

 

Paolo e Timoteo: La fede come annuncio appassionato

http://www.paoline.org/paoline/allegati/15643/Scognamiglio_Esercizi_IVMeditazione.pdf

PAOLO E TIMOTEO

La fede come annuncio appassionato

P. Edoardo Scognamiglio, ofm

In questo breve capitolo abbiamo la possibilità di confrontarci con l’esperienza vocazionale e missionaria del giovane Timoteo posto dall’apostolo Paolo al governo della comunità cristiana in Efeso. In questa città si diffuse tantissimo il culto di Artemide e il cristianesimo rimase sempre ai margini della vita sociale, politica, economica e culturale di quel territorio. Timoteo si trova in una condizione di marginalità che gli provoca forte scoraggiamento e grande esitazione. La presenza di falsi profeti e di finti maestri non fa altro che aggravare le cose e rendere più difficile l’annuncio del
Vangelo.
L’attenzione è posta a 2Tm 4,1-13:
«4 [1] Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno:
[2]annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina.
[3]Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie,
[4]rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole.
[5]Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del vangelo, adempi il tuo ministero.
[6]Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele.
[7]Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede.
[8]Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione.
[9]Cerca di venire presto da me,
[10]perché Dema mi ha abbondonato avendo preferito il secolo presente ed è partito per Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia.
[11]Solo Luca è con me. Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero.
[12]Ho inviato Tìchico a Efeso.
[13]Venendo, portami il mantello che ho lasciato a Troade in casa di Carpo e anche i libri, soprattutto le pergamene».

1. Timoteo, il figlio amato
Le lettere pastorali, di là della ricerca del vero autore1, ci presentano un’immagine più matura e docile di san Paolo, ben noto in altri scritti per il suo vigore e un certo linguaggio graffiante. Dalla gattabuia della prigione imperiale, l’apostolo delle genti sembra, attraverso la 2Tm, consegnare ai cristiani un vero e proprio testamento spirituale. Con la mente e il cuore, Paolo rivive i giorni in cui a Listra, presso una famiglia amica, incontrò il giovane Timoteo, il cui nome è già tutto un programma: “Colui che onora Dio”. Chissà, come sarà avvenuto quell’incontro! Forse, Paolo, inquieto nel cuore e ammaliato dalla forza della Parola – il Vangelo vivo di Gesù Cristo – incominciò a raccontare la sua singolare esperienza. Forse, i suoi occhi divennero come il fuoco, pieni di brace e le sue mani ansimarono nel momento in cui raccontò a quell’adolescente il suo incontro con Cristo. Fu sicuramente colpo di fulmine. Quasi certamente, come avviene anche oggi per i nostri giovani, Timoteo restò affascinato dalla forza di Paolo, dal suo entusiasmo, come pure dalla sicurezza di quell’annuncio. Ebbe bisogno, come d’altronde ciascuno di noi, di un modello
forte, stabile, rappresentativo: e imparò a condividere la stessa fame e la medesima sete che provò Paolo nei confronti di Gesù Cristo che morì e risuscitò anche per lui. La Parola, nelle parole di
Paolo, divenne un fuoco divorante, una fiamma che bruciò d’amore e di passione il cuore di Timoteo che s’impegnò a seguire il fabbricatore di tende. Il Vangelo, la Parola che non si lascia incatenare, unì per sempre il cuore dell’apostolo Paolo e quello del suo discepolo. Paolo e Timoteo impararono a condividere le gioie e le ansie, le attese e le speranze provocate dall’annuncio stesso del Vangelo. Essi capirono che amare è donare la vita, vincendo ogni sorta di paura, di perplessità, di resistenza, di pigrizia.
Timoteo era un giovinetto figlio di padre pagano e di madre giudea. Dopo la conversione e la circoncisione, Paolo lo prese con sé nel secondo viaggio missionario (cfr. At 6,1-3; 17,14-15). Timoteo rimase con Paolo durante la sua prima prigionia e fu poi mandato ad Efeso come vescovo. Paolo, arrestato a Roma, richiese ancora la sua compagnia. In 2Tm, con linguaggio esortativo e parenetico, Paolo prevede tempi difficili a causa della corruzione e della stoltezza degli uomini. Egli considerò Timoteo suo proprio figlio in quanto generato nella fede e si sentì responsabile per la stessa comunità di Efeso che Timoteo governò non senza problemi ed esitazioni. Nella lettera, Paolo si presenta come apostolo per volontà di Dio, quasi a dire che il suo ministero è opera divina: la ragione ultima della sua missione risiede nella stessa volontà o progetto del Padre.
Di Timoteo, l’apostolo Paolo ricorda le lacrime per il saluto d’addio e la fede schietta, senza ipocrisia. Forse, Timoteo pianse per l’arresto di Paolo a Troade, da dove fu trasportato per Roma.
Questa fede sincera, senza maschere, trova riscontro anche nel vissuto di Paolo che ha servito il Signore con pura coscienza (cfr. Rm 9,1; At 23,1). La fede schietta di Timoteo è stata ereditata da una famiglia religiosa: dalla nonna (Loide) e dalla madre (Eunice).
In 2Tm 1,6, Paolo chiede al giovane discepolo di ravvivare il carisma, ossia il dono di Dio che
è in lui mediante l’imposizione delle sue stesse mani. È come dire che lo Spirito è fuoco che brucia e arde, illumina e dona forza, vigore, amore e saggezza. Paolo cerca in tutti i modi di rincuorare il giovane Timoteo che forse appariva stanco e indeciso per situazioni gravi riguardanti la comunità cristiana di Efeso. Timoteo, in effetti, rappresenta ciascuno di noi che è messo alla prova e non riesce a vivere la fede in Gesù Cristo fino in fondo. Essenzialmente, Timoteo appare come un giovane timido e incerto, a volte anche tiepido. Il rimedio a questa fragilità è nell’invocazione dello Spirito Santo, ossia nel ravvivare il carisma ricevuto. Questo carisma è come un fuoco posto sotto la cenere: ha bisogno di essere ravvivato: si tratta di riaccendere il fuoco della fede! Timoteo deve vincere paure ed esitazioni: egli appare impacciato agli occhi di Paolo. In realtà, anche noi, dinanzi alle prove della vita, non facciamo altro che esitare e lasciarci prendere dalla paura.
Timoteo deve ritrovare la certezza della sua vocazione dentro di sé, ossia nel cuore dove è posta l’unzione dello Spirito! Il rito delle imposizioni delle mani indica il conferimento di un carisma specifico che serve da supporto al ministero della Parola (cfr. 1Tm 4,11-13). È un carisma che dona forza, coraggio, amore e dominio di sé (cfr. 2Tm 1,6-8). È lo Spirito che fa di noi dei testimoni coraggiosi del Vangelo! In effetti, Timoteo è abilitato a funzioni profetiche: insegnamento, governo, celebrazione. Particolarmente, egli deve insegnare e annunciare la Parola di vita. Lo Spirito spinge Timoteo verso l’esterno: lo abilita a predicare, a decidere, a governare, a giudicare, a discernere, a custodire la fede. È come se i doni dello Spirito Santo lo trasformassero a poco a poco. Paolo esorta Timoteo a soffrire per il Vangelo! Il giovane discepolo deve vincere questa paura (cfr. 2Tm 1,8), partecipando alla stessa sorte di Cristo e dello stesso Paolo che è sì in catene ma libero nel cuore. Come Paolo, il giovane discepolo deve lasciarsi consumare dalla Parola e far ardere nel cuore la buona notizia della morte e della risurrezione di Gesù Cristo. In effetti, soffrire per il Vangelo, anche per noi oggi, significa lasciarsi guidare da Cristo stesso e non dai nostri programmi!
Siamo ancora legati a un cristianesimo borghese, incapace di superare certi schemi e modelli pastorali, di uscire dalle sacrestie per confrontarsi serenamente con le attese della gente di strada e i problemi del mondo. Patire per Cristo, come Paolo e Timoteo – oggi – vuol dire accettare di stare ai margini della società e non avere paura di provare il disagio della minoranza, di chi non viene ascoltato in alcun modo.

