San Giovanni Bosco – foto

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31 gennaio – San Giovanni Bosco Sacerdote
Castelnuovo d’Asti, 16 agosto 1815 – Torino, 31 gennaio 1888
Grande apostolo dei giovani, fu loro padre e guida alla salvezza con il metodo della persuasione, della religiosità autentica, dell’amore teso sempre a prevenire anziché a reprimere. Sul modello di san Francesco di Sales il suo metodo educativo e apostolico si ispira ad un umanesimo cristiano che attinge motivazioni ed energie alle fonti della sapienza evangelica. Fondò i Salesiani, la Pia Unione dei cooperatori salesiani e, insieme a santa Maria Mazzarello, le Figlie di Maria Ausiliatrice. Tra i più bei frutti della sua pedagogia, san Domenico Savio, quindicenne, che aveva capito la sua lezione: “Noi, qui, alla scuola di Don Bosco, facciamo consistere la santità nello stare molto allegri e nell’adempimento perfetto dei nostri doveri”. Giovanni Bosco fu proclamato Santo alla chiusura dell’anno della Redenzione, il giorno di Pasqua del 1934. Il 31 gennaio 1988 Giovanni Paolo II lo dichiarò Padre e Maestro della gioventù, “stabilendo che con tale titolo egli sia onorato e invocato, specialmente da quanti si riconoscono suoi figli spirituali”.
Patronato: Educatori, Scolari, Giovani, Studenti, Editori
Etimologia: Giovanni = il Signore è benefico, dono del Signore, dall’ebraico
Martirologio Romano: Memoria di san Giovanni Bosco, sacerdote: dopo una dura fanciullezza, ordinato sacerdote, dedicò tutte le sue forze all’educazione degli adolescenti, fondando la Società Salesiana e, con la collaborazione di santa Maria Domenica Mazzarello, l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, per la formazione della gioventù al lavoro e alla vita cristiana. In questo giorno a Torino, dopo aver compiuto molte opere, passò piamente al banchetto eterno.
San Giovanni Bosco è indubbiamente il più celebre santo piemontese di tutti i tempi, nonché su scala mondiale il più famoso tra i santi dell’epoca contemporanea: la sua popolarità è infatti ormai giunta in tutti i continenti, ove si è diffusa la fiorente Famiglia Salesiana da lui fondata, portatrice del suo carisma e della sua operosità, che ad oggi è la congregazione religiosa più diffusa tra quelle di recente fondazione.
Don Bosco fu l’allievo che diede maggior lustro al suo grande maestro di vita sacerdotale, nonché suo compaesano, San Giuseppe Cafasso: queste due perle di santità sbocciarono nel Convitto Ecclesiastico di San Francesco d’Assisi in Torino.
Giovanni Bosco nacque presso Castelnuovo d’Asti (oggi Castelnuovo Don Bosco) in regione Becchi, il 16 agosto 1815, frutto del matrimonio tra Francesco e la Serva di Dio Margherita Occhiena. Cresciuto nella sua modesta famiglia, dalla santa madre fu educato alla fede ed alla pratica coerente del messaggio evangelico. A soli nove anni un sogno gli rivelò la sua futura missione volta all’educazione della gioventù. Ragazzo dinamico e concreto, fondò fra i coetanei la “società dell’allegria”, basata sulla “guerra al peccato”.
Entrò poi nel seminario teologico di Chieri e ricevette l’ordinazione presbiterale nel 1841. Iniziò dunque il triennio di teologia morale pratica presso il suddetto convitto, alla scuola del teologo Luigi Guala e del santo Cafasso. Questo periodo si rivelò occasione propizia per porre solide basi alla sua futura opera educativa tra i giovani, grazie a tre provvidenziali fattori: l’incontro con un eccezionale educatore che capì le sue doti e stimolo le sue potenzialità, l’impatto con la situazione sociale torinese e la sua straordinaria genialità, volta a trovare risposte sempre nuove ai numerosi problemi sociali ed educativi sempre emergenti.
Come succede abitualmente per ogni congregazione, anche la grande opera salesiana ebbe inizi alquanto modesti: l’8 dicembre 1841, dopo l’incontro con il giovane Bartolomeo Garelli, il giovane Don Bosco iniziò a radunare ragazzi e giovani presso il Convitto di San Francesco per il catechismo. Torino era a quel tempo una città in forte espansione su vari aspetti, a causa della forte immigrazione dalle campagne piemontesi, ed il mondo giovanile era in preda a gravi problematiche: analfabetismo, disoccupazione, degrado morale e mancata assistenza religiosa. Fu infatti un grande merito donboschiano l’intuizione del disagio sociale e spirituale insito negli adolescenti, che subivano il passaggio dal mondo agricolo a quello preindustriale, in cui si rivelava solitamente inadeguata la pastorale tradizionale.
Strada facendo, Don Bosco capì con altri giovani sacerdoti che l’oratorio potesse costituire un’adeguata risposta a tale critica situazione. Il primo tentativo in tal senso fu compiuto dal vulcanico Don Giovanni Cocchi, che nel 1840 aveva aperto in zona Vanchiglia l’oratorio dell’Angelo Custode. Don Bosco intitolò invece il suo primo oratorio a San Francesco di Sales, ospite dell’Ospedaletto e del Rifugio della Serva di Dio Giulia Colbert, marchesa di Barolo, ove dal 1841 collaborò con il teologo Giovanni Battista Borel. Quattro anni dopo trasferì l’oratorio nella vicina Casa Pinardi, dalla quale si sviluppò poi la grandiosa struttura odierna di Valdocco, nome indelebilmente legato all’opera salesiana.
Pietro Stella, suo miglior biografo, così descrisse il giovane sacerdote: “Prete simpatico e fattivo, bonario e popolano, all’occorrenza atleta e giocoliere, ma già allora noto come prete straordinario che ardiva fare profezie di morti che poi si avveravano, che aveva già un discreto alone di venerazione perché aveva in sé qualcosa di singolare da parte del Signore, che sapeva i segreti delle coscienze, alternava facezie e confidenze sconvolgenti e portava a sentire i problemi dell’anima e della salvezza eterna”.
