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LE DIECI PAROLE IN LIBERTÀ – di André Chouraqui

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LE DIECI PAROLE IN LIBERTÀ

Un mirabile intreccio di esegesi, tradizioni giudaiche e islamiche, opzioni etiche nei « Dieci comandamenti » di André Chouraqui

 » Nell’umile sinagoga della mia città natale di Aïn Témouchent, in Algeria, i dieci Comandamenti erano scritti a lettere d’oro su due tavole di legno di quercia appese sopra l’armadio che conteneva i rotoli della Torah. Come tutti gli altri bambini ebrei, imparavo a memoria le dieci Parole centrali, le cui 620 lettere ebraiche, disposte su due colonne allineate, danzavano davanti ai miei occhi, affascinandomi. Rimanevo estasiato di fronte a quelle dieci Parole che riassumono tutto ciò che l’uomo può comprendere e auspicare per l’universo ».
Con questo ricordo, comincia il bel libro di André Chouraqui dedicato ai Dieci Comandamenti (I dieci comandamenti, Mondadori, pp. 274). L’autore, ebreo algerino che vive a Gerusalemme dal 1956, addottorato alla Sorbona, traduttore delle Scritture ebraiche, cristiane e del Corano in un francese da calco sull’originale per lasciare cogliere, nei limiti del possibile, la forza immensa, il respiro delle lingue originali, l’ebraico, il greco e l’arabo, senza eccedere in letteralismi crittografici, è considerato un uomo dalle tre culture (ebraica, greca – latina, araba) e conosce come pochi i tre universi abramici: ebraismo, cristianesimo, islamismo.
Grazie a questa profonda conoscenza Chouraqui vuole contribuire a rendere sempre più decisivo il dialogo per superare odi, incomprensioni, violenze che hanno attraversato la nostra comune storia. La cosa, per Chouraqui è tanto più urgente per le religione abramiche, che hanno in comune lo stesso Dio, lo stesso messaggio, gli stessi profeti, le stesse finalità.
Quello di Chouraqui è un viaggio sulle orme di quelle antiche parole che costituiscono il « grande codice » dell’etica umana tout court, e si confronta con esse a partire dal contesto storico-culturale della loro formulazione per rileggerne l’estrema attualità e per farci cogliere la loro estrema concretezza. Un viaggio ai confini di un mistero rivelato e di un’utopia possibile.
Il mistero è quello di Dio, del suo « nome » indicibile (Chouraqui, non usa mai questo termine nel suo libro, ovviamente, preferendo usare il tetragramma http://www.nostreradici.it/Tetrag_blu.gif in corpo piccolo e sopra, altrettanto piccolo scrive Adonai, il termine ebraico per dire Signore), della sua parola consegnata a Mosè; l’utopia è quella della promessa di una vita degna di essere vissuta, in cui libertà, giustizia, rispetto della dignità umana siano i capisaldi. Esattamente quello che annunciano i Dieci Comandamenti.
All’inizio del terzo mese dopo l’esodo degli ebrei dall’Egitto e la conseguente marcia verso il monte Sinai avviene un evento centrale della storia biblica (il tutto collocabile, probabilmente, attorno al 1200 a.C.): la rivelazione della Torah, attraverso l’alleanza tra Dio e il suo popolo con il dono dei Dieci Comandamenti o Dieci Parole o Decalogo. Il testo biblico parla anche di « tavole della testimonianza » o di « tavole dell’Alleanza ». Stiamo parlando dei Dieci Comandamenti. Si tratta dell’espressione abitualmente utilizzata. Tuttavia non la troviamo nella Bibbia. Non c’è né un titolo, né un sottotitolo simile nei due passi in cui Mosè espone ai figli d’Israele i comandamenti che Dio gli ha chiesto d’insegnare (Es 20 e Dt 5). Infatti il termine impiegato nel passo dell’Esodo (20, 1) per presentare i comandamenti di Dio, è proprio: « parola ». Dio « pronunziò tutte queste parole… ». Il termine « parola », in ebraico, si dice davar che può significare sia « cosa » che « parola ». Chiunque conosca appena l’ebraico e la Bibbia sa che « Dieci Parole » si dice asseret hadiberot. Ma hadiberot, femminile plurale, non è la forma utilizzata nella Bibbia, ma unicamente nel Talmud. La Bibbia usa il termine « parole » al maschile plurale: devarim. Le « Dieci Parole » sono le asseret hadevarim.
Nella Bibbia vi sono due versioni del decalogo, lievemente diverse: nel libro dell’Esodo al capitolo 20, dal versetto 1 al 17, e nel libro del Deuteronomio al capitolo 5, dal versetto 6 al 21. Con un sorprendente intreccio di esegesi, di tradizioni giudaiche e islamiche, di storia e meditazione, ogni capitolo del libro è dedicato al commento di un comandamento. Ne viene narrata l’origine e la storia attraverso i secoli e la versione fornita da ciascuna delle tre tradizioni abramiche: l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam.
Dall’ambito religioso si passa alla lettura dei comandamenti negli altri contesti culturali e a come dovrebbero essere letti entro l’orizzonte dell’universalità delle opzioni etiche fondamentali. Chouraqui riprende il Decalogo cercando di coglierne tutta la freschezza affidandosi di volta in volta ai commentari tradizionali, ai rilievi esistenziali, alle evocazioni testuali, alle tradizioni mistiche, agli elementi simbolici.
Egli sostanzialmente procede con un metodo ermeneutico a prima vista paradossale ma profondamente fedele a quella lettura infinita, tipica del modo ebraico di leggere le Scritture. L’etica proposta nei Dieci Comandamenti è di una semplicità straordinaria. In primo luogo è stata la guida degli Ebrei, poi dei popoli e delle religioni ispirate direttamente o indirettamente dal pensiero biblico, innanzi tutto del giudaismo, successivamente del cristianesimo, attraverso i Vangeli e il messaggio degli Apostoli, poi dell’islam e infine, dell’epoca moderna, con i diritti dell’uomo e la morale laica che rappresentano l’orizzonte etico comune della nostra società dalla fine del XIX secolo.
Infatti nel libro di Chouraqui viene riservato un ampio spazio alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ed esso è stato dedicato a René Cassin, suo maestro e amico, principale estensore di tale documento dell’Onu approvato a Parigi nel 1948. La formulazione dei Dieci comandamenti è chiarissima e sembra non porre alcun problema di comprensione. Tuttavia sono numerosissimi i commentatori, ebrei e cristiani, gli storici e i filosofi che le hanno prese in esame e le hanno analizzate in maniera approfondita per comprenderle fin nei minimi dettagli.
L’approccio di Chouraqui è innanzi tutto quello di uno studioso attento alla lingua originale, l’ebraico. Ne consegue che la finezza di un testo risiede nelle sfumature linguistiche che la traduzione tende a cancellare. Affrontare un testo nella sua versione originaria permette anche di porre in evidenza le strutture particolari delle parole, delle frasi e dei paragrafi, una struttura colma di insegnamenti. Nella sua esegesi delle Dieci Parole, fatta di calore, intensità, di partecipazione esistenziale, Chouraqui rimanda a radici ancora più remote.
Non a caso il primo capitolo del libro è dedicato ai « comandamenti prima dei dieci comandamenti », in cui egli risale ad Abramo e allo stesso Adamo, che incarna l’intera umanità. Le dieci parole cominciano con un’affermazione la cui tonalità orienta tutto l’insieme. Dio non si presenta come il creatore del cielo e della terra, ma come il liberatore dalla schiavitù in Egitto.
Il Dio del Decalogo è un Dio che libera. Liberazione e libertà sono i principi fondamentali che organizzano i comandamenti. L’etica dei Dieci Comandamenti non cerca d’imporre all’uomo un ideale di rinuncia alla vita individuale e collettiva. Al contrario, quest’etica è eminentemente sociale. Essa risveglia in ciascuno le responsabilità che spettano per il semplice fatto di essere un membro della società umana.
Alla base di quest’etica collettiva c’è il mirabile comandamento dell’amore: « Amerai il prossimo tuo come te stesso » (Lv 19, 18), un comandamento senza limiti, che invita l’uomo ad amare non solo i propri simili, ma anche lo straniero, lo schiavo, il nemico. Amare il prossimo significa certamente non odiarlo, o non bramare ciò che gli appartiene, ma garantirgli la vita e l’integrità psichica e morale. È ovvio che non bisogna ucciderlo, ma neppure ferirlo con azioni e parole, mentirgli e ingannarlo. Giustizia e bontà sono i due elementi fondamentali per comprendere appieno il senso dei Dieci Comandamenti.
Del resto, un solo termine, in ebraico, designa le due nozioni: tzedeq. La realizzazione dello tzedeq, giustizia e bontà, è, insieme all’amore per il prossimo, una delle esigenze fondamentali del Decalogo. Essa garantisce i diritti della persona. Un’etica della responsabilità, dunque, che significa attenzione per il futuro. Prendersi cura dell’altro, umanità e mondo, significa consentire che via sia un futuro degno di essere vissuto per tutti.

Ottavio di Grazia, 2001

LA LIBERTÀ DI ESSERE SCHIAVI DI D-O – PARASHAT BEAR SINAI – BECHUKOTAI 5758

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PARASHAT BEAR SINAI – BECHUKOTAI 5758

