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« PERCHÉ I DONI E LA CHIAMATA DI DIO SONO IRREVOCABILI » (Rm 11,29) (stralcio, ho messo due parti) – RELAZIONI CATTOLICO-EBRAICHE

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/chrstuni/relations-jews-docs/rc_pc_chrstuni_doc_20151210_ebraismo-nostra-aetate_it.html#3._La_rivelazione_nella_storia_come_Parola_di_Dio_nell’ebraismo_e_nel_cristianesimo__

« PERCHÉ I DONI E LA CHIAMATA DI DIO SONO IRREVOCABILI » (Rm 11,29) (stralcio)

RIFLESSIONI SU QUESTIONI TEOLOGICHE ATTINENTI ALLE RELAZIONI CATTOLICO-EBRAICHE IN OCCASIONE DEL 50º ANNIVERSARIO DI NOSTRA AETATE (N. 4)

3. La rivelazione nella storia come « Parola di Dio » nell’ebraismo e nel cristianesimo

21. Nell’Antico Testamento ci viene presentato il piano salvifico di Dio per il suo popolo (cfr. « Dei verbum », n. 14). Questo piano salvifico è espresso chiaramente all’inizio della storia biblica, nella chiamata di Abramo (cfr. Gen 12 ss). Per rivelare se stesso e per parlare all’umanità, redimendola dal peccato e radunandola come un unico popolo, Dio ha iniziato con lo scegliere il popolo di Israele attraverso Abramo, separandolo dagli altri popoli. A questo popolo Dio si è rivelato poco a poco per mezzo dei suoi inviati, dei suoi profeti, come il vero Dio, l’unico Dio, il Dio vivente, il Dio redentore. L’elezione divina è un aspetto costitutivo del popolo di Israele. Soltanto dopo il primo grande intervento del Dio redentore, la liberazione dalla schiavitù d’Egitto (cfr. Es 13,17 ss) e la stipula dell’Alleanza sul Sinai (cfr. Es 19 ss), le dodici tribù sono diventate una vera e propria nazione ed hanno acquisito la consapevolezza di essere il popolo di Dio, coloro ai quali erano stati trasmessi il messaggio di Dio e le sue promesse, i testimoni della benevolenza misericordiosa di Dio nel mezzo delle nazioni ed anche per il bene delle nazioni (cfr. Is 26,1-9; 54; 60; 62). Per istruire il suo popolo su come adempiere la sua missione e su come trasmettere la rivelazione affidatagli, Dio ha dato ad Israele la legge che definisce come deve vivere (cfr. Es 20; Dt 5) e che lo distingue dagli altri popoli. 22. Come la Chiesa stessa anche ai giorni nostri, Israele trasporta il tesoro della sua elezione in fragili vasi. La relazione di Israele con il suo Signore è la storia della sua fedeltà e della sua infedeltà. Per compiere la sua opera redentrice, nonostante la piccolezza e la fragilità degli strumenti da lui scelti, Dio ha manifestato la sua misericordia e la grazia dei suoi doni, così come la fedeltà alle sue promesse che nessuna infedeltà umana può annullare (cfr. Rm 3,3; 2 Tm 2,13). In ogni tappa del cammino del suo popolo, Dio si è scelto almeno un « piccolo numero » (cfr. Dt 4,27), un « resto » (cfr. Is 1,9; Sof 3,12; cfr. anche Is 6,13; 17,5-6), un’esigua comunità di fedeli che « non hanno piegato le ginocchia a Baal » (cfr. 1 Re 19,18). Attraverso questo resto, Dio ha realizzato il suo piano salvifico. Oggetto costante della sua elezione e del suo amore è sempre rimasto il suo popolo, perché attraverso di esso –come obiettivo finale- tutta l’umanità viene riunita e condotta a Dio. 23. La Chiesa è chiamata il nuovo popolo di Dio (cfr. « Nostra aetate », n. 4), ma non nel senso che Israele, il popolo di Dio, ha cessato di esistere. La Chiesa è stata « mirabilmente preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’antica Alleanza » (« Lumen gentium », n. 2). La Chiesa non sostituisce Israele, popolo di Dio, poiché, in quanto comunità fondata in Cristo, rappresenta in Cristo il compimento delle promesse fatte a Israele. Ciò non significa che Israele, non essendo pervenuto a tale compimento, non debba più essere considerato come il popolo di Dio: « E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura » (« Nostra aetate », n. 4). 24. Dio si è rivelato nella sua Parola, così che può essere compreso dall’umanità in situazioni storiche concrete. Questa Parola invita tutti gli uomini a rispondere. Se la loro risposta è in accordo con la Parola di Dio, il loro rapporto con Dio è giusto. Per gli ebrei, questa Parola può essere imparata attraverso la Torah e la tradizione basata su di essa. La Torah è l’insegnamento per condurre una vita riuscita nella giusta relazione con Dio. Chi osserva la Torah ha la vita nella sua pienezza (cfr. Pirqe Avot II, 7). Osservando la Torah, l’ebreo prende parte alla comunione con Dio. Al riguardo, Papa Francesco ha affermato: « Le confessioni cristiane trovano la loro unità in Cristo; l’ebraismo trova la sua unità nella Torah. I cristiani credono che Gesù Cristo è la Parola di Dio fattasi carne nel mondo; per gli ebrei la Parola di Dio è presente soprattutto nella Torah. Entrambe le tradizioni di fede hanno per fondamento il Dio Unico, il Dio dell’Alleanza, che si rivela agli uomini attraverso la sua Parola. Nella ricerca di un giusto atteggiamento verso Dio, i cristiani si rivolgono a Cristo quale fonte di vita nuova, gli ebrei all’insegnamento della Torah. » (Discorso ai membri dell’ International Council of Christians and Jews, 30 giugno 2015). 25. L’ebraismo e la fede cristiana, così come sono presentati nel Nuovo Testamento, sono due modi in cui il popolo di Dio può far proprie le Sacre Scritture di Israele. Le Scritture che i cristiani chiamano Antico Testamento sono dunque aperte ad entrambi i modi. Una risposta alla Parola salvifica di Dio che sia conforme all’una o all’altra tradizione può dunque dischiudere l’accesso a Dio, sebbene spetti all’intervento divino determinare in che modo egli intenda salvare gli uomini in ciascuna circostanza. Il fatto che la volontà salvifica di Dio sia rivolta a tutta l’umanità è testimoniato dalle Scritture (cfr. Gen 12,1-3; Is 2,2-5; 1 Tm 2,4). Pertanto, non esistono due strade diverse che conducono alla salvezza, secondo il motto « Gli ebrei sono fedeli alla Torah, i cristiani a Cristo ». La fede cristiana professa che l’opera salvifica di Cristo è universale e si rivolge a tutti gli uomini. La Parola di Dio è una realtà unica e indivisa che assume una forma concreta nel contesto storico di ciascuno. 26. In questo senso, i cristiani affermano che Gesù Cristo può essere considerato come la « Torah vivente di Dio ». Torah e Cristo sono Parola di Dio, rivelazione di Dio per noi uomini quale testimonianza del suo amore sconfinato. Per i cristiani, la preesistenza di Cristo come Parola e come Figlio del Padre è un’affermazione dottrinale fondamentale; secondo la tradizione rabbinica, la Torah ed il nome del Messia esistono già prima della creazione (cfr. Genesi Rabbah 1,1). Inoltre, nella visione ebraica, Dio stesso interpreta la Torah nell’Eschaton, mentre, secondo il pensiero cristiano, tutto è ricapitolato in Cristo alla fine dei tempi (cfr. Ef 1,10; Col 1,20). Nel Vangelo di Matteo, Cristo è presentato come il « nuovo Mosè ». Matteo 5,17-19 mostra Gesù come l’interprete autorevole ed autentico della Torah (cfr. Lc 24,27. 45-47). Nella letteratura rabbinica troviamo invece l’identificazione della Torah con Mosè. In questo contesto, Cristo quale « nuovo Mosè » può essere collegato alla Torah. La Torah e Cristo sono il luogo della presenza di Dio nel mondo, nel modo in cui tale presenza è sperimentata nelle rispettive comunità di culto. Il termine ebraico dabar significa sia parola che evento – e ciò potrebbe suggerire che la parola della Torah può aprirsi all’evento di Cristo.