2. Praedica Verbum
Consideriamo più da vicino il brano che abbiamo scelto per la nostra meditazione: 2Tm 4,1ss.
Paolo presenta una vera e propria supplica. È una preghiera che s’innalza al cospetto del Padre e di quel Cristo che è in procinto di giudicare i vivi e i morti, e sta per venire – manifestarsi – assieme al suo regno. Paolo chiede a Timoteo di annunciare il Vangelo – la Parola di vita – in ogni contesto e momento. L’appello dell’apostolo è intenso e drammatico: praedica Verbum. Annunzia la Parola sempre! In ogni circostanza e situazione di vita, in qualsiasi tempo o condizione, favorevole e non. Tutto è per la Parola. Ogni cosa prende senso e vita dal Verbo crocifisso e risorto.
Il Verbo, parola di vita, ha preso possesso dell’apostolo e così deve avvenire per Timoteo. Paolo fa riferimento al tempo “dolce” (“favorevole”, eu-kairos) e al tempo “non dolce” (“sfavorevole”, a- kairos).
L’accoramento di Paolo nasce dall’accrescersi della pericolosità dell’errore che si farà più seducente negli ultimi tempi, nonché dalla consapevolezza della sua morte imminente. Paolo è giunto alla fine. Il Vangelo lo ha condotto per sentieri oscuri, impervi. La Parola lo ha spogliato completamente! Timoteo, guardando alla testimonianza di Paolo, non può tirarsi indietro. Egli è il primo responsabile dell’annuncio della Parola ad Efeso. Sono molti i falsi maestri che qui operano creando disordine e spacciandosi per annunciatori di Cristo. Forse si tratta di insegnanti che solleticano l’udito con messaggi sbagliati e dottrine errate, ma pure con proposte accattivanti. Sono come i falsi profeti che riescono a pronunciare quelle stesse parole che la gente vuole sentirsi dire. Tali maestri sono portatori di favole e sogni che consolano e acquietano gli animi dei fedeli che volutamente si lasciano abbindolare e ingannare. Le parole e i linguaggi stucchevoli hanno preso il posto del Vangelo. È attualissimo il messaggio di Paolo: quanti falsi profeti e finti maestri pure oggi! Sono sempre più difficili i contesti in cui annunciare il Vangelo. La stessa missione della Chiesa è in crisi. La gente corre, oggi come allora, dietro a favole inventate che Paolo definisce “roba da vecchierelle”. La Parola ci pone innanzi alla verità del Vangelo, ai fatti nudi e crudi della croce, del Cristo che ha donato la sua vita per noi. La Parola non è ingannevole, bensì veritiera: appella-chiama, informa, esige la sequela e la conversione del cuore. Gli impostori vogliono strumentalizzare la Parola donando false speranze. I discepoli, invece, agiscono con speranza, divenendo servi della Parola.
Paolo, che era stato un fabbricatore di tende, sostenendosi da solo nei bisogni materiali, ci consegna una metafora molto intensa e drammatica per descrivere il sopraggiungere della sua morte: le vele sono sciolte. Paolo è in alto mare, in cammino. È giunto finalmente il tempo della partenza, ossia di lasciare questo mondo. Egli leva l’ancora e s’inoltra verso Cristo (cfr. Fil 1,23). Questo “sciogliere” non indica semplicemente il muoversi nel mare, bensì il rompersi di ogni legame, ossia indica la fine di un’esperienza. È, difatti, la fine: Paolo è pronto, cioè libero, consegnato, abbandonato nella Parola. La sua non è stata una consegna passiva, né una missione inutile: bensì un dono di Cristo. Per questo si offre liberamente per amore di Dio. Così, egli ha terminato la corsa e combattuto la buona battaglia. Egli è come l’olio che si versa sulle offerte, come il vino che prepara l’olocausto o l’acqua che si sparge sulla vittima prima dell’uccisione.
Paolo si sente come il buon atleta o corridore, come un buon soldato, uno che si è impegnato sino alla fine con successo. È quello che deve fare pure Timoteo e anche noi! Paolo è rimasto fedele. Il combattimento, la corsa e la corona di gloria sono simboli che riprendono gli usi sportivi del tempo e sottolineano, per Paolo, l’aspetto agonistico della vita cristiana. Il premio per lui sarà Gesù Cristo.
Come termina la vita di Paolo in questa lettera? Segnata certamente dall’ingratitudine di molti, dalla sofferenza e dalla solitudine. Paolo, abbandonato da tutti, ha compreso che l’unico privilegio concesso dalla Parola è quello della speranza. Perché coloro che annunziano il Vangelo di Gesù Cristo vivono di lui, sperano in lui, amano in lui. E vivono un’esistenza semplice, gioiosa, fiduciosa, trepidante per l’attesa della sua manifestazione gloriosa. Tutto sommato, Paolo sapeva che la vita cristiana è nuova solo in Cristo perché, essenzialmente, è una vita di attesa e di speranza, di morte e di risurrezione. Amici e discepoli, di fatto, gli hanno ferito il cuore, abbandonandolo. Così è stato per Dema, fuggito a Tessalonica; e anche per Crescente, rifugiatosi in Galazia, e per Tito. Luca e Marco lo hanno sorretto negli ultimi tempi. Tichico lo aveva lasciato per la missione ad Efeso. Attorno a Paolo, nel primo processo, si era creato il vuoto. Uomini di cartapesta – come Alessandro il ramaio – avevano fatto finta di seguirlo, di condividerne progetti e speranze. Solo il Signore gli era stato vicino. Ed è a lui che Paolo rimette la sua stessa vita. Eppure gli affetti sono ancora forti: un saluto va a Prisca e ad Aquila, i coniugi, gli amici, nonché benefattori di Paolo, e anche alla famiglia di Onesìforo.
I ricordi si spingono oltre: la memoria trova spazio per Eràsto rimasto a Corinto, per Tròfimo lasciato infermo a Mileto. Nel cuore di Paolo c’è tanta nostalgia: vuole rivedere presto Timoteo per abbracciarlo. Per lui reca il saluto di altri fratelli cristiani, di quelle persone accomunate dalla stessa speranza che nasce dal Vangelo vivo: Eubùlo, Pudènte, Lino, Claudia e tanti altri fratelli (cfr. 2Tm 4,20-22).
Che cosa resta di Paolo? Neanche il mantello che lasciò a Troade, presso Carpo, forse per la fretta dell’arresto e per l’insorgere immediato delle persecuzioni. Né i libri né le pergamene dei suoi viaggi. Nel cuore ha solo la speranza di vedere Cristo, la certezza di essere ancora liberato dal male e salvato. La Parola – il Vangelo vivo di Gesù Cristo – lo ha spogliato completamente, denudato fino al midollo. Tuttavia, Paolo è finalmente libero: da se stesso, dai suoi sogni, da false speranze. Egli vive nella libertà del Vangelo, dei figli di Dio. Nella gelida cella di Roma, Paolo sa che tutto sta per compiersi. Forse, il suo corpo è divenuto la sua vera tenda e la Parola il suo mantello, quella pergamena non scritto – il rotolo della vita – che ha cambiato completamente la sua esistenza.

3. Per la riflessione
Non è forse vero che capita anche a noi di trovarci nella stessa condizione dei cristiani di Efeso? Non è altrettanto vero che ci piace essere rassicurati e amiamo sentirci raccontare storielle e favole che ci danno sicurezza? L’unica Parola di salvezza, sembra dirci l’apostolo Paolo, è il
Vangelo di Gesù Cristo che è morto e risorto per la nostra salvezza. È dalla Parola della croce che nasce la speranza. Questa Parola ha il sopravvento sulla morte, sul peccato, sul male nel mondo e apre un varco nella storia per indicarci la giusta direzione da intraprendere.
Proviamo a dare un volto, un nome, a quei falsi maestri o a quegli idoli che ci tolgono la gioia di vivere e ci pongono nell’angoscia più che nella verità. Non abbiamo bisogno di maggior tempo da spendere per l’ascolto della Parola e l’approfondimento del Vangelo? Non è forse vero che dalle Sacre Scritture ci viene in dono la grazia di Dio? Quali sono i nostri punti di riferimento nel momento della prova, della sofferenza, dello scoraggiamento? Abbiamo sviluppato nella nostra vita quotidiana il carisma della natura docente? Sentiamo nel nostro cuore la domanda impellente che rendeva inquieto il cuore di don Alberione, ossia: “Dove cammina, come cammina, verso quale meta cammina questa umanità che si rinnova sempre sulla faccia della terra?”.
Oggi molti cristiani – e tantissimi religiosi e presbiteri – sentono difficile l’atto stesso della lettura, a fronte della maggiore facilità e immediatezza d’accesso ai mezzi audiovisivi. L’efficientismo della pastorale e di certi stili ecclesiali non aiutano a maturare il nostro rapporto vivo con la Parola. La lettura e la meditazione delle Sante Scritture è già un atto di conversione perché richiede raccoglimento, silenzio interiore ed esteriore, per mettersi in ascolto di Dio che ci parla. Una comunità che non vuole cadere semplicemente nell’efficientismo pastorale deve necessariamente dedicare un tempo all’ascolto orante della Parola.