LA LIBERTÀ DI ESSERE SCHIAVI DI D-O

L’idea di rendenzione è profondamente impressa nella Torà. Quando la Torà ci descrive la forma delle ‘Tavole della Legge’, dice che la Scrittura Divina era incisa (charut) sulle tavole. I Maestri invitano a non leggere ‘charut’ (incisa) bensì ‘cherut’ libertà. Le parole di Torà condensate nelle Dieci Espressioni (l’italiano poco si adatta a tradurre la parola ‘davar’, la classica traduzione ‘Dieci Comandamenti’ è molto approssimativa) sono parole di libertà. Ogni festa del nostro lunario è caratterizzata da una forma di libertà/redenzione. Se Pesach è la libertà fisica, Shavuot rappresenta la libertà spirituale preceduta da 49 giorni di preparazione nei quali ogni ebreo, ogni anno, rivive l’esperienza dei padri (ma anche la propria) nell’approccio alla Legge. Qui sorge il paradosso dell’ebraismo. La libertà non può che venire dalla autosottomissione, volontaria, alla Legge Divina. La libertà del popolo di Israele è completa nel momento in cui Israele diventa schiavo di D-o. “Essi sono Miei schiavi”, e non schiavi degli schiavi. La libertà di essere schiavi di D-o dunque.
Ma il concetto della libertà è ancora più chiaro se si pensa allo Shabbat. L’unico possibile riposo secondo la Torà è il dedicarsi completamente al culto Divino, innalzando tutto ciò che è materiale ad un livello sacrale (ad es. sesso, cibo, abbigliamento). La propria libertà quindi si esprime nell’astenerci
dall’esercitare quella potenza creatrice che D-o ci ha dato nel mondo della materia per dedicarci a quello dello spirito. E questo paradossalmente attraverso una spiritualizzazione della materia stessa.
In genere noi siamo portati a dire che è libero colui che non dipende da alcun padrone e viceversa colui che è sottomesso è uno schiavo. Nell’ebraismo la libertà nasce con l’accettazione del fatto che c’è un Solo Padrone del mondo, il Santo Benedetto Egli Sia. La nostra sottomissione alla Sua Legge ci rende liberi, liberi dagli altri, liberi di servire l’Unico vero Padrone. Questo concetto è così ben esemplificato nello Shabbat, che ogni settimana rimarca l’ordine dei rapporti tra il potere del singolo e quello della Divinità, da poter essere trasferito senza problemi a livello nazionale. Nasce quindi il Sabato degli anni, l’Anno Sabbatico. Secondo il classico schema di ‘uno a sette’, si santifica il settimo anno nel quale a riposare non è solo il singolo ebreo o i suoi beni, bensì un intera nazione e soprattutto la sua Terra. Un anno dedicato allo spirito anziché ai campi. Ma per dedicare un anno allo spirito si deve sacralizzare il campo così come nello Shabbat è il cibo, l’abito o il sesso ad essere sacralizzato.
La Terra d’Israele non è una terra come le altre perché il popolo d’Israele non è un popolo come gli altri. Gli altri popoli non hanno lo Shabbat e le altre terre non hanno l’anno Sabbatico. Se nella Parashà di Bear Sinai la Torà ci insegna le regole dell’anno Sabbatico, nella Parashà di Bechukotai essa ci mette in guardia dalle conseguenze del mancato adempimento alle norme in questione, cioè dall’esilio, ossia l’antitesi della libertà e della rendenzione. Non hanno dubbi i Maestri nel sostenere che tra le cause principali dell’esilio babilonese ci sia la mancata osservanza delle regole dell’anno Sabbatico. Il popolo d’Israele ha un ruolo nella sua Terra 2 se si Santifica attraverso le mizvot (ed in particolare lo Shabbat) e se Santifica la Terra stessa attraverso le mizvot (e l’anno Sabbatico in particolare). Altrimenti c’è l’esilio.
È doveroso ricordare però che nel caso del nostro esilio, quello che dura da ormai quasi 2000 anni, l’esilio romano, non è il mancato adempimento alle regole sabbatiche che ci ha condannati, bensì l’odio gratuito tra ebrei.
Quando D-o parla nella nostra Parashà del giorno in cui ci redimerà, presto ed ai nostri giorni, Egli annuncia che ricorderà in nostro favore quattro cose. Il Patto di Giacobbe, Il Patto di Isacco, Il Patto
di Abramo e la Terra.
Potremmo dire che la Terra rappresenta il concetto di Shabbat e di anno Sabbatico. Abramo rappresenta il rifiuto dell’idolatria e la sottomissione all’Unità di D-o simbolizzata dalla milà. Isacco rappresenta la preghiera. E Giacobbe? Giacobbe non è un personaggio facile. Non è ancora il pio Israele, è colui che inganna. Accade però che in questo specifico punto della Torà il nome Jaacov (Giacobbe), sia scritto con una ‘vav’ in più. Se controlliamo in tutta la Bibbia solo 5 volte questo accade. Parallelamente il nome
del profeta Elia (Eliau) è scritto solo 5 volte senza una ‘vav’ (Eliah). La ‘vav’ è la lettera congiuntiva per eccellenza. Non solo è la congiunzione grammaticale più usata nell’ebraico ma i ganci che tengono insieme le cortine del Santuario si chiamano ‘vavvim’ (il plurale di ‘vav’). La ‘vav’ inoltre ha la forma di un dito.
Il Profeta Elia, colui che annuncerà la redenzione e l’arrivo del Messia, dà cinque ‘vav’a Giacobbe.
Ossia dà la sua mano a Giacobbe. È vero quindi che se solo Israele osservasse due Sabati consecutivi come si deve il Messia giungerebbe subito, ma è altrettanto vero che se solo ogni Giacobbe sapesse dare la sua mano al suoprossimo allora sicuramente il Messia arriverebbe.

Shabbat Shalom

Jonathan Pacifici

IL CONCETTO DI SAPIENZA NEL TESTO BIBLICO (RAV LUCIANO MEIR CARO)

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IL CONCETTO DI SAPIENZA NEL TESTO BIBLICO (RAV LUCIANO MEIR CARO)