ELEZIONE E GELOSIA (SAN PAOLO – CRISTIANESIMO ED EBRAISMO)

http://www.nostreradici.it/lu_centrale1.htm

ELEZIONE E GELOSIA (SAN PAOLO – CRISTIANESIMO ED EBRAISMO)

Probabilmente fu l’Assemblea Jamnia che, nell’anno 90, allontanò dalla Sinagoga gli Ebrei che erano diventati discepoli di Cristo. Molto tempo prima, nel 50 o 60 A.D., Paolo di Tarso cercò di suscitare « gelosia » nei suoi fratelli Farisei contro i pagani che invece erano seguaci del Messia. Come egli scrisse ai Romani (11,14) « egli sperava di eccitare quelli della sua razza alla gelosia »
Con i suoi scritti egli ci suggerisce di emulare gli ebrei nella fedeltà alla elezione operata dal Dio vivente. La « gelosia » che Paolo esige non è l’invidia arrogante ed omicida, non si tratta dell’invidia assassina che si impadronì dei figli di Giacobbe nei confronti del loro fratello Giuseppe (Genesi 37), ma la divina gelosia che costituisce l’aspetto ardente della predilezione d’amore. Per l’apostolo Paolo, essa costituisce addirittura la chiave di lettura per la storia, per l’elezione, per il Patto, per la salvezza: « riserbare l’eletto » come « resto » per la « riconciliazione del mondo ». In questo « resto » e nel « mettere da parte » le Scritture, specialmente i Profeti Isaia (11,1; 60,21) e Daniele (11,7) ci rivelano l’azione di Dio del tagliare e prendere un germoglio proveniente dalla santa radice, per riconciliare il mondo e guidarlo dalla morte alla vita (cf. Romani 11,15)
Il duplice significato del termine gelosia nella Bibbia dove si descrive e l’umana presunzione e la premura divina nei confronti dell’uomo, ci induce ad una doppia lettura della Scrittura e ad un doppio comportamento nei confronti della Storia.
Tra gli uomini la gelosia è la parodia dell’amore, che ha lo scopo di legare e, alla fine, allontana. La gelosia di Dio è testimonianza dell’assolutezza nell’amore, di preferenza nella scelta, di intransigenza nella fedeltà, persino qualora si fosse abbandonati. L’umana gelosia vuole distruggere l’oggetto dell’amore; la gelosia di Dio supera la punizione e alla fine ristabilisce la vita eterna.
Quello che accadde tra Ebrei e Cristiani durante i passati 20 secoli è tragedia di umana gelosia che assunse l’aspetto di divina gelosia. Questo fervore geloso, che era troppo umano, assunse diversi aspetti a seconda che le parti in causa fossero Ebrei o Cristiani.
La gelosia Cristiana nei confronti di Israele prese molto rapidamente la forma di una rivendicazione di una eredità: liberandosi semplicemente dell’altro che è così vicino eppure così diverso. La sostituzione di Giacobbe con Esaù – il figlio più giovane con il più vecchio – fu usata come giustificazione. Ma allora cosa dire di Giuseppe, che i suoi fratelli pretendono di assassinare? Essi volevano far sparire il più giovane così da trattenere per sé il privilegio dell’amore del proprio padre. E così chi si identifica in queste figure bibliche?
Parecchie parabole di Gesù trattano dell’eredità e della sua appropriazione. Una di queste storie è particolarmente sinistra. È il caso dell’assassinio del diletto Figlio, il più grande ed unico, giacché il primogenito è per definizione l’unico. Questa parabola (Marco 12, 1-12) si riferisce all’omicidio di questo Figlio ad opera di coloro ai quali era stato chiesto soltanto di prendersi cura della vigna. Il punto è che loro vogliono impadronirsene. A chiunque ascolti questa storia oggi, il suo significato appare sorprendentemente ambivalente, in quanto può essere interpretato come premonitore dell’assassinio di Gesù o di Israele, l’unico Figlio.
I pagani diventati Cristiani ebbero accesso alle Sacre Scritture ed alle celebrazioni ebraiche. Ma l’invidia, atteggiamento troppo umano, li indusse ad escludere ed estromettere gli Ebrei. Nei loro primi tentativi di evangelizzazione, gli apostoli Pietro e Paolo intesero dividere con i pagani la grazia ricevuta dalla gente ebraica. Con la celebrazione dell’adempimento delle promesse del Messia, i primi apostoli generosamente avevano concesso ai pagani di mantenere una diversa condizione (Atti 15, 5-35) insieme con gli Ebrei. Ma il numero e la potenza dei pagani ammessi alla Chiesa del Messia sconvolse l’ordine rovesciato di distribuzione della salvezza. Questo movimento mirava a privare l’esistenza giudaica dei suoi concreti, carnali e storici contenuti, arrivando a considerare la vita della Chiesa fino alla storia più recente, come il compimento ultimo della speranza e della vita ebrea. Così fu sviluppata la teoria della sostituzione.
Quando si parla di Ebrei e non-Ebrei, Paolo ha affermato: « Non esistono Ebrei e Greci, schiavi e liberi, maschi e femmine » (Lettera ai Galati 3,28 – Cf. anche 1Corinzi 12,13). Egli non ignorava l’oneroso tempo storico e l’attesa. Ma in questa abbagliante prospettiva egli annunciava il compimento del disegno di Dio e l’assunzione di tutti alla gloria della benedizione. « Gli Ebrei » e « le Nazioni » sono categorie bibliche. E allora dove sono i Cristiani? L’antica eloquenza distingueva tra Cristiani Ebrei e Cristiani Gentili. Possiamo reperire tracce di ciò nel vecchio mosaico romano di S. Sabina (422-430 A.D.).
Si possono vedere due figure su entrambi i lati della consacrazione: sono anziane donne velate con in mano un libro e sotto, rispettivamente, questa didascalia: « Ecclesia ex circumcisione – la Chiesa della circoncisione » e « Ecclesia ex gentibus – la Chiesa dei gentili ».
La Chiesa della circoncisione sopravvisse come poté. Ma allorché Costantino garantì ai Cristiani una tolleranza che equivaleva ad un riconoscimento della cristianità nella vita dello stato ed il cristianesimo divenne la religione dell’Impero, gli Ebrei furono brutalmente respinti. Questa era una maniera semplicistica e brutale per negare alla redenzione il tempo e il travaglio del parto che essa richiede, tenendo conto del tempo necessario al suo completamento « un’ora o un giorno nessuno lo sa » (Matteo 24,36). La mitologia della sostituzione del popolo Cristiano al posto del popolo Ebreo favorì una segreta, inestinguibile invidia legittimando la captazione dell’eredità d’Israele, di cui possono essere offerti innumerevoli esempi [4]
Questa rivalità tra fratelli costituì una particolare svolta nei rapporti tra Ebrei e Cristiani durante il Medioevo e persino in tempi moderni [5]. I dotti sapevano che le Sacre Scritture furono ricevute dagli ebrei, ed anche la Rivelazione e, persino in maniera più essenziale, la fonte di salvezza. Nell’antichità parecchi teologi cristiani appresero la lingua ebraica in modo da leggere la Bibbia nella sua lingua originale e raccogliere dai rabbini l’insegnamento delle tradizioni più antiche.
Ma contemporaneamente, l’invidia aggiunse agli scontri con gli Ebrei, che non accettavano Gesù come Messia, ulteriori pregiudizi. Questa invidia indusse molti cristiani a partecipare a polemiche appassionate, che alla fine alimentarono l’anti-semitismo, preparando le sue sanguinarie, tragiche manifestazioni con le infami calunnie di assassini rituali come con parecchie altre orribili menzogne che hanno contraddistinto il nostro secolo, come « il protocollo dei savi di Sion » e la letteratura antisemita
Si può dire che molti Ebrei ricambiarono e risposero con uguale ostilità. [6] Quei Cristiani erano solo gentili! Le loro rivendicazioni senza fondamento! Tutto quello che li riguardava e li sfiorava rientrava nella categoria dell’impurità. Comportamento sensato, a quel tempo e nella situazione di esilio in cui si trovavano, sarebbe stato di ignorarli e di rigettarli nello stesso vuoto spirituale degli altri pagani: perché, pensavano gli Ebrei, la cristianità più di ogni altra religione non-ebrea avrebbe diritto a qualche speciale considerazione?
Tutto ciò che peculiarmente rappresentava la fede cristiana poteva solo essere compreso come foriero di violenza e morte, le cui vittime erano gli Ebrei. I relativi simboli non avrebbero potuto più significare in alcun modo misericordia, perdono o amore. Essi erano soltanto orribili disegni che era meglio non guardare, nemmeno degni di essere pensati o menzionati, in quanto presentimenti di morte e di suprema empietà!
Tuttavia questo parallelismo circa gli atteggiamenti spirituali cristiani ed ebrei non potrebbe essere sviluppato oltre, poiché l’equilibrio politico era vistosamente impari. La reciprocità per ciò che attiene la mancanza di comprensione e disprezzo è eloquente. Ciò che è significativo sono le affinità e le contraddizioni che possono essere scorte nel rapporto sia degli Ebrei che dei Cristiani con la storia universale.

