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OMELIA DEL PADRE CUSTODE PER LA FESTA DELL’IMMACOLATA CONCEZIONE 2011 – anno A – 2011

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OMELIA DEL PADRE CUSTODE PER LA FESTA DELL’IMMACOLATA CONCEZIONE 2011 – anno A

8 DICEMBRE 2011

“DOVE SEI?” “ECCOMI”

FRA PIERBATTISTA PIZZABALLA – CUSTODE DI TERRA SANTA

La prima lettura e il vangelo ci parlano di due dialoghi. In Genesi è Dio stesso che parla con Adamo, con l’uomo; in Luca è l’inviato di Dio, l’angelo Gabriele, che dialoga con Maria. Prima di riflettere un po’ sul contenuto di questi due dialoghi, vorrei fermarmi sul dialogo in sé, sul fatto che Dio scelga di instaurare con l’uomo una relazione di dialogo. Dialogo è la forma di una relazione d’amore, per cui quando c’è una fatica con l’altro, la prima cosa è evitare di parlargli, togliergli la parola. Dare all’altro la propria parola significa riconoscere la sua esistenza, la sua dignità, la sua importanza. È scegliere la relazione con lui, è scegliersi nella relazione con lui, e quindi riconoscersi bisognosi di questa relazione per poter esistere, per essere se stessi. Dio parla con l’uomo, sceglie di parlargli, lo crea con la Sua Parola; e continua a parlargli anche quando con l’uomo inizia ad esserci qualche problema … Anche lì, Dio non interrompe il dialogo, non lascia l’uomo solo nel proprio peccato, ma va a cercarlo e gli parla. • Se si vuole, la Bibbia è la storia di questo dialogo, continuamente offerto all’uomo, perché è sempre Dio che prende l’iniziativa di dialogare, questa è la particolarità della fede ebraica e poi cristiana, che Dio interpella l’uomo. Lo crea per entrare in dialogo con Lui, e continuamente sollecita questo dialogo. o È molto bello quanto dice un rabbino ebreo (Neher) a proposito di Giobbe. Per cui Giobbe, che si ostina a rimanere in dialogo con Dio, che non si accontenta delle risposte dei propri amici, alla fine di tutto il suo percorso potrebbe dire una cosa così: “Signore, quando parlavano i miei amici, io capivo tutto, ma non mi dicevano niente. Ora che Tu parli, io non capisco niente, ma mi basta che Tu mi parli”. Per dire che noi siamo questo dialogo con Dio, se Lui non ci parla, dice un salmo, noi siamo come chi scende nella fossa, noi siamo morti. • E questo dice qualcosa anche delle relazioni tra noi, e di come sia importante la parola, il dialogo. Non è tutto, non è l’unica forma di comunicazione, ma è importante, ed è importante innanzitutto perché è la forma che il Signore ha scelto per entrare in relazione con noi.

Ora veniamo ai dialoghi di cui ci parla la Parola di oggi. Genesi ci dice che, dopo il peccato, Dio va a parlare con l’uomo. Ma l’uomo non ha molta voglia di parlare con Dio, perché ha in cuore un’altra parola, quella del serpente. • Ed è interessante che il peccato è segnato da un’assenza di dialogo tra la donna e l’uomo: la donna ascolta il serpente, poi vede il frutto, lo prende, lo mangia e ne dà al marito, senza che tutto questo percorso sia accompagnato da una parola. Il racconto non riporta nessuna parola tra i due, e … ce ne sarebbe stato molto bisogno … ! Il peccato è già di per sé assenza di parola, è solitudine; e la solitudine, l’assenza di parola è già peccato, perché comandamento di Dio è che l’uomo non sia solo, che l’uomo parli, che sia in relazione … E dunque, l’uomo che ha peccato sente Dio, sente la presenza di Dio, ma fugge dall’intimità con Lui. Ha paura, perché la paura è il primo e naturale frutto del peccato. L’uomo ha lasciato che un altro, che non fosse Dio, gli desse un’altra legge. Dio aveva detto: questo non è bene. Il serpente gli dice: questo è bene. L’uomo ha già scelto un altro dio, un altro principio, un’altra libertà; ha ascoltato un altro. E Dio non ha già più posto, ha già perso il suo posto di partner primo di questo dialogo, di questa relazione. L’uomo ha paura perché ha spostato Dio, e non sa più come stare in relazione con Lui. E si nasconde, perché l’uomo, senza Dio, non ha casa, non ha vita. Ma Dio non si rassegna a scomparire così dalla propria creazione, e viene, e cerca l’uomo, e, appunto, di nuovo gli parla: “Dove sei?”(Gn 3,9). E l’uomo risponde dicendo la verità, dicendo ciò che resta di lui, e cioè di qualcuno che sente la presenza di Dio come una minaccia. La verità dell’uomo, dopo il peccato, è la sua paura di Dio, e la vergogna di se stesso, della propria nudità. La verità dell’uomo, dopo il peccato, è quella di essere solo e di non avere la speranza che Dio possa di nuovo incontrarlo, per cui va a cercare altri dialoghi … In realtà, il dialogo ricomincia, perché Dio ricomincia, ma nel cuore dell’uomo rimane la paura, il dubbio, che questo non sia possibile. L’uomo si porta dentro questa tendenza ad ascoltare altro, a trovare altri dialoghi, a lasciarsi dire altre verità. Il rapporto con Dio rimane una lotta, un cammino non più scontato, il cui esito non è più sicuro. Rimane un uomo in fuga, che si nasconde. E rimane un Dio che deve sempre ricominciare a cercare l’uomo, a parlargli. Potremmo dire che questa domanda, “dove sei?” percorre il tempo, i secoli, la storia, sempre alla ricerca dell’uomo, alla ricerca di ricostruire questo dialogo interrotto. Dio persegue con tenacia il suo progetto di relazione, d’amore, e va a cercare Abramo, i patriarchi, Mosè, Davide, i profeti … E arriva fino a Maria.