Tutta la Bibbia parla trasversalmente della Sapienza – Kochmà, ma più diffusamente ne parlano il libro dei Proverbi, attribuito al re Salomone e il libro di Giobbe.
Ma cos’è questa Kochmà? Per noi la sapienza è la scoperta delle cose, la conoscenza, la loro origine e la loro natura. La conoscenza delle cose allo scopo di cercare di intuire qual è il vantaggio che ne possiamo trarre per la nostra vita quotidiana. Capiamo subito, perciò, che l’argomento è straordinariamente ampio.
E in quanto vi ho appena detto, rientra anche lo studio della storia, perché anche questo può darci delle indicazioni di saggezza. Un passo notevole del libro del Deuteronomio dice: « Considerate i giorni della storia; riflettete e cercate di capire il significato degli anni delle generazioni precedenti » (Dt 32, 7). Probabilmente questo invito è allo scopo di non ricadere negli errori già commessi nel passato; cosa che, invece, facciamo tutti.
Nel libro dei Proverbi, che è una fonte inesauribile in questo settore, si danno delle indicazioni di carattere generale. Scopo dell’acquisizione della sapienza è conoscere l’etica, cioè il comportamento che dobbiamo tenere nei confronti degli altri uomini. Secondo altri passi lo scopo sarebbe quello di imparare la cosiddetta Binah. Binah è un altro termine biblico, simile a quello di Kochmah, che indica il capire la differenza che c’è tra le cose.
Secondo un’altra indicazione che ricaviamo sempre dal libro dei Proverbi, lo scopo è quello di capire la strada della giustizia.
Vedete quindi che c’è come un intreccio tra la conoscenza della morale e dell’etica, tra il riconoscere l’essenza delle cose e il perseguire la giustizia.
Rientra nella Kochmah anche il potere capire le espressioni, perché molto spesso la sapienza è contenuta in alcune espressioni, che noi dobbiamo imparare a interpretare. Quindi è anche dal testo, da locuzioni particolari, che riusciamo a imparare cosa sia la sapienza. Finalmente è la capacità di capire le parole dei saggi e i loro enigmi.
Vorrei provare a chiarire un po’ meglio questo elemento. Molto spesso la sapienza è rivestita da espressioni, che dobbiamo cercare di capire e che non sono immediatamente percepibili. Una specie di gioco di Settimana enigmistica. Dobbiamo cioè cercare di entrare all’interno dell’espressione stessa, per poter capire; non si tratta di rimanere alla superficie. E questo è un meccanismo che troviamo molto spesso nel testo biblico, quando l’Eterno, in alcune occasioni, parla con l’uomo, e dice ovviamente delle cose giuste, ma l’uomo non sempre riesce a capirlo.
Faccio solo due esempi rapidissimi. All’inizio del libro della Genesi, quando Dio si rivolge all’uomo e dice: « Non dovete mangiare il frutto, altrimenti morirete » (Gen 3, 3). La prima cosa che viene in mente è che la morte derivi dal fatto che il frutto è velenoso; invece impariamo, dal proseguio del testo, che non era quello il significato. Ma la morte, preannunciata da Dio, deriva dal fatto che l’uomo sarà cacciato dal giardino e non avrà la possibilità di mangiare del frutto dell’albero della vita. Quindi la morte deriva dalla disobbedienza, per cui mangio il frutto, che mi sottrae la possibilità di accedere all’albero della vita.
Il secondo esempio riguarda Rebecca, la moglie di Isacco. Sappiamo che questa donna aveva dei problemi di gestazione e per lungo tempo non poté avere figli; finalmente, però, rimane incinta di due gemelli e, allorché si accorge che i figli si muovevano nel suo grembo, dice: « Ma cosa mi sta succedendo? » e Dio risponde con una specie di enigma, che noi capiamo subito, ma che per lei forse non era subito così chiara: « Nel tuo ventre ci sono due nazioni e dal tuo utero si separeranno due popoli e l’uno sarà superiore all’altro e il più grande servirà il più giovane » (Gen 25, 23).
E’ la storia dei conflitti tra Esaù e Giacobbe. Ma per lei che significato poteva avere, in quel momento? Non credo che lei abbia capito, tant’è vero che non ha reagito.
Questo modo di procedere di Dio si chiama Kidah ed è un mezzo col quale si introduce qualcuno al mondo della sapienza, proprio facendo in modo che la persona cerchi di capire, attraverso un suo sforzo intellettuale. A dire che la sapienza si acquisisce mediante lo sforzo.
Secondo il libro dei Proverbi la Sapienza non ha lo scopo principale di insegnarci a vivere, ma di aiutarci a capire qual è la volontà di Dio.
Secondo il Talmud si cercava di introdurre anche i bambini in questo contesto di sapienza e lo si faceva insegnando loro le qualità di Dio, cioè cercando di far capire loro come si comporta Dio nei confronti dell’uomo. E reso noto questo, si sperava che il bambino si attivasse per cercare di imitare Dio nei suoi comportamenti e atteggiamenti. Da questo sforzo, allora, nasceva la sapienza.
Per es. se Dio si preoccupa del povero, allora anch’io devo preoccuparmene. Dio va a visitare i malati e altrettanto devo fare io.
Ma per rimanere in tema, dobbiamo dire che anzitutto l’iniziazione dei bambini avveniva attraverso lo studio dell’alfabeto. Sappiamo che le lettere dell’alfabeto ebraico sono il materiale del quale Dio si è servito per creare il mondo; quindi se noi riusciamo a capire qual è il significato delle singole lettere, diventiamo, in qualche modo, creativi e ci avviciniamo alle capacità di Dio di produrre qualche cosa.
Ci sono alcuni sinonimi del termine Kochmah, che ritornano all’interno del testo biblico. Il termine da’at, cioè « conoscenza »; poi etzah, « consiglio »; qualche volta troviamo anche il termine tachbulah, che significa « dare dei consigli un po’ pericolosi, in forma tale che chi li ascolta potrebbe interpretarli male ». Tachbulah viene dalla radice chavàl, che vuol dire « ferire »; cioè è un qualcosa che può essere sì positivo, ma nello stesso tempo può portare un danno a qualcun altro.
Analogamente quando io causo una lesione a qualcuno, posso farlo perché voglio causargli del male, la potrei anche farlo, cercando di fargli del bene. Pensate a un chirurgo. C’è questo intreccio tra le cose positive e negative.
C’è anche il termine binah, già citato prima, che significa « discernimento » e deriva dall’espressione bein, cioè « tra » e appunto vuole significare la capacità di distinguere le differenze « tra » una cosa e un’altra.
Ancora abbiamo il termine mezimmah, che amplia ulteriormente la prospettiva. Deriva dalla radice zamah, che vuol dire « mettere la museruola ». E cosa centra questo? Di solito quando mettiamo la museruola a un animale, lo facciamo per evitare che ci morda; quindi si tratta di un’azione che vuole rendere difficile a qualcuno il creare dei danni.
La Kochmah si può chiamare mezimmah perché è un artifizio tale che mette la museruola all’uomo per disciplinare le sue azioni. Possiamo avere l’istinto di fare tante cose, ma se siamo coerenti con la sapienza, se siamo coscienti di essa, questa cosa può limitarci, può fermarci. E questo vale per le azioni e per la parola. Sappiamo che il saggio è uno che parla poco. I nostri maestri dicono: « Il silenzio è uno sbarramento a difesa della sapienza ». Più uno parla, più dimostra di essere stolto.
Vorrei darvi una panoramica generale.
Come tutte le cose di questo mondo, anche la sapienza può avere un aspetto negativo.
Pensate che per indicare la sapienza si adopera anche l’espressione ‘ormah, un termine che troviamo a proposito del serpente, quando parla con la donna. ‘ormah, da cui abbiamo ‘arum, che vuol dire « scaltro » e vuol dire anche « nudo » e per noi rimane difficile capire quale sia l’analogia fra i due significati. Qualche volta la sapienza può essere adoperata come scaltrezza per ottenere qualcosa che non è così positivo.
Un’altra radice è tuschiah; piuttosto rara e presente soprattutto nel libro di Giobbe. Richiama certamente l’espressione iiesh, « c’è ». Quindi tuschiah è qualcosa che esiste. Qualcuno però dice che il termine deriva dalla radice nashah, cioè « dimenticare ». La sapienza potrebbe essere il mezzo attraverso il quale noi facciamo dimenticare a Dio le nostre cattive azione. Quasi volessimo presentare a Dio la nostra saggezza, perché egli ne tenga conto benevolmente, in modo da fargli dimenticare le cose negative.
Talvolta troviamo il termine Hachàm, cioè « saggio » associato al termine tzaddìk, il « giusto ». Un vero saggio è quello che è anche giusto e si comporta bene. Ma non sempre! Infatti a volte abbiamo esempi biblici in cui il saggio è certamente intelligente, sa come muoversi, come manipolare le cose, ma lo fa con scopi negativi. Un esempio è quello di Amnòn, figlio di Davide, che violenta la sorellastra Tamàr. E come arriva a questo? Essendo lui molto innamorato di Tamàr e non potendola possedere, era molto triste; un altro fratellastro, Ionadav, vedendo Amnòn così triste, gli chiede cosa sia successo e, saputo del suo desiderio, gli dà dei consigli intelligenti, ma negativi dal punto di vista morale. Gli suggerisce di far finta di essere malato e di volere il cibo preparato da Tamàr; così venendo lei da lui, che era a letto, subisce la violenza. Inoltre la passione amorosa di prima, si trasforma in odio. Tutto questo a causa del consiglio di Ionadàv.
Anche Geremia sottolinea questo aspetto, quando dice: « Sono saggi, esperti, per fare il male » (Ger 4, 22).
Un’altra accezione di questo termine Kochmah è quello di capacità tecnica e inventiva e lo troviamo, nel libro dell’Esodo, allorché Dio assegna il compito di costruire il tabernacolo nel deserto e in seguito anche il santuario. E il testo dice che la costruzione fu fatta da tutte quelle persone a cui Dio aveva infuso kochmah (Es 31, 6), quindi capacità tecnica, non solo di costruire, ma anche di inventare, di progettare.
Nella Bibbia ebraica ci sono due tipi di Kochmah, quella degli Ebrei e anche quella degli altri popoli. Viene riconosciuta anche quella degli altri popoli, ma c’è una superiorità della nostra sapienza, data dal fatto che noi abbiamo la Torah e mettendo in pratica la Torah, noi diventiamo saggi.
Un passo del Deuteronomio afferma che il mettere in pratica le leggi e le norme della Torah costituisce la nostra sapienza e la nostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali diranno che noi siamo un popolo saggio e intelligente (Dt 4, 6). Siamo superiori, avendo una Legge superiore; la nostra superiorità consiste nel mettere in pratica la Torah; se non lo facciamo, siamo assolutamente come gli altri. Tutti dovrebbero imparare da noi come ci si comporta e arrivare alla conclusione: se si comportano così, è perché Dio ha dato a loro un insegnamento speciale e perciò dovremmo imparare anche noi.
Non esiste una superiorità intrinseca del popolo ebraico, ma la superiorità deriva dal nostro comportamento di obbedienza alla Torah.
Perché Dio ha dato questa norma proprio agli Ebrei e non ad altri? Forse perché riteneva che noi fossimo più preparati a mettere in pratica questo compito. Attenzione! Questo significa anche che Dio ha distribuito la sua sapienza, la sua capacità a tanti altri popoli. Gli Ebrei sono incaricati, mediante l’osservanza della Legge, a portare la gente a riconoscere che c’è un Dio unico. Ad altri popoli ha dato altre prerogative. Noi non siamo più bravi degli altri. E’ come un padre che ha tanti figli e, avendo capito le prerogative dei diversi figli, affida ad ognuno un compito specifico, a secondo dei doni e delle capacità. In fondo questa è la storia dell’umanità. Quante cose abbiamo imparato da popolazioni orientali? Se ci guardiamo attorno, pensate all’estetica, alla normativa, che abbiamo imparato dai Greci e dai Romani e così via.