MARCELLO CRAVERI, IL CIELO NELL’ASTRONOMIA EBRAICO-CRISTIANA, 1983 (1)

http://www.larici.it/culturadellest/icone/antologia/craveri/index.html

MARCELLO CRAVERI, IL CIELO NELL’ASTRONOMIA EBRAICO-CRISTIANA, 1983 (1)

Il cielo è il luogo dove i beati abiteranno per sempre con Dio. La Bibbia rispecchia la cosmologia primitiva quando concepisce la volta celeste che poggia su colonne (Gb 26,11), ma parla del cielo come luogo dove Dio siede in trono (Sal 11,4; 115,16) e dal quale scende (Es 19,18-20), pur riconoscendo che i cieli e la terra non possono contenere Dio (1Re 8,27) e così, alla fine dei tempi, saranno creati cieli nuovi e una terra nuova (Is 65,17; 2Pt 3,13; Ap 21,1). Nell’Antico Testamento il divieto di pronunciare il nome di Dio portò all’uso dell’espressione regno dei cieli in forma equivalente a regno di Dio, spesso usata da Cristo (Mt 13,31-52). Nelle icone, il cielo costituisce lo spazio in cui possono essere dipinti temi teologici o dottrinali, oppure elementi “miracolosi” indispensabili alla comprensione della raffigurazione: la filossenia, Cristo Re, la mano del Padre benedicente, l’apparizione della Vergine o di un santo, la presenza degli angeli… Talvolta vi è mostrata la conclusione del racconto “terreno”, come nella Dormizione della Madre di Dio e nell’Ascensione del profeta Elia.
In questo saggio, Marcello Craveri (1914-2002) – affermato studioso di Storia delle religioni, di miti pagani e orientali, di superstizioni e credenze – ha ripercorso lo stato delle conoscenze astronomiche in Oriente alla nascita del cristianesimo, conoscenze che hanno determinato modi di dire e iconografia tuttora in uso.