Eccoci dunque al Vangelo di Luca. Chi è Maria? È innanzitutto una donna che non si nasconde, che entra in dialogo con Dio. Quando Dio la cerca, e le chiede “dove sei?”, la sua risposta non è la paura. Certo, sente tutto il peso di questa sproporzione, tra lei e Dio, ma non si ferma lì. È bello, perché anche in lei c’è il turbamento, c’è il timore. Ma questo non le impedisce di ascoltare. E Maria ascolta veramente, cioè si lascia convincere dalla verità di Dio, da ciò che Dio le dice, e cioè semplicemente di non aver paura: “Non temere, perché hai trovato grazia presso Dio” (Lc 1,30). Come la paura è il frutto del peccato, la fiducia è il frutto della grazia. Questa è la cosa nuova, la nuova creazione che Dio compie in Maria, una donna nuovamente capace di fidarsi di Dio. Per cui Maria dice “sì”, e dice “sì” ad essere ciò per cui l’uomo era stato creato in principio, ovvero ad essere luogo della Parola, terra che accoglie la Parola di Dio. Ad essere una donna completamente aperta e disponibile a questo dialogo, libera di essere solo questo ascolto. La festa di oggi ci dice una cosa molto bella, ovvero che questo passaggio, dalla paura alla fiducia, dalla solitudine alla relazione, è possibile solo per grazia. Non è possibile per un eventuale sforzo dell’umanità che, da sola, riesce a ristabilire una relazione giusta con Dio, ma perché Dio stesso sceglie una creatura e la rende capace di nuovo di una relazione piena con Lui, una relazione libera dalle conseguenze del peccato. Una creatura capace di nuovo, semplicemente, di fidarsi. E questo significa che la santità è più una questione di fiducia che di altro …, che la libertà è più una questione di ascolto che di altro. La festa di oggi ci dice che la grazia di Cristo, la novità della Pasqua, è così immensa, che è capace di questo. Perché anche la Pasqua è questo, è quest’uomo, Gesù, capace di ascolto, di fiducia, di stare nella volontà del Padre, e di trovare lì la vita. L’Immacolata è una festa vicina al Natale, ma vicina soprattutto alla Pasqua, e che si “capisce” solo alla luce della Pasqua. La grazia della Pasqua ci libera veramente dal male, dal peccato, non nel senso che il peccato scompare, ma nel senso che è di nuovo possibile una fiducia più grande. Che il peccato non domina più, non ha più l’ultima parola dentro la relazione tra Dio e l’uomo. Che lo spazio della distanza tra l’uomo e Dio può di nuovo essere colmato di fiducia.

Dunque, Maria è la verità dell’uomo. Nel senso che la verità dell’uomo non è il suo peccato, il suo limite, il suo male, ma la grazia di Dio che nell’uomo, dentro questo uomo, sovrabbonda. Per cui, alla domanda di Dio: “Dove sei?”, noi possiamo rispondere che siamo dentro la Sua grazia, dentro il Suo amore, non per merito nostro, ma per la Pasqua di Gesù, per questo Suo donarsi fiducioso e definitivo al Padre, che riapre per sempre la strada al dialogo tra Dio e l’uomo.

Omelia di Fra Artemio Vìtores per la Festa dell’Esaltazione della Santa Croce (Custodia di Terra Santa)

dal sito:

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Omelia di Fra Artemio Vìtores per la Festa dell’Esaltazione della Santa Croce

14 settembre 2008

Fratelli e sorelle:
Celebriamo oggi la festa dell’Esaltazione della Santa Croce. La sua origine è la solennità liturgica con la quale il 14 settembre del 335 furono inaugurati a Gerusalemme i grandiosi edifici sacri fatti costruire dall’Imperatore Costantino nei luoghi stessi del Calvario e del Sepolcro glorioso di Cristo. Questa festa celebrata sempre con grande solennità e con numerose manifestazioni di gioia, sostituiva nella mente cristiana la festa ebraica dei Tabernacoli, che si celebra appunto in questa epoca. Molti degli elementi di questa festa ebraica sono passati alla liturgia cristiana della Dedicazione della Chiesa. Questa era la festa della Dedicazione della Chiesa per eccellenza: la Basilica del Santo Sepolcro. I testi biblici che abbiamo ascoltato ci parlano del valore salvifico della Croce. Gesù, per la sua umiliazione fino alla morte e alla morte di croce, è stato esaltato fino al diventare il Signore del cielo e della terra. Tutti coloro che guardano e seguono la Croce di Cristo saranno guariti e avranno la vita eterna.

La croce, centro della nostra fede
Oggi celebriamo festa dell’Esaltazione della Santa Croce; tutti i giorni orniamo la croce, la baciamo, la portiamo al collo, la esaltiamo… Noi cristiani, siamo matti? Lo aveva annunciato Paolo: la croce è “scandalo per i giudei e stoltezza per i greci”. Il “Vangelo della Croce” era, e continua ad essere, un assurdo totale per il mondo (cf. 1Cor 1,18-25). E, tuttavia, noi celebriamo la festa della croce di Cristo, cantiamo il “Vexilla Regis”. Lo stesso Padre nostro San Francesco, diceva a chi lo vedeva piangere: “Piango la Passione del mio Signore. Per amore di lui non dovrei vergognarmi di andare gemendo ad alta voce per tutto il mondo” (Leggenda dei Tre Compagni, V,14: FF 1413). Perché questo? Perché per noi la croce di Gesù è il centro e il fondamento della nostra fede, perché Cristo è morto per il nostro amore e per la nostra salvezza. Cristo, dice Paolo, “mi ha amato e ha consegnato se stesso per me » (Gal 2,20). Cristo è morto perché noi abbiamo la vita: « Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna » (GV 3,16). “Per riscattare lo schiavo – cantiamo nell’Exultet, nel Annuncio Pasquale, – hai consegnato il Figlio”.

Gesù regna dalla Croce
“Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32), giacché con la sua morte Gesù ha iniziato a “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52). Cristo, nel Calvario, fu crocifisso per la salvezza di tutti, per la tua salvezza, per la mia salvezza, e questa è la sua gloria, il suo trionfo: è stato crocifisso come uomo, è stato glorificato come Dio”, diceva San Gerolamo. E’ quello che dicono le parole scritte in greco sull’altare della Crocifissione: “hai realizzato la salvezza dal centro della terra” (Sal 44,12), giacché dalla croce ha riunito a tutte le nazioni (cf. Gv 12,32). Il Golgota è quindi così importante che ancora oggi, come succedeva nel passato, il sacerdote incaricato di custodire il Luogo Santo del Calvario viene chiamato “Presbitero del Golgota” oppure “Custode della Croce”. La Croce ci fa conoscere Dio: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37), giacché la croce è la rivelazione più evidente dell’amore di Dio. E così si capiscono le parole che cantiamo il Venerdì Santo: “Ecco il legno della Croce, al quale fu appeso il Cristo, Salvatore del mondo” (“Ecce lingum crucis…”).