4. Le sfide per la nuova evangelizzazione
Il disagio vissuto dal giovane vescovo di Efeso è di grande attualità per riflettere oggi sulle sfide per la nuova evangelizzazione che è essenzialmente una rinascita spirituale, ossia la capacità di rendere credibile il Vangelo con la propria testimonianza di vita, con maggiore vigore ed entusiasmo.
Anche se sul piano storico-archeologico non abbiamo tracce di una presenza di Timoteo ad Efeso, abbiamo però una buona documentazione in cui si prova che ad Efeso era molto diffuso il culto di Artemide. La tradizione cristiana afferma che ad Efeso si rifugiò l’apostolo Giovanni con la
Vergine Maria.
Efeso era una città celebre in tutto il mondo antico per i suoi indovini, per l’immenso tempio di
Artemide considerato una delle sette meraviglie del mondo e per lo splendido porto marittimo. La sua posizione ne faceva uno dei massimi centri commerciali del tempo, punto d’incontro tra Oriente e Occidente. Al tempo di san Paolo, Efeso fu la città più importante della provincia romana dell’Asia, ora Turchia occidentale. San Paolo la visitò per breve tempo durante il suo secondo viaggio missionario, mentre nel terzo viaggio si fermò per ben due anni, predicando senza posa il Vangelo e trasformandola in una comunità cristiana di grandi speranze (cfr. At 18,19; 19). I fabbricanti di statuette idolatriche, però, vedendo che ormai le compere andavano sempre più calando, a causa delle conversioni al cristianesimo, sentendosi seriamente compromessi nella loro attività, scatenarono un tumulto, e Paolo dovette partire (cfr. At 19,23-41; 20,1).
Le sfide del Vangelo sono presenti anche oggi così come al tempo di Paolo. Tali scenari della nuova evangelizzazione sono almeno sei e li possiamo così sintetizzare: secolarizzazione, migrazioni, mezzi di comunicazione sociale o anche globalizzazione, crisi economica, la ricerca scientifica e tecnologica, la crisi politica.
Ci troviamo in un’epoca di profonda secolarizzazione che ha perso la capacità di ascoltare e di comprendere la parola evangelica come un messaggio vivo e vivificante. Radicata in modo particolare nel mondo occidentale, frutto di episodi e movimenti sociali e di pensiero che ne hanno segnato in profondità la storia e l’identità, la secolarizzazione si presenta oggi nelle nostre culture attraverso l’immagine positiva della liberazione, della possibilità di immaginare la vita del mondo e dell’umanità senza riferimento alla trascendenza. In questi anni non ha più tanto la forma pubblica dei discorsi diretti e forti contro Dio, la religione e il cristianesimo, anche se in qualche caso questi toni anticristiani, antireligiosi e anticlericali si sono fatti udire anche di recente. Essa ha assunto piuttosto un tono dimesso che ha permesso a questa forma culturale di invadere la vita quotidiana delle persone e di sviluppare una mentalità in cui Dio è di fatto assente, in tutto o in parte, dall’esistenza e dalla coscienza umana. I tratti di un modo secolarizzato di intendere la vita segnano il comportamento quotidiano di molti cristiani, che si mostrano spesso influenzati, se non condizionati, dalla cultura dell’immagine con i suoi modelli e impulsi contraddittori. La mentalità edonistica e consumistica predominante induce in loro una deriva verso la superficialità e un egocentrismo che non è facile contrastare. Il credente si trova spesso ad agire in un contesto di totale diffidenza nei confronti del Vangelo.
Accanto a questo primo scenario culturale, ne possiamo indicare un secondo, più sociale: il grande fenomeno migratorio che spinge sempre di più le persone a lasciare il loro paese di origine e vivere in contesti urbanizzati, modificando la geografia etnica delle nostre città, delle nostre nazioni e dei nostri continenti. Da esso deriva un incontro e un mescolamento delle culture che le nostre società non conoscevano da secoli. Si stanno producendo forme di contaminazione e di sgretolamento dei riferimenti fondamentali della vita, dei valori per cui spendersi, degli stessi legami attraverso i quali i singoli strutturano le loro identità e accedono al senso della vita. L’esito culturale di questi processi è un clima di estrema fluidità e “liquidità” dentro il quale c’è sempre meno spazio per le grandi tradizioni, comprese quelle religiose, e per il loro compito di strutturare in modo oggettivo il senso della storia e le identità dei soggetti. A questo scenario sociale è legato quel fenomeno che va sotto il termine di globalizzazione, realtà di non facile decifrazione, che richiede ai cristiani un forte lavoro di discernimento.
Questo profondo miscuglio delle culture è lo sfondo sul quale opera un terzo scenario che va segnando in modo sempre più determinante la vita delle persone e la coscienza collettiva. Si tratta della sfida dei mezzi di comunicazione sociale, che oggi offrono enormi possibilità e rappresentano una delle grandi sfide per la Chiesa. Non c’è luogo al mondo che oggi non possa essere raggiunto e quindi non essere soggetto all’influsso della cultura mediatica e digitale che si struttura sempre più come il “luogo” della vita pubblica e della esperienza sociale. Il diffondersi di questa cultura porta con sé indubbi benefici: maggiore accesso alle informazioni, maggiore possibilità di conoscenza, di scambio, di forme nuove di solidarietà, di capacità di costruire una cultura sempre più a dimensione mondiale, rendendo i valori e i migliori sviluppi del pensiero e dell’espressione umana patrimonio di tutti. Queste potenzialità non possono però nascondere i rischi che la diffusione eccessiva di una simile cultura sta già generando. Si manifesta una profonda concentrazione egocentrica su di sé e sui soli bisogni individuali. Si afferma un’esaltazione della dimensione emotiva nella strutturazione delle relazioni e dei legami sociali. Si assiste alla perdita di valore oggettivo dell’esperienza della riflessione e del pensiero, ridotta in molti casi a puro luogo di conferma del proprio sentire. Si diffonde una progressiva alienazione della dimensione etica e politica della vita, che riduce l’alterità al ruolo funzionale di specchio e spettatore delle mie azioni.
Il quarto scenario che segna con i suoi mutamenti l’azione evangelizzatrice della Chiesa è quello economico. La perdurante crisi economica nella quale ci troviamo segnala il problema di utilizzo di forze materiali, che fatica a trovare le regole di un mercato globale capace di tutelare una convivenza più giusta.
Il quinto scenario è quello della ricerca scientifica e tecnologica. Viviamo in un’epoca che non si è ancora ripresa dalla meraviglia suscitata dai continui traguardi che la ricerca in questi campi ha saputo superare. Tutti possiamo sperimentare nella vita quotidiana i benefici arrecati da questi progressi. Tutti siamo sempre più dipendenti da questi benefici. La scienza e la tecnologia corrono così il rischio di diventare i nuovi idoli del presente.
Il sesto scenario è quello politico. È giunta la fine della divisione del mondo occidentale in due blocchi con la crisi dell’ideologia comunista. Ciò ha favorito la libertà religiosa e la possibilità di riorganizzazione delle Chiese storiche. L’emergere sulla scena mondiale di nuovi attori economici, politici e religiosi, come il mondo islamico, mondo asiatico, ha creato una situazione inedita e totalmente sconosciuta, ricca di potenzialità, ma anche piena di rischi e di nuove tentazioni di dominio e di potere. In questo scenario, l’impegno per la pace, lo sviluppo e la liberazione dei popoli; il miglioramento delle forme di governo mondiale e nazionale; la costruzione di forme possibili di ascolto, convivenza, dialogo e collaborazione tra le diverse culture e religioni; la custodia dei diritti dell’uomo e dei popoli, soprattutto delle minoranze; la promozione dei più deboli; la salvaguardia del creato e l’impegno per il futuro del nostro pianeta, sono tutti temi e settori da illuminare con la luce del Vangelo.

Edoardo Scognamiglio (1970), frate minore conventuale, è teologo e filosofo. Insegna Teologia dogmatica a Napoli presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale e Dialogo interreligioso e Introduzione all’Islam a
Roma presso la Pontificia Università Urbaniana. Consultore del Santo Padre dal 2009 per il Pontificio Consiglio per la Famiglia, fra Edoardo si occupa da lungo tempo del dialogo interreligioso.
A Maddaloni (NA) dirige il Centro Studi Francescani per il Dialogo interreligioso e le culture ed è responsabile per la Diocesi di Caserta dell’Ufficio ecumenico. In Europa è tra i massimi conoscitori del pensiero e dell’opera letteraria del poeta libanese Khalil
Gibran. Negli ultimi anni si dedica alla pratica della lectio divina con gruppi di giovani, consacrati e laici. È autore di numerosi saggi di filosofia, teologia, storia delle religioni e letteratura. Ha pubblicato diversi libri con le Paoline.
Nel giugno scorso è stato confermato Ministro Provinciale dell’Ordine dei frati minori conventuali della Provincia di Napoli e Basilicata.

“SE MORIAMO CON CRISTO…”, 2 Tim. 2,11-13; Tito 3,4-7

http://www.adonaj.net/old/preghiera/lectio12.htm

LECTIO DIVINA 12

“SE MORIAMO CON CRISTO…”, 2 Tim. 2,11-13; Tito 3,4-7

Introductio: Preghiamo la Madonna, con l’Ave Maria, perché ci assista nell’accogliere lo Spirito Santo.

“Vieni, Spirito Santo, nei nostri cuori e accendi
In essi il fuoco del tuo amore. Vieni, Spirito Santo,
e donaci per intercessione di Maria che ha saputo
Contemplare, raccogliere gli eventi della vita di
Cristo e farne memoria operosa, la grazia di
Leggere e rileggere le Scritture per farne anche
In noi memoria viva e operosa.
Donaci, Spirito Santo, di lasciarci nutrire da questi
Eventi e di riesprimerli nella nostra vita.
E donaci, Ti preghiamo, una grazia ancora più
Grande, quella di cogliere l’opera di Dio nella
Chiesa visibile e operante nel mondo”. Amen.

Lectio. Leggiamo i testi molto attentamente.

Di Timoteo abbiamo già riferito nella Lectio precedente. Aggiungiamo solo che Paolo lo esorta fedelmente al Vangelo, e per questo gli rammenta di ravvivare il dono di Dio che è in lui per l’imposizione delle mani. Aggiunge, inoltre, che lo Spirito Santo non gli ha donato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza. Quindi prosegue dicendogli di non vergognarsi della testimonianza da rendere al Signore, di soffrire con Paolo stesso (si trovava in carcere) per il Vangelo, aiutato dalla forza di Dio, perché il Padre lo ha sanato e lo ha chiamato con una vocazione santa, non in base alle opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia; grazia donata da Cristo Gesù fin dall’eternità, ma rivelata solo ora con l’apparizione del salvatore Cristo Gesù.
Poiché Gesù ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’immortalità per mezzo del Vangelo, del quale egli è stato costituito araldo, apostolo e maestro.
Tito fu discepolo e compagno di Paolo, prima di Timoteo. Sembra certo che fosse nativo di Antiochia, di discendenza pagana, e chiamato da Paolo “figlio”, il che ci fa supporre che fosse stato battezzato dall’Apostolo. Poiché Tito non era giudeo, a Gerusalemme esigevano che ricevesse il rito della circoncisione, attribuendo il valore di norma a quel caso particolare e mirando con ciò a respingere la dottrina di libertà predicata da Paolo; il quale però non cedette, e Tito rimase incirconciso. Durante il terzo viaggio missionario di Paolo, Tito gli fu a fianco nella sua permanenza ad Efeso e lo coadiuvò nel sedare i torbidi intrighi della comunità di Corinto, prodigandosi nei fatti rammentati nella seconda lettera ai Corinzi.
Per gli ultimi anni qualche isolata notizia si ricava dalle Pastorali. Verso il 65 Tito giunge a Creta con Paolo, e lì lasciato per ampliare l’evangelizzazione dell’isola e provvedere alla sua organizzazione.
Egli doveva nominare presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni di Paolo, il quale aveva specificato che il candidato deve essere irreprensibile, sposato una sola volta, con figli credenti e che non possano essere accusati di dissolutezza o siano insubordinati. Aggiunge ancora che il vescovo, come amministratore di Dio, deve essere correttissimo: non arrogante, non iracondo, non dedito al vino, non violento, non avido di guadagno disonesto, ma, al contrario, ospitale, amante del bene, assennato, giusto, pio, attaccato alla dottrina sicura, secondo l’insegnamento trasmessogli, perché sia in grado di esortare con la sana dottrina e di confutare coloro che contraddicono. Quindi spiega a Tito che vi sono, soprattutto fra quelli che provengono dalla circoncisione, molti spiriti insubordinati, chiacchieroni e ingannatori della gente. Afferma anche che a questi tali bisogna chiudere la bocca, perché mettono lo scompiglio in molte famiglie, insegnando per amore di un guadagno disonesto cose che non si devono insegnare.