Spinto dal suo innato zelo pastorale, nel 1847 Don Bosco avviò l’oratorio di San Luigi presso la stazione ferroviaria di Porta Nuova. Nel frattempo il cosiddetto Risorgimento italiano, con le sue articolate vicende politiche, provocò anche un chiarimento nell’esperienza degli oratori torinesi, evidenziando due differenti linee seguite dai preti loro responsabili: quella apertamente politicizzata di cui era fautore Don Cocchi, che nel 1849 aveva tentato di coinvolgere i suoi giovani nella battaglia di Novara, e quella più religiosa invece sostenuta da Don Bosco, che prevalse quando nel 1852 l’arcivescovo mons. Luigi Fransoni lo nominò responsabile dell’Opera degli Oratori, affidando così alle sue cure anche quello dell’Angelo Custode.
La principale preoccupazione di Don Bosco, concependo l’oratorio come luogo di formazione cristiana, era infatti sostanzialmente di tipo religioso-morale, volta a salvare le anime della gioventù. Il santo sacerdote però non si accontentò mai di accogliere quei ragazzi che spontaneamente si presentavano da lui, ma si organizzò al fine di raggiungerli ed incontrarli ove vivevano.
Se la salvezza dell’anima era l’obiettivo finale, la formazione di “buoni cristiani ed onesti cittadini” era invece quello immediato, come Don Bosco soleva ripetere. In tale ottica concepì gli oratori quali luoghi di aggregazione, di ricreazione, di evangelizzazione, di catechesi e di promozione sociale, con l’istituzione di scuole professionali.
L’amorevolezza costituì il supremo principio pedagogico adottato da Don Bosco, che faceva notare come non bastasse però amare i giovani, ma occorreva che essi percepissero di essere amati. Ma della sua pedagogia un grande frutto fu il cosiddetto “metodo preventivo”, nonché l’invito alla vera felicità insito nel detto: “State allegri, ma non fate peccati”.
Don Bosco, sempre attento ai segni dei tempi, individuò nei collegi un valido strumento educativo, in particolare dopo che nel 1849 furono regolamentati da un’opportuna legislazione: fu così che nel 1863 fu aperto un piccolo seminario presso Mirabello, nella diocesi di Casale Monferrato.
Altra svolta decisiva nell’opera salesiana avvenne quando Don Bosco si sentì coinvolto dalla nuova sensibilità missionaria propugnata dal Concilio Ecumenico Vaticano I e, sostenuto dal pontefice Beato Pio IX e da vari vescovi, nel 1875 inviò i suoi primi salesiani in America Latina, capeggiati dal Cardinale Giovanni Cagliero, con il principale compito di apostolato tra gli emigrati italiani. Ben presto però i missionari estesero la loro attività dedicandosi all’evangelizzazione delle popolazioni indigene, culminata con il battesimo conferito da Padre Domenico Milanesio al Venerabile Zeffirino Namuncurà, figlio dell’ultimo grande cacico delle tribù indios araucane.
Uomo versatile e dotato di un’intelligenza eccezionale, con il suo fiuto imprenditoriale Don Bosco considerò la stampa un fondamentale strumento di divulgazione culturale, pedagogica e cristiana. Scrittore ed editore, tra le principali sue opere si annoverano la “Storia d’Italia”, “Il sistema metrico decimale” e la collana “Letture Cattoliche”. Non mancarono alcune biografie,tra le quali spicca quella del più bel frutto della sua pedagogia, il quindicenne San Domenico Savio, che aveva ben compreso la sua lezione: “Noi, qui, alla scuola di Don Bosco, facciamo consistere la santità nello stare molto allegri e nell’adempimento perfetto dei nostri doveri”. Scrisse inoltre le vite di altri due ragazzi del suo oratorio, Francesco Besucco e Michele Magone, nonché quella di un suo indimenticabile compagno di scuola, Luigi Comollo.
Pur essendo straordinariamente attivo, Don Bosco non avrebbe comunque potuto realizzare personalmente dal nulla tutta questa immane opera ed infatti sin dall’inizio godette del prezioso ausilio di numerosi sacerdoti e laici, uomini e donne. Al fine di garantire però una certa continuità e stabilità a ciò che aveva iniziato, fondò a Torino la Società di San Francesco di Sales (detti “Salesiani”), congregazione composta di sacerdoti, e nel 1872 a Mornese con Santa Maria Domenica Mazzarello le Figlie di Maria Ausiliatrice.
L’opinione pubblica contemporanea apprezzò molto la preziosa opera di promozione sociale da lui svolta, anche se la stampa laica gli fu sempre avversa, tanto che alla sua morte la Gazzetta del Popolo si limitò a citarne cognome, nome ed età nell’elenco dei defunti, mentre la Gazzetta Piemontese (l’odierna “La Stampa”) gli riservò l’articolo redazionale dosando accuratamente meriti e demeriti del celebre sacerdote: “Il nome di Don Bosco è quello di un uomo superiore che lascia e suscita dietro di sé un vivo contrasto di apprezzamenti e opposti giudizi e quasi due opposte fame: quello di benefattore insigne, geniale, e quello di prete avveduto e procacciate”.
Personalità forte ed intraprendente, bisognosa di particolare autonomia nella sua azione a tutto campo, non lasciava affatto indifferenti coloro che gli erano per svariati motivi a contatto. Ciò costituisce inoltre una spiegazione ai ripetuti scontri che ebbe con ben due arcivescovi torinesi: Ottaviano Riccardi di Netro e soprattutto Lorenzo Gastaldi. Lo apprezzò e lo appoggiò invece costantemente e senza riserve papa Pio IX, che con la sua potente intercessione permise all’opera salesiana di espandersi non solo a livello locale, sorte invece subita da numerosissime altre minute congregazioni.
Giovanni Bosco morì in Torino il 31 gennaio 1888, giorno in cui è ricordato dal Martyrologium Romanum e la Chiesa latina ne celebra la Memoria liturgica. Alla guida della congregazione gli succedette il Beato Michele Rua, uno dei suoi primi fedeli discepoli. La sua salma fu in un primo tempo sepolta nella chiesa dell’istituto salesiano di Valsalice, per poi essere trasferita nella basilica di Maria Ausiliatrice, da lui fatta edificare. Il pontefice Pio XI, suo grande ammiratore, beatificò Don Bosco il 2 giugno 1929 e lo canonizzò il 1° aprile 1934. La città di Torino ha dedicato alla memoria del santo una strada, una scuola ed un grande ospedale. Nel centenario della morte, nel 1988 Giovanni Paolo II, recatosi in visita ai luoghi donboschiani, lo dichiarò Padre e Maestro della gioventù, “stabilendo che con tale titolo egli sia onorato e invocato, specialmente da quanti si riconoscono suoi figli spirituali”.