Onorare il Crocifisso
Sulla Croce del Calvario non c’è un malfattore, ma “Gesù il Nazareno, il Re dei giudei” (Gv 19,19). Pilato, senza volerlo, proclama la regalità di Cristo. Egli è il Re del mondo. “E’ giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo” (Gv 12,23), diceva Gesù. E oggi tutti i cristiani adoriamo il legno santo, il legno della croce dove è stato appeso il Figlio di Dio. “Vexilla Regis prodeunt”, canteremo, “le insigne del Re avanzano”; diremmo ancora: “l’albero decorato e radiante, ornato con la porpora reale”, cioè il sangue prezioso di Cristo. Ripetiamo le parole che San Cirillo di Gerusalemme diceva ai suoi ascoltatori, precisamente qui: “Non ci vergogniamo di confessare la nostra fede nel Crocifisso”. Facciamo sempre il segno della croce. “è un gran mezzo di difesa”. Perché il Re crocifisso qui, sul Calvario, è il nostro Re, diceva Sant’Agostino; “Al suo trono vengono gli uomini di tutte le classi e stati. A Lui vengono i poveri e i ricchi, analfabete e saggi, uomini e donne, signori e servi, adulti e bambini, A lui vengo giudei e greci, romani e barbari. Egli non dominò il mondo con il ferro, ma con il legno della croce”. Perciò, continua San Cirillo di Gerusalemme: celebriamo “la vittoria che il Signore ha riportato qui, soprattutto in questo Santo Golgota, che noi vediamo e tocchiamo con la mano… Non ti vergognare di confessare la Croce…perché la Croce non è causa infamia ma coronata di Gloria”. Non nascondere la croce, giacché, continua il Santo, “colui che è stato crocifisso è adesso sopra in cielo! Forse ci potevamo vergognare se, una volta crocifisso e posto nel sepolcro, fosse rimasto rinchiuso in esso; ma Egli, dopo essere stato crocifisso qui, sul Golgota, è salito al cielo”.

“Salve, o Croce, unica nostra speranza”
Soltanto così cominceremo a capire che croce eretta sul Calvario non è l’annuncio di un fallimento, di una vita di sofferenza e di morte, ma essa è un messaggio trionfale di vita. E potremo dire con Paolo: “Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14), perché “tutto posso in colui che mi da la forza” (Fil 4,13). Cantiamo: “Rifulge il mistero della croce” (“Fulget crucis mysterium!”). E con più forza: “Salve, o Croce, unica nostra speranza”.

Gesù, crocifisso, modello del discepolo
“Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me”, dice Gesù (Mt 10,38). Ci chiede che gli imitiamo, che lo seguiamo, prendendo ogni giorno la nostra croce. In questo possiamo gloriarci, diceva Francesco, se portiamo “alle nostre spalle ogni giorno la santa croce del nostro Signore Gesù Cristo”, giacché, dice Pietro, “Cristo patì per voi lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme” (1Pt 2,21). Sappiamo che non è facile essere cristiano. Lo aveva predetto Gesù stesso: “Voi avrete tribolazioni nel mondo” (Gv 16,33), giacché “se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me” (Gv 15,18). Ma siate sicuri: “chi perde la sua vita” “la salverà” (cf. Mc 7,35). Non dobbiamo avere paura delle opposizioni, delle persecuzioni, di niente. Lo ha detto Gesù a ciascuno di noi: “abbiate fiducia: io ho vinto il mondo” (Gv 16,33). Arriveremo alla santità, dice il Concilio, se seguiamo “Cristo povero, umile e caricato con la croce, per meritare la partecipazione alla sua gloria” (LG 41).

Scendere dal Golgota al mondo
Oggi, qui, sul Golgota, abbiamo capito il valore della morte di Cristo in Croce: il suo amore crocifisso è stato la nostra salvezza. Non è il momento di mettersi a ridere di Gesù, come quelli personaggi del Vangelo, che gridavano: “scenda adesso dalla croce, perché vediamo e crediamo” (Mc 15, 32). Noi non possiamo fare altro che, in ginocchio, ripetere le parole di San Francesco: “Ti adoriamo, Signore Gesù Cristo,… e ti benediciamo, perché per la tua Santa Croce hai redento il mondo”. Amen. Ed esclamare col Centurione: “Veramente, quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39). E dopo, bisogna ritornare al mondo partendo da questo Calvario. Nel 1207, Francesco, – racconta San Bonaventura -, nella Chiesetta di San Damiano, “pregando inginocchiato davanti all’immagine del Crocifisso, si sentì invadere di una grande consolazione spirituale e, mentre fissava gli occhi pieni di lacrime nella croce del Signore, udì con le orecchi del corpo una voce scendere verso di lui dalla croce e dirgli per tre volte: “Francesco, va e ripara la mia chiesa che, come vedi, è tutta in rovina!” (FF 1038). Si trattava della Chiesa che “Cristo acquistò col suo sangue”, dice il testo. E così Francesco, “munendosi col segno della croce”, incominciò la sua missione. Egli poté ripetere con Paolo: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). Così hanno fatto i cristiani; così hanno fatto i francescani quando, arrivati in Terra Santa, hanno visto che non c’erano Santuari, non c’erano cristiani e non c’erano le campane del Santo Sepolcro: la Chiesa di Terra Santa era completamente in rovina! Tutti hanno avuto davanti ai loro occhi, come noi, Maria, la Madonna Addolorata. La Madre stava qui, presso la Croce. Non è arrivata al Calvario per caso, ma ha percorso, passo a passo, il cammino del suo Figlio. E adesso è qui, come Madre e discepola. La Madre di Gesù e la Madre di tutti i suoi discepoli è sempre al nostro servizio.