Ci sono tanti saggi in tutte le nazioni; saggi riconosciuti. Per es., parlando di Salomone si dice che lui era il più saggio di tutti e il testo biblico dice esplicitamente che la sua sapienza era superiore a quelli di tutti i sapienti del mondo. Anche la regina di Saba, che era sapientissima, va a Gerusalemme per verificare se quello che aveva sentito dire di lui era vero.
Ancora. Pensate che Giuseppe Flavio racconta, ma solo in base ad un’antica leggenda senza base storica, che erano famose le gare di intelligenza fra Salomone e il re di Tiro, Chiràm.
Quindi si riconosce che l’essere sapienti non è una nostra prerogativa, ma la nostra sapienza diventa speciale, quando riusciamo a riconoscere che abbiamo ricevuto la Legge di Dio e siamo chiamati a metterla in pratica, per insegnare qualcosa agli altri attraverso il nostro esempio. Ma non perché noi siamo più bravi, belli, intelligenti, ecc.
Ci sono anche elementi accessori. Qual è la sede della sapienza, nell’uomo? Innanzi tutto la sapienza viene da Dio; se uno ce l’ha è perché Dio gliel’ha data e da soli è più difficile conseguirla. Qualche volta si parla del cuore – lev – come sede dell’intelligenza, della sapienza, come facoltà del ragionare. Questo diversamente da quanto si sente dire in Occidente, che il cuore sarebbe la sede dei sentimenti, mentre non è vero.
Una cosa interessante e carina è che circolava nell’antichità, ma circola ancora oggi, l’idea che la vera sapienza si trova negli anziani. Il libro di Giobbe invece dice il contrario e cioè che Dio sottrae la sapienza agli anziani; essi hanno, sì, una grande esperienza, ma invece di adoperarla per il bene, la adoperano in senso cattivo. Quindi, dice Giobbe, non bisogna imparare dagli anziani, perché danno dei buoni insegnamenti, ma dei cattivi esempi. Secondo un proverbio l’anziano si compiace di dare dei buoni consigli, perché l’età non gli permette più di dare cattivi esempi.
Nel Qohelet si dice chiaramente: « E’ meglio un ragazzino povero, ma sapiente di un re anziano e stolto » (Qo 4, 13).
Notate che anche il libro, che parla di questo argomento, presenta queste figure di anziani, che discutono con Giobbe sulla giustizia, il peccato, la sofferenza, ecc., ma in tutto il loro sproloquiare non riescono a venirne fuori; poi, alla fine, il libro ci presenta un ragazzo giovane che entra nella discussione e mette in crisi i grandi sapientoni. Dice che si era messo ad ascoltarli con deferenza, in quanto anziani, mentre non ha imparato proprio nulla, perché loro sono pieni solo di se stesso.
Anche la donna può essere dotata di sapienza e spesso si dimostrano più sagge degli uomini. Ci sono episodi della Bibbia in cui compaiono delle figure femminili eccezionali, che sanno entrare in azione proprio nei momenti più critici della nostra storia. Questo dimostra che hanno una capacità eccezionale di lungimiranza, sicuramente superiore a quella degli uomini.
Si parla delle donne anche a proposito della costruzione del tabernacolo, quando parteciparono alla confezione di opere molto belle.
Ma pensate alla madre di Sisarà, un generale nemico di Israele; il testo ce la mostra mentre attende il ritorno del figlio dalla battaglia, ma il figlio non torna, perché è morto in battaglia. Lei si esprime con parole ricche di sapienza, alle quali fanno eco le risposte delle sue amiche, anch’esse ricche di sapienza e convincenti, cercando di rassicurarla. Il testo sacro le chiama proprio « le più sagge » (Gdc 5, 29).
Qohelet dice anche che il cibo, le sostanze, non appartengono ai saggi, cioè il saggio può anche essere molto saggio, ma questo non lo rende particolarmente ricco.
Un’altra cosa interessante che ricaviamo dal testo biblico è che Dio ha dato saggezza anche agli animali, allo scopo che gli uomini apprendano da loro cose utili. Per es. il libro dei Proverbi invita il pigro ad andare dalla formica, che si comporta con molta saggezza.
Si racconta che Salomone parlava con gli alberi e imparava da loro. Persino ci sono alcuni passi del libro dei Proverbi, passi un po’ oscuri, per la verità, che affermano che persino le cose inanimate possono avere della saggezza. Il ferro, in quanto materia, ha una forma di intelligenza che a noi sfugge.
Le leggi della natura riguardano l’uomo, ma anche gli esseri inanimati. Il creatore è lo stesso, perciò noi umani non dobbiamo darci delle arie, pensando di essere gli unici ad aver ricevuto da Dio delle qualità particolari. Siamo sì importanti, ma non siamo i soli.
Questo è uno dei motivi che fanno dire ai maestri: « Perché l’uomo è stato creato per ultimo? ». Aveva forse bisogno di esercitarsi, Dio? Non sappiamo come siano andate le cose, ma almeno, quando ci troviamo davanti a qualcuno che si dà delle arie, possiamo aiutarlo a ridimensionarsi, facendogli notare che, nell’atto della creazione, per es., perfino le pulci l’hanno preceduto.
Dovremmo accennare anche al fatto che la mitologia entra in gioco, quando si parla della sapienza. Spesso nei Proverbi la sapienza è paragonata a una donna, attribuendole capacità superiori all’uomo e questa donna, in senso allegorico, viene rappresentata come colei che è capace di gestire l’economia della casa. Viene detto che la donna è capace di apprendere più degli altri dalle circostanze; questo in particolare contrapposizione con gli stolti, che invece, cercano tutti i modi per mandare in rovina gli altri, per condurli all’errore. La donna, invece, è proiettata verso un futuro migliore. Se ne può ricavare che la donna è ispirata da Dio, che la pone nel mondo come un mezzo di promozione e progresso. E’ così di fatto.
Ci sono altri miti babilonesi,di cui troviamo reminiscenze vaghissime nel testo biblico, secondo i quali la sapienza, la saggezza dell’uomo è derivata da un animale mitico venuto dal mare, che avrebbe insegnato all’uomo i rudimenti dell’intelligenza. Qualcuno pone la domanda se quel mito del serpente non potrebbe essere un qualcosa del genere? Il serpente, in fondo, è un animale strano, perché prima aveva le gambe, poi inizia a strisciare. Però il suo insegnamento non è andato a buon fine; ha insegnato male; in fondo la sua non era saggezza, ma piuttosto scaltrezza. Qualcosa del genere si trova anche nella mitologia babilonese.
Vorrei che teneste conto anche di questo elemento. Parlavo prima di dimenticanza, in riferimento al fatto che i nostri atti, derivati dalla sapienza che abbiamo ricevuto da Dio, inducono Dio stesso a dimenticare, a non tenere conto dei nostri errori. Ma c’è un’altra forma mitologica, che noi troviamo nelle fonti talmudiche successive. Si racconta che, quando nasce un uomo, nel momento in cui nasce, è già dotato della massima saggezza possibile; poi arriva un angelo e gliela sottrae. Quindi essere saggi significa recuperare delle capacità che avevamo in origine; imparare qualcosa, vuol dire ricordare qualcosa che sapevamo già e non vuol dire imparare da zero. Sapevamo tutto, ma ci è stato sottratto, forse proprio perché ci diamo da fare per recuperarlo.
Di libri sapienziali ci sono altre esemplificazioni nei rotoli del Mar Morto, che non fanno parte del canone biblico, che hanno poi influenzato moltissimo la letteratura successiva.
Volevo anche dire che già nei libri di Samuele e dei Re troviamo citato un testo « Espressione degli antichi », un compendio di elementi di saggezza provenienti dal mondo antico.
Prima di concludere, vorrei parlarvi di un personaggio della letteratura post-biblica, una donna straordinariamente saggia, la famosa Bruriah, vissuta nel II secolo dell’Era volgare. Nel Talmud si parla di questa donna che era l’unica donna che partecipava alle discussioni dei sapienti, allo scopo di trovare la normativa. Lei partecipava e molto spesso i sapienti accettavano la sua opinione. Lei dava i suoi consigli, senza darsi tante arie. Si racconta che lei assistesse ai convegni dei sapienti, tra cui era presente anche il marito, rabbì Meir, mentre spazzava per terra e mentre lavorava, interveniva nella discussione su problemi anche molto seri.
Un maestro diceva di lei: « Bruriah parla bene », cioè sa quello che dice. Di lei si diceva che nonostante il suo grande impegno per mantenere la sua casa, studiava trecento norme al giorno, da trecento saggi diversi. Quindi adoperava il tempo come si deve.
Si racconta che un giorno un tale la incontrò per strada e le ha chiesto: « Come facciamo ad andare a Lod? » e lei: « O Galileo stolto, non hai imparato niente? Non sai che un testo talmudico dice che non bisogna parlare troppo con la donna? ». Si sarebbe riferita al fatto che questo signore ha adoperato un’espressione sbagliata, perché aveva usato il plurale: « Come facciamo…’ », quasi volesse coinvolgerla nel suo viaggio. Avrebbe dovuto dire: « Come si fa ad andare a Lod? ».
Si racconta ancora che un giorno il marito, grande maestro, stava pronunciando degli improperi nei confronti di certi ignoranti, che lo insultavano e non lo rispettavano. La moglie riprende il marito dicendogli che non doveva imprecare contro le persone e pregare che i peccatori scompaiano dalla terra, ma doveva pregare perché il peccato scompaia dalla terra. E il marito accoglie il rimprovero.
Di lei si dice anche che avesse subito molte disgrazie. Il padre, anche lui un grande maestro, era morto sotto le torture dei Romani e lei aveva assistito alla tortura subita da un fratello; le sue sorelle erano state rapite e messe in case di prostituzione dei Romani. Ma si racconta anche che aveva, nei confronti della sua vita, una grande saggezza. Di sabato erano morti i suoi due figli, ma lei non vuole dire nulla al marito, per non turbare il giorno sacro dello Shabbàt; quindi copre i cadaveri e li porta in una stanza. Il marito, tornato a casa alla fine della festa del sabato, chiede dei ragazzi e lei, per tutta risposta, gli racconta una storia. E dice: « Se qualcuno ci affida qualcosa in deposito, poi gliela dobbiamo rendere? E lui: « Certamente! ». Allora lo porta davanti ai cadaveri dei figli e dice: « Dio ce li ha dati, Dio ce li ha richiesti ».
Siccome lei era anche molto bella, il marito sospettava che lei approfittasse della sua bellezza, per sedurre qualcuno. Così incarica un suo giovane allievo di provare a sedurre sua moglie, per metterla alla prova. Lei se ne accorge e, avendo constatato la poca fiducia del marito, si suicida. Così dice la storia.
Penso che possiamo concludere con questa citazione del libro dei Proverbi: « L’inizio della sapienza è il timor di Dio » (Pr 1, 7). Nelle nostre fonti temere Dio vuol dire non fare delle cose che sappiamo essere negative nei confronti dei nostri simili. Questo indipendentemente dal credo religioso.
Ma vorrei spendere ancora qualche secondo per sottolineare una cosa. Tenete conto dell’espressione: « L’inizio della sapienza »: reshìt kochmah. Reshìt, per combinazione, è la prima parola del testo biblico: Bereshìt barà Elohìm… (Gen 1, 1). Qualcuno dice che Dio ha creato il mondo non al principio;