La venerazione che Don Bosco ebbe, in vita ed in morte, per sua madre fu trasmessa alla congregazione, che negli anni ’90 del XX secolo ha pensato di introdurre finalmente la causa di beatificazione di Mamma Margherita. Merita infine ricordare la prolifica stirpe di santità generata da Don Bosco, tanto che allo stato attuale delle cause, la Famiglia Salesiana può contare ben 5 santi, 51 beati, 8 venerabili ed 88 servi di Dio.
DALLE “LETTERE” DI SAN GIOVANNI BOSCO
Se vogliamo farci vedere amici del vero bene dei nostri allievi, e obbligarli a fare il loro dovere, bisogna che voi non dimentichiate mai che rappresentate i genitori di questa cara gioventù, che fu sempre tenero oggetto delle mie occupazioni, dei miei studi, del mio ministero sacerdotale, e della nostra Congregazione salesiana. Se perciò sarete veri padri dei vostri allievi, bisogna che voi ne abbiate anche il cuore; e non veniate mai alla repressione o punizione senza ragione e senza giustizia, e solo alla maniera di chi vi si adatta per forza e per compiere un dovere.
Quante volte, miei cari figliuoli, nella mia lunga carriera ho dovuto persuadermi di questa grande verità! E’ certo più facile irritarsi che pazientare: minacciare un fanciullo che persuaderlo: direi ancora che è più comodo alla nostra impazienza e alla nostra superbia castigare quelli che resistono, che correggerli col sopportarli con fermezza e con benignità. La carità che vi raccomando è quella che adoperava san Paolo verso i fedeli di fresco convertiti alla religione del Signore, e che sovente lo facevano piangere e supplicare quando se li vedeva meno docili e corrispondenti al suo zelo.
Difficilmente quando si castiga si conserva quella calma, che è necessaria per allontanare ogni dubbio che si opera per far sentire la propria autorità, o sfogare la propria passione.
Riguardiamo come nostri figli quelli sui quali abbiamo da esercitare qualche potere. Mettiamoci quasi al loro servizio, come Gesù che venne a ubbidire e non a comandare, vergognandoci di ciò che potesse aver l’aria in noi di dominatori; e non dominiamoli che per servirli con maggior piacere. Così faceva Gesù con i suoi apostoli, tollerandoli nella loro ignoranza e rozzezza, nella loro poca fedeltà, e col trattare i peccatori con una dimestichezza e familiarità da produrre in alcuni lo stupore, in altri quasi scandalo, e in molti la Santa speranza di ottenere il perdono da Dio. Egli ci disse perciò di imparare da lui ad essere mansueti e umili di cuore (4r.Mt 11,29).
Dal momento che sono i nostri figli, allontaniamo ogni collera quando dobbiamo reprimere i loro falli, o almeno moderiamola in maniera che sembri soffocata del tutto. Non agitazione dell’animo, non disprezzo negli occhi, non ingiuria sul labbro; ma sentiamo la compassione per il momento, la speranza per l’avvenire, e allora voi sarete i veri padri e farete una vera correzione.
In certi momenti molto gravi, giova più una raccomandazione a Dio, un atto di umiltà a lui, che una tempesta di parole, le quali, se da una parte non producono che male in chi le sente, dall’altra parte non arrecano vantaggio a chi le merita.
Ricordatevi che l’educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e non ce ne mette in mano le chiavi.
Studiamoci di farci amare, di insinuare il sentimento del dovere, del santo timore di Dio, e vedremo con mirabile facilità aprirsi le porte di tanti cuori e unirsi a noi per cantare le lodi e le benedizioni di colui, che volle farsi nostro modello, nostra via, nostro esempio in tutto, ma particolarmente nell’educazione della gioventù.
NOVENA A SAN GIOVANNI BOSCO
1° giorno – O gloriosissimo San Giovanni Bosco, per l’amore ardente che portasti a Gesù nel Santissimo Sacramento e per lo zelo con cui ne propagasti il culto, soprattutto con l’assistenza alla Santa Messa, con la Comunione frequente e con la visita quotidiana, ottienici di crescere sempre più nell’amore, nella pratica di queste sante devozioni e di terminare i nostri giorni rinvigoriti e confortati dal cibo celeste della Santa Eucaristia. Gloria al Padre…
2° giorno – O gloriosissimo San Giovanni Bosco, per l’amore tenerissimo che portasti alla Vergine Ausiliatrice che fu sempre tua Madre e Maestra, ottienici una vera e costante devozione alla nostra dolcissima Mamma, affinché possiamo meritare la sua potentissima protezione durante la nostra vita e specialmente nell’ora della morte. Gloria al Padre…
3° giorno – O gloriosissimo San Giovanni Bosco, per l’amore filiale che portasti alla Chiesa e al Papa, di cui prendesti costantemente le difese, ottienici di essere sempre degni figli della Chiesa Cattolica e di amare e venerare nel Sommo Pontefice l’infallibile vicario di Nostro Signore Gesù Cristo. Gloria al Padre…
4° giorno – O gloriosissimo San Giovanni Bosco, per il grande amore con cui amasti la gioventù, della quale fosti Padre e Maestro e per gli eroici sacrifici che sostenesti per la sua salvezza, fa’ che anche noi amiamo con amore santo e generoso questa parte eletta dei Cuore di Gesù e che in ogni giovane sappiamo vedere la persona adorabile del nostro Salvatore Divino. Gloria al Padre…
5° giorno – O gloriosissimo San Giovanni Bosco che per continuare ad estendere sempre più il tuo santo apostolato fondasti la Società Salesiana e l’istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, ottieni che i membri delle due Famiglie Religiose siano sempre pieni del tuo spirito e fedeli imitatori delle tue eroiche virtù. Gloria al Padre…
6° giorno – O gloriosissimo San Giovanni Bosco che per ottenere nel mondo più abbondanti frutti di fede operosa e di tenerissima carità istituisti l’Unione dei Cooperatori Salesiani, ottieni che questi siano sempre modelli di virtù cristiane e sostenitori provvidenziali delle tue Opere. Gloria al Padre…