Meditatio.
Se moriamo con Cristo, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo. Se lo rinneghiamo, anch’egli rinnegherà noi; se noi manchiamo di fede, egli rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2 Tim. 2,11-13).
Paolo, avendo rammentato la “potenza” di Dio, comunicata a Timoteo nella sua ordinazione, sviluppa il tema dell’assoluta gratuità della “salvezza” mediante la fede in Cristo e nel suo “vangelo”, di cui egli è stato stabilito “araldo, apostolo e maestro”. Si tratta del motivo che ha Timoteo per essere forte e coraggioso; non si può respingere a cuor leggero la “vocazione” di Dio alla salvezza e alla “immortalità, sia nel corpo sia nell’anima, costi quel che costi”.
I versetti citati assomigliano ad un antico “inno” liturgico, usato forse durante il rito battesimale per esprimere il mistero di vita e di morte rappresentato dal battesimo stesso. Esso consta di quattro proposizioni, e tutte iniziano con “se” e rette dalla legge semitica del parallelismo.
L’idea del “morire” con Cristo e del “soffrire” con lui è tipicamente di Paolo. Il proposito del “morire insieme” ci ricorda l’uso in vigore presso qualche popolo antico, dove i soldati più fedeli e amici del re morivano insieme con lui: in tal caso Paolo, riprende l’immagine militare, per enunciare una verità di fede.
“Quando si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per la sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna” ( Tito 3, 4-7).
Questi versetti sono molto importanti, giacché costituiscono una forma breve di riassunto della dottrina della salvezza, di cui si descrivono gli elementi costitutivi e le condizioni.
Autore della salvezza è Dio Padre: è lui, infatti, il “Salvatore nostro Iddio” di cui, ad un certo punto della storia “apparve” la “benignità” e lo sviscerato “amore per gli uomini”. Questa “epifania” dell’amore del Padre si è avuta soprattutto nell’Incarnazione. E sono da escludere come causa della salvezza pretese opere di “giustizia”. Infatti, Paolo, afferma: “Noi riteniamo che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della Legge”. La frase va interpretata nel senso che più che sulla fede, insiste sulla necessità del battesimo che ovviamente presuppone, almeno per gli adulti, la “fede”.
Il battesimo è presentato come causa strumentale (“mediante…”) della salvezza: è descritto come “lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo”. Tale purificazione pertanto non è solo esterna, ma attinge le radici stesse dell’essere che è intrinsecamente trasformato e rinnovato: il battesimo opera perciò una vera interiore “rigenerazione”, con conseguente “rinnovamento” di tutta la struttura dell’essere. In quest’intima trasformazione consiste la “giustificazione”, la quale perciò non può essere una mera dichiarazione “forense” d’opere di giustizia.
In possesso di tale giustizia, che, di fatto, ci costituisce “figli di Dio”, è chiaro che abbiamo diritto alla “eredità” della “vita eterna”, la quale non sarà altro che l’efflorescenza della presente vita di grazia. Tale diritto però non è ancora un’effettiva immissione in possesso; infatti, è solo nella “speranza” che siamo già cittadini del cielo. E’ certo però che tale speranza “non delude”, perché abbiamo già la “caparra” della “vita eterna” nella presenza dello Spirito Santo in noi. Infatti, tutte queste meraviglie di “rinnovazione” le opera lo Spirito Santo, “effuso in abbondanza sopra di noi” dal Padre, in virtù dei meriti di Gesù Cristo Salvatore nostro”, nel giorno del nostro battesimo.
Come possiamo notare tutta la S.S. Trinità è all’opera nella realizzazione della salvezza: il Padre, poiché ideatore di questo stupefacente disegno d’amore; il Figlio, in quanto esecutore di tale progetto mediante l’incarnazione e in quanto causa meritoria dell’effusione dello Spirito sopra i redenti mediante la sua morte di croce; lo Spirito Santo , in quanto diretto autore dell’opera di “rigenerazione e di rinnovamento” delle anime.
Paolo, a più riprese, presenta la vita cristiana come una nuova “creazione”, una “vita nuova” in Cristo, una “rinnovazione” della mente; il cristiano ha rinnegato “l’uomo vecchio” ed è diventato “uomo nuovo”.

Contemplatio.
Gesù, Signore nostro, le tue parole, le tue promesse ci sono venute incontro e noi, commossi ed esultanti, le abbiamo interiorizzate nel cuore e nella mente. Per questo ti lodiamo, ti adoriamo, ti benediciamo, ti glorifichiamo, ti contempliamo ed eleviamo a te canti e preghiere di ringraziamento, per il tuo amore che riversi su ognuno di noi. Le nostre vicende di cristiani, membri della nuova umanità, devono ricalcare quella tua Gesù. Se come te e insieme con te noi affrontiamo e sopportiamo la morte, avremo come te e con te la vita e il regno. Al contrario, se non resteremo fedeli, saremo da te giustamente rinnegati; tu invece rimani sempre fedele alle tue promesse. Questa è una realtà che noi non scorderemo, infatti, con la tua resurrezione, la parola più nuova, la forza più rinnovatrice è entrata nel mondo. Tutto ciò ci riguarda personalmente: Gesù, tu sei risuscitato per salvarci. Le nostre immancabili sofferenze, debolezze, prove e peccati sono stati innestati nella tua morte per esserlo nella tua risurrezione; perdendo la loro amarezza. Il nostro essere cristiano è teso fra tre tempi: la morte già realizzata nel battesimo, le sofferenze dell’esistenza, il regno futuro. Gesù, ciò che ci lega è la “speranza”, che è certezza d’attesa operosa. Vivere alla tua sequela è rivivere la tua esistenza pasquale: il presente raccorda e domina il passato e il futuro ne trae energie per il compimento pieno. Perciò mettiamo al bando paure e varie questioni che smorzano la fede e la speranza.
Oggi noi abbiamo rievocato il tempo primo della conversione con le colpe che ci caratterizzavano. Tuttavia, per la misericordia di Dio Salvatore si è verificata mediante il battesimo, la decisiva trasformazione. Il tuo dono gratuito nel battesimo, lo Spirito Santo, con i suoi effetti ci ha rinati e rinnovati. Mansuetudine e dolcezza verso tutti sono due vite squisitamente e appartenenti a noi cristiani. Noi, in genere, non siamo portati alla mitezza: infatti, essa esige continua lotta contro di noi stessi, dominio di sé, rinnegamento del nostro egoismo; comporta pazienza, costanza e coraggio, rinuncia e sacrificio. Più noi cristiani sviluppiamo la bontà nella nostra vita, più essa diventa contagiosa fino a sommergere l’ambiente che ci circonda. La dolcezza educa alla comprensione, alla clemenza, all’umiltà, alla piena e continua comunanza con Dio, sorgente d’ogni bontà. La mansuetudine ne è l’espressione più alta e delicata, perché dimenticando noi stessi si vive e si spera per gli altri. Di questo noi ti siamo grati, perché tutto proviene da te nel dono effuso con lo Spirito Santo.

Conclusio.
Se Dio non mi avesse fermato, se mi avesse abbandonato ai miei soli pensieri e alle mie sole forze, senza dubbio avrei preso la strada che porta alla morte e alla perdizione. Nel numero dei ribelli, sono vissuto anch’io, un tempo, con i desideri della mia carne, seguendo le voglie della carne e i desideri cattivi; ed ero per natura meritevole d’ira, come gli altri. Ma tu Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale mi hai amato, da morto che ero per i peccati, mi hai fatto rivivere con Cristo a nuova vita: per grazia, infatti, sono stato salvato. Mi hai anche risuscitato nel battesimo e mi hai fatto sedere nei cieli in Cristo Gesù Redentore. Il mio sguardo di fede non si svolge soltanto verso l’avvenire di gioia, ma si sofferma anche a considerare la disgrazia e la sventura che mi sono state risparmiate dal salvatore Gesù, tuo Figlio Diletto.

Grazie, Gesù Signore! Benedetto sia il tuo nome, sempre!

Amen.

 

BRANO BIBLICO SCELTO: 2 TIMOTEO 4,6-8.16-18

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=2%20Timoteo%204,6-8.16-18

BRANO BIBLICO SCELTO: 2 TIMOTEO 4,6-8.16-18

Carissimo, 6 il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. 7 Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede.
8 Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione.
16 Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto di loro. 17 Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i Gentili: e così fui liberato dalla bocca del leone.
 18 Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.