Fra Artemio Vitores
Vicario custodiale

LA FEDE IN S. PAOLO (dalla Custodia di Terra Santa)

dal sito:

http://www.custodia.org/IMG/pdf/La-fede-in-S.Paolo.pdf

LA FEDE IN S. PAOLO

1) PREMESSE

Nell’affrontare un tema paolino così importante, in vista di un approfondimento della nostra fede cristiana, ritengo che una premessa sia necessaria. Essa si articola sutre punti fondamentali:

1º) nel trattare della fede in S. Paolo bisogna assolutamente liberarsi da alcunipresupposti di tipo polemico, che spesso hanno contrapposto i cristiani ai giudei, icattolici ai protestanti: intendiamo pertanto trattare della fede in S. Paolo seguendo
un’interpretazione esegetica piana, il più possibile aderente ai testi, in modo da favorire l’approfondimento spirituale.
2º) In base a ciò credo che il tema della fede non sia una questione teorico-astratta,
di cui si possa farne a meno o a cui possiamo dare o non dare la nostra adesione, ma un messaggio esistenziale-religioso che investe la vita di ogni uomo, non un messaggio dialtri tempi elaborato da Paolo, ma la testimonianza di un messaggio sempre vivo, sempre attuale che ci tocca personalmente, ci interpella, ci sollecita, ci coinvolge peruna decisione essenziale per la nostra vita di credenti e per la vita delle nostre comunitàecclesiali a cui apparteniamo.
3°) Infine, bisogna sottolineare che la fede, nonostante la grande importanza cheriveste nel pensiero di Paolo, non è il “cuore”, il “centro” portante della sua teologia edella sua spiritualità; il “centro” è e rimane sempre Cristo: la fede è orientata a lui efondata su lui, e l’espressione della fede trova la sua completezza e la sua perfezione“nel Cristo Gesù”. Raramente Paolo parla di “fede in Dio” (1Tes 1,8), di “credere inDio” (Rm 4,8.17: riferiti ad Abramo; 4,24; Gal 3,6: riferito ad Abramo; Col 2,12), di“fede nell’evangelo” (Fil 1,27; 1Tes 2,4), “fede nella verità” (2Tes 2,12-13). Anche queste espressioni hanno senso pieno solo alla luce di Cristo. Paolo pensa tutto,
compresa la fede, solo e sempre nella luce di Gesù Cristo, perché “lui Dio ha posto
quale espiazione mediante la fede nel suo sangue” (Rom 3,25). La fede cristiana,
pertanto, è fede nell’opera salvifica di Dio compiuta “nel Cristo Gesù” e quindi solo chi
crede in lui è salvo.

2) “CREDERE IN CRISTO”

Tale espressione paolina è densa di significato e ci induce ad una serie di riflessionistimolanti per la nostra vita cristiana:

a) Il dinamismo della fede

Il vocabolario paolino della fede, come del resto anche quello neotestamentario, èestremamente dinamico. Ciò è già evidente nel termine “credere”, dato che il verbo inse stesso indica l’azione di una persona che presta fede ad un altro, gli dà il suo assenso, si abbandona a lui e in lui. La stessa cosa avviene per il termine greco“pistis”, che noi traduciamo con “fede”. Esso è nella lingua greca un sostantivo astratto di azione e quindi non indica uno stato o una situazione in cui ci si viene a trovare e in cui si rimane fermi o immobili, ma un movimento interno della persona verso qualcuno, una risposta a chi per primo ci ha interpellato, una relazione vitale con qualcuno. Una fede statica è inconcepibile per Paolo, un controsenso. Per lui la fede è movimento, avvenimento salvifico, relazione con qualcuno, vita; un “correre per afferrare Cristo, che prima l’ha afferrato” (Fil 3,12), un “correre verso la meta, per conseguire il premiodi quella superna vocazione di Dio in Cristo Gesù” (Fil 3, 14), “un vivere nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20), un cominciare permezzo dello Spirito per arrivare alla perfezione del Cristo Signore (Gal 3,3; Ef 4,13). Inbreve: per Paolo la fede è vita, e “la mia vita è Cristo” (Fil 1,21).

b) Il rapporto personale di fede

La formula “in Cristo Gesù”, unita a “credere” e a “fede”, è stata interpretata spessodagli esegeti come esprimente “l’oggetto della nostra fede”. Tale interpretazione è ambigua, dato che si parla di una persona, del Cristo Gesù, fondamento unico, realtàintima, vita stessa della nostra fede, nostra vita. D’altra parte, anche se possonosembrare quisquilie e ricercatezze da esegeta, non sta scritto “io credo Cristo”, che almassimo indicherebbe il riconoscimento della sua esistenza, e neppure: “io credo a Cristo” (comunque cf. 2Tm 1,12) che indica il ritenere per vero ciò che egli dice e ilfidarsi di lui, ma sta scritto: “io credo in Cristo”, in cui la preposizione greca eis indica sempre un movimento verso qualcuno o qualcosa, cioè un entrare in rapporto vitale e personale con il Cristo. “Credere in Cristo Gesù” significa considerare lui come iltestimone verace della fede, il fondamento della fede e in conseguenza il seguire lui e lesue vie, l’essere partecipi di lui e del suo cammino verso Dio, e infine essere partecipidella sua vita divina: “Voi conoscete bene la grazia del Signore nostro Gesù Cristo, ilquale si fece povero per voi, pur essendo ricco, per arricchire voi con la sua povertà” (2Cor 8,9). Di più: “credere in Cristo” significa che lo riconosco talmente esistente daentrare in rapporto di intimità e di amicizia con lui, da lasciare che lui operi in mepienamente con la sua potenza salvifica, che “Cristo viva in me e io in lui” (Gal. 2, 20). Agostino l’ha detto con la solita incisività: “Che significa dunque «credere in lui».  Credendo amarlo e diventare suoi amici, credendo entrare nella sua intimità e
incorporarsi nelle sue membra” (Comm. a Giov., 29,6).