7° giorno – O gloriosissimo San Giovanni Bosco che amasti con amore ineffabile tutte le anime e per salvarle mandasti i tuoi figli fino agli estremi confini della terra, fa’ che anche noi pensiamo continuamente alla salvezza della nostra anima e cooperiamo per la salvezza di tanti nostri poveri fratelli. Gloria al Padre…
8° giorno – O gloriosissimo San Giovanni Bosco che prediligesti con amore particolare la bella virtù della purezza e la inculcasti con l’esempio, la parola e gli scritti, fa’ che anche noi, innamorati di così indispensabile virtù, la pratichiamo costantemente e la diffondiamo con tutte le nostre forze. Gloria al Padre…
9° giorno – O gloriosissimo San Giovanni Bosco che fosti sempre tanto compassionevole verso le sventure umane, guarda a noi tanto bisognosi dei tuo aiuto. Fa’ scendere su di noi e sulle nostre famiglie le materne benedizioni di Maria Ausiliatrice; ottienici tutte le grazie spirituali e temporali che ci sono necessarie; intercedi per noi durante la nostra vita e nell’ora della morte, affinché possiamo giungere tutti in Paradiso e inneggiare in eterno alla Misericordia divina. Gloria al Padre…
PREGHIERA A SAN GIOVANNI BOSCO
O San Giovanni Bosco, padre e maestro della gioventù,
che tanto lavorasti per la salvezza delle anime,
sii nostra guida nel cercare il bene delle anime nostre e la salvezza dei prossimo;
aiutaci a vincere le passioni e il rispetto umano;
insegnaci ad amare Gesù Sacramentato, Maria Ausiliatrice e il Papa;
e implora da Dio per noi una buona morte,
affinché possiamo raggiungerti in Paradiso. Amen.
ORAZIONE DAL MESSALE
O Dio, che in san Giovanni Bosco
hai dato alla tua Chiesa un padre e un maestro dei giovani,
suscita anche in noi la stessa fiamma di carità
a servizio della tua gloria per la salvezza dei fratelli.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Autore: Fabio Arduino
Spazio sacro e spazio civile
Pubblichiamo il testo della « lectio magistralis » che il cardinale presidente del Pontificio Consiglio della Cultura tiene il 17 gennaio a Roma presso la facoltà di Architettura dell’università La Sapienza.
di Gianfranco Ravasi
« Il mondo è come l’occhio: il mare è il bianco, la terra è l’iride, Gerusalemme è la pupilla e l’immagine in essa riflessa è il tempio ». Questo antico aforisma rabbinico illustra in modo nitido e simbolico la funzione nel tempio secondo un’intuizione che è primordiale e universale. Due sono le idee che sottendono all’immagine. La prima è quella di « centro » cosmico che il luogo sacro deve rappresentare, un tema sul quale il grande studioso delle religioni Mircea Eliade (1907-1986) ha offerto un vasto dossier documentario. L’orizzonte esteriore, con la sua frammentazione e con le sue tensioni, converge e si placa in un’area che per la sua purezza deve incarnare il senso, il cuore, l’ordine dell’essere intero.
Nel tempio, dunque, si « con-centra » la molteplicità del reale che trova in esso pace e armonia: si pensi solo alla planimetria di certe città a radiali connesse al « sole » ideale rappresentato dalla cattedrale posta nel cardine centrale urbano (Milano, per esempio, « centrata » sul Duomo ne è un esempio evidente, come New York è la testimonianza di una diversa visione, più dispersa e babelica). Dal tempio, poi, si « de-centra » un respiro di vita, di santità, di illuminazione che trasfigura il quotidiano e la trama ordinaria dello spazio. Ed è a questo punto che entra in scena il secondo tema sotteso al detto giudaico sopra evocato.
Il tempio è l’immagine che la pupilla riflette e rivela. Esso è, quindi, segno di luce e di bellezza. Detto in altri termini, potremmo affermare che lo spazio sacro è epifania dell’armonia cosmica ed è teofania dello splendore divino. In questo senso un’architettura sacra che non sappia parlare correttamente – anzi, « splendidamente » – il linguaggio della luce e non sia portatrice di bellezza e di armonia decade automaticamente dalla sua funzione, diventa « profana » e « profanata ». È dall’incrocio dei due elementi, la centralità e la bellezza, che sboccia quello che Le Corbusier definiva in modo folgorante « lo spazio indicibile », lo spazio autenticamente santo e spirituale, sacro e mistico.
Certo, questi due assi portanti trascinano con sé tanti corollari: pensiamo alla « sordità », all’inospitalità, alla dispersione, all’opacità di tante chiese tirate su senza badare alla voce e al silenzio, alla liturgia e all’assemblea, alla visione e all’ascolto, all’ineffabilità e alla comunione. Chiese nelle quali ci si trova sperduti come in una sala per congressi, distratti come in un palazzetto dello sport, schiacciati come in uno sferisterio, abbrutiti come in una casa pretenziosa e volgare.
A questo punto vorremmo proporre una riflessione di indole più specifica che abbia come codice di riferimento proprio quelle Sacre Scritture bibliche che sono state indubbiamente « il grande codice » della stessa civiltà artistica occidentale. È indiscutibile il rilievo che in esse ha una « teologia » dello spazio, anche se – come si vedrà – essa è inverata in una teologia superiore, quella del tempo e della storia (l’Incarnazione riassume in sé queste due dimensioni ricollocandole nella loro gerarchia).
« Ai tuoi servi sono care le pietre di Sion » (Salmo, 102, 15). Questa professione d’amore dell’antico salmista potrebbe essere il motto stesso della tradizione cristiana che allo spazio sacro ha riservato sempre un rilievo straordinario, a partire dalla « pietra » del Santo Sepolcro, segno della risurrezione di Cristo, attorno alla quale è sorto uno dei templi emblematici dell’intera cristianità. Tra l’altro, è curioso che simbolicamente le tre religioni monoteistiche si ancorino a Gerusalemme attorno a tre pietre sacre, il Muro Occidentale (detto popolarmente « del Pianto »), segno del tempio salomonico per gli ebrei, la roccia dell’ascensione al cielo di Maometto nella moschea di Omar per l’islam e, appunto, la pietra ribaltata del Santo Sepolcro per il cristianesimo.