IL SOGNO DI GIACOBBE (GEN 28,10-22)

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IL SOGNO DI GIACOBBE (GEN 28,10-22)

Gli aspetti peculiari della pericope: un’esposizione sintetica di alcuni elementi che la caratterizzano.

A partire dalla struttura, si pone in evidenza la traccia di riscritture all’interno del testo: diversità di nomi divini, passaggio da una visione di angeli a un’apparizione del Signore, (vv. 12-13), contraddizione tra il voto di Giacobbe (vv. 20-22) e la promessa di Dio (vv. 13-15), che egli sembra ignorare o rimettere in discussione. Queste riletture sono una testimonianza di quanto la tradizione di Giacobbe a Betel sia stata importante nella memoria d’Israele. Il racconto utilizza una figura retorica, il chiasmo, che consiste nel collocare, in parallelismo simmetrico attorno a un centro, dei termini (o dei motivi) che si corrispondono dall’inizio alla fine: essi sono il luogo, la pietra, il sogno. La struttura del brano, che ha, dunque, una sua logica interna, rilevabile da una chiara costruzione stilistica e metodologica, potrebbe essere ben definita all’interno di un triplice quadro: una cornice narrativa esterna (vv. 11a + 19a) che contiene la totalità di un racconto che appare come un’unità letteraria autonoma e accuratamente organizzata; inoltre, contiene l’indicazione di un «luogo», ma tutta l’attenzione è orientata precisamente «sopra questo luogo» che, interamente indeterminato all’inizio, trova il suo senso e la sua identità man mano che avanza la narrazione; un secondo quadro (vv. 11b + 18), comprende i dati cronologici del racconto e le azioni proprie di ciascuno dei due momenti in cui è suddivisa la scena: al tramonto del sole, le disposizioni precise per passare la notte; al mattino, il risveglio e i gesti rituali richiesti dall’esperienza onirica. È da notare il parallelismo delle espressioni distribuite nelle tre frasi che descrivono l’attività di Giacobbe: le tre azioni profane della sera (wayyiqqah?, “prese” – wayyasem, “mise” – wayyiškab, “distese”; sono tre forme verbali di coniugazione qal, modo wci, persona 3ms) sono parallele ai tre gesti rituali del mattino (wayyiqqah?, “prese”- wayyasem, “mise” – wayyis?oq, “versò”). Questa ripresa degli stessi termini, per descrivere delle attività differenti, è un’inversione significativa intervenuta secondo una chiara finalità, quella di segnare il passaggio dal mondo profano al mondo sacro; terzo quadro di riferimento (vv. 12-13a + 16-17) è quello dell’avvenimento centrale del racconto: il sogno e la presa di coscienza. Il sogno è descritto nella forma classica delle visioni oniriche in cui, dopo la formula di introduzione (wayyah?alom), ogni immagine della visione è introdotta da «wehinneh» ed esposta in una frase nominale. Abbiamo qui (secondo Fokkelman) una forma semplice costituita da tre quadri successivi e autonomi, il cui procedimento stilistico presenta il narratore che si mette al posto del sognatore; in questo modo si sopprime la distanza, tra l’avvenimento e la sua narrazione, rendendo l’ascoltatore partecipe all’esperienza descritta in questa forma letteraria. È da sottolineare il carattere atipico del racconto del sogno che comincia come sogno allegorico, senza poi esserlo fino in fondo perché manca l’interpretazione che ne segue obbligatoriamente, e prosegue come sogno a messaggio. Un altro aspetto rilevante (dell’avvenimento centrale del racconto è quello messo in evidenza da Manuel Oliva) riguarda la successione dei tre quadri della visione onirica, cioè la scalinata, i messaggeri, Dio stesso: le proposizioni sono sempre più corte e concentrate, mentre cresce l’importanza dei soggetti che dalla visione iniziale della scalinata raggiunge il suo culmine nella visione di Jhwh. Successivamente, le parole di Giacobbe riprendono, in senso inverso, lo stesso climax in un ordine decrescente di importanza, attraverso delle proposizioni la cui lunghezza, anch’essa decrescente, sembra seguire la gradazione delle emozioni provocate per ogni immagine: in primo luogo, la visione di Jhwh che lascia nel sognatore l’impressione più forte, poi la “casa di Dio” e, infine, la “porta dei cieli”. Questo triplice quadro è organizzato attorno ad un asse che separa l’insieme di due parti simmetriche. L’articolazione del testo interviene, precisamente, al passaggio tra il sogno e lo stato vigile, equilibrando così il racconto tra un «prima» e un «dopo» di questo asse.
Per quanto riguarda l’analisi semantica si rilevano alcuni tratti caratteristici degli elementi presenti nella struttura letteraria del testo: la parola maqôm è quella che pesa di più nel bilancio statistico dell’insieme del brano (6 volte). Il primo punto di rilievo si riferisce al fatto che quel posto (dove Giacobbe passa la notte) viene nominato “il Luogo”, senza alcuna introduzione, come se si trattasse di un luogo di culto ben noto (“ereditato” dai cananei; anche Abramo era accampato a est di Betel, dove aveva costruito un altare per Jhwh: Gen 12,8; 13,3-4). Tra l’altro si può tracciare un parallelismo con meqômôt dei quali la tradizione si interessa, perché legati a un particolare incontro con Dio: in particolare, Gs 5,15 (hammaqôm ’ašer ’attâ ‘omed ‘alajw qodeš hû’; «questo luogo dove stai è santo») ed Es 3,5 (con un predicato ampliato: ’admat qodeš hû’; «… è suolo santo»; cf. Zc 2,16) stanno alla vigilia dell’uscita dall’Egitto e dell’ingresso in Canaan e si pongono quindi nell’orizzonte della terra promessa e di Gerico come sfondo (cf. Es 3,8; Gs 6,1ss): in quello spicchio di terra sono dichiarate e comunicate, tipologicamente e pareneticamente, la santità di Dio e la santità del paese. La consapevolezza che Giacobbe acquisisce nell’esperienza notturna è strettamente correlata a «questo maqôm» e in esso concentrata (cf. v. 16 trad. J e v. 17 trad. E); egli esprime in parole le stesse sensazioni e la medesima confessione che Mosè e Giosuè esprimono con il loro comportamento (cf. Es 3,5.6b; Gs 5,15): rincresciuta ammissione d’ignoranza, timore, riconoscimento della presenza di Jhwh. Gli atti successivi inscrivono durevolmente nel maqôm evento, conoscenza e riconoscimento, dedicandolo (anche) a Jhwh. Anche la tradizione successiva si interessa principalmente del luogo: per esempio, in Gen 35,1.3.7 il maqôm viene fornito di un altare edificato per adeguarsi ad altre scene della storia dei patriarchi; in Gen 35,13, dopo aver parlato, Jhwh lascia il maqôm (cf. Gen 17,22). I nomi sacri (eziologici) che vengono dati, con una formula tipica, ai luoghi scena di teofanie, che questi luoghi fossero o no già centri di culto nella tradizione precedente, segnano la storia di Israele nel paese in quanto, con questo strumento onomastico, Israele si impossessa concretamente e teologicamente del paese stesso. Siffatti «luoghi» sono «memoriali», monumenta, come mostrano soprattutto le più tarde imitazioni letterarie della prassi (cf. Gen 22,14; Gdc 18,12; 2Sam 6,8; 1Cr 13,11). In merito alla collocazione geografica di Betel-Luz, riportata dal redattore in Gen 28,19b, essa è ripetuta anche in altri passi biblici (cf. Gen 35,6; 48,31); sembra che Luz (= Mandorlo) indicasse una località distinta da Bêt-’El (cf. Gs 16,2; 18,13), forse la città fortificata, mentre Bêt-’El ne era il santuario che si trovava su una collina isolata, distante circa 700 metri da Luz che, proprio a causa della sua vicinanza con il santuario, cambiò il suo nome con quello. Betel non è sempre e soltanto un toponimo ma, talvolta, è il nome di una divinità con un suo culto, conosciuto anche all’epoca pre-israelitica. Il nome si riferisce al Dio cananeo Bêt’ili (chiamato da Filone di Biblos ßa?t???? e dai classici latini Baetulus), un Dio venerato da tutti i Semiti e dal popolino ebraico fino al periodo di Elefantina; Betel, come elemento teoforico, è supportato da alcuni nomi divini, bit-ili-sezib e bit-ili-sar-usur, provenienti dall’ambiente babilonese, e da altri attestati a Elefantina, come Betel-natan, Betel-nuri, Anat-betel. Un papiro completo, con quindici righe scritte in aramaico, ritrovato nel 1945 a Tuna el-Gebel (Hermopili occidentale) insieme ad altre sette lettere aramaiche, presenta una testimonianza che fa luce sull’ambiente religioso egizio, in cui i Giudei vivevano durante il dominio persiano sopra l’Egitto. Il papiro IV nomina, fra l’altro, la «regina del cielo», che era già venerata dagli Ebrei nel VII sec. a.C. a Gerusalemme e, successivamente, nel delta del Nilo a Menfi e nell’Alto Egitto; cf. Ger 7,18; 44,17-19.25. Il testo del papiro esordisce con la frase: «Salute al tempio di Bethel e al tempio della regina del cielo!». Poiché la lettera è stata spedita ad Assuan, il tempio doveva trovarsi in tale città. Il dio Bethel è testimoniato in un trattato (del 676 a.C. circa) di Asarhaddon con il re Baal di Tiro. Originariamente si trattava di una meteorite deificata, che forse veniva venerata a Sidone. I coloni giudei di Elefantina e Assuan erano legati al dio Bethel perché abitavano nella zona di un suo santuario.
Un altro aspetto interessante riguarda la pietra che da capezzale viene innalzata in stele sacra. In Gen 28,18, appare evidente l’intenzione del racconto di voler spiegare la natura di questa pietra di Betel: il fatto che la pietra stessa venga chiamata «casa di Dio» (bêt-’el) indica l’antico stadio del culto di una pietra, per il quale essa era la sede di un essere divino, di una potenza divina. È, però, necessario fare una distinzione fra le due cose: il brano di Gen 28,10-22 non appartiene al contesto del culto di una pietra, ma vi si può trovare solo un vago ricordo di esso, in quanto la mas?s?ebah “rappresenta” la divinità con la sua potenza, qui significata dall’olio versato sulla sua sommità (rito unico nella Bibbia). Inoltre, l’annotazione conclusiva (cf. v. 18) che Giacobbe versò olio (simbolo di fecondità del suolo che, versato, fa partecipare la terra alla fecondità di Dio) sulla pietra è un ampliamento che presuppone il rito stabile dell’unzione di una stele sacra, in quanto l’olio, prodotto di un paese agricolo, indica l’epoca sedentaria.
Un’interpretazione del significato della stele, forma ed espressione dell’offerta cultuale di Giacobbe, risiede nella triplice ricorrenza della radice ns?b, in quanto nella visione onirica la scalinata «è fissata» (mus?s?ab; coniugazione hofal, participio, ms) e tocca i cieli, Jhwh «si innalza» (nis?s?ab = stante; coniugazione nifal, participio, ms) su di essa e, infine, «è drizzata» la pietra in stele (mas?s?ebah; coniugazione hifil, participio, ms). Dato l’uso che questo testo fa delle parole-chiave e delle corrispondenze che si traggono da un versetto all’altro, si può considerare il rapporto tra questi tre derivati di ns?b alquanto significativo; inoltre, nella visione, la cima (r’šh) della scalinata tocca i cieli, ed è alla cima (‘l-r’šhh) della pietra (rappresentando il punto dove stava il Signore sulla cima della scalinata) che Giacobbe versa la sua libagione. In questo senso, allora, la pietra eretta evoca la scalinata vista in sogno, vero passaggio tra la terra e il cielo; la stele è dunque, a questo stadio del racconto, la rappresentazione simbolica del sogno stesso che fonda il santuario di Betel.
L’elemento centrale del brano è l’esperienza onirica di Giacobbe. La sequenza narrativa, in cui il patriarca addormentatosi sogna, presenta, in una successione di immagini, “una visione di grande solennità”. Anche senza parole esplicative, almeno due elementi, nella visione, permettono di proporre delle interpretazioni: da una parte, il significato cultuale della scala con il movimento degli angeli, dall’altra, il fatto che Giacobbe, al suo risveglio, riferisca la sua esperienza notturna unicamente alla visione di Dio . Con un inaspettato cambiamento di stile, che porta la visione a un’esperienza presente, la narrativa introduce il sogno. Fino a questo punto, la sequenza narrativa ha impiegato verbi al passato (v.10: wayyes?e’ = uscì; wayyelek = andò; v.11: wayyi¯pega? = capitò; wayyalen = pernottò; wayyasem = mise; wayyišekab = distese; v.12: wayyah?alom = sognò; sono tutti verbi di coniug. qal, wci, 3ms), ma adesso viene interrotta, repentinamente, per mezzo della ripetizione di «weinneh», seguita da participi (v. 12: maggîa? = toccante, hifil part. ms; ?olîm = salenti, qal part. mpl; weyoredîm = scendenti, qal part. mpl; v.13: nis?s?a_b = stante, nifal part. ms).
La prima cosa che Giacobbe nota è la scalinata. Sullam, tradotta scala o scalinata, è un hapax legomenon, una parola o forma occorrente una sola volta nella Bibbia: essa è stata tradizionalmente connessa alla radice salal, con il significato di ammassare (pietrisco per fare una strada); preparare, costruire (una strada, un sentiero da intraprendere). Parole correlate sono: selulah (cf. Ger 18,15) e mesillah (cf. Is 62,10) nel senso di spianare, pavimentare una strada; solelah (cf. Ez 4,2 e 2Sam 20,15), cioè costruire un terrapieno, una rampa (contro le mura, per assediare la città); questi termini suggeriscono delle connessioni etimologiche, sebbene, non chiariscono il significato.
La LXX ha tradotto sullam con clímax, cioè una scala a pioli o scalinata; così è anche il caso della Vulgata con scalæ. Come si evince, prevale un’incertezza di significato, anche nelle varie versioni. Parecchie specifiche interpretazioni sono state offerte per sullam, ma una che ha il maggior consenso si fonda sulla considerazione che il termine sullam sia connesso con le torri dei templi mesopotamici: si pensa alla ziqqurat che aveva la pretesa di collegare il cielo e la terra . Secondo Speiser, la fraseologia, dei versetti 12-13a, è tipica dell’ambiente cultuale babilonese, riferendosi alla torre del tempio, per essere una mera coincidenza, e la descrizione visiva di fondo non può sbagliarsi. L’enorme ziqqurat, elevata accanto al principale tempio situato a terra (il cosiddetto Tieftempel) e fornita nella sua sommità di un posto per la visita della divinità (Hochtempel), la quale può comunicare lì con i mortali, è un simbolo spirituale dello sforzo dell’uomo di avvicinarsi al mondo divino. Tratta da questo ambito, la parola accadica simmiltu potrebbe avere una connessione semantica con sullam, in quanto è usata per descrivere la “scala del paradiso”, che si estende tra il cielo e il mondo terreno con i messaggeri che vanno su e giù. L’allusione, dunque, è alquanto suggestiva, proprio se vista in connessione con il viaggio di Giacobbe in Mesopotamia.