COMMENTO
2 Timoteo 4,6-8.16-18
La corona di giustizia
La lettera si apre con il prescritto e il ringraziamento epistolare, nel quale l’autore ricorda la fede di Timoteo, ricevuta dalla madre e dalla nonna (1,1-5). Viene poi il corpo della lettera in cui sono svolti i seguenti temi: A. Il vero pastore (1,6-18); B. Il comportamento di  Timoteo (2,1-26); C. Gli ultimi tempi (3,1-17); D) Il testamento di Paolo (4,1-18). Il testo liturgico riprende la seconda parte del testamento di Paolo, dove l’Apostolo fa una sintesi del suo apostolato (vv. 6-8) e dà a Timoteo le sue ultime istruzioni (vv. 16-18). Vengono omessi i vv. 9-15 che contengono l’indicazione di alcuni compiti specifici affidati a Timoteo.
Paolo rivolge anzitutto lo sguardo al passato: «Io infatti sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (vv. 6-7). Paolo è ormai alla vigilia del martirio o dell’esecuzione capitale e  dà una visione retrospettiva della sua attività. Il modello qui adottato è quello dei discorsi di addio, che viene utilizzato per esempio nel saluto di Paolo ai presbiteri di Mileto, dove ricorre la stessa immagine della corsa (cfr. At 20,24). Da questo genere letterario deriva il tono elogiativo con cui si presenta la vita passata dell’Apostolo. La prospettiva della morte imminente è evocata con le immagini del sacrificio e della partenza, mutuate dalla lettera ai Filippesi (cfr. Fil 1,23; 2,17). La morte dell’apostolo è presentata come un sacrificio: nella tradizione giudeo-ellenistica e, più tardi, in quella rabbinica, la morte del martire è interpretata come un sacrificio in quanto riconcilia il popolo con Dio. Essa è anche l’approdo alla meta definitiva. Riguardo al passato, la vita apostolica di Paolo è descritta come una battaglia e come una competizione sportiva. Il linguaggio è quello adottato da Paolo stesso, che paragona l’impegno e il rischio della sua missione apostolica alle gare nello stadio (cfr. 1Cor 9,24-27). Lo stesso linguaggio è adottato anche altrove nella Pastorali (cfr. 1Tm 6,12;  2Tm 2,5). Secondo una formula fissa, in uso nei pubblici riconoscimenti, si afferma che Paolo ha «tenuto fede» agli impegni di apostolo, missionario e maestro. Anche questo motivo della fedeltà o pieno compimento della missione rientra nel linguaggio dei discorsi di addio (cfr. At 20,20.27; Gv 17,4.6). Egli diventa così il modello o prototipo dei pastori e di tutti i credenti non solo nella sua vita e attività, ma anche nella sua morte.
 Lo sguardo si rivolge poi al futuro, con il ricorso nuovamente alle immagini delle gare sportive o della lotta: «Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione» (v. 8). Al vincitore spetta l’incoronazione con il serto di alloro o con rami di sempreverde. Il simbolo della corona per l’ambiente greco-ellenistico è carico di connotazioni come onore, gioia, immortalità e trionfo. La corona viene qualificata con il genitivo «di giustizia»: non si tratta dunque di un riconoscimento umano, ma di quello che viene da Dio, basato sull’acquisizione della giustizia in quanto rapporto pieno con lui. Questa corona verrà conferita nel contesto escatologico dal Signore, che allora si manifesterà come «giusto giudice», che non delude quelli che per lui si sono impegnati senza riserve. La sorte di Paolo è un pegno per tutti i credenti che sono solidali con il suo destino (cfr. 1Ts 2,19). Essi sono definiti come quelli che vivono nell’attesa della gloriosa manifestazione del Signore. È scomparsa la componente di impazienza che deriva dalla credenza in un imminente ritorno del Signore, lasciando il posto all’impegno quotidiano per vivere secondo gli insegnamenti e l’esempio di Gesù.
Nei versetti omessi dalla liturgia, Paolo esorta Timoteo a raggiungerlo comunicandogli che i suoi compagni Dema, Crescente e Tito lo hanno lasciato solo. Con lui c’è solo Luca. A Timoteo dice ancora di portare con sé Marco e accenna all’invio di Tichico a Efeso. E aggiunge di portargli il mantello e le pergamene che ha lasciato a Troade e infine lo mette in guardia nei confronti di Alessandro. Questi accenni, che dovrebbero essere le prove dell’autenticità della lettera, sono invece chiaramente artificiosi e si riferiscono a situazioni non controllabili, anzi a volte inverosimili, soprattutto nel caso di uno che sta per essere giustiziato.
Nella seconda parte del brano si ritorna sulla situazione attuale dell’Apostolo: «Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto» (v. 16). In questo sfogo si sente il rammarico per l’abbandono da parte dei suoi. Verso di loro Paolo ha parole di perdono. È difficile sapere se si tratta di un ricordo storico o del semplice motivo del giusto abbandonato dai suoi amici, come era stato per Gesù. La solitudine di Paolo è riempita dalla vicinanza del Signore: «Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone» (v. 17). Paolo è consapevole che solo con la grazia di Dio ha potuto portare a termine la sua missione. Questo risultato è espresso con l’immagine della lotta vittoriosa dei gladiatori contro i leoni nel circo. Non si tratta però di una vittoria umana, bensì del successo dell’opera di evangelizzazione, che può benissimo coesistere con l’imminente martirio.
L’esperienza del conforto che gli viene dal Signore apre infine il cuore alla speranza: «Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen» (v. 18). La liberazione a cui tende l’Apostolo non è più quella che si attua in questo mondo ma quella che consiste nell’ingresso nel regno, che appare ormai come una realtà che ha sede nei cieli. Alla visione del regno come trasformazione di questo mondo si è ormai sostituita quella di una nuova situazione che si raggiunge dopo la morte, quando l’anima si ricongiunge definitivamente con Dio.

Linee interpretative
In questo brano si tende ad avvalorare l’autenticità paolina della lettera, mentre invece esso ne dimostra chiaramente l’origine tardiva, pur situandosi nell’alveo della tradizione paolina. La figura idealizzata di Paolo, il martire fedele e coraggioso, viene riproposta plasticamente ai cristiani grazie ad alcuni dati biografici ripresi e rielaborati dalle fonti tradizionali paoline, lettere e Atti degli Apostoli. In tal modo l’insegnamento dell’apostolo assume un valore permanente e la sua vicenda diventa paradigmatica per tutti i cristiani. Quello che si sottolinea maggiormente è la sua fedeltà fino alla fine nel compimento della missione a lui affidata di annunziatore del vangelo.
Questa rilettura idealizzata di Paolo, il prigioniero del Signore e il testimone fedele, si ispira al modello biblico del giusto abbandonato dagli amici e vicini, attaccato dai suoi nemici, il quale ripone la sua fiducia solo in Dio che lo protegge e lo libera e così alla fine può rendere grazie a Dio. Sullo sfondo di questo schema letterario diventa perfettamente plausibile la contrapposizione tra l’abbandono di tutti e la presenza del Signore che dà all’apostolo la forza per la testimonianza evangelica e alla fine lo salva in modo definitivo, conferendogli una vita nuova nel suo regno. Questa presentazione deve servire come incoraggiamento ai cristiani che come lui testimoniano il vangelo in mezzo alle sofferenze e alle contraddizioni di questo mondo.

« SO IN CHI HO POSTO LA MIA FEDE » (2Tim 1,12) Mons. Francesco Moraglia

 http://www.zenit.org/article-33232?l=italian

(alcuni riferimenti a Paolo)

« SO IN CHI HO POSTO LA MIA FEDE » (2Tim 1,12)

Omelia del patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, in occasione dell’apertura diocesana dell’Anno della Fede