Certo è che, senza la spiritualità e la liturgia cristiana, la storia dell’architettura sarebbe stata ben più misera: pensiamo solo al nitore delle basiliche paleocristiane, alla raffinatezza di quelle bizantine, alla monumentalità del romanico, alla mistica del gotico, alla solarità delle chiese rinascimentali, alla sontuosità di quelle barocche, all’armonia degli edifici sacri settecenteschi, alla neoclassicità dell’Ottocento, per giungere alla sobria purezza di alcune realizzazioni contemporanee (un esempio per tutte: l’affascinante chiesa del citato Le Corbusier a Ronchamp).
C’è, dunque, nel cristianesimo una celebrazione costante dello spazio come sede aperta al divino, partendo proprio da quel tempio supremo che è il cosmo.
Un grande storico della teologia Marie-Dominique Chenu (1895-1990), al termine della sua vita si rammaricava di aver riservato troppo poco spazio alle arti sia letterarie sia figurative sia architettoniche nella sua storia del pensiero religioso, perché « esse non sono soltanto illustrazioni estetiche ma veri soggetti teologici ». Dall’anonimato in cui si relegavano i grandi costruttori di cattedrali basterebbe solo fare emergere, a titolo esemplificativo, un genio architettonico e artistico come l’abate Sugero di Saint-Denis (xiii secolo).
Detto questo c’è però nella concezione cristiana una componente molto pesante che – come si diceva – sposta il baricentro teologico dallo spazio al tempo. Ed è su questo aspetto che ora vorremmo fissare la nostra attenzione. Nell’ultima pagina neotestamentaria, quando Giovanni il Veggente si affaccia sulla planimetria della nuova Gerusalemme della perfezione e della pienezza, si trova di fronte a un dato a prima vista sconcertante: « Non vidi in essa alcun tempio perché il Signore Dio Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio » (Apocalisse, 21, 22). Tra Dio e uomo non è più necessaria nessuna mediazione spaziale; l’incontro è ormai tra persone, si incrocia la vita divina con quella umana in modo diretto. Da questa scoperta potremmo risalire a ritroso attraverso una sequenza di scene altrettanto inattese.
Immaginiamo di rincorrere questo filo rosso afferrandolo al capo estremo opposto. Davide decide di erigere un tempio nella capitale appena costituita, Gerusalemme, così da avere anche Dio come cittadino nel suo regno. Ma ecco la sorprendente risposta oracolare negativa emessa dal profeta Nathan: il re non costruirà nessuna « casa » a Dio ma sarà il Signore a dare una « casa » a Davide: « Te il Signore farà grande, poiché una casa farà a te il Signore » (ii Samuele, 7, 11). In ebraico si gioca sulla ambivalenza del termine bayit, « casa » e « casato ». Dio, quindi, allo spazio sacro di una casa-tempio preferisce la presenza in una casa-casato, ossia nella storia di un popolo, nella dinastia davidica che si colorerà di tonalità messianiche.
Certo, lo spazio non è dissacrato. Il figlio di Davide, Salomone, innalzerà un tempio che la Bibbia descrive con ammirata enfasi. Eppure quando egli sta pronunziando la sua preghiera di consacrazione, dovrà necessariamente interrogarsi così: « Ma è proprio vero che Dio può abitare sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruito! » (1 Libro dei Re, 8, 27). Il tempio, allora, è solo l’ambito di un incontro personale e vitale (non per nulla si parla nella Bibbia di « tenda dell’incontro ») che vede Dio chinarsi « dal luogo della sua dimora, dal cielo » della sua trascendenza verso il popolo che accorre nel santuario di Sion con la realtà della sua storia sofferta della quale si elencano i vari drammi.
I profeti giungeranno al punto di minare le fondamenta religiose del tempio e del suo culto qualora esso si riduca a essere solo uno spazio magico-sacrale, dissociato dalla vita della piazza civica, ossia dall’impegno etico-esistenziale, e affidato solo a una presenza meramente e ipocritamente rituale.
Basti solo, tra i tanti passi profetici di analogo tenore, leggere questo paragrafo del profeta Amos (viii secolo prima dell’era cristiana): « Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni. Anche se voi mi offrite olocausti io non accetto i vostri doni. Le vittime grasse di pacificazione neppure le guardo. Lontano da me il frastuono dei vostri canti, il suono delle vostre arpe non riesco a sopportarlo! Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne! » (5, 21-24).
Ma entriamo nel cristianesimo in modo diretto. Cristo, come ogni buon ebreo, ama il tempio gerosolimitano. Non esita a impugnare una sferza e a menare fendenti contro i mercanti che lo profanano con i loro commerci, ne frequenta le liturgie durante le varie solennità, come faranno anche i suoi discepoli che si riserveranno persino un loro spazio nell’area del cosiddetto « Portico di Salomone ». Eppure lo stesso Cristo in quel meriggio assolato al pozzo di Giacobbe, davanti al monte Garizim, luogo sacro della comunità dei samaritani, non teme di dire alla donna che sta attingendo acqua: « Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre… È giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità » (Giovanni, 4, 21-24).
Ci sarà un’ulteriore svolta che insedierà la presenza divina nella stessa « carne » dell’umanità attraverso la persona di Cristo, come dichiara il celebre prologo del Vangelo di Giovanni: « Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi » (1, 14), con evidente rimando alla « tenda » del tempio di Sion. Tra l’altro, il verbo greco eskénosen, « pose la tenda » ricalca le radicali s-k-n del vocabolo ebraico con cui si definiva la « Presenza » divina nel tempio di Sion, Shekinah. Gesù sarà anche più esplicito: « Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere ».
E l’evangelista Giovanni annota: « Egli parlava del tempio del suo corpo » (2, 19-21). Paolo andrà oltre e, scrivendo ai cristiani di Corinto, affermerà: « Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi… Glorificate dunque Dio nel vostro corpo! » (i, 6, 19-20).