(c’è scritto « continua, ma non trovo il seguito)

ESODO 3,14, SECONDO LE INTERPRETAZIONI DI MOSES MENDELSSOHN, FRANZ ROSENWEIG, MARTIN BUBER

 http://www.nostreradici.it/Esodo3-14_Il-Nome.htm

ESODO 3,14, SECONDO LE INTERPRETAZIONI DI MOSES MENDELSSOHN, FRANZ ROSENWEIG, MARTIN BUBER dans COMMENTI EBRAICI ALLA SCRITTURA Esodo_Nome

Ehyèh ashèr èhyèh

ESODO 3,14, SECONDO LE INTERPRETAZIONI DI MOSES MENDELSSOHN, FRANZ ROSENWEIG, MARTIN BUBER

Francesca Albertini *

___________________
* Università di Friburgo

Moses Mendelssohn
Traducendo Es 3,14, inizialmente Mendelssohn si scontrò con una difficoltà grammaticale e linguistica immanente nel versetto. In primo luogo il pronome ashèr , detto localivo d’origine, introduce una proposizione secondaria all’interno della quale  generalmente troviamo l’oggetto del predicato o il soggetto dell’azione, ovvero ogni altro tipo di complemento. Ma all’interno della Bibbia ashèr agisce spesso come una congiunzione od una frase subordinata  esplicativa. In secondo luogo – e questa è la difficoltà maggiore. Èyèh è la prima persona singolare del verbo hâyâh (qui all’imperfetto), che è di solito tradotto come ‘essere’. Secondo Mendelssohn, nel caso particolare di Es 3,14 potremmo trovarci di fronte a una forma arcaica e astratta del verbo ‘essere’, la quale indicherebbe qui un’azione che si svolge contemporaneamente nel passato, nel presente e nel futuro. In altre parole, Mendelssohn osserva che, anche se il verbo ‘essere’ indica uno status definito e permanente del soggetto, in Es 3.14 esso pone in rilievo il dinamismo del soggetto, dinamismo che situa sullo stesso piano temporale la frase principale e la secondaria.
Alla luce di queste difficoltà, è evidente che la traduzione di Es 3.14 non è fondata tanto sulle mere competenze linguistiche e grammaticali di un traduttore, quanto sulla sua particolare concezione dell’Essere Divino, nell’osservare che una traduzione letterale  di Es 3.14 è impossibile.
Mendelssohn traduce l’intero passo con una lunga perifrasi, piuttosto che appellarsi ad una traduzione concisa, come avevano fatto gli esperti tedeschi che lo avevano preceduto: Gott sprach zu Mosche: ich bin das wesen welches ewig ist er sprach nämlich: so zu den kindern Jisraels sprechen : das Ewige Wesen welches sich nennt. ich bin ewig, hat mich zu euch gesendet.
Questa lunga perifrasi può essere tradotta come segue:
D-o disse a Mosè: io sono l’Essere (Ente) Eterno. Ed egli disse: questo dirai ai figli d’ Israele: l’Essere Eterno, che chiama se stesso « Io sono Eterno » mi ha mandato a voi.
A partire da questo momento nella traduzione della Torah di Mendelssohn troveremo sempre il Tetragramma  reso con « Der Ewige » (L’Eterno). È proprio Mendelssohn colui che introduce nell’Ebraismo tedesco della sua epoca questo termine per tradurre l’inesprimibile Tetragramma; successivamente questa tradizione è stata in grado di imporsi nel mondo Ebraico tedesco a dispetto della resistenza di molti esperti.
Per quanto riguarda la traduzione originale, è lo stesso Mendelssohn a chiarire il suo punto di vista nell’esteso Biur dedicato a Es 3,14, in cui il filosofo spiega le ragioni che lo hanno portato a tradurre in quel particolar modo Èyèh ashèr Èyèh:
« » Io sono colui che sono » secondo il midrash (Berakot 9b), il Santo (che Egli sia sempre Benedetto) disse a Mosè: dì loro, io sono colui che io ero ed ora io sono lo stesso e io sarò lo stesso nel futuro [ e ancora i nostri rabbini di venerabile memoria dicevano: io sarò con loro in questa sofferenza così come io sono con loro nella schiavitù sotto altri regni. essi volevano dire che] il passato e il futuro sono nel presente del creatore, vedendo che il tempo per lui non è mutevole né fissato (Gb 10,17) e che nessuno dei suoi giorni si esaurisce. per lui tutti i tempi sono chiamati con lo stesso nome e con una sola espressione che include passato, presente e futuro».
Come conseguenza, secondo Mendelssohn, Der Ewige (L’Eterno) o l’Ewiges Wesen (l’Essere Eterno) implica la necessità dell’esistenza di D-o ed anche la sua interminabile, inesauribile ed incessante Provvidenza. Utilizzando questo nome è come se D-o avesse detto addirittura : « Io sono con i figli degli uomini che sono benigni e misericorD-osi nei confronti di coloro verso cui io uso misericordia. Ora di’ ad Israele che io ero, io sono, io sarò… ed io sarò con loro ogni volta che essi grideranno verso di me ».
In questa parte del suo commento a Es 3,14, Mendelssohn sembra riportare la definizione dell’Essere Divino all’esperienza umana del tempo, all’imprevedibilità di un futuro che può assumere innumerevoli forme. Alla luce di questo significato particolare, la prima parte del versetto indicherebbe l’Essenza di D-o, mentre la seconda parte indicherebbe le mutevoli manifestazioni di un’unica sostanza, che è in realtà sempre identica a se stessa.
Questo « incipit » del commento di Mendelssohn confuta una delle critiche di Raphaël Hirsch, secondo la quale il termine Der Ewige (L’Eterno) svilirebbe l’importanza della Divina Provvidenza nella storia dell’umanità. Al contrario, la Provvidenza è una delle categorie fondamentali del pensiero filosofico e religioso di Mendelssohn e la Provvidenza avrà un ruolo essenziale in « Jerusalem », opera in cui il filosofo mostra come l’essere umano, se non crede nella Provvidenza, nell’immortalità dell’anima e nelle eterne verità di D-o, non può realizzare il suo fine ultimo, che è quello di essere felice. Secondo un’ipotesi accattivante avanzata da alcuni esperti francesi, mediante la traduzione Ich bin das wesen, welches ewig ist potremmo mettere in evidenza la possibilità – che ci è data da D-o mediante la Provvidenza – di superare il tempo all’interno del tempo stesso o di trasformare la memoria in uno strumento di redenzione.
Alla luce della lettura di Es 3,14 operata da Mendelssohn, la Provvidenza dona all’essere umano (l’essere finito che non può conoscere alcun’altra dimensione al di fuori della sua propria finitudine) un’apertura attraverso una dimensione al di là del tempo. Ma la via per raggiungere questa dimensione si situa nella condizione terrena dell’essere umano, e quindi nella Provvidenza, dato che l’eternità è già sperimentata nel mondo degli uomini e delle donne, nella comunione di coloro che pregano. Gli esperti che hanno fornito questa ipotesi suggestiva non spiegano se Mendelssohn comprenda l’eternità come assenza di tempo oppure come una dimensione al di là del tempo che può essere definita solamente in termini negativi in relazione a ciò che noi conosciamo come « tempo ».
Qualsiasi valutazione venga fatta, è sicuro che la Redenzione è per Mendelssohn una vista sul passato, che viene ora letto alla luce del suo significato più profondo e che si trasforma in un « presente provvidenziale ». Questo presente provvidenziale annulla la sua dimensione temporale proprio quando la raggiunge.
Nel commento a Es 3,14, Mendelssohn non si confronta affatto solo con la categoria temporale. Secondo il filosofo, questo versetto contiene un triplice significato: l’eternità, l’esistenza necessaria e – ovviamente – la Provvidenza. Nel giustificare la sua posizione, nel suo commento a Es 3,14, Mendelssohn scopre alcuni eminenti predecessori (Onqelos che ha scritto in Aramaico, Saadia e Maimonide che hanno scritto in Arabo) che hanno dovuto prendere una decisione draconiana: il primo dei tre ha optato per l’utilizzo dell’idea di Provvidenza, mentre gli altri due hanno optato per l’esistenza necessaria, ancora, donata. Ben Uziel ha optato per il legame con la dimensione temporale.
Mendelssohn afferma di aver optato per il termine Der Ewige (L’Eterno) traducendo sia Es 3,14, sia il Tetragramma, poiché tutti gli altri significati dell’identità divina e del Nome Divino sorgerebbero naturalmente da questo aggettivo sostantivato. Secondo questo punto di vista, l’Essere Necessario Eterno (Das ewig notwendig) e « l’Essere previdente e provvidente » (das vorsehende Wesen) sono l’uno lo specchio dell’altro, così che essi hanno un valore equivalente. Infatti, nel pensiero di Mendelssohn tutti questi significati sono racchiusi in Es 3,14.
Nella scelta di Mendelssohn troviamo una parte della sua convinzione (che non è più sostenibile per Rosenzweig, come mostrerò meglio in seguito) nella possibilità di una teologia razionale. In evidente contraddizione con l’esperienza offerta dalla Storia della Filosofia, l’Essere Previdente-Provvidente emerge da una conclusione logica a partire dall’Essere Necessario Esistente.
In altre parole, per Mendelssohn, il cui pensiero è ancora pre-critico (vale a dire precedente alla più importante opera di Kant), è l’essenza che ha la supremazia sull’esistenza.
Anche se le azioni del D-o di Mendelssohn tramite la Sua Provvidenza sono all’interno della Storia, Egli è ancora un D-o la cui identità astratta e concettuale ha la meglio sulla sua concreta Teofania.
Il D-o di Mendelssohn è ancora il D-o di un filosofo, anche se egli tenta una difficile mediazione tra la fede Giudaica e il suo pensiero Illuministico.

 Franz Rosenzweig
Secondo quanto afferma Leo Baeck, sulla base della corrispondenza di quegli anni tra Rosenzweig e Buber, si può affermare senza allontanarsi troppo dalla realtà che Rosenzweig influenza Buber per la traduzione di Es 3,14, dal momento che quest’ultima contiene una tradizione perfettamente consona al concetto di Redenzione di Rosenzweig sviluppato  all’epoca di « Der Stern der Erlösung » (« La Stella della Redenzione »). Rosenzweig traduce Es 3,14 nel seguente modo:

Gott aber sprach zu Mosche:
Ich werde dasein, als der ich dasein werde.
Und sprach:
so sollst du zu den Söhnen Jisraels sprechen:
« Ich bin da » schickt mich zu euch

A partire della spiegazioni di Rosenzweig che si trovano nella succitata corrispondenza, dobbiamo cercare di capire che cosa significhino i termini dasein e werde rispetto all’Ewigkeit (Eternità) di Mendelssohn.
In una lettera ad Hans Ehrenberg datata 23 aprile 1926, Rosenzweig afferma che la sua tradizione di questo enigmatico versetto è stata influenzata dalla ricerca  di Benno Jacob sull’Esodo (pubblicata nel 1922 col titolo « Moses am Dornbusch »). Basandosi su questa ricerca, che è centrata sul problema dell’identità divina  così come Essa si manifesta nell’Esodo, nella sua traduzione Rosenzweig non privilegia il significato di « esistenza necessaria » del termine èhyèh, bensì quello di « Provvidenza ». Anche ad un livello meramente linguistico, èhyèh non possiede il significato statico dell’essere, ma il significato dinamico di un Essere che diviene e agisce.
Questo versetto indica l’Identità divina pronunciata e mostrata da D-o stesso, e pertanto rimanda ad un’effettiva presenza di D-o accanto a Mosè. Secondo Rosenzweig, è evidente che l’infelice popolo ebraico, cui Mosè deve rendere conto del suo incontro con D-o vedendo le sue condizioni di schiavitù, si aspetta tutto fuorché una conferenza ex-cathedra sulla necessaria esistenza di D-o. Gli Ebrei e il loro esitante condottiero hanno bisogno di una spiegazione che allontani ogni ragionevole dubbio.
Per questo motivo, secondo quanto è scritto in una lettera di Rosenzweig a Buber il 23 giungo 1923, il contesto biblico giustifica una sola traduzione di Es 3,14, una traduzione che non può avere a che fare con « l’Essere Eterno » ma , al contrario, deve riguardare « l’Essere Presente », che è e diviene con e vicino al popolo ebraico.
Nel pensiero di Rosenzweig, il monoteismo biblico non consiste in un’unica, semplice idea di D-o, bensì nel riconoscere questo D-o come un Essere che non è separato dall’esistenza concreta, il che significa che essa sia più personale e immediata: èhyèh e Ich bin da, pronunciato dal roveto ardente e consegnato all’essere umano per il tramite di Mosè.
Secondo Rosenzweig, il terzo capitolo dell’Esodo contiene l’auto-testimonianza di D-o, che consente di rischiarare la superficie opaca del Tetragramma. D-o non nomina Se stesso,  come l’ « Essere Essente » (der Seiende), ma come l’ « Essere Esistente » (der Daseiende), Colui Che esiste non solo in Se stesso, ma anche « per te », Che esiste per te faccia a faccia (metafora che sarà conservata cara da Emmanuel Lévinas), Colui Che si avvicina a te a ti aiuta. Basandosi su questo significato particolare, Rosenzweig scrive in una lettera a Ernst Carlesbach datata 2 agosto 1924:
Il D-o di Mendelssohn non mi consente di esprimermi familiarmente nei suoi confronti; non posso dirgli : « Tu ».
In questa traduzione/interpretazione di Es 3,14, Rosenzweig è quasi obbligato a confrontarsi con Mendelssohn. Nel saggio Der Ewige, Rosenzweig mostra una grande stima nei confronti di Mendelssohn, « l’uomo che ha consentito agli Ebrei tedeschi di comprendere il significato della loro Deutschtum (della peculiarità del loro essere tedeschi) », anche se l’Ebraismo di Mendelssohn è fondato esclusivamente sulla divina Gesetzgebung, vale a dire solo sulla Legge rivelata. È vero che, in accordo con Mendelssohn, Rosenzweig ritiene che la fede sia fondata sull’evento della Rivelazione e che la Rivelazione  si rifletta nella Legge Divina. Ma, mentre Mendelssohn concepisce i comandamenti come atti simbolici, Rosenzweig attribuisce alla concreta esperienza della teofania rivelata la possibilità di rendere comprensibile il legame tra la fede e la ragione.