VENEZIA, lunedì, 15 ottobre 2012 (ZENIT.org).- Riprendiamo l’omelia tenuta ieri durante la Solenne Celebrazione Eucaristica in piazza San Marco dal patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia, in occasione dell’apertura diocesana dell’Anno della Fede.
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Introduzione
Carissimi,
l’Anno della Fede è dinanzi alla nostra Chiesa e a ciascuno di noi come grazia, opportunità, compito; il desiderio è viverlo al meglio per essere viva Chiesa del Signore.
Inizio con le parole di Benedetto XVI che nella lettera apostolica Porta fidei – indicendo l’anno – riprende l’apostolo Paolo che, al termine della vita, scrive al discepolo Timoteo e lo esorta a “cercare la fede (cfr. 2Tm 2,22) con la stessa costanza di quando era ragazzo (cfr. 2Tm 3,15)” (PF,15). E, poi, continua: “Sentiamo questo invito rivolto a ciascuno di noi, perché nessuno diventi pigro nella fede: Essa è compagna di vita che permette di percepire con sguardo sempre nuovo le meraviglie che Dio compie in noi” (PF, 15).
Questo invito è rivolto alla Chiesa che è in Venezia, al patriarca, ai presbiteri, ai diaconi, ai consacrati, alle consacrate, ai giovani, agli anziani, ai sani, ai malati, a tutti: nessuno escluso.
L’Anno della Fede: una grazia di conversione
Crescere nella fede vuol dire appartenere a Dio e testimoniare con la vita battesimale, il Signore Gesù; per questo necessitano occhi nuovi che sappiano guardare oltre il momento presente, liberi nel coglierlo secondo verità e giustizia.
Ora, la domanda “venga il tuo Regno…” (Mt. 6,10) – che Gesù pone all’inizio del Padre Nostro – non è, per il cristiano, una via di fuga dinanzi a un presente che, talvolta, può anche esser faticoso. Al contrario, ci invita a compiere qualcosa di concreto attraverso una vita di fede più attenta e generosa con cui, rispondendo alla grazia, si possa vivere il tempo presente comunicandogli il respiro dell’eternità, considerando i piccoli semi di verità e di giustizia che sono intorno a noi.
In questo tempo di grazia – che è l’Anno della Fede – pastori e fedeli sono chiamati a testimoniare personalmente e comunitariamente quanto l’apostolo Paolo, al termine della vita, scrive a Timoteo: “So… in chi ho posto la mia fede e sono convinto che egli è capace di custodire fino a quel giorno ciò che mi è stato affidato” (2Tm 1,12). L’Anno della Fede – indetto da Benedetto XVI per celebrare i cinquant’anni dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II e i vent’anni della promulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica – ci chiama personalmente in causa assieme alla comunità ecclesiale, invitando all’esame di coscienza sul modo in cui vivere e professare la fede oggi.
Benedetto XVI, all’inizio della Lettera apostolica Porta fidei con cui promulga per la Chiesa l’Anno della Fede, così si esprime: “La ‘PORTA DELLA FEDE’ (cfr. At 14,27) che introduce la vita di comunione con Dio e permette l’ingresso nella sua chiesa è sempre aperta per noi. E’ possibile oltrepassare quella soglia quando la Parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma. Attraversare quella porta comporta immettersi in un cammino che dura tutta la vita. Esso inizia con il Battesimo (cfr. Rm 6, 4), mediante il quale possiamo chiamare Dio con il nome di Padre…” (PF, n.1).
Una revisione di vita che voglia essere vera conversione deve qualificarsi, innanzitutto, in termini di critica “generosa”, ossia in termini di autocritica. Il che significa: non puntare il dito contro nessuno. Bisogna superare le recriminazioni, forse anche espressioni di animi “storicamente” amareggiati, certamente di animi non ancora capaci di perdono generoso. Se è il caso, contrastiamo tali stati d’animo con più coraggio e fiducia, con più amore, con umiltà e desiderio di riconciliazione.
La questione decisiva, o “caso serio” nel nostro personale cammino verso una fede più matura, richiede di far nostre sine glossa – ossia senza interpretazioni di comodo – le pagine difficili del Vangelo, cominciando proprio da quelle sul perdono. Si tratta di far esodo verso la verità di Dio, premessa per ricostruire vere relazioni personali e comunitarie. Un’idea di tolleranza non fondata sulla verità, alla fine, risulta fuorviante e destinata a condurre prima all’indifferenza e poi alla reciproca estraneità.
“Io credo”, “noi crediamo”: salvati con gli altri
Bisogna – secondo l’esortazione dell’apostolo Paolo – non esser pigri nella fede ma, piuttosto, saper scorgere, attraverso di essa, le meraviglie di Dio. La fede non si esaurisce nell’atto personale del credere. L’affermazione “io credo” porta sempre con sé anche la dimensione comunitaria del credere, vale a dire “noi crediamo”.
La forma ecclesiale del credere è parte strutturale della fede. Noi, infatti, un giorno abbiamo ricevuto la fede da qualcuno o, almeno, qualcuno ci ha rinsaldati in essa. Emblematico è il caso di Saulo che, dopo l’incontro diretto col Cristo risorto, viene mandato da Anania che lo introdurrà  nella vita di fede, la vita della Chiesa (cfr. At 9,10-19).
Ciascuno di noi, in modo simile, condivide la fede con chi gliel’ha annunciata e con quanti, insieme a lui, credono. Sì, la fede va condivisa con gli altri, o meglio con la Chiesa, all’interno della comunione del popolo di Dio che – come insegna il Concilio Ecumenico Vaticano II – va intesa sempre come unione di fedeli e pastori.
Le parole della costituzione dogmatica Lumen gentium, in proposito, sono chiare: “La totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dallo Spirito Santo, (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici» mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, e sotto la guida del sacro magistero, il quale permette, se gli si obbedisce fedelmente, di ricevere non più una parola umana, ma veramente la parola di Dio (cfr. 1 Ts 2,13)…” (LG, 12).
Henri de Lubac, grande storico della teologia, circa la connotazione ecclesiale della fede così s’esprime: “L’io che crede in Gesù Cristo non può essere altro che la Chiesa di Gesù Cristo. La fede del cristiano è dunque partecipazione alla fede della Chiesa. Ma una fede non è fede “nella” Chiesa, è fede “della” Chiesa… L’anima cristiana è un’anima ecclesiastica” (H. de Lubac, Paradosso e mistero della Chiesa, Jaca Book, Milano, 1979, 109). Si dice letteralmente: “l’anima cristiana è un’anima ecclesiastica” e con ciò si riconoscono ed evidenziano gli elementi che, anche storicamente, segnano la vita di fede della Sposa del Signore.
Un pensiero ricorrente nel magistero di Benedetto XVI ribadisce che l’uomo si pone in relazione con Dio proprio attraverso il prossimo. Noi, d’altra parte, comunichiamo con gli altri credenti attraverso i contenuti della fede. Si dice comunemente: crediamo le stesse “cose”. Due persone che non si conoscono, che non appartengono alla stessa cultura e non parlano la stessa lingua ma credono in Gesù Cristo, attraverso la loro fede, comunicano fra loro nelle cose più importanti. Condividono, infatti, le risposte alle domande fondamentali dell’uomo: Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Chi mi garantisce oltre la mia fragilità? C’è qualcosa dopo questa vita? Che cos’è il bene? Che cos’è il male?
Si manifesta, così, la dimensione comunitaria del credere e Benedetto XVI lo evidenzia. L’uomo non è chiamato da solo alla salvezza ma all’interno della comunità ecclesiale: “Con il suo amore, Gesù attira a sé gli uomini di ogni generazione: in ogni tempo Egli convoca la Chiesa affidandole l’annuncio del vangelo, con un mandato che è sempre nuovo” (PF n.7). Nella Chiesa ogni realtà è personale e, allo stesso tempo, comunitaria. Nulla è individuale, a iniziare dalla fede che introduce l’uomo nel mondo di Dio e nell’alleanza tra Dio e l’uomo e degli uomini fra loro.
Quando Gesù comincia ad annunziare il Regno, raduna attorno a sé il nuovo popolo di Dio, costituito inizialmente dai Dodici e dai discepoli. Gesù, poi, congiunge il gesto sacramentale del pane spezzato e del vino effuso con la piena comunione ecclesiale. La salvezza non si esprime, così, come la presenza individuale di Gesù nelle coscienze dei singoli ma nel dono di Lui vivente e presente nella Chiesa, il suo corpo. Sant’Agostino parla, a ragione, della Chiesa come del Christus totus, il Cristo integrale (cfr. S. Agostino, Enarrationes in psalmos, 85,1, in PL, 36,1081).
La dimensione comunitaria della fede non solo non schiaccia l’io personale ma fa in maniera che il singolo credente non cada in una fede fai da te, oggi molto di moda. La fede – nella sua dimensione comunitaria e relazionale – è, alla fine, essenziale e permette al soggetto di raggiungere la pienezza umana.  La fede fai da te è comunque rischio ricorrente per la nostra epoca, segnata dall’individualismo che pretende di rinchiudere ogni cosa all’interno di un soggetto che, invece d’incontrare l’Altro, nella vicenda storica di Gesù di Nazareth, finisce per imbattersi nel proprio io o, più realisticamente, nella cultura dominante del determinato momento storico.
In altri termini – stante il progetto di Dio rivelato nel Signore Gesù – gli uomini non sono chiamati a una salvezza individuale ma donata a un popolo costituito su un fondamento imprescindibile: Pietro e i Dodici.
Il libro degli Atti degli Apostoli, fin dalle prime pagine, ne è la diuturna testimonianza: “Erano perseveranti nell’insegnamento degli Apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane, nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (Atti, 2, 43-46).
Insieme a un tale quadro idilliaco, non vanno sottaciuti il peccato di Anania e Saffira (cfr. At 5,1-11), il comportamento dell’incestuoso di Corinto che vive con la moglie di suo padre (cfr. 1Cor 5, 1-5), le divisioni della stessa comunità che provocano nell’apostolo Paolo espressioni che ci sorprendono: “…verrò presto, se piacerà al Signore, e mi renderò conto non già delle parole di quelli che sono gonfi d’orgoglio, ma di ciò che sanno veramente fare. Il regno di Dio infatti non consiste in parole, ma in potenza. Che cosa volete? Debbo venire a voi con il bastone, o con amore e con dolcezza d’animo? ” (1Cor, 4, 19-21). 