« Un tempio di pietre vive », quindi, come scriverà san Pietro, « impiegate per la costruzione di un edificio spirituale » (i, 2, 5) un santuario non estrinseco, materiale e spaziale, bensì esistenziale, un tempio nel tempo. Il tempio architettonico sarà, quindi, sempre necessario, ma dovrà avere in sé una funzione di simbolo: non sarà più un elemento sacrale intangibile e magico, ma solo il segno necessario di una presenza divina nella storia e nella vita dell’umanità. Il tempio, quindi, non esclude o esorcizza la piazza della vita civile ma ne feconda, trasfigura, purifica l’esistenza, attribuendole un senso ulteriore e trascendente. Per questo, una volta raggiunta la pienezza della comunione tra divino e umano, il tempio nella Gerusalemme celeste, la città della speranza, si dissolverà e « Dio sarà tutto in tutti » (1 Corinzi, 15, 28).
Terminiamo la nostra riflessione con tre testimonianze. La prima riassume i gradi del discorso finora fatto. È una cantilena ebraica cabbalistica medievale che ricorda i vari passaggi per trovare il luogo dove s’incontra veramente Dio. Ecco il ritornello in ebraico, ritornello assonante che si ripete a ogni strofa: hu’ hammaqôm shel- maqôm / we’en hammaqôm meqomô. Con un gioco di parole e un’intuizione folgorante si dice: « Egli, Dio, è il Luogo di ogni luogo, / eppure questo Luogo non ha luogo ».
La seconda testimonianza è legata alla figura di san Francesco ed è desunta dal capitolo 37 della Vita seconda di Tommaso da Celano, francescano abruzzese. Un frate dice a Francesco: « Non abbiamo più soldi per i poveri ». Francesco risponde: « Spoglia l’altare della Vergine e vendine gli arredi, se non potrai soddisfare diversamente le esigenze di chi ha bisogno ».
E subito dopo aggiunge: « Credimi, alla Vergine sarà più caro che sia osservato il vangelo di suo Figlio e nudo il proprio altare, piuttosto che vedere l’altare ornato e disprezzato il Figlio nel figlio dell’uomo ». Ci dobbiamo, dunque, soltanto spogliare del tempio e della sua bellezza? No, perché Francesco è convinto che Dio ci offrirà di nuovo il tempio, con tutti gli ornamenti: « Il Signore manderà chi possa restituire alla Madre quanto ci ha dato in prestito per la Chiesa ».
La terza e ultima considerazione ci è offerta dalla spiritualità ortodossa. Un noto teologo laico russo del Novecento vissuto a Parigi, Pavel Evdokimov, dichiarava che tra la piazza e il tempio non ci deve essere la porta sbarrata, ma una soglia aperta per cui le volute dell’incenso, i canti, le preghiere dei fedeli e il baluginare delle lampade si riflettano anche nella piazza dove risuonano il riso e la lacrima, e persino la bestemmia e il grido di disperazione dell’infelice. Infatti, il vento dello Spirito di Dio deve correre tra l’aula sacra e la piazza ove si svolge l’attività umana. Si ritrova, così, l’anima autentica e profonda dell’Incarnazione che intreccia in sé spazio e infinito, storia ed eterno, contingente e assoluto.
(L’Osservatore Romano – 17-18 gennaio 2011)
http://www.artcurel.it/ARTCUREL/RELIGIONE/LITURGIAESPAZIOSACRO/RavasiPreghieraalfabetocoloratodellasperanza.htm
LA PREGHIERA « ALFABETO COLORATO DELLA SPERANZA »
di Gianfranco Ravasi
A scandire ogni Giubileo di Israele era il suono dello jobel, il corno ritorto di montone, un suono che lacerava l’aria e idealmente correva dal colle di Sion alle valli e ai villaggi della terra promessa. Quello strumento faceva parte dell’orchestra del tempio ed era, perciò, espressione della fede orante della comunità liturgica. Certo, il Giubileo così come è descritto nel c. 25 del Levitico è per eccellenza un evento sociale e morale con la liberazione degli schiavi, il condono dei debiti e il riposo della terra. Ma è noto che i profeti hanno sempre insegnato che il rito senza la vita è magia e, perciò, l’esistenza giusta altro non è che la liturgia giunta alla sua pienezza.
Nel Giubileo cristiano, poi, il pellegrinaggio coi suoi canti e le sue celebrazioni è una componente fondamentale. È per questo che vorremmo ora parlare di preghiera, di quel respiro dell’anima che dovrebbe essere costante ma che in certi periodi – come quello che ci conduce all’anno giubilare – può essere anche più intenso e sereno. Scriveva il filosofo danese Soeren Kierkegaard: «Giustamente gli antichi dicevano che pregare è respirare. Qui si vede quanto sia sciocco voler parlare di un « perché ». Perchè io respiro? Perchè altrimenti morirei. Così con la preghiera». Noi, però, considereremo l’orazione secondo un’angolatura un po’ curiosa, quella delle arti figurative. Dopo tutto, per molti il Giubileo sarà anche occasione per visitare città italiane ed europee ricche di monumenti e il loro pellegrinaggio si concluderà o a Roma o a Gerusalemme o in un santuario dalla storia secolare.
Là apparirà in modo molto visibile la bellezza divenuta lode e adorazione. Quello che noi ora proponiamo è un breve e simbolico itinerario all’interno della preghiera divenuta pietra o colore. Fin dalle origini stesse della civiltà si è realizzato quello che supponeva Paolo quando evocava «gli uomini che pregano dovunque si trovano, alzando al cielo le mani pure senza ira e senza contese» (1 Timoteo 2,8). Lo stendere le mani era il gesto primordiale per raggiungere idealmente il cielo o per accarezzare il volto della statua della divinità. Le posizioni muteranno nelle varie terre e nelle epoche – si starà ritti, ci si inchinerà, ci si prosternerà o inginocchierà, si congiungeranno le mani, si incroceranno le braccia, si danzerà, si lanceranno baci (donde il verbo «adorare», in latino «portare la mano alla bocca»). Come dice una bella espressione delle Lamentazioni bibliche, «noi tutti eleviamo il nostro cuore sulle nostre mani fino al Dio che è nei cieli» (3,41).