c) La professione del Kerygma di fede

Tale incontro personale con il Cristo, tale “credere in Cristo Gesù” non è, però, daintendere in senso psicologico o intimistico, ma in senso storico-teologico, precisamentecome accettazione di ciò che Gesù è e rappresenta per la fede cristiana, per me che hocreduto in lui e credendo sono entrato in comunione con lui. È accettazione del mistero della sua persona divino-umana: “io credo nel Figlio di Dio, nato da donna, nato sotto lalegge (Gal. 4,4), che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 1,4; 2,20), “cheannientò se stesso, prendendo la natura di schiavo e diventando simile agli uomini, eumiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte di Croce” (Fil 2, 6-11). È accettazione della sua missione di “Cristo” con cui Dio ha riconciliato a sé il mondo (2Cor 5,19) e ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà (Ef 1,9). Èaccettazione soprattutto della sua morte e resurrezione, con cui egli è divenuto Signoredei morti e dei vivi (Rom 14,9; Fil 2,11): “noi crediamo che Gesù è morto e risuscitato” (1Tes 4,14). La fede diviene professione del Kerygma fondamentale dell’esistenzacristiana: “Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuocuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rom 10,9), sarai unito al mistero di Cristo: “Se dunque siamo morti con Cristo, noi crediamo che vivremo pure con lui …Pensate che siete morti al peccato e che dovete vivere per Dio in Gesù Cristo” (Rom6,8-11). La morte e la resurrezione di Gesù sono il mistero centrale della fede: sono il nostro incontro con Cristo morto e risorto per noi, l’incontro determinante e decisivodella nostra esistenza (1Cor 15,14-17). Proprio per questo, esso va proclamato con labocca e con il cuore (Rom. 10,9), anzi urlato con coraggio dinanzi a tutti: “io credo in Gesù Cristo morto e risorto per me”.

d) Aprirsi al futuro di Dio

Nella visione dinamica della fede che Paolo ci propone, tale confessione del “Cristomorto e risorto per me” investe e determina tutta l’esistenza del cristiano: il suo passato, il suo presente e soprattutto il suo futuro. La fede investe la totalità del nostro esserepersonale: Cristo ha salvato tutto l’uomo e tutte le dimensioni spazio-temporali della sua esistenza. Per questo, quando il cristiano professa: “io credo in Gesù Cristo”, egli esprime in primo luogo una convinzione di fede sul suo passato di schiavitù al peccato, alla carne, al mondo, alla morte. Egli grida a tutti: io credo in Cristo che mi ha liberatodal peccato, da questa potenza oscura (Col 1,13), perversa e demoniaca, che afferra le profondità dell’animo umano, rendendolo schiavo dell’egoismo, della cattiveria, dell’impurità, dell’empietà (Rom 7,7-8,4; Gal 5,19-20); dalla carne e dai suoi desideri contrari agli impulsi dello Spirito (Rom 8,3-17; Gal 5,16-26); dalla legge intesa comepotenza (1Cor. 15,56) che attualizza e fa regnare il peccato nella carne (Rom 7,7-8; 8,23), commina la maledizione (Gal 3, 13), conduce alla morte (Rom 8,2); dal “mondo chesovrasta malvagio” (Gal 1,4; 6,14); dalla morte, l’ultimo nemico (1Cor 15,26). Cristo ci ha liberato, “per vivere per Dio” (Gal 2,19) e perché “la vita regni nei nostri corpimortali per mezzo dello Spirito che abita in noi” (Rom 8,2.9-11). In tal modo, il mio presente viene investito dalla fede, divenendo determinazione del mio agire (Col 3,17.23), del mio pensare (Fil 2,1-5; 4,2; Rom 12,16), del mio sentire (Fil 2,5), del miosoffrire (Fil 1,29; Col 1,24; 2Cor 12,10), del mio gioire (Rom 15,13; Gal 5, 22; Fil 3,1; 4,4-7; 1Tes 1,6), del mio gloriarmi (1Cor 1,30; 2Cor 12,5-10), in una parola del mio vivere ed esperimentare la storia e il mondo (1Cor 3,22-23). Nella fede il mio presenteha un senso e si apre ad un compimento più grande. L’essere umano si apre al futuro di Dio: la vita diviene possibilità (Fil 1,20b), impegno (2Cor 11,22-29), superamentoincessante fino a che comparirà Cristo, vita nostra, per farci partecipi della sua gloria(Col 2,4) e “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28).

3) FEDE E VANGELO

Si può affermare, in base a quanto si è detto, che per Paolo le fede non è altro che
l’incontrarsi con il Cristo risorto da morte e il testimoniarlo nella propria vita di ognigiorno. In una parola, la fede cristiana si manifesta come accettazione profonda ed esistenziale della resurrezione di Cristo, a tal punto che Paolo può scrivere: “Se Cristonon è risorto, vana è la nostra predicazione, vana anche la nostra fede. Noi risultiamoessere falsi testimoni di Dio, perché abbiamo testimoniato di Dio che egli ha risuscitato Cristo, che invece non è risuscitato, se realmente i morti non risuscitano. Infatti, se imorti non risuscitano, neppure Cristo è risuscitato. Se Cristo non è risuscitato, non valela vostra fede e così voi siete nei vostri peccati” (1Cor 15,14). Il testo è molto ricco dicontenuti: 1º) Paolo sottolinea che, se cade la professione di fede “nel Cristo morto erisorto per noi”, non cade semplicemente un articolo qualsiasi della nostra fede, ma cadetutta la nostra fede, perché viene meno il fondamento su cui essa poggia; 2º) senza“Cristo morto e risorto per noi” la fede sarebbe priva di senso, perché la salvezza non sarebbe avvenuta, anzi sarebbe un’illusione, una immaginazione fuorviante, un equivoco, un mito tra tanti: “saremo i più miserabili di tutti gli uomini” (1Cor 15,19); 3º) non solo la fede cadrebbe, ma anche la predicazione, ad essa strettamente connessa, risulterebbe vana e menzognera, in quanto essa è fondamentalmente annuncio delVangelo di salvezza: “Cristo è morto e risorto per i nostri peccati”. Tale realtà è moltoimportante nell’approfondimento spirituale della nostra fede, in quanto ci introduce inalcuni suoi aspetti essenziali:

a) La fede nasce dall’ascolto

È un’idea su cui Paolo ritorna continuamente nel suo epistolario ed essa ha la stessarisonanza teologica dell’espressione deuteronomistica: “Ascolta, Israele”, che introducel’antica alleanza tra Dio e il suo popolo per la mediazione di Mosè e dei profeti. In 1Cor15,11-12, parlando del Kerigma fondamentale della fede (1Cor 15,3-8), Paolo scrive: “È questo che, tanto io che quelli, predichiamo e che voi avete creduto. Se si predicache Cristo è risuscitato da morte, come mai alcuni di voi dicono che non esiste laresurrezione da morte?”. In Gal 3,2.5: “Questo vorrei sapere da voi: lo Spirito l’avetericevuto in virtù delle opere della Legge o in virtù dell’ascolto di fede?” e ancor più chiaramente in Rom 10,14b: “E in che modo crederanno in Colui, del quale non hannosentito parlare? E in che modo ne sentiranno parlare, se non c’è chi predica?’ Esiste, perPaolo, un legame stretto tra predicazione e fede, tra “tradizione” che comunica il Vangelo di Gesù Cristo e la fede che nell’ascolto accoglie tale Vangelo di salvezza. Ditale legame Paolo è convintissimo. Per lui, nella parola dell’Apostolo è il Signore stessoche parla, chiama, ammaestra, introduce nel mistero salvifico di Dio, opera la salvezza(cfr 2Cor 13,3; 1Tes 4,2): “non oserei parlare se non di quello che Cristo operò permezzo mio, allo scopo di trarre i gentili all’obbedienza, sia con la parola che con leopere mediante la potenza dei miracoli e dei prodigi, in virtù dello Spirito di Dio” (Rom 15,18-19); e ai Tessalonicesi scrive: “Rendiamo continue grazie a Dio, perché avendoricevuto da noi la Parola di Dio nella predicazione, l’accoglieste non come parola diuomini ma, come è veramente, quale Parola di Dio, che anche al presente opera inmezzo a voi che credete” (1Tess 2,13); e ai Galati, difendendo il suo apostolato: “Vi dichiaro apertamente, fratelli, che il Vangelo da me predicato non vienedall’uomo, perché io non l’ho affatto ricevuto né imparato da un uomo, ma perrivelazione di Gesù Cristo” (Gal 1,11). Soltanto la fede può percepire e percepisce difatto la parola di Dio nella parola dell’uomo. La fede ode e comprende che la parola disalvezza annunciata non è dell’apostolo che la comunica, ma di Dio che la pronunciaper la salvezza di tutti mediante gli intermediari umani, gli ambasciatori del suo amore: “Per Cristo dunque noi fungiamo da ambasciatori, come se Dio esortasse per mezzonostro. Per Cristo vi supplichiamo: riconciliatevi con Dio” (2Cor 5,20). La paroladell’apostolo è, pertanto, la parola di Dio, la parola di Cristo, che chiama tutti gli uominidi tutti i tempi alla salvezza (cr Ef 1,13-14).

b) La fede è accoglienza del Vangelo di salvezza

La conseguenza è chiara: chi accoglie la parola dell’apostolo, accoglie la parola diDio, la parola di Cristo, il Vangelo di salvezza. E il Vangelo non è un insegnamento: èGesù che parla e ammaestra l’uomo in vista del Regno di Dio, della comunione intimacon il Padre. Il Vangelo non è un’etica: è Gesù che conduce l’uomo per mezzo del suo Spirito, che produce l’amore, coronamento di ogni altra virtù (Gal 5,22-23). Il Vangelo non è una salvezza misterica: è Gesù che libera, redime, salva l’uomo dalla schiavitù del peccato e in conseguenza da ogni altra schiavitù. Nel Vangelo si è manifestata e simanifesta ‘la potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede” (Rom 1,16); si disvela lagiustizia di Dio, cioè l’azione salvifica di Dio in Gesù Cristo: “ora si è manifestata la giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo per tutti quelli che credono” (Rom3,21). La fede, pertanto, è orientata essenzialmente al Vangelo di salvezza; èaccoglienza dell’opera salvatrice, liberatrice e giustificante di Dio compiuta in Gesù Cristo; è accettare Gesù salvatore e lasciarlo operare profondamente ed esistenzialmentein noi. Nella fede Dio chiama l’uomo, lo giustifica e per mezzo di Cristo gli concede lasua grazia e lo rende da peccatore giusto e da schiavo figlio di Dio (Gal 4,3-5): “Coloroche ha chiamati, questi ha pure giustificati, coloro poi che ha giustificati, questi pure haglorificati” (Rom 8,30).

c) La fede è obbedienza al vangelo

Ma la fede non è un semplice ascolto o un’accoglienza qualsiasi, è soprattutto obbedienza (Rom 1,5; 1,8; 16,19.26; 2Cor 10,5-6 ecc.). In italiano non si può rendere ilcollegamento della lingua greca tra “fede che ascolta” (akoé) e “fede che obbedisce”
(hupakoé), ma il senso è chiaro: la fede è un ascolto accentuato, deciso, che comportauna sottomissione (hupo), una decisione e un impegno per Dio. La fede è una veraconversione dalla disobbedienza alla obbedienza totale e radicale per Dio. In ciòavviene un’assimilazione perfetta a Cristo, una partecipazione non solo al suo essereFiglio, ma anche ai suoi sentimenti più profondi: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti diCristo, il quale umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte diCroce” (Fil 2,5.8). Nell’obbedienza, il cristiano si spoglia di ogni sua sicurezza e di ognialtro riferimento alle possibilità umane, e si affida totalmente a Dio. Il cristiano divieneimitatore perfetto di Gesù, seguace ben disposto ad accettare la follia della croce, “sapienza e potenza di Dio” per coloro che nella fede sono stati chiamati alla salvezza (1Cor 1,17.24-25). Gesù è il suo fondamento, la croce di Gesù la sua gloria(1Cor 1,31; Gal 6,14), la sua imitazione un’accettazione convinta di Gesù e della suaradicale obbedienza amorosa: di fronte al Crocifisso, testimone verace della fede, l’affidarsi a Dio nell’obbedienza acquista un senso di totalità e di definitività. Nellafede, infatti, “portiamo nel nostro corpo la morte di Gesù, affinché anche la vita di Gesùsia manifestata nel nostro corpo. Sempre infatti noi che viviamo siamo esposti allamorte per Gesù, affinché anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale … Avendo lo stesso spirito di fede secondo che è scritto: «Ho creduto, perciò hoparlato», anche noi crediamo e perciò parliamo, sapendo che Colui il quale risuscitò ilSignore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù… Per questo non ci scoraggiamo, maanche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno” (2Cor 4,11-18).