I Dodici rimarranno, comunque, il fondamento: coloro che hanno visto e ascoltato il Signore e hanno vissuto con Lui, quelli che l’hanno seguito a Gerusalemme, l’hanno visto morire in croce ma, soprattutto, l’hanno incontrato nuovamente vivo il terzo giorno, realmente risorto e, concordi, testimoniano che è apparso a Simone (cfr. Lc. 24,34). La Chiesa è fondata sui Dodici, gli inviati del Risorto. E, dopo, i loro successori che continuano l’opera apostolica, evangelizzando fino agli estremi confini della terra.
L’Anno della Fede è, nello stesso tempo, itinerario personale del discepolo ed ecclesiale dell’intera Chiesa. Costituisce un percorso che conduce il credente verso un più vero e intenso incontro con la persona di Gesù, la quale dà alla vita dell’uomo un nuovo orizzonte e la direzione decisiva (cfr. PF n.1).
Il Concilio Ecumenico Vaticano II – come insegna Benedetto XVI – s’inserisce in un cammino ecclesiale di riforma nella continuità. All’inizio della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, la Lumen gentium, troviamo queste parole: “Cristo è la luce delle genti, e questo sacro concilio… ardentemente desidera che la luce di Cristo, riflessa sul volto della Chiesa, illumini tutti gli uomini annunziando il Vangelo ad ogni creatura…” (LG n.1).
Cristo – col suo Vangelo, il suo “buon annuncio” – ci raggiunge tramite la Chiesa e il suo ministero. Fondamentale è l’esperienza personale dei Dodici a partire dagli incontri che ebbero col Signore risorto il giorno successivo al sabato. La Chiesa, negli uomini e donne che la compongono, è la prima destinataria dell’annunzio cristiano: “…davvero il Signore è risorto!” (cfr. Lc 24,34). Poi, a sua volta, diventa il soggetto evangelizzante per antonomasia a cui compete l’onore e l’onere dell’annuncio.
Benedetto XVI lo sottolinea quando, nella Lettera Porta fidei, afferma: “La stessa professione di fede è un atto personale e insieme comunitario. E’ la Chiesa, infatti, il primo soggetto della fede… “Io credo”: è anche la Chiesa nostra Madre, che risponde a Dio con la sua fede che ci insegna a dire “Io credo”, “Noi crediamo” (PF n.10).
E’ necessario, all’inizio dell’Anno della Fede, di nuovo ascoltare il richiamo dell’apostolo Paolo che, nella lettera ai Romani, parla del compito e della missione della Chiesa nei confronti dell’annuncio del vangelo cristiano: “Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati invitati? Come sta scritto: ‘Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!’ ” (Rm 10,14-15).
E’, quindi, attraverso la Chiesa che noi incontriamo Dio e possiamo credere in Lui. Ma nonostante ciò – come detto – l’atto di fede rimane gesto della persona, seppur scandito nella comunità ecclesiale e attraverso di essa, mai al di fuori o senza essa. Secondo tale logica, immaginare un incontro con Dio escludendo il prossimo equivarrebbe ad una radicale incomprensione della rivelazione cristiana per la quale gli altri – per la stessa volontà di Gesù – sono segni dell’incontro con l’Altro. Ed è Gesù che ce lo ricorda: “Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualcosa, il Padre mio che è nei cieli, gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18, 19-20).
Dato che la fede di cui parla Gesù è sempre intimamente legata all’amore, allora, nella vita di fede, assume particolare rilevanza l’apertura del cuore. Fede e carità si esigono a vicenda; per questo l’Anno della Fede deve essere occasione per crescere nella testimonianza reciproca della carità. Una vita di fede priva delle opere – e per il cristiano la prima opera è la carità – costituisce, di per sé, un’obiezione fondamentale. Si tratterebbe di una contraddizione in termini: non è vera, non è genuina, non è salvifica una fede che sia incapace d’amare. Si può dire piuttosto che è una fede che ha smarrito se stessa (cfr. PF n.14).
In tale prospettiva comprendiamo quanto sia decisivo ciò che Giovanni scrive nella prima lettera: “Se uno dice: “io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da Lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello” (1Gv 4, 20-21).
Così la fede – soprattutto quando l’ascolto si fa preghiera – conduce a vivere la comunione più intensa con Dio, una comunione che si esprime in una fraternità più grande che sorprende e riempie di stupore quanti sono coinvolti. Il culto, infatti, non risulta gradito a Dio se non esprime un cuore riconciliato. Il Vangelo di Matteo ci avverte in proposito: “Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va prima a riconciliarti col tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono” (Mt 5, 23).
La fede, poi, si esprime secondo modalità e gesti pubblicamente rilevabili: la domenica e le festività proprie della religiosità popolare, gli usi e i costumi di determinate popolazioni e territori ma soprattutto – lo si ribadisce – la domenica, giorno del Signore. Il rischio, soprattutto in epoche che si caratterizzano per la veloce transizione – la cosiddetta società liquida -, è confondere il patrimonio, che esprime la grande Tradizione, con un passato che, invece, non ha più la forza d’incidere sul presente dei singoli e delle comunità.
Allora diventa oltremodo facile passare ad una fede che, nei fatti, non risponde più a una scelta di vita, a un preciso modo di pensare, di parlare e agire ma, piuttosto, a un freddo conformismo a cui ci si consegna e aggrappa e del quale si ha bisogno per coprire le proprie insicurezze. Un altro pericolo, sul quale siamo chiamati a vigilare, consiste nel rischio di confondere l’elemento religioso dell’atto di fede con quello sociale/sociologico che può caratterizzare un particolare territorio o una determinata popolazione.
Anche gli antagonismi e le guerre di religione non sono contrasti intrinsecamente connessi ad una fede vera e autentica ma, piuttosto, appartengono alla vita, alla storia, alla cultura di un’etnia, di un popolo, di una società. Lo ribadiamo: non alla genuina vita di fede.
I contenuti della fede
L’Anno della Fede, oltre che ricordare il cinquantesimo anniversario dalla solenne inaugurazione del Concilio Ecumenico Vaticano II (11 ottobre 1962), intende anche richiamare, a vent’anni dalla sua promulgazione (11 ottobre 1992), il Catechismo della Chiesa Cattolica.
La lettura meditata delle quattro Costituzioni conciliari e del Catechismo della Chiesa Cattolica ci accompagni lungo l’Anno della Fede sia a livello personale sia comunitario; i due livelli – personale e comunitario – sono, infatti, necessari per una vera comprensione dei grandi testi in cui si trova condensata la saggezza dell’ultimo Concilio.
E’ vivo desiderio del Santo Padre Benedetto XVI – come lo fu già del suo predecessore, il beato Giovanni Paolo II – fare in modo che il Catechismo, in cui è trasfuso lo spirito e la lettera del Concilio Vaticano II, trovi una più grande  accoglienza presso le nostre comunità.
E proprio Giovanni Paolo II, nella Costituzione Apostolica Fidei depositum, ricordava come tale idea si manifestò in occasione dell’Assemblea Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, celebrata nel 1985, a vent’anni dalla conclusione del Concilio; si trattò, quindi, di un’esplicita richiesta proveniente dai padri sinodali. Giovanni Paolo II affermava così d’aver fatto suo il desiderio espresso dal Sinodo dando un’autorevolezza più grande a quel voto. In tal modo conferiva a questo desiderio l’avvallo del successore dell’Apostolo Pietro (cfr. Fidei Depositum, Introduzione).
E’ importante che nell’Anno della Fede, nella nostra Chiesa particolare – vescovo, parroci, diaconi, persone consacrate, fedeli laici – trovino cordiale accoglienza le quattro grandi Costituzioni conciliari e il Catechismo della Chiesa Cattolica. Sarà un gesto concreto di recezione e di amore verso il Concilio Vaticano II. Chiedo, quindi, che tale impegno sia assunto da tutti e, in modo particolare, dai parroci. Ricordo, pure, che la piena recezione del Vaticano II chiede di promuovere nei nostri cammini formativi, personali e comunitari, il Catechismo della Chiesa Cattolica.
Ancora il beato Giovanni Paolo II – sempre nella Costituzione Fidei Depositum – si è servito di espressioni da cui traspare l’autorevolezza delle sue parole: “Il Catechismo della Chiesa cattolica… di cui oggi ordino la pubblicazione in virtù dell’autorità apostolica, è un’esposizione della fede della Chiesa e della dottrina cattolica, attestate o illuminate dalla Sacra Scrittura, dalla Tradizione apostolica e dal Magistero della Chiesa…” (Fidei Depositum, parte IV).
Fin da questi primi mesi il Catechismo della Chiesa Cattolica entri abitualmente nella pastorale ordinaria delle parrocchie, delle comunità pastorali, dei movimenti, delle associazioni e aggregazioni laicali. Ritengo che un proficuo approccio al testo del Catechismo sia offerto dal Compendio dello stesso Catechismo che, in modo agile e organico, introduce e presenta quanto il testo dice circa la professione di fede, i sacramenti, la vita cristiana e la preghiera della Chiesa.
Cito, infine, il passo con cui si chiude la prefazione del Catechismo della Chiesa Cattolica che assume – e fa suo – il principio pastorale del Catechismo Romano, espressione del Concilio di Trento, promulgato da papa San Pio V. Tale passo, che è bene conoscere, per molti costituirà – penso – una felice sorpresa: “Tutta la sostanza della dottrina e dell’insegnamento deve essere orientata alla carità che non avrà mai fine. Infatti sia che si espongano le verità della fede o i motivi della speranza o i doveri dell’attività morale, sempre e in tutto va dato rilievo all’amore di nostro Signore” (Catechismo Romano, 10).
A tutti auguro un Anno della Fede in compagnia con Maria, la prima discepola del Signore Gesù, il Salvatore del mondo.    