Possiamo, allora, rimandare alla statuetta in bronzo della I metà del II millennio a.C. proveniente dalla città mesopotamica di Larsa e conservata al Louvre con l’orante che pone la sua destra sulla bocca per il bacio al suo dio. Sempre al Louvre, ecco la celebre stele di basalto nero del Codice di Hammurabi sulla cui cima quel sovrano babilonese del XVIII sec. a.C. è eretto in piedi davanti al dio solare Shamash in trono. Ancora al Louvre da un’altra città mesopotamica, Lagash, giunge un rilievo di calcare del XXIV sec. a. C. con due registri lungo i quali sfilano i cantori sacri e i musicisti con le arpe per lodare la divinità. In Egitto ci viene incontro il faraone « monoteista » Akhnaton (XIV sec. a. C.) che apre le braccia davanti al disco solare divino Aton, i cui raggi terminano in mani che toccano il faraone e tutta la realtà benedicendola e beneficandola, mentre il faraone Sethi I ad Abido è davanti al dio Sokaris per ardere incensi.
La lista potrebbe essere lunghissima. Anche, nel cristianesimo, a partire dalle catacombe, la figura dell’orante si presenta già nel III secolo con le braccia levate in alto, come accade nell’affresco del Cimitero dei Giordani a Roma. Talora le braccia si allargano per ripetere il gesto di Cristo in croce e la figura dell’orante è il martire o l’anima del cristiano defunto già nella gloria della liturgia celeste o in attesa del giudizio finale o ancora mentre intercede per i vivi che lo stanno commemorando. Altre volte sono alcuni soggetti biblici emblematici: Noè che invoca il Dio della giustizia e della pace stando nella sua arca, oppure i tre giovani ebrei che cantano inni nella fornace ardente (Daniele 3) o lo stesso Daniele nella fossa dei leoni (c.6).
È, certo, la Bibbia il «grande codice» a cui si attinge per elaborare i grandi modelli della preghiera anche perché – come affermava Chagall – essa è «l’alfabeto colorato della speranza in cui hanno intinto per secoli il loro pennello i pittori». Si pensi soltanto alla serie enorme di ritratti di Davide. Orante o musicista in onore del Signore, posti in apertura ai Salteri miniati o ai Libri d’Ore. Ma c’è anche il Mosè orante descritto dal c. 17 dell’Esodo che nella scultura romanica dell’XI-XII sec. assume la posizione del Cristo crocifisso «colui che ci salva dall’ira ventura», una tipologia che appare anche in alcune Bibbie miniate come quelle di Farfa e di S. Isidoro di León. Né poteva mancare in decine e decine di forme, popolari o di alto livello artistico, l’orazione di Gesù nel Getsemani, che si trasforma nella figura dell’orante perfetto. Ma anche Maria nella tipologia delle icone russe è presentata come l’Inamie per eccellenza, cioè l’orante che si rivolge a suo Figlio e al Padre.
La preghiera è, però, l’atto caratteristico del singolo fedele o della comunità ed è di questo tema che spesso l’arte è stata testimone. Anche in questo caso c’è solo l’imbarazzo nella scelta. Il pensiero corre spontaneamente al grande Piero della Francesca con due sue tele straordinarie. Da un lato, la Pala di Brera a Milano ove Federico di Montefeltro in armatura è posto in ginocchio davanti alla Vergine che regge nelle braccia il Bambino addormentato (forse un’allusione al figlio nato morto dello stesso Federico). D’altro lato, la Madonna della Misericordia della Pinacoteca Comunale di Sansepolcro, eseguita tra il 1445 e il 1448, per la locale Confraternita della Misericordia: Maria solenne e statuaria presenza dal volto colmo di intensa e sovrana bellezza, avvolge col suo immenso manto quattro oranti maschi e quattro donne distribuiti ai suoi lati, inginocchiati e con gli occhi supplici a lei rivolti.
Già Masaccio nella sua Trinitas in cruce di S. Maria Novella a Firenze aveva evocato i due committenti inginocchiati in preghiera. Ma saranno sempre molte lo raffigurazioni della preghiera, soprattutto mariana. Citiamo due opere di grande suggestione. La prima, di poco antecedente a Piero della Francesca è la cosiddetta Madonna del Cancelliere Rolin del Louvre, opera di van Eyck. Il personaggio, con un profilo molto caratterizzato, è rappresentato in ginocchio davanti alla Vergine, mentre una finestra si apre su un delizioso paesaggio. L’altra tela è la Madonna di Ca’ Pesaro del Tiziano, conservata nella chiesa dei Frari di Venezia, L’intera famiglia Pesaro prega alla base del trono di Maria, che ha alle spalle una colonna e un fondale architettonico veneziano, in uno spazio luminoso e profondo.
Alcuni hanno ipotizzato che il termine Giubileo, più che dall’ebraico jobel a cui sopra abbiamo fatto riferimento, sia da connettere col verbo tardo-latino jubilare che indicava il «gridare» (col suono onomatopeico «iu», simile a un «evviva»). Comunque sia, il Giubileo dovrebbe essere un tempo di gioia e di fede, di canto e dì lode, di liturgia e di preghiera. Una preghiera non solo santa e sincera ma anche bella, come ci testimonia l’arte (la musica è, al riguardo, un altro capitolo che pure verrà affrontato su queste pagine). Il salmo 47, infatti, ci invita nella nostra lode a Dio a «cantare inni con arte».
Fonte : www.vatican.va
http://www.griffini.lo.it/laScuola/prodotti/Monachesimo/origini/origini.htm
MONACHESIMO ORIENTALE
Si possono distinguere, nella sua storia, due periodi: l’Egiziano e il Basiliano.
I primi monaci egiziani furono cristiani ferventi che si ritirarono a vivere nel deserto, sia per desiderio di praticare più liberamente le norme della vita evangelica, sia per trovare nell’Eremitismo (dal greco eremìtes: solitario) e nell’Anacoretismo (dal greco anacoretès: ritirato) la forma penitenziale sostitutiva del martirio; loro padri spirituali furono, nel III sec., l’eremita Paolo di Tebe e l’anacoreta sant’Antonio Abate.