Nonostante il notevole progresso scientifico già fatto in precedenza dal pensiero greco, il cristianesimo, pur essendosi diffuso fin dalle origini in ambiente greco-orientale, continuò a rimanere fedele alle ingenue concezioni mitiche dell’Antico Testamento, rifiutando con orrore tutto ciò che non si poteva conciliare con esso. In tal modo la teologia cristiana diede una mano ai barbari che riportarono il mondo greco-romano indietro di migliaia di anni.
Ai tempi di Gesù, l’astronomia e la cosmologia degli Ebrei erano sostanzialmente quelle dei loro antenati aramei, vissuti come pastori nomadi nel sud della Mesopotamia, con successive influenze dei Cananei, dopo che verso la metà del II millennio a.C. si trasferirono nel loro paese, e degli Egiziani che dominavano culturalmente quella regione, poi di nuovo della Mesopotamia, durante la cattività babilonese, subito dopo dei Persiani, e infine degli Ellenici, dopo la conquista di Alessandro Magno.
Dai testi biblici si ricava la conformazione e il carattere religioso del mondo celeste ebraico, frutto di tante successive contaminazioni. Il Cielo è per gli Ebrei, e quindi per i cristiani, la parte più eccelsa dell’universo, al di là dello spazio, sede della divinità. Esso è puro splendore, e la parola Luce ricorre spesso nell’Antico e nel Nuovo Testamento per indicare Dio e la sua dimora. Il profeta Ezechiele, vissuto nella deportazione a Babilonia, scrive di aver visto in estasi il Cielo come un immenso fuoco ardente (perciò i cristiani lo chiameranno Empireo, dal greco empyreos, infuocato) al cui centro era il trono di Dio sorretto da quattro Esseri che, come gli dei astrali babilonesi, avevano aspetto di animali, fomiti di ali e di mani d’uomo. Di qui l’idea dei cherubini, plurale di karub, dall’arcadico karubu, protettore, raffigurati sull’Arca dell’alleanza, a cui la mitologia cristiana si ispirerà per simboleggiare i quattro evangelisti. Sarà San Paolo il primo a rendere accessibile il cielo agli uomini (i giusti, i buoni) non solo in estasi, ma materialmente, rivestiti di corpo pneumatico, dopo la morte. Pertanto l’espressione «il regno dei Cieli», che per gli Ebrei significava «il regno di Dio», il suo dominio su tutto l’universo, diverrà per i cristiani un «regno nei cieli».
Il cielo stellato, visibile agli uomini, nell’astronomia ebraico-cristiana si trova molto al di sotto della sede di Dio, e non è uno spazio infinito ma – come appare ad occhio nudo – una volta solida (in ebraico raqià) dello spessore di pochi pollici, che Ezechiele definisce una superficie di ghiaccio. Nella traduzione latina il vocabolo raqià verrà reso con firmamentum, ossia «sostegno», poiché esso sostiene la grande massa delle «acque superiori».
Dunque, tra il cielo di fuoco e il firmamento ghiacciato si trova «il ricettacolo della pioggia e della grandine» (Giobbe 38, 22) che Dio ha diviso, nella creazione, dalle acque inferiori (Genesi 1,6-7), cioè dai mari, che a loro volta formano i fiumi. Ancora San Tommaso, nel XIII secolo, crederà che i fiumi nascano dal mare. Il firmamento è sostenuto da quattro montagne e ha delle aperture (cateratte) per l’uscita della pioggia e della grandine, con saracinesche manovrate dalla mano di Dio. Sotto di esso, a livello dei monti, vi sono i serbatoi dei quattro venti (Geremia 10,13; Daniele 8,8) anch’essi regolati da Dio.
Al firmamento sono appesi, come lampade, i corpi celesti, tutti alla medesima distanza dalla Terra, che secondo la Mishnà (tradizione orale codificata nel I secolo d.C.) equivale ad un viaggio di 500 anni, e la maggior o minore luminosità degli astri dipende solo dalla loro differente grandezza.
Già altri popoli conoscevano bene le costellazioni, mentre gli Ebrei avevano al proposito nozioni piuttosto vaghe. La «milizia» dei cieli (tsebà) era per essi misteriosa (Salmi 147,4), sebbene, almeno fino ai tempi del re Giosia (640-609 a.C.), a quanto attestano numerosi passi della Bibbia, gli Ebrei avessero continuato a praticare il culto degli astri e alcuni re di Giuda, dopo la separazione da Israele, avessero ufficialmente eretto loro altari. Un cenno alla venerazione di Saturno è anche nell’opera cristiana Atti degli apostoli (7,43) e il nome di quell’antico dio (in ebraico Shabbataj) ha lasciato un ricordo nel nome e nella solennità del Sabato, rispettata persino da Jahve, cessando il lavoro dopo i sei giorni della creazione.
Delle costellazioni sono nominate soltanto, nei libri di Amos e di Giobbe, il Kimal, il Kesil, che probabilmente corrispondono alle Pleiadi e a Orione, molto note agli antichi poiché la loro apparizione segnava l’inizio o la fine della stagione delle piogge. Giobbe cita anche l’ash, che la versione greca dei Settanta traduce con Espero, la Vulgata latina con Arcturum, e più esattamente quella italiana con Orsa, dato che l’identica parola ash anche in arabo significa Orsa.
Gli Ebrei non facevano distinzione tra stelle e pianeti, ma di questi solo tre sono citati nell’Antico Testamento: Saturno, che gli Atti degli apostoli chiamano col nome persiano Kaivan o Refan; più frequentemente è nominata la Luna, e una o due volte Helel, «il dio dell’aurora» (Isaia 14,12) l’egiziana «stella del mattino» ossia Venere, che però è tutt’altra cosa dalla Venere del tramonto, e che dai Romani era detta Lucifero (portatore di luce), poi identificato dai Padri della Chiesa con Satana, l’angelo (o Dio?) cacciato da Jahve. Ma l’astro per eccellenza era naturalmente il Sole, creato da Dio dopo la luce, unitamente alla Luna, nel quarto giorno della creazione (Genesi 1,14) e che Dio a propria volontà poteva anche fermare nel suo cammino, come infatti avvenne, pregato da Giosué, onde permettergli di continuare la strage degli Amorriti (Giosué 10,12-13). Essendo la Terra immaginata un disco piatto, anche gli Ebrei come gli altri popoli antichi risolvevano il problema del tramonto del Sole pensando che di notte attraversasse gli abissi sotterranei (Salmi 19,6-7).
Solo dopo il 538 a.C. si conobbe lo Zodiaco, costruito per la prima volta in quell’anno dai Babilonesi. Prima di allora i Babilonesi stessi fissavano le stazioni solari in corrispondenza di 36 stelle o costellazioni, divise in gruppi di tre per ciascun mese.
I simboli degli asterismi del nuovo Zodiaco corrispondevano a quelli attuali, eccetto il Capricorno, che era detto Cinghiale, e la Vergine, chiamata Spiga (nome rimasto ancora oggi alla sua stella Alfa) rappresentata come una fanciulla con due spighe in mano. La tradizione mesopotamica è ben visibile in un mosaico della sinagoga di Bethalpha (immagine a lato): in esso le spighe della Vergine sono sintetizzate in due elementi decorativi ai fianchi della figura, mentre ritorneranno esplicite nelle raffigurazioni cristiane, diventando infine attributi della Madonna. Prima di conoscere le stazioni zodiacali del Sole, gli Ebrei ne dividevano il corso annuale soltanto nei quattro momenti degli equinozi e dei solstizi, e anche a questi attribuivano significati religiosi.