4) LA FEDE, FONDAMENTO DELLA VITA CRISTIANA

L’affermazione paolina: “l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno” èun’ulteriore sottolineatura del carattere dinamico della fede. Essa non è solo un atto istantaneo che introduce il credente nella vita cristiana, ma insieme l’inizio e lo sviluppoprogressivo (cr Fil 1,25), “di fede in fede” (Rom 1, 17), del vivere continuamente sottol’azione efficace e salvifica di Dio che giustifica, del nostro “essere e vivere in Cristo”, del nostro “camminare nello Spirito” lasciandoci plasmare dalla sua azione di grazia, inmodo da esistere in risposta e come risposta alla sua chiamata. La fede orienta e determina tutta l’esistenza del cristiano nel suo procedere storico, tanto che non c’èalcuna dimensione del suo essere che non sia informata dalla fede, cioè dall’obbedienzaa Dio e dall’affidarsi totalmente alla sua grazia. La fede è così il fondamento e “la misura” (Rom 12,3) del vivere, nel continuo confronto con le varie situazioni concrete, in modo da realizzare in essa la nostra vera umanità e il nostro essere figli di Dio.

a) Il coraggio della fede

Pascal, riflettendo proprio sulla fede, l’ha definita “un salto nel buio”, una “scommessa” per Dio. Decidersi per qualcosa o per qualcuno richiede coraggio. Ma ciò può considerarsi valido per gli inizi della fede, quando l’uomo, superata una certaresistenza mentale ed esistenziale, decide di affrontare la meravigliosa avventura conDio. Parlare, invece, di “coraggio della fede” per chi ha già scelto di “vivere nell’obbedienza della fede” può sembrare fuori luogo. Eppure non è così: per vivereogni giorno la propria fede in Dio, in Cristo ci vuole coraggio. Esso è richiesto dallastessa struttura dinamica della fede, in quanto per il credente ogni momento della suavita è una “decisione per Dio”. Una decisione dell’intelligenza, della volontà, del cuore, costantemente diretti e orientati verso Dio come l’ago della bussola verso il Nord. PerPaolo, tale orientamento è possibile, solo se il cristiano si lascia penetrare e guidaredallo Spirito, la forza meravigliosa e prodigiosa donata al credente (cfr Gal 3,2.5) comefonte della nuova vita e come norma costante e dinamica del suo camminare: “Quantiinfatti si lasciano condurre dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio” (Rom 8,14).
“Quelli che sono secondo lo Spirito, aspirano alle cose dello Spirito … e ciò a cui tendelo Spirito è vita e pace … è vita per la giustizia” (Rom 8,5-9). Lo Spirito Santo è pertanto il coraggio della decisione del credente, in quanto lo spingeall’intelligenza della fede nel suo vivere quotidiano: “Noi non abbiamo ricevuto lo Spirito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio, affinché conosciamo le cose che Dio ci ha gratuitamente largite; e di queste parliamo, non con parole suggerite dalla sapienzaumana, ma con quelle insegnate dallo Spirito, adattando a uomini spirituali dottrine spirituali” (1Cor 2,12-13); spinge la volontà del credente a camminare in maniera degnadi Cristo: “Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni econcupiscenze. Se viviamo per opera dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito” (Gal 5, 24-25), per produrre “il frutto dello Spirito, l’amore” (Gal 5,22-23); spinge il suo cuore ad elevare il grido della sua figliolanza divina: “Ora, poiché sietefigli, Dio ha mandato lo Spirito del suo Figlio nei vostri cuori per gridare: Abba! Padre!” (Gal 4,6). In tale visione, lo Spirito Santo non è soltanto un eccellente maestro di vita, ma anche un operatore e un donatore di vita: è il coraggio della nostra fede, lascintilla vitale e potente che fa scattare la nostra decisione per Dio e per Cristo. Grazieallo Spirito, il credente nasce, cresce e arriva all’uomo perfetto, alla misura dellapienezza della maturità di Cristo” (Ef 4,13).