Martin Buber
Ci limiteremo qui ad affrontare il periodo (1923-1938 ca.) in cui le dissertazioni su Es 3,14 appaiono spesso nella corrispondenza del filosofo Buber. I suoi interlocutori privilegiati sono, in questo periodo (oltre ovviamente a Franz Rosenzweig), Ernst Simon, Gerhard Scholem, Hugo Bergmann e Hugo von Hoffmanstahl.
Nel corso della sua collaborazione con Franz Rosenzweig, Buber mostra sempre una grande stima per le sue osservazioni e per le sue teorie, al punto che i due filosofi elaborano il seguente piano di lavoro: mandarsi l’un l’altro traduzioni di una piccola parte di versetti complessi e valutare insieme la traduzione più consona con la versione originale del testo biblico.
È datato 5 marzo 1923 il primo lavoro che Rosenzweig ha inviato a Buber in cui Rosenzweig stesso incontra delle difficoltà nel misurarsi con Es 3,14 : « Sulla base di quanto illustrato fin’ora, ritengo che la traduzione più prossima alla Scrittura sia ‘Ich werde dasein als der ich dasein werde’ « .
La risposta di Buber risale al 30 marzo e mostra come le considerazioni su quella che un giorno sarà la sua filosofia dialogica hanno avuto un ruolo molto importante nella traduzione di questo versetto enigmatico.  » In Es 3,14 dobbiamo cercare di tener sempre presente la doppia natura della Divina Promessa inclusa nella ripetizione del termine « èhyèh »: ‘Io sarò presente e rimarrò presente sul tuo cammino [.....]. L’importanza del dialogo è conferita da « ashèr », che unisce le due promesse e i due interlocutori ».
Secondo Buber, come egli stesso scrive in un passo successivo della stessa lettera a Rosenzweig, anche se una promessa coinvolge allo stesso modo colui che la fa e colui che la accetta, il punto focale di Es 3,14 è rappresentato da D-o e non dall’essere umano.
L’ermeneutica tradizionale ritiene comunemente che la risposta di Mosè significhi solamente questo: conoscere la risposta da dare al popolo ebraico quando gli Ebrei chiedono il vero Nome di D-o, il D-o che ha dato il messaggio a Mosè. Così concepito, secondo Buber, il significato di questo versetto si trasforma in uno dei punti focali dell’ipotesi kenit. Sulle basi di quest’ultima, il D-o del popolo ebraico sarebbe solo l’evoluzione di alcune delle divinità già presenti in quell’area e la cui principale caratteristica sia l’appropriazione del nome da parte dei fedeli.
Secondo la prospettiva di Buber, l’ipotesi è invalidata dal fatto che, nell’Ebraico biblico (ma anche in quello moderno dei nostri giorni), la domanda per chiedere il nome di una persona non è « come di chiami? », « qual è il tuo nome? », ma « Chi sei tu ». Osservando che la richiesta di Mosè si mostra proprio attraverso questa domanda, è chiaro che Mosè non si riferisca soltanto al Nome di D-o, ma anche a ciò che questo Nome nasconde.
In una lettera a Ernst Simon del 15 novembre 1923, Buber scrive che il significato più profondo di Es 3,14 è lo stesso che troviamo in Gn 35,10, nell’episoD-o in cui, dopo il combattimento di D-o con Giacobbe sulla riva del fiume, il Signore ha imposto a Giacobbe il nome di Israele (« colui che lotta con D-o »). Secondo Buber, la differenza sostanziale tra questi due episodi dell’Antico Testamento risiede nel fatto che, mentre in Gn 35,10 troviamo un’imposizione unilaterale, in Es 3,14 ci troviamo di fronte a un dialogo diretto tra la creatura e il Creatore. Sorprendentemente, in un certo senso in Es 3,14 l’essere umano « limita » D-o costringendoLo a dare una risposta da cui D-o non può esimersi.
In questa lettera, così come in quella datata 4 agosto 1925 a Hugo von Hoffmanstahl, è evidente come Buber cerchi di collegare Es 3,14 con il Nome Divino e cerchi di definirlo alla luce di Èyèh ashèr Èyèh.
In questo periodo Buber ritiene che, così come Es 3,14 ha l’aspetto di una risposta ad una richiesta, anche il Nome di D-o è un vocativo: Ya-hu. A partire da questo vocativo (e qui si nota l’influsso di Rosenzweig), D-o è definito tramite un nome impronunciabile, che è contemporaneamente più e meno che un nome:
In una lettera a Hugo Bergmann del 14 settembre 1927, Buber osserva che, dal momento che il Tetragramma è una risposta a una richiesta – se lo interpretiamo alla luce di Es 3,14 – è chiaro perché i nomi propri biblici facciano raramente riferimento, nella loro forma e nella loro radice, al Tetragramma. L’unica eccezione è rappresentata dal nome della madre di Mosè, Yochebed (D-o è grande). Questo nome è quasi una testimonianza di una sorta di « tradizione familiare », che preparerebbe la strada all’evento della Rivelazione dell’Essenza Divina. In realtà, è più attendibile sostenere che, in un periodo di lassismo religioso, quale era l’epoca della schiavitù sotto il dominio egiziano,  l’intima essenza del Tetragramma sia relegata nell’oblio. Così, il Tetragramma si trasforma in una risonanza fonetica vuota.
Come Buber scrive in una lettera a Rosenzweig del 14 luglio 1925, « In un certo senso nella memoria collettiva e nella coscienza del popolo ebraico, Es 3,14 rivela l’ultimo significato del Tetragramma, mostrando la sua essenza più profonda che persino i Patriarchi non conoscevano (Es 6,3). La traduzione comune « Io sono Colui che sono » [Ich bin der ich bin] fornisce una descrizione dell’Essere Divino come l’Unico Ente o l’Ente Eterno, vale a dire Colui che si mantiene per sempre nella Sua essenza [....]. Tuttavia questo tipo di astrazione non è adatta per una rinascita della vitalità religiosa quale si è realizzata all’interno del Popolo Ebraico per mezzo di Mosè ».
In questa lettera, Buber sottolinea come hâyâh non indica affatto una pura essenza metafisica, ma un avvenimento, un « venire all’esistenza », « essere presente tra questo e quello », e non indica un’esistenza astratta e trascendente.
Secondo Buber, la risposta « Io sono Colui che sono » non è adatta ad una Rivelazione, ma può al massimo essere congeniale a un’essenza che desidera rimanere misteriosamente nascosta persino alle persone a cui si presenta. Sotto questa prospettiva « Io sono Colui che sono » si mostra  una tautologia priva di significato o il cui significato può essere compreso dalla mente umana. Quale sarebbe il significato della Rivelazione, se l’intento di D-o fosse quello di rimanere nascosto?
Quando il popolo Ebraico viene raggiunto dalla notizia della sua imminente liberazione, esso ha bisogno dell’esperienza della vicinanza di D-o e non della Sua profonda distanza dal destino e dagli eventi dell’uomo.
Il Signore è presente come Colui che era, che è e che sarà presente in modo tanto trascendente quanto terreno.
Buber osserva che poco dopo e poco prima della Rivelazione  (Es 3,12 e Es 4,12), D-o riafferma la sua presenza accanto a colui che Egli ha scelto.Quando Mosè, timoroso per l’obiettivo affidatogli, chiede a D-o cosa dovrà dire agli Ebrei, come potrà convincerli, D-o risponde Io sarò con te. Rinnovando quanto Egli aveva fatto con la promessa a Isacco, D-o annienta ogni possibile differenza che potremmo notare tra il D-o dei Patriarchi e la voce che parla a Mosè dal roveto ardente. Nel corso di questa eccezionale sfida linguistica,  Mosè viene esortato a presentarsi agli Ebrei come l’inviato di èhyèh. Come Buber osserva in una lettera ad Ernst Simon del 12 aprile 1932, èhyèh non è affatto un nome, bensì la forma contratta del verbo hâyâh, che contiene in se stesso l’ultimo significato della Rivelazione.  D-o non può essere chiamato èhyèh, o meglio, D-o Si presenta in questo modo solo nel terzo capitolo dell’Esodo, quando è necessario che gli Ebrei abbiano l’auto-coscienza di D-o per permetterGli comunicare la Sua volontà. Quest’auto-coscienza non può essere insegnata da un trattato teologico, ma può essere sperimentata nella certezza del dialogo quotidiano col D-o dei Patriarchi.
Secondo la prospettiva di Buber, il legame tra Es 3,14 e il Nome divino decreta la nascita di una nuova alleanza, nella quale il Creatore e la creatura si trovano uniti, anche se a livelli differenti, nella dimensione sempre aperta del dialogo.
Buber esamina attentamente l’interpretazione di Es 3,14 anche nel saggio « Moses » (1945), in cui l’analisi viene condotta eminentemente su basi storiche. La Rivelazione, che nel saggio Ich und Du (Io e Te) può sembrare una mera essenza spirituale su cui si fonda il mondo concreto della responsabilità, acquisisce una dimensione sempre più terrena nella tappe evolutive degli studi biblici di Buber. Nel saggio « Moses », la Rivelazione viene affrontata come una categoria tanto politica quanto storica, anche se Essa non perde mai né la Sua ultramondanità né il Suo carattere di legame tra il Creatore e la creatura . Nell’opera « L’eclisse di D-o », una raccolta di saggi scritti tra il 1930 e il 1950 (anno in cui Buber ha già più di settant’anni), questi aspetti particolari della Rivelazione sono esaminati più attentamente alla luce di una nuova problematica: il nascondimento di D-o causato dell’Ego umano.
È vero che Es 3,14 garantisce la presenza di D-o accanto all’essere umano, ma l’essere umano può sfuggire a questo legame quando vuole. Desiderando un confronto con un figlio e non con un servo, D-o ha garantito all’essere umano la possibilità di operare una scelta contraria alla Creazione. D-o ha permesso all’essere umano di rifiutare la Rivelazione e di rimpiazzarlo con un nuovo D-o: la Ichheit (che potremmo tradurre col termine Egoità).
Così,  Buber conclude le sue decennali speculazioni su D-o e sulla Rivelazione sottolineando l’interminabile lotta dell’essere umano per mantenere vivo il legame con D-o. In ogni momento, questo legame può essere spezzato a partire da un Ich (Io) oggettivante ed egoistico, un Ich che non conosce la dimensione dialogica dell’amore.

Note
Cfr. Mendelssohn Moses, Gesammelte Werke, Berlino, Frommann Verlag, 1991, vol. 9/1, pp. 133-134.
Tale a Colette Sirat e René Lapassier.
Cfr. Rosenzweig F.- Buber, Martin, Die Bibel, Stuttgart, Bibelgesellschaft Verlag, 1992, p. 189.
Cfr. Rosenzweig F., Der Mensch und sein Werk, Dordrecht, Nijhoff Verlag, 1990, 1° vol., p. 1104.
Cfr. Jacob Benno, Moses am Dornbusch, Frankfurt am Main, Källiger Verlag, 1922.
Cfr. Ibidem, p. 1128.
Cfr. Buber, M., Briefwechsel aus sieben Jahrzhenten, Heidelberg Lambert Schneider Verlag, 1975, 2 vol., p. 78.
Cfr. Ibidem, p. 89.
Cfr. Ibidem, p. 147.
Cfr. Ibidem, p. 195.
Cfr. Ibidem, p. 161
Cfr. Ibidem, p. 431.
Cfr. Buber M., Eclipse of God, London, Happingen Publ., 1973.
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Il midrash nel Nuovo Testamento

www.chiesacattolica.it/cci_new_v3/s2magazine/…/Spreafico.doc

Il MIDRASH : UNA LETTURA SPIRITUALE DELLA BIBBIA

Il midrash nel Nuovo Testamento

(Mons. Ambrogio Spreafico)