Per questo, Gesù Cristo verrà fatto nascere il 25 dicembre, quando il Sole, cessando il solstizio, ha ripreso il suo cammino ascendente. Comunque il culto ebraico per i due solstizi è rimasto nel cattolicesimo: il solstizio d’inverno corrisponde alla nascita di San Giovanni evangelista, quello d’estate, in cui il Sole ricomincia a discendere, è invece la natività di Giovanni Battista. Infatti nel Vangelo si fa dire al Battista: «Bisogna che Egli cresca e che io diminuisca» (Giovanni 3,30).
Secondo la rivoluzione diurna del Sole, gli Ebrei derivavano i punti cardinali: mizrach, il levante; jam, il mare, e quindi l’occidente; tsafon, le tenebre, il nord; darom, la zona illuminata, il sud (Genesi 13,14). Ma per la sacralità che aveva l’Oriente nel culto del Sole, a cui sempre si rivolgevano nella preghiera sia gli Ebrei che i primi cristiani, l’Est era il punto cardinale di riferimento, era il qedem, il davanti, e di conseguenza l’Ovest era l’achor, il di dietro, il Nord era semol, a sinistra, e il Sud theman, a destra.
Gli astronomi babilonesi già sapevano prevedere le eclissi, quali effetto di cause naturali, mentre gli Ebrei le accoglievano ogni volta come una novità, e con spavento, in quanto segni dell’ira divina, e i profeti approfittavano di questa superstizione per annunciare terribili oscuramenti futuri del Sole e della Luna, allorché Dio avrebbe deciso di porre fine all’umanità per i suoi peccati. L’interpretazione apocalittica delle eclissi sarà accolta anche dagli evangelisti, per immaginare un’eclissi totale al momento della morte di Gesù, e di nuovo, naturalmente, alla fine del mondo.
La cometa, invece, era ritenuta di buon augurio. In Genesi (15, 17) una di esse («una fornace ardente e un cerchio di fuoco») suggellava il patto tra Jahve ed Abramo, e in Matteo (2,1-12) è una cometa – prevista da «magi» babilonesi o persiani – ad annunciare la nascita di Gesù Cristo. Ma Keplero nel dicembre 1603 osservando una congiunzione di Mercurio, Giove e Saturno calcolerà che probabilmente la cometa del Natale era stata in realtà una congiunzione di Giove e Saturno nella costellazione dei Pesci, visibile nell’area mediterranea a partire dal 4 dicembre del 7 a.C. (2).
Per diversi secoli i Padri della Chiesa difenderanno con accanimento le idee astronomiche dell’Antico Testamento, condannando come false ed eretiche tutte le altre ipotesi. Per essi, la Terra è un disco piatto, immobile al centro dell’Universo, formato dai quattro elementi (terra, aria, acqua e fuoco); il firmamento o ciclo sidereo una cupa solida e fredda come ghiaccio, perciò detta anche ciclo cristallino, dal greco krystallos, ghiaccio; sul firmamento le acque sopracelesti; sopra di queste l’empireo, tutto luce, fuoco e calore.
Le spiegazioni diverse vengono confutate con argomentazioni a volte stupefacenti per la loro ingenuità. «Come si può credere ai filosofi greci – scrive Lattanzio (250-325) – che immaginano il cielo rotondo e la Terra simile a una sfera, con antipodi in cui pure si innalzano monti e si distendono pianure e mari? Come potrebbero gli uomini camminare con la testa all’ingiù?» Basilio (329-379) nelle sue Omelie sostiene che la acque superiori sono state create da Dio per mantenere fresco il cielo sidereo e anche la Terra, e impedire che siano arsi dal fuoco dell’empireo. Severiano, vescovo di Cabala (+408), condivide il parere di Basilio e aggiunge che per questo motivo le acque sono ghiacciate. Sant’Agostino (354-430) ha qualche dubbio in proposito, ma lo risolve disinvoltamente: «Dicono taluni che l’acqua per sua natura non può stare sopra il cielo, ma data l’onnipotenza di Dio è necessario credere che ciò avvenga. Se Dio volesse che l’olio restasse sotto l’acqua, ciò avverrebbe» (De Genesi) «Le acque, dunque, si trovano sopra il nostro cielo, così come la pituita, che i Greci chiamano flegma, si trova sulla testa dell’uomo» (De Civitate Dei XI,34).
Un altro problema che preoccupa Sant’Agostino è la forma del firmamento: «Il passo delle Scritture, “Tu stendi i cieli come una tenda”, può concordare con l’opinione di coloro che danno al cielo una forma di sfera? La Scrittura dice anche che il firmamento è sospeso come una volta; ora, se si può dire che una volta è tale non solo quando è curva ma anche quando è piana, così anche una tenda può essere curva o piana o rotonda. Infatti anche l’utero e la vescica sono in un certo qual modo una tenda» (De Genesi).
Oltre un secolo dopo, il monaco egiziano Cosma nella sua Topographia christiana dà questo quadro dell’Universo: la forma dell’Universo può essere capita solo esaminando il disegno del tabernacolo che Mosè costruì nel deserto: l’interno (intra velum) è l’immagine delle cose celesti; la cortina equivale al firmamento; la tavola della presentazione dei pani rappresenta la Terra, la quale è pertanto piana e rettangolare; le pareti del firmamento sono quattro piani perpendicolari che poggiano sulla Terra al di là dell’Oceano, e il loro tetto, cioè il firmamento è semicilindrico; in esso il Sole, la Luna e le stelle sono trasportate da angeli; a nord c’è un’immensa montagna conica che sale dalla Terra al Cielo, e dietro di essa il Sole trascorre la notte. Fino al secolo XIII l’autorità delle Sacre Scritture è ancora così impegnativa, che anche persone di grande ingegno, pur accettando, attraverso la mediazione degli Arabi, l’astronomia aristotelica (sette sfere concentriche, distinte per il Sole, la Luna e ciascuno dei cinque pianeti fin allora conosciuti; un ottavo cielo di stelle fisse) non riescono a liberarsi dal problema delle «acque superiori» e non possono fare a meno di aggiungere un nono cielo, l’Empireo, sede di «Dio, o Primo mobile», secondo la concezione tolemaica.
Abelardo (1079-1142), ardimentoso sostenitore del razionalismo («Ho imparato dai maestri arabi a farmi guidare soltanto dalla ragione») fino al punto di essere perseguitato e condannato come eretico, si domanda come possa l’aria sostenere le acque superiori che sono più pesanti, e conclude che senza dubbio debbono essere molto fluide. Più perentoriamente Bartolomeo Anglico a metà del secolo XIII dirà: l’ottavo cielo è formato dalle acque poste da Dio sopra il firmamento, il quale è detto cristallino, non perché sia duro come il cristallo, ma perché è luminoso e trasparente, è detto anche acqueo, perché è fluido e sottile.
Intanto si fa strada tra gli autori cristiani un curioso simbolismo per rappresentare l’Universo. L’uovo, che già nel culto di Dioniso era un simbolo solare: il tuorlo (Sole), l’albume (l’etere in cui esso si muove), il guscio (l’eclittica), e come tale è passato nell’usanza cristiana delle uova pasquali, venne allora assunto anche come modello dell’Universo. Secondo Abelardo, e poi Guglielmo di Conches (a metà del secolo XII), la Terra è il tuorlo, l’Oceano intorno è l’albume, l’aria è la pellicola dell’uovo, e la sfera del fuoco è il guscio. Onorio di Autun, contemporaneo di Guglielmo di Conches, dice invece nel suo De imagine mundi: il cielo è il guscio, l’etere è l’albume, l’aria è il tuorlo, la Terra e la goccia di grasso che si trova nel tuorlo. Sono anche interessanti alcune etimologie dello stesso Onorio: il cielo si chiama così perché assomiglia a un recipiente celato, cioè coperto di stelle; le costellazioni derivano il loro nome latino sidera dalla considerazione in cui sono tenute dai naviganti e dai viaggiatori.