b) Fede, sacramenti e comunità

La nascita e la crescita del credente per Paolo avvengono nei sacramenti, inparticolar modo nel battesimo e nella Eucaristia, sacramenti che presuppongono già“l’accoglienza della parola”, della fede (cfr 1Cor 10,1-4). Fede e sacramenti sono così intimamente legati: essi significano, annunciano e operano la piena affermazione dellafede, cioè l’annuncio e l’accoglienza della morte e resurrezione di Cristo in vista delnostro “vivere per Dio”. Ciò è evidente nel battesimo, per mezzo del quale il credente entra con Cristo nella sua morte, per morire definitivamente al peccato, e partecipa allavita del Risorto: “Forse ignorate che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, nellamorte di lui siamo stati battezzati? Per mezzo del battesimo siamo stati dunqueseppelliti con lui nella morte, affinché, come Cristo risuscitò dai morti per la gloria delPadre, così anche noi camminiamo in novità di vita” (Rom 6,3-4; cfr anche Rom 6,511). Si noti, in questo ricchissimo testo, l’insistenza di Paolo sulla morte e resurrezionedi Cristo, nucleo centrale della nostra fede, e alla luce di esso l’insistenza ancora sullaconseguenza, sempre connessa con la fede, del “morire e vivere con Cristo”, del“camminare in Cristo”, del “vivere per Dio in Cristo”. Nel battesimo, infatti, il credente “si riveste di Cristo” e diviene “uno in Cristo” (Gal 3,27-28) per vivere da “figlio di Dio” (cfr Gal 3,26-4,7). Una possibilità nuova nasce per il cristiano: muore all’esistenzaschiava del peccato, vive nella fede la vita di libertà dei figli di Dio in Cristo e nello Spirito. E non basta: proprio perché ogni credente diviene “uno nel Cristo” in virtù delloSpirito Santo, egli è inserito nel “corpo di Cristo” che è la Chiesa (Col 1,18): “un solo Corpo e un solo Spirito, così come anche siete stati chiamati a una sola speranza, quelladella vostra vocazione. Uno solo il Signore, una la fede, uno il battesimo” (Ef 4,4-6). Un cristiano che vive isolato nella propria fede è inconcepibile per Paolo, sarebbe lanegazione dell’“essere e vivere in Cristo”: “In realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo” (1Cor 12,13). Simile a quello descritto è ilrapporto dell’Eucaristia, sacramento della crescita del credente, con la fede. In 1Cor 11,23-26, Paolo trasmette un “insegnamento del Signore”, che suscita ealimenta la fede, attraverso la parola dell’apostolo: “Io infatti ho ricevuto dal Signoreciò che vi ho trasmesso, cioè che il Signore Gesù nella notte in cui veniva tradito presedel pane e, avendo reso grazie, lo spezzò e disse: «questo calice è la nuova alleanza nelmio sangue; fate questo, tutte le volte che ne berrete, in memoria di me». Tutte le volteinfatti che mangerete di questo pane e berrete di questo calice, voi annunciate la mortedel Signore fino a che egli ritorni” (1Cor 11,23-26). Tre osservazioni importanti per ciòche concerne il nostro tema: 1º) l’eucaristia è “annuncio della morte del Signore fino ache egli ritorni”, in altri termini del Kerygma fondamentale della nostra fede, cioè della morte, resurrezione, ritorno del Signore esaltato e glorioso; 2º) è partecipazione alCorpo e al Sangue di Cristo, cioè alla sua vita di Signore, morto, risorto ed esaltato pernoi a gloria di Dio; 3º) è celebrato “in memoria di Gesù”, che non è una semplice evocazione del mistero della sua morte e resurrezione, ma una memoria creatrice evivificante, che ci fa crescere in lui nell’esistenza quotidiana, in attesa della sua venuta, per renderci partecipi pienamente della sua vita divina. D’altra parte, in 1Cor 10,16-17, anche l’eucaristia non stabilisce solo un rapporto individuale tra il credente e Cristo, maanche un rapporto tra i credenti fra loro quale membra dell’unico Corpo di Cristo: “Ilcalice della benedizione che noi benediciamo, non è forse una comunione al sangue diCristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infattipartecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10,1617). Così nella fede il Cristo, che si fa nostrocibo e nostra bevanda, ci assorbe in sé, rendendoci “uno in lui”, e ci associa ai fratelli, formando di noi un solo corpo, la Chiesa, comunione di credenti.

c) Fede e morale

Si è fatto spesso cenno al rapporto intimo che intercorre tra fede e agire credente. Seriprendiamo il discorso non è per ripetere quanto già si è detto, ma per sottolineare
qualche nuovo aspetto che emerge da tale rapporto e che può essere utile perl’intelligenza spirituale della fede. In primo luogo, Paolo caratterizza il rapporto “fedemorale” come un “rimanere saldi nella fede, nel Signore” (cfr 1Cor 16,13; Gal 5,1; Fil 1,27; 4,1; 1Tes 3,8). Tale espressione paolina non deve indurci a pensare ad unaconcezione statica della fede. La fede, per Paolo, è e rimane una realtà decisamentedinamica. Proprio per questo, il “rimanere saldi nella fede” trova un’esemplificazionepratica e dottrinale nell’esempio di Abramo. Egli rimane fedele a Dio nel suo essere enel suo operare e Dio glielo computa a giustizia (Rom 4,3; Gal 3,6). Egli “rimane saldo in Dio” nella concretezza della sua vita. In tal modo, il “rimanere saldo” non è una semplice attesa della “speranza della giustificazione” (Gal 5,5), anche se in virtù dellafede, ma una concreta e attiva realizzazione di questa giustificazione accettando nellapropria vita il piano salvifico della promessa di Dio in Cristo, in una fede agente permezzo della carità (Gal 5,6), in un cammino di fede amorosa che produce gioia, pace, benignità, bontà, fedeltà, dolcezza e temperanza (Gal 5,22-23), in un progressivo e deciso morire alle esigenze della carne (Gal 5,17.24-25) per vivere per Dio nello Spirito. Pertanto, il “rimanere saldi nella fede” si può definire come un’esistenzafondata sulla fede in Cristo, vissuta nella speranza dell’adempimento della promessa di Dio per mezzo dello Spirito, attuata nell’amore secondo la radicalità di Dio espressa nella “legge di Cristo” (Gal 6,2). Con tale espressione Paolo non vuole affatto ristabilire la legge o la giustificazionein virtù delle opere della legge. La giustificazione, la salvezza, la libertà vengono concesse da Dio solo in virtù della fede in Cristo Gesù, ma tale fede non è maidisincarnata dalla realtà. Essa opera (1Tes 1,3; 2Tes 1,11) e spinge il credente adoperare nella carità, unica legge del cristiano. Questi non è individuo senza legge, unfuorilegge, ma uno che ha accettato e lascia operare in sé “la legge di Cristo”, meglio: “la legge che è Cristo”. Non un principio esterno di moralità, ma una persona viventeche lo rende “conforme a sé” (cfr 1Cor 9,21) per mezzo della “legge dello Spirito di vitanel Cristo Gesù”. Non si tratta, pertanto, di rimpiazzare una legge con un’altra, né dicompiere questa o quell’altra opera per avere la salvezza, ma di vivere con radicalità, dietro l’esempio di Cristo e sotto la guida dello Spirito, la legge dell’amore, “la legge di Cristo”, che per primo “ci ha amato e ha dato se stesso per noi” (Gal 2,20). “L’opera della fede” (1Tes 1,3; 2Tes 1,11) è l’amore che la anima. Paolo lo affermachiaramente in Gal 5,6: “ciò che conta è la fede operante/se opera per mezzo della carità”. Il principio essenziale della vita cristiana non cambia: è la fede. Ma non unafede qualsiasi o una fede astratta, ma la fede che qualifica se stessa operando per mezzo dell’amore. Così, fede e amore, anche se non si debbono confondere tra loro, non possono essere separate: la fede fonda la nostra esistenza in Cristo, l’amore la rendeviva per la potenza dello Spirito santo, sotto la cui guida diveniamo fecondi di ogniopera buona e attendiamo la pienezza della giustificazione di Dio.

Publié dans:CUSTODIA DI TERRA SANTA (DALLA) |on 20 février, 2010 |Pas de commentaires »

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