Il ritiro di Paolo nel deserto non ebbe imitatori; quello dell’egiziano Antonio (la cui vita fu resa famosa dal racconto che ne fece s. Attanasio nella “Vita di Antonio”) suscitò grandi folle di discepoli che lo seguirono (inizio del IV sec.), vivendo isolati o in piccoli gruppi, mentre la scelta delle pratiche ascetiche era lasciata all’ispirazione, al temperamento e anche alle bizzarrie dei singoli individui.
Il monachesimo antoniano era individualistico, solitario, puramente contemplativo: il monaco — solo, con Dio, nella titanica lotta contro Satana — era quasi esclusivamente dedito a espiare con pratiche mortificative le colpe della carne. Ben presto però si formarono delle vere colonie di eremiti, i quali -pur mantenendo una vita solitaria- intrattenevano rapporti con i vicini fratelli, dando così inizio ad una certa forma di vita in comune (le Laure – dal greco “laùra” grotta- dove i monaci si ritiravano, una volta compiuti i doveri comuni).
Tali colonie si svilupparono nel deserto d’Egitto e uno dei monaci più illustri fu Macario (che visse tra il 330 e il 390).
La successiva realtà monastica, il Cenobitismo (dal greco coinòs bìos: vita in comune) si costituì attorno a San Pacomio a Tabennisi, sul Nilo, nell’alta Tebaide (Egitto), verso il 318 – 320, dove egli fondò un monastero, stilando i primi rudimenti di regola monastica. l’obbedienza al superiore (Abate, derivato dall’aramaico Abba: Padre), che aveva la direzione del cenobio, introdotta come elemento essenziale della vita perfetta, la rinuncia alla discrezione individuale negli esercizi ascetici con la sottomissione di tutti a norme comuni (ma con la possibilità di abbandonare il cenobio, qualora si volesse) e la precisa suddivisione del tempo tra la contemplazione, la preghiera e il lavoro manuale, caratterizzarono il monachesimo pacomiano, che si diffuse in modo straordinario, contando migliaia di seguaci, in Egitto, Palestina, Siria, Persia e Armenia. Comunque, i fondamenti duraturi dell’organizzazione monastica nel Vicino Oriente, in Asia Minore, furono posti, nel IV sec., da San Basilio.
Basilio di Cesarea, detto il Grande (329/31-370/79), monaco egli stesso, critico dell’eremitismo (che giudicava pregiudizievole all’esercizio della carità cristiana) e di alcuni aspetti del cenobitismo pacomiano, cui pure si ispirava, riorganizzò la vita e la spiritualità monacale: il cenobio basiliano, poco numeroso (qualche decina di monaci), fu centro di preghiera e di penitenza, d’apostolato e di lavoro per uomini che dovevano mettere — questo era il fatto nuovo — al servizio degli altri (anche di coloro che vivevano nel mondo, specie i bisognosi) il frutto delle particolari esperienze spirituali fatte nel chiostro.
I monaci basiliani particolarmente colti, inoltre, (diversamente da quelli egiziani che, contenti della fede dei semplici, disdegnavano la speculazione sulle cose di religione) valorizzarono il pensiero greco al fine della precisazione del dogma e parteciparono attivamente alle dispute teologiche dalle quali uscì definita la dottrina della Chiesa.
Nello statuto lasciato da san Basilio — più sommario di riflessioni e insegnamenti di grande sapienza pratica sui fondamenti della vita religiosa, che vera e propria regola — e nelle precisazioni apportatevi dall’imperatore Giustiniano (Novellae 5 e 139) e da Teodoro Studita, il monachesimo orientale vide per sempre fissati i suoi tratti essenziali. Importanti forme di di cenobitismo, ispirate all’esempio orientale di S. Basilio, fiorirono nei monasteri costantinopolitani e sul monte Athos, in Grecia, caratterizzate da rigoroso ascetismo affiancato dallo studio dei testi teologici, e furono importanti per l’evoluzione successiva del monachesimo.
Il Monachesimo orientale subì successivamente le persecuzioni persiane e soprattutto islamiche, le quali, mentre fecero inaridire nei territori conquistati la vita monastica, costrinsero all’emigrazione molti che rafforzarono le comunità balcaniche e russe e svilupparono un monachesimo orientale in Sicilia e nell’Italia meridionale.
MONACHESIMO OCCIDENTALE
La vita monastica organizzata giunse a fioritura, in Occidente, in epoca più tarda che in Oriente e fino alla grande diffusione della regola benedettina rimase, anzi, un fenomeno piuttosto isolato.
Grande importanza nell’introduzione in Italia della forma cenobitica di monachesimo, ebbe S. Atanasio.
Già nel IV sec., furono fondati a Roma i primi monasteri, mentre, ben presto, la vita monastica ricevette notevole impulso, soprattutto a opera di Eusebio di Vercelli, Paolino di Nola, Martino di Tours (315-397, guardia imperiale che, ricevuto il battesimo, abbandonò l’esercito dedicandosi all’apostolato, fondando ad Amiens -in Gallia- quello che fu probabilmente il primo monastero d’Occidente e successivamente -divenuto vescovo di Tours- quello famooso di Maius), Ambrogio di Milano, Onorato di Arles, Cassiano, Giovanni, Agostino, e Cesario d’Arles, i quali scrissero anche delle regole per i propri monasteri.
Ma le prime grandi organizzazioni monastiche si ebbero tra il VI e il VII sec., nei paesi di cultura celtica, a opera di Colomba, Aidano, Patrizio e Colombano.
La regola di san Colombano si diffuse in Gallia, sul Reno, in Svizzera e in Italia, permanendo a lungo accanto alla Regula Magistri e a quella celeberrima di san Benedetto da Norcia (490-560 circa).
Tipiche del monachesimo occidentale sono le abbazie e i monasteri, che nel Medioevo divennero luogo di ritiro per gli studiosi e costituirono i centri principali della pietà e del sapere cristiani, i soli luoghi dove –in particolare durante le invasioni barbariche e nei tempi sanguinosi delle lotte tra i feudi- si conservavano barlumi importanti di vita civile, si tenevano scuole, si trascrivevano a mano gli antichi testi della cultura greca e romana, si riparavano e si riproducevano attrezzi e suppellettili, si conservavano documenti legali.
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