Note:
1. M. Craveri, Il cielo nell’astronomia ebraico-cristiana, in “l’Astronomia”, n. 22, maggio 1983, pp. 26-29.
2. Si veda su questo sito l’ipertesto sul Natale (N.d.C.)

EBRAISMO E CRISTIANESIMO: «DUE TIPI DI FEDE» A CONFRONTO NEL PENSIERO DI MARTIN BUBER

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EBRAISMO E CRISTIANESIMO: «DUE TIPI DI FEDE» A CONFRONTO NEL PENSIERO DI MARTIN BUBER

(sono 7 parti io metto l’ultima su Paolo)

1. Il dialogo con i cristiani, terreno di coltura per Due tipi di fede
2. Fede e religione per Buber. Il rapporto tra le religioni storiche
3. Emunà e pístis
4. Emunà e pístis nella Lettera agli Ebrei
5. Emunà, fede in Colui che è presente
6. Abramo, il «confermato»
7. La emunà di Gesù, la pístis di Paolo

7. LA EMUNÀ DI GESÙ, LA PÍSTIS DI PAOLO

Paragonando i due generi di fede, Buber fa riferimento per il primo, oltre che all’Antico Testamento, ai documenti del Talmud e del Midrash — la cui origine è nel fariseismo, movimento che appartiene, come egli sottolinea, al nucleo più autentico dell’ebraismo — e per il secondo agli scritti del Nuovo Testamento. Per l’Autore, inoltre, «Gesù e il fariseismo sono sostanzialmente omogenei»,112 vivono fedeli alla emunà, mentre nel Giudaismo ellenistico, che resta al margine del suo studio, si infiltrano elementi della pístis. Alla diversità dei due tipi di fede sono strettamente connessi i loro diversi contenuti.
Tra i libri del Nuovo Testamento, Buber distingue in modo alquanto netto i Vangeli sinottici, per lo più fedeli al Gesù storico, tanto da attestarne la emunà nella linea della fede profetica, dagli altri scritti — l’Autore menziona in particolare il Vangelo di Giovanni e le lettere di Paolo — che documentano l’affermazione della nuova fede, la pístis, al posto della emunà. Giovanni e Paolo sono sostanzialmente inattendibili riguardo al Gesù storico e testimoniano che il processo di divinizzazione del Nazareno si è ormai compiuto.
La ricerca condotta in Due tipi di fede, considerando ebraismo e cristianesimo nel loro essere uno-di-fronte-all’altro, non può eludere il problema dell’identità di Gesù di Nazaret. In vari capitoli del libro, l’esegesi di un passo dei Vangeli offre a Buber l’occasione per illustrare la emunà del Nazareno. Attraverso questa egli conduce sempre più a fondo la sua indagine volta a cogliere la realtà vivente dell’ebraismo. Poiché la fede di Gesù è la emunà giunta a un grado straordinario di purezza, solo un ebreo può comprenderla adeguatamente. Il cristiano non ha un rapporto con Gesù se non tramite la mediazione — a giudizio dell’Autore pericolosamente fuorviante — costituita dalla teologia di Paolo e di Giovanni. L’esperienza (Erfahrung) di Gesù è accessibile all’ebreo,113 il cristiano dispone invece di una interpretazione (Deutung) teologica il cui contenuto è il Cristo, non il Gesù reale. Buber arriva talora ad affermare, senza intento ironico, che si tratta di un Cristo nel quale lo stesso Gesù non avrebbe creduto.114
Già in Ich und Du, Buber si era interrogato sulla figura di Gesù, in particolare nelle pagine in cui aveva tracciato la distinzione tra persona, manifestazione dell’«io della parola fondamentale io-tu»115 e individualità, che manifesta invece l’io del rapporto io-esso. In tale prospettiva, l’uomo è tanto più persona quanto più forte è l’io della relazione io-tu. In Gesù, la persona si esprime pienamente: il suo «dire io» è «potente, fino a soggiogare».116 È l’io che, nell’immediatezza della relazione assoluta¸ può chiamare padre il Tu eterno, l’io che si comprende come «niente altro che figlio».117 E, in ogni relazione con un tu umano, Gesù è persona che permane nell’amore, pur nella diversità dei sentimenti che prova nei confronti dei suoi interlocutori, testimoniata dai Vangeli.
In Due tipi di fede, l’Autore scrive di guardare con uno sguardo più intenso e più limpido che mai»118 a Gesù, che ha sempre considerato come un «fratello maggiore». Che ogni ebreo sia fratello di Gesù è per lui una verità fin troppo evidente; ciò che costituisce per lui un problema è comprendere un «dato di fatto della massima serietà»,119 ossia il fatto che il cristianesimo consideri questo suo fratello come Dio e Redentore, che creda in lui, mentre egli, da ebreo, può credere come lui, con lui.120
La riflessione di Buber intende riportare alle origini ebraiche il Nazareno, «andare a riprendere» Gesù, come ha rilevato il teologo Eugen Biser, che ha parlato al riguardo di una Zurückholung Jesu.121 Il profetismo e — sebbene in misura minore — il fariseismo costituiscono le due chiavi ermeneutiche di cui egli si avvale per comprendere l’uomo Gesù. Nella sua ricerca, l’Autore si confronta comunque, più che le opere scritte da autori ebrei sulla figura di Gesù, con gli studi di alcuni teologi evangelici, in particolare di esegeti del Nuovo Testamento che risentono, in qualche misura, dell’indirizzo impresso alla teologia riformata da Martin Kähler. Tra tali autori, il più citato in Due tipi di fede è Rudolf Bultmann.122 Se questi, focalizzando la sua attenzione sul Cristo del kerygma, può negare carattere storico alle narrazioni evangeliche di miracoli, visti come retroproiezioni della luce irradiata dalla Pasqua, Buber non può ritenere attendibile tutto ciò che i Vangeli riferiscono a Gesù qualora debordi dai limiti dell’umano. Nell’interpretazione del testo dei Vangeli, talora Bultmann e Buber procedono pertanto in concordia discors: il primo tende a espungere da quanto vi è narrato gli eventi straordinari, per riferirli al Cristo kerygmatico, il secondo tende a considerarli una successiva elaborazione teologica che risente di elementi gnostici. Tale elaborazione, giunta a compimento in Giovanni e in Paolo, nei Sinottici apparirebbe in brani che Buber ritiene si lascino riconoscere in quanto introducono un elemento di discontinuità in una narrazione che presenta sostanzialmente il Gesù della emunà, un uomo che ha un’elevata coscienza di sé, ma che non si considera Dio e non invita affatto coloro che lo seguono a credere nella sua divinità. Allorché Gesù esorta i discepoli ad «avere fiducia», non vuole che essi confidino in lui, ma che si aprano, senza esitazioni e senza mediazioni, al rapporto con Dio, alla relazione che è dialogo con il Tu eterno nulla interposita natura.