“SE MORIAMO CON CRISTO…” – 2 Tim. 2,11-13; Tito 3,4-7

http://www.adonaj.net/old/preghiera/lectio12.htm

LECTIO DIVINA 12

“SE MORIAMO CON CRISTO…”

2 Tim. 2,11-13; Tito 3,4-7

Introductio:   Preghiamo la Madonna, con l’Ave Maria, perché ci assista nell’accogliere lo Spirito  Santo.
“Vieni, Spirito Santo, nei nostri cuori e accendi
In essi il fuoco del tuo amore. Vieni, Spirito Santo,
e donaci per intercessione di Maria che ha saputo
Contemplare, raccogliere gli eventi della vita di
Cristo e farne memoria operosa, la grazia di
Leggere e rileggere le Scritture per farne anche
In noi memoria viva e operosa.
Donaci, Spirito Santo, di lasciarci nutrire da questi
Eventi e di riesprimerli nella nostra vita.
E donaci, Ti preghiamo, una grazia ancora più
Grande, quella di cogliere l’opera di Dio nella
Chiesa visibile e operante nel mondo”. Amen.

Lectio.       Leggiamo i testi molto attentamente.

Di Timoteo abbiamo già riferito nella Lectio precedente. Aggiungiamo solo che Paolo lo esorta fedelmente al Vangelo, e per questo gli rammenta di ravvivare il dono di Dio che è in lui per l’imposizione delle mani. Aggiunge, inoltre, che lo Spirito Santo non gli ha donato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza. Quindi prosegue dicendogli di non vergognarsi della testimonianza da rendere al Signore, di soffrire con Paolo stesso (si trovava in carcere) per il Vangelo, aiutato dalla forza di Dio, perché il Padre lo ha sanato e lo ha chiamato con una vocazione santa, non in base alle opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia; grazia donata da Cristo Gesù fin dall’eternità, ma rivelata solo ora con l’apparizione del salvatore Cristo Gesù.
Poiché Gesù ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’immortalità per mezzo del Vangelo, del quale egli è stato costituito araldo, apostolo e maestro.
Tito fu discepolo e compagno di Paolo, prima di Timoteo. Sembra certo che fosse nativo di Antiochia, di discendenza pagana, e chiamato da Paolo “figlio”, il che ci fa supporre che fosse stato battezzato dall’Apostolo. Poiché Tito non era giudeo, a Gerusalemme esigevano che ricevesse il rito della circoncisione, attribuendo il valore di norma a quel caso particolare e mirando con ciò a respingere la dottrina di libertà predicata da Paolo; il quale però non cedette, e Tito rimase incirconciso. Durante il terzo viaggio missionario di Paolo, Tito gli fu a fianco nella sua permanenza ad Efeso e lo coadiuvò nel sedare i torbidi intrighi della comunità di Corinto, prodigandosi nei fatti rammentati nella seconda lettera ai Corinzi.
Per gli ultimi anni qualche isolata notizia si ricava dalle Pastorali. Verso il 65 Tito giunge a Creta con Paolo, e lì lasciato per ampliare l’evangelizzazione dell’isola e provvedere alla sua organizzazione.
Egli doveva nominare presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni di Paolo, il quale aveva specificato che il candidato deve essere irreprensibile, sposato una sola volta, con figli credenti e che non possano essere accusati di dissolutezza o siano insubordinati. Aggiunge ancora che il vescovo, come amministratore di Dio, deve essere correttissimo: non arrogante, non iracondo, non dedito al vino, non violento, non avido di guadagno disonesto, ma, al contrario, ospitale, amante del bene, assennato, giusto, pio, attaccato alla dottrina sicura, secondo l’insegnamento trasmessogli, perché sia in grado di esortare con la sana dottrina e di confutare coloro che contraddicono. Quindi spiega a Tito che vi sono, soprattutto fra quelli che provengono dalla circoncisione, molti spiriti insubordinati, chiacchieroni e ingannatori della gente. Afferma anche che a questi tali bisogna chiudere la bocca, perché mettono lo scompiglio in molte famiglie, insegnando per amore di un guadagno disonesto cose che non si devono insegnare.

Meditatio.
Se moriamo con Cristo, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo. Se lo rinneghiamo, anch’egli rinnegherà noi; se noi manchiamo di fede, egli rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2 Tim. 2,11-13).
Paolo, avendo rammentato la “potenza” di Dio, comunicata a Timoteo nella sua ordinazione, sviluppa il tema dell’assoluta gratuità della “salvezza” mediante la fede in Cristo e nel suo “vangelo”, di cui egli è stato stabilito “araldo, apostolo e maestro”. Si tratta del motivo che ha Timoteo per essere forte e coraggioso; non si può respingere a cuor leggero la “vocazione” di Dio alla salvezza e alla “immortalità, sia nel corpo sia nell’anima, costi quel che costi”.
I versetti citati assomigliano ad un antico “inno” liturgico, usato forse durante il rito battesimale per esprimere il mistero di vita e di morte rappresentato dal battesimo stesso. Esso consta di quattro proposizioni, e tutte iniziano con “se” e rette dalla legge semitica del parallelismo.
L’idea del “morire” con Cristo e del “soffrire” con lui è tipicamente di Paolo. Il proposito del “morire insieme” ci ricorda l’uso in vigore presso qualche popolo antico, dove i soldati più fedeli e amici del re morivano insieme con lui: in tal caso Paolo, riprende l’immagine militare, per enunciare una verità di fede.
“Quando si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per la sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna” ( Tito 3, 4-7).
Questi versetti sono molto importanti, giacché costituiscono una forma breve di riassunto della dottrina della salvezza, di cui si descrivono gli elementi costitutivi e le condizioni.
Autore della salvezza è Dio Padre: è lui, infatti, il “Salvatore nostro Iddio” di cui, ad un certo punto della storia “apparve” la “benignità” e lo sviscerato “amore per gli uomini”. Questa “epifania” dell’amore del Padre si è avuta soprattutto nell’Incarnazione. E sono da escludere come causa della salvezza pretese opere di “giustizia”. Infatti, Paolo, afferma: “Noi riteniamo che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della Legge”. La frase va interpretata nel senso che più che sulla fede, insiste sulla necessità del battesimo che ovviamente presuppone, almeno per gli adulti, la “fede”.
Il battesimo è presentato come causa strumentale (“mediante…”) della salvezza: è descritto come “lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo”. Tale purificazione pertanto non è solo esterna, ma attinge le radici stesse dell’essere che è intrinsecamente trasformato e rinnovato: il battesimo opera perciò una vera interiore “rigenerazione”, con conseguente “rinnovamento” di tutta la struttura dell’essere. In quest’intima trasformazione consiste la “giustificazione”, la quale perciò non può essere una mera dichiarazione “forense” d’opere di giustizia.
In possesso di tale giustizia, che, di fatto, ci costituisce “figli di Dio”, è chiaro che abbiamo diritto alla “eredità” della “vita eterna”, la quale non sarà altro che l’efflorescenza della presente vita di grazia. Tale diritto però non è ancora un’effettiva immissione in possesso; infatti, è solo nella “speranza” che siamo già cittadini del cielo. E’ certo però che tale speranza “non delude”, perché abbiamo già la “caparra” della “vita eterna” nella presenza dello Spirito Santo in noi. Infatti, tutte queste meraviglie di “rinnovazione” le opera lo Spirito Santo, “effuso in abbondanza sopra di noi” dal Padre, in virtù dei meriti di Gesù Cristo Salvatore nostro”, nel giorno del nostro battesimo.
Come possiamo notare tutta la S.S. Trinità è all’opera nella realizzazione della salvezza: il Padre, poiché ideatore di questo stupefacente disegno d’amore; il Figlio, in quanto esecutore di tale progetto mediante l’incarnazione e in quanto causa meritoria dell’effusione dello Spirito sopra i redenti mediante la sua morte di croce; lo Spirito Santo , in quanto diretto autore dell’opera di “rigenerazione e di rinnovamento” delle anime.
Paolo, a più riprese, presenta la vita cristiana come una nuova “creazione”, una “vita nuova” in Cristo, una “rinnovazione” della mente; il cristiano ha rinnegato “l’uomo vecchio” ed è diventato “uomo nuovo”.

Contemplatio.
Gesù, Signore nostro, le tue parole, le tue promesse ci sono venute incontro e noi, commossi ed esultanti, le abbiamo interiorizzate nel cuore e nella mente. Per questo ti lodiamo, ti adoriamo, ti benediciamo, ti glorifichiamo, ti contempliamo ed eleviamo a te canti e preghiere di ringraziamento, per il tuo amore che riversi su ognuno di noi. Le nostre vicende di cristiani, membri della nuova umanità, devono ricalcare quella tua Gesù. Se come te e insieme con te noi affrontiamo e sopportiamo la morte, avremo come te e con te la vita e il regno. Al contrario, se non resteremo fedeli, saremo da te giustamente rinnegati; tu invece rimani sempre fedele alle tue promesse. Questa è una realtà che noi non scorderemo, infatti, con la tua resurrezione, la parola più nuova, la forza più rinnovatrice è entrata nel mondo. Tutto ciò ci riguarda personalmente: Gesù, tu sei risuscitato per salvarci. Le nostre immancabili sofferenze, debolezze, prove e peccati sono stati innestati nella tua morte per esserlo nella tua risurrezione; perdendo la loro amarezza. Il nostro essere cristiano è teso fra tre tempi: la morte già realizzata nel battesimo, le sofferenze dell’esistenza, il regno futuro. Gesù, ciò che ci lega è la “speranza”, che è certezza d’attesa operosa. Vivere alla tua sequela è rivivere la tua esistenza pasquale: il presente raccorda e domina il passato e il futuro ne trae energie per il compimento pieno. Perciò mettiamo al bando paure e varie questioni che smorzano la fede e la speranza.
Oggi noi abbiamo rievocato il tempo primo della conversione con le colpe che ci caratterizzavano. Tuttavia, per la misericordia di Dio Salvatore si è verificata mediante il battesimo, la decisiva trasformazione. Il tuo dono gratuito nel battesimo, lo Spirito Santo, con i suoi effetti ci ha rinati e rinnovati. Mansuetudine e dolcezza verso tutti sono due vite squisitamente e appartenenti a noi cristiani. Noi, in genere, non siamo portati alla mitezza: infatti, essa esige continua lotta  contro di noi stessi, dominio di sé, rinnegamento del nostro egoismo; comporta pazienza, costanza e coraggio, rinuncia e sacrificio. Più noi cristiani sviluppiamo la bontà nella nostra vita, più essa diventa contagiosa fino a sommergere l’ambiente che ci circonda. La dolcezza educa alla comprensione, alla clemenza, all’umiltà, alla piena e continua comunanza con Dio, sorgente d’ogni bontà. La mansuetudine ne è l’espressione più alta e delicata, perché dimenticando noi stessi si vive e si spera per gli altri. Di questo noi ti siamo grati, perché tutto proviene da te nel dono effuso con lo Spirito Santo.

Conclusio.
Se Dio non mi avesse fermato, se mi avesse abbandonato ai miei soli pensieri e alle mie sole forze, senza dubbio avrei preso la strada che porta alla morte e alla perdizione. Nel numero dei ribelli, sono vissuto anch’io, un tempo, con i desideri della mia carne, seguendo le voglie della carne e i desideri cattivi; ed ero per natura meritevole d’ira, come gli altri. Ma tu Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale mi hai amato, da morto che ero per i peccati, mi hai fatto rivivere con Cristo a nuova vita: per grazia, infatti, sono stato salvato. Mi hai anche risuscitato nel battesimo e mi hai fatto sedere nei cieli in Cristo Gesù Redentore. Il mio sguardo di fede non si svolge soltanto verso l’avvenire di gioia, ma si sofferma anche a considerare la disgrazia e la sventura che mi sono state risparmiate dal salvatore Gesù, tuo Figlio Diletto.

Grazie, Gesù Signore! Benedetto sia il tuo nome, sempre!

Amen.

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