La predicazione di Gesù viene si inserisce per Buber nella storia delle interpretazioni della Torà interne all’ebraismo. Anche il Discorso della montagna va situato sullo sfondo della «visione veterotestamentaria della connessione tra amore di Dio a amore degli uomini».123 Ciò che Gesù afferma riguardo al comandamento dell’amore costituisce comunque un «completamento»124 della fede di Israele. Quanto egli dice sull’amore verso i nemici è collegato alla fede degli ebrei eppure «la supera»,125 «desume la propria forza irradiante dal mondo giudaico nel cui contesto si colloca e che sembra contestare; e, beninteso, lo supera in luminosità».126 Si tratta di ammissioni fuggevoli, che sembrano prospettare la possibilità di un’ulteriore ricerca sulla figura di Gesù nella quale tuttavia Buber non si inoltra. Tali ammissioni costituiscono dei punti in cui la fitta trama del discorso buberiano, intento a suffragare con vari raffronti testuali la sostanziale continuità della fede di Gesù con quella dell’ebraismo coevo, sembra allentarsi, quasi sfilacciarsi. Si tratta di espressioni che rimandano a una discontinuità tra Gesù e l’ebraismo, e che segnano allo stesso tempo una discontinuità nell’argomentare di Buber, quasi un disdire quanto detto immediatamente prima e dopo. Emil Brunner ha scritto che si tratta probabilmente delle «estreme approssimazioni alla fede in Cristo possibili a un ebreo che vuole restare fede alla propria religione».127
Gesù si è compreso per Buber quale uomo di fede che cammina sulla via tracciata dal «servo sofferente» del Deuteroisaia e, negli ultimi giorni della sua vita, ha acquisito la consapevolezza di essere il «figlio dell’uomo» della visione di Daniele (Dn 7, 13). L’evangelista Giovanni farà di quest’uomo il Figlio unigenito, Paolo di Tarso ne parlerà come del mistero nascosto in Dio e rivelato negli ultimi tempi. Nel trapasso da un genere di fede all’altro — dall’avere fiducia in Dio al credere in Gesù — il guadagno conseguito, «la più sublime di tutte le teologie»,128 è stato pagato con «la perdita dell’atteggiamento dialogico semplice, concreto, legato alla situazione»129 testimoniato dall’uomo della Bibbia e dallo stesso Gesù. Nella pístis paolina e giovannea il rapporto dell’uomo con il divino è privo di quella spontaneità e di quella creatività che caratterizzano l’ebraismo. Per la fede dei profeti, Israele, scelto quale «servo» per una missione da compiere nella sofferenza, è «testimone»: qui è l’uomo a rendere testimonianza a Dio. Nel cristianesimo, scrive Buber, tale concezione lascia il posto «a quella del Dio che soffre per amore dell’uomo».130 La nuova fede sembrerebbe pertanto promuovere un misterioso transfert della sofferenza dalla creatura a Dio: se il mistico cristiano soffre fino alla stimmatizzazione, ciò avviene in virtù dell’immedesimazione — della Einselbstung — nel suo Signore. Il primo genere di fede è invece relazione im-mediata con l’Eterno, nulla sa di una siffatta im-medesimazione.
Per quanto riguarda in particolare il più energico promotore della nuova fede, Paolo, la sua forte personalità dà a pensare a Buber già al tempo dei Discorsi sull’Ebraismo, dove scrive tra l’altro che l’opera dell’apostolo ha prodotto la «rifrazione dell’Ebraismo nella sua trasmissione ai popoli»,131 attuata al prezzo di una profonda alterazione della fede biblica. In Due tipi di fede, l’Autore si sofferma, più che sulla personalità di Paolo, sulla soteriologia che questi prospetta, segnata da un’irriducibile antinomia tra «fede» e «legge». Mentre Gesù aveva predicato il ritorno all’intenzione originaria della legge, che l’uomo poteva e doveva integralmente osservare, Paolo afferma che la legge non può essere adempiuta in tal modo. Gesù aveva respinto ogni tendenza alla divinizzazione, Paolo lo presenta come il Signore. Nella predicazione di Gesù, la conversione è teshuvà, forza che cambia realmente il mondo, poiché si esplica nello spazio dialogico della relazione, dove accade ciò che è significativo per l’uomo, nelle parole di Paolo essa è metánoia che fissa l’attenzione del credente verso «le cose di lassù». Se Gesù aveva predicato la conversione, principio dinamico di nuovi eventi nella relazione tra uomo e Dio e quindi nella storia, Paolo, rivolgendosi ai credenti della pístis, afferma che l’unico modo di sfuggire all’ira divina che incombe su un mondo votato alla morte è la fede in Gesù. Questi indicava ai suoi discepoli la possibilità di un nuovo inizio nella conversione in vista del compimento di questo mondo, del mondo che Paolo ritiene invece prossimo alla fine. Seguendo Paolo, non Gesù, il cristiano è allora per Buber all’«uscita dalla storia»:132 non ne è partecipe, né vuole avervi parte, poiché la sua speranza è rivolta a un altro mondo. Il cristiano vede pertanto la redenzione come oltrepassamento (Überwindung) del mondo, l’ebreo come suo compimento, come Vollendung133 che, come Rosenzweig pone in rilievo, è in realtà voll-Endung, «piena fine», l’unica vera fine.
Per Paolo il mondo è, più che campo di lotta di forze contrarie — come per il profetismo e per Gesù — un eone dominato da potenze malvagie. In sintesi, se Gesù è considerato da Buber sullo sfondo del profetismo e della cultura religiosa dei farisei, Paolo viene da lui messo in rapporto con l’apocalittica e la cosmologia gnostica. L’adozione di tale linea interpretativa allontana l’Autore da quegli studiosi che, pur riscontrando nelle lettere paoline la presenza di una terminologia mutuata dal pregnosticismo o dallo gnosticismo, ritengono che il suo pensiero, nei suoi tratti caratterizzanti, non sia assimilabile né al primo né al secondo.
Per Buber, la pístis paolina informa largamente l’atteggiamento dei cristiani riguardo al mondo e alla storia, segnatamente in alcune epoche che egli denomina appunto «paoline». Quella in cui scrive è quanto mai segnata dal «paolinismo»:134 nella crisi spirituale in cui versa la civiltà occidentale, nell’ora dell’«eclissi di Dio», molti cristiani avvertono tragicamente un senso di impotenza di fronte al mysterium iniquitatis che permea la storia e si aggrappano con tutte le loro forze alla fede nel Mediatore, in colui che tornerà alla fine dei tempi.
L’Autore individua invero nella radicalizzazione di alcuni tratti della fede paolina, ma anche di quella di ascendenza giovannea — i tratti che per lui sono i più lontani dalla religiosità autentica — un processo storico di primaria importanza, che è correlato in modo significativo con la genesi della crisi spirituale in cui versa l’uomo occidentale. Per Buber, l’«immagine» del Figlio creata dalla teologia giovannea e paolina, lungi dal «rivelare» all’uomo la misericordia del Padre, si interpone tra Dio e l’uomo, precludendo a questi l’immediatezza della relazione che è propria della religiosità autentica. Inoltre, la dicotomia instaurata dal pensiero di Paolo tra vita e spirito, natura e soprannatura, ha creato le premesse per una visione del mondo, ampiamente diffusa nella cultura dei paesi nei quali si è affermato storicamente il cristianesimo, per la quale la realtà storica e cosmica sono consegnate, dal volere di un Dio «nascosto», in balìa di forze cieche e tiranniche. Il cristiano, pertanto, credendo vana ogni azione volta a incidere positivamente sulla situazione presente, non può che aggrapparsi con tutte le sue forze al Mediatore, che verrà a salvarlo dall’ira divina alla fine dei tempi. Qui la critica alla pístis si intreccia strettamente con quella dei fondamenti di una cultura che ha condotto fino alla «eclissi di Dio». Alcune pagine di Due tipi di fede si possono pertanto annoverare tra i più tardi contributi all’amplissima letteratura relativa alla crisi spirituale vissuta dall’Europa in seguito alla prima guerra mondiale. Non vi mancano peraltro cenni a un possibile percorso volto al superamento della crisi, nel quale è di fondamentale importanza il contributo reso dall’uomo della emunà con la testimonianza della sua fede.
Questi, anche nell’epoca dell’«eclissi», persevera nella fiducia in Dio, permane nella relazione immediata con l’Eterno. Nelle tenebre dell’ora, la differenza tra le due fedi si radicalizza, ed è chi vive nella emunà a testimoniare la fede autentica, la forza che salva. Per Buber, l’immediatezza della relazione assoluta è possibile anche all’uomo della pístis, purché volga le spalle agli eccessi del paolinismo e comprenda che la sua fede può autenticarsi — «confermarsi» — solo nell’impegno in questo mondo.
Buber, tuttavia, non può non notare come anche l’ebraismo, nell’epoca in cui scrive, viva una sua crisi, pur diversa da quella che attraversa il cristianesimo: una fede come la emunà, nella quale la religiosità del singolo è così profondamente legata a quella del suo popolo, risente del declino delle comunità tradizionali. E la crisi è, per l’ebraismo come per il cristianesimo, momento di discernimento e di giudizio, poiché chiama entrambi a intraprendere un profondo rinnovamento e a perseguire con coraggio la via del dialogo. Nelle epoche più drammatiche della storia le due fedi hanno più che mai bisogno l’una dell’altra e la «contrapposizione» tra l’una e l’altra si deve fare «parola».135
Nella chiusa di Due tipi di fede, Buber scrive che se ebraismo e cristianesimo affronteranno il rinnovamento necessario per superare la crisi, il primo «mediante una rinascita della persona», il secondo «mediante una rinascita dei popoli»,136 si diranno l’un l’altro cose assolutamente nuove. Qui l’Autore è estremamente discreto, non va oltre queste affermazioni molto generali. Ma queste poche parole invitano a un’ulteriore riflessione circa il bisogno che ebraismo e cristianesimo hanno l’uno dell’altro. Come ha scritto Eugen Biser, nell’atteggiamento dialogico l’ebreo apprende dal cristiano quell’«elemento personale», che per il teologo è espresso originariamente nella domanda fondamentale che attraversa la vita di Gesù, quella sul mistero della sua identità. Il cristiano apprende invece dall’ebreo «quell’ancoraggio vitale» della fede alla vita di una comunità «senza il quale egli non la può mantenere durevolmente».137
Pertanto, in Due tipi di fede, Buber, dopo aver correlato strettamente l’egemonia di una cultura debitrice alla pístis paolina e l’insorgere dell’«eclissi di Dio», sembra riconoscere al cristianesimo delle risorse che possono venire in aiuto all’uomo in difficoltà, persino all’uomo della emunà, se è vero che neanche l’ebraismo resta estraneo al travaglio epocale. Invero, quando l’egemonia del rapporto io-esso interdice la relazione immediata con il prossimo e con l’Eterno, rendendo l’altro uomo «cosa» tra le cose e oscurando la luce di Dio, le due diverse tradizioni culturali dell’ebraismo e del cristianesimo possono concorrere a delineare una via di salvezza per l’uomo in crisi: la prima, sottolinea Sergio Sorrentino, afferma «la presenza di Dio quale segno qualificante della vita del mondo», la seconda promuove «la personalizzazione dei rapporti».138 La risposta al disagio dell’uomo occidentale non può giungere allora da una sola delle due fedi, ma dal dialogo dell’una con l’altra.

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