Premessa

Il termine midrash (al plurale: midrashim) viene dal verbo ebraico « darash » (« cercare ») e nella sua accezione più generale denota ogni tipo di ricerca. Originariamente indicava la ricerca della volontà di Dio in generale (2Cr 17,4; 22,9; 30,19; Sal 119,10). Nell’uso successivo la parola si riferisce alla ricerca della volontà di Dio nella Scrittura (Esd 7,10; Sal 111,2), per diventare alla fine un termine tecnico per descrivere qualsiasi tipo di ricerca esegetica sulla Scrittura, sia tecnica che omiletica (1QS 8,15; 4QFlor 1,14). In quest’ultimo senso viene a coincidere con il « commentario » che rende la Scrittura attuale e ne scopre tutte le ricchezze. Si può dire che si tratta di una lettura spirituale della Bibbia nel senso di una lettura che combina senza soluzione di continuità lettera e spirito, filologia e commento. L’interesse del midrash non è la ricerca della storia del testo, come cercherà di sviluppare l’esegesi moderna e contemporanea, ma il senso del testo così come si presenta al lettore e all’interprete. Per usare une terminologia di oggi, potremmo dire che il midrash giunge al senso di un testo attraverso un metodo sincronico, mentre l’esegesi recente ha preferito una lettura diacronica. Tuttavia, il midrash non elimina la comprensione della lettera del testo. Esiste talvolta l’equivoco di intendere l’interpretazione midrashica come accessibile a tutti, perché priva di quegli strumenti indispensabili per un’interpretazione « scientifica » dei testi. I commenti midrashici sono ricchi di annotazioni filologiche, di rimandi ai testi paralleli, quindi di confronti, di citazioni di studiosi. Non dobbiamo pensare che lettura spirituale significhi quella lettura spontanea, che fa a meno di ricorrere agli strumenti tecnici dell’esegesi. I rabbini che commentarono la Bibbia erano degli studiosi, non dei lettori sprovveduti che si affidavano all’improvvisazione o al sentimento. Tracce di midrash si trovano già nella Tanak. Ad esempio alcuni studiosi sostengono che i libri delle Cronache sono una sorta di midrash dei libri di Samuele e dei Re, mentre elementi midrashici sono presenti nell’elogio degli antenati di Sir 44-50 o nella rilettura dell’esodo di Sap 10-19 (Cf. G. Stemberger, Introduzione al Talmud e al Midrash, Città Nuova, Roma 1995, 328-329). Si può discutere fino a che punto la lettura e il commento sinagogale abbia influito sulle raccolte midrashiche successive. Il midrash tuttavia si sviluppa principalmente nelle scuole e nelle accademie rabbiniche soprattutto dell’epoca tannaitica (I-II sec. D. C.; comincia con R. Gamaliel I e Jonatan Ben Zakkai e si conclude con R. Jehuda ha-Nassi; la chiusura coincide con la redazione della Mishna) e amoraica (III- VI sec.; si chiude con la redazione del Talmud). Anche i Padri della Chiesa e i primi commentatori della Bibbia cristiana erano buoni conoscitori dei testi. Pensiamo solo a un Origene o a un Girolamo. Vedremo anche come gli scrittori del Nuovo Testamento siano lettori attenti delle Scritture ebraiche che utilizzano. Il midrash è un vero e proprio metodo esegetico, non una lettura improvvisata o spontanea della Scrittura, che finalmente può fare a meno delle necessarie conoscenze esegetiche. Certo, nello sviluppo soprattutto dei midrashim haggadici ci si discosta talvolta dalle regole esegetiche e dalla filologia, ma ciò non può essere preso come la regola dell’esegesi midrashica. Spiritualità non equivale a spontaneità! Il midrash ha raggiunto la sua forma più sofisticata e consapevole negli scritti dei rabbini. Ivi designa un commentario o una spiegazione che segue un versetto, un passo oppure anche un libro della Scrittura prodotto con lo scopo di rendere il testo della Scrittura rilevante per le nuove circostanze della vita della comunità dei credenti. Per legittimare un tale procedimento e per farlo diventare meno soggettivo possibile ci si è serviti di precise regole ermeneutiche. Le più famose erano le sette regole (middot) di Hillel (I secolo d.C.), le 13 di Rabbi Ishmael (II secolo d.C.) o le 32 di Rabbi Eliezer (II secolo d.C.; sono attribuite a lui). Il loro uso è molto diffuso nei libri del Nuovo Testamento. I principi dell’esegesi midrashica vi si trovano non soltanto nell’uso del materiale veterotestamentario da parte dei singoli evangelisti (per es. le numerose allusioni al Primo Testamento nei vangeli dell’infanzia non si capiscono se non alla luce di gezera shawa) ma sono adoperati anche nell’ insegnamento di Gesù stesso (qal wahomer, cioè il passaggio a minori ad maius: Mt 6,26; cf. 2 Cor 3,7-11; gezera shewa, letteralmente « uguale decreto », cioè la deduzione analogica: Mc 2,23-24 etc.). Le lettere paoline ne conservano gli esempi più chiari e più numerosi. Oltre all’uso massiccio delle regole ermeneutiche (qal wahomer: 2Cor 3,7-11; gezera shewa: Gal 3,11-12), vi si trovano anche alcuni parallelismi formali con gli scritti rabbinici: (1) le catene delle citazioni correlate tra di loro tramite l’uso delle stesse parole (per es. Rom 9,25-29 che cita successivamente Os 2,23; 1,10; Isa 10,22-23 e 1,9), (2) la strutturazione dell’esposizione in forma analoga alla tecnica di Yelammedenu rabbenu (Gal 4,21-31) che inizia con un riferimento generale al testo di base (Gen 16 e 21), nell’esposizione introduce un testo secondario (Isa 54,1) e nell’applicazione cita il testo di Gen 21,10, legato ai due precedenti tramite richiami terminologici e tematici). Tuttavia, l’uso delle regole e tecniche ermeneutiche da solo non basta per poter definire una interpretazione come un midrash nel senso della precisa forma letteraria. Gli specialisti parlano di midrash come forma o genere letterario soltanto quando l’uso dei principi esegetici è accompagnato dalle due seguenti condizioni: (1) si indica chiaramente il testo commentato e il discorso fa ad esso delle ripetute allusioni riprendendone esplicitamente parole o espressioni; (2) oltre al testo biblico commentato (chiamato testo principale) si utilizzano gli altri passi biblici (chiamati testi connessi o secondari), aventi dei legami verbali sia tra loro che con il testo commentato. Queste condizioni trovano la loro perfetta applicazione nei midrashim rabbinici la cui redazione e l’edizione avvenne però ben più tardi dell’epoca del Nuovo Testamento. Se vogliamo entrare nei testi del Nuovo Testamento, bisogna riconoscere che non c’è neppure un testo nel Corpus Paulinum – e Paolo è indubbiamente il più grande cultore dell’esegesi giudaica all’interno del Nuovo Testamento – dove tutti questi elementi sarebbero esplicitamente presenti. Inoltre esiste un aspetto abbastanza sostanziale per poter affermare l’utilizzo da parte dell’Apostolo, e a maggior ragione degli altri scritti del N.T., del metodo midrashico. Nelle esposizioni dell’Apostolo il testo biblico non costituisce il punto di partenza e la sua comprensione non è il punto d’arrivo. Infatti, quando Paolo interpreta dei testi del Primo Testamento, il suo scopo non è quello di scoprire il loro significato e la loro rilevanza per le nuove circostanze della vita dei credenti, ma quello di trovare in essi e tramite essi la conferma della coerenza delle realtà cristiane con l’agire di Dio in tutta la storia della salvezza. Non i testi biblici dunque, ma la figura di Cristo e l’esperienza cristiana, costituiscono il punto di partenza delle sue esposizioni dei testi del Primo Testamento, mentre lo scopo dell’utilizzo e dell’interpretazione del Primo Testamento è quello di capire e spiegare meglio le realtà cristiane. Per queste due ragioni sembra più corretto non parlare di midrash in Paolo, ma soltanto del carattere midrashico della sua interpretazione del Primo Testamento oppure del suo uso delle tecniche midrashiche. Questo, come vedremo, vale anche per i Vangeli e gli altri testi del Nuovo Testamento. Si dovrebbe anche tener presente il pesher, interpretazione rinvenuta Qumran, che applica ogni versetto del testo biblico alla situazione attuale. Il più noto tra i commentari di Qumran è il pesher di Abacuc. Per concludere la premessa si deve riconoscere che i testi del Nuovo Testamento non contengono dei veri e propri midrashici né seguono in maniera sistematica altri metodi interpretativi contemporanei (come ad es. quello allegorico di Filone), ma si inseriscono all’interno dei metodi di lettura e interpretazione delle Scritture ebraiche dei loro contemporanei. Farò qualche esempio, offerto solo come breve accenno e invito all’approfondimento, dato l’esiguo spazio a disposizione.
Paolo
Per comprendere il modo attraverso cui il Nuovo Testamento utilizza le tecniche midrashiche, vorrei partire dagli scritti paolini, che sono senza dubbio quelli che più di tutti contengono riferimenti ai libri del Primo Testamento. Si è calcolato che negli scritti paolini, comprese le pastorali, ci siano 107 citazioni del Primo Testamento. Di queste alcune concordano con il testo ebraico masoretico, altre con i LXX, altre sono elaborazioni (traduzioni) di Paolo stesso, mostrando la sua conoscenza di ebraico, greco ed aramaico. Mi fermo brevemente su un solo esempio, che è un modo per entrare nella lettura che il Nuovo Testamento fa del Primo, nel tentativo di individuare il processo esegetico che ad esso sottende. Non mi interessa perciò il senso e il valore dell’interpretazione paolina all’interno del rapporto ebraico-cristiano, ma unicamente il metodo. Prendo il passo dal capitolo quarto della lettera ai Galati (4,21-31), dove l’apostolo reinterpreta le due figure di Sara e Agar. Vi troviamo procedimenti midrashici interessanti, senza tuttavia poter dire che si tratta di un vero e proprio midrash. Si inizia con la citazione introdotta da « sta scritto », che corrisponde alle citazioni scritturistiche rabbiniche. E poi inizia una sorta di haggadah del testo biblico di Gen 16 e 21, a cui Paolo dà subito un’interpretazione, che di per sé non contraddice il testo: « Quello dalla schiava è nato secondo la carne, quella dalla donna libera in virtù della promessa ». Ma poi aggiunge « tali cose sono dette per allegoria ». Infatti, per poter coerentemente continuare nel suo intento interpretativo deve ricorrere all’allegoria, alla trasposizione e alla corrispondenza delle immagini, comprovata però da un altro testo citato da Is 54, per poter avvallare la corrispondenza tra la donna libera e la Gerusalemme di lassù, la donna feconda. Dopo le citazioni e la dimostrazione esegetica, Paolo applica il suo ragionamento alla comunità cui si rivolge introducendo il « voi »: « Voi, fratelli, siete figli della promessa, alla maniera di Isacco ».


Due figli: dalla schiava dalla donna libera
Nato secondo la carne in virtù della promessa
Due alleanze: quella del monte Sinai
Che genera nella schiavitù
Rappresentata da Agar
Essa corrisponde alla Gerusalemme attuale La Gerusalemme di lassù
Schiava insieme ai suoi figli è libera
Ed è la nostra madre
(citazione di Isaia)
Voi siete figli della promessa
Colui che è nato secondo la carne perseguitava
Quello nato secondo lo spirito
(cosa dice la Scrittura?)
« Manda via la schiava e suo figlio
Poiché il figlio della schiava non avrà eredità col figlio » della donna libera
Così noi non siamo figli di una schiava ma di una donna libera.

Possiamo dire che non siamo di fronte a un vero e proprio midrash, perché non si tratta di un commentario a un testo biblico, facendo Paolo riferimento al Primo Testamento solo a partire da una precomprensione cristologia, ma non si può neppure dire che l’Apostolo non conosca il modo di argomentare rabbinico, che si avvale di testi scritturistici accostati per assonanze o temi comuni in vista dell’interpretazione. Le citazioni servono a Paolo per contrapporre due termini che hanno un ruolo essenziale nello sviluppo del suo pensiero, schiava/libera, per poi mostrare le conseguenze che il rapporto con le due donne hanno sui « figli ». Cinque volte ricorre il termine « schiava » e una volta « schiavitù », quattro volte l’aggettivo « libera », e ben sette volte il riferimento ai figli-figlio. Il problema centrale per l’apostolo sono i figli, cioè la comunità dei discepoli, in rapporto al « figlio » della donna libera, Sara, e in opposizione a quello della schiava, Agar. La schiava, Agar, è stata mandata via da Dio insieme al figlio, mentre la donna libera, Sara, ha generato il figlio Isacco che ci permette di partecipare all’eredità di Israele e all’alleanza. È chiaro che il punto di partenza dell’interpretazione viene dall’evento di Gesù, che permette al credente di raggiungere la maturità di figlio, proprio perché Dio ha mandato « nei nostri cuori lo Spirito del Figlio, che grida: « Abba, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio, e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio. » Così si legge all’inizio del capitolo, mentre dopo 4,21-31 segue la parenesi del capitolo 5, che inizia con l’esortazione a vivere nella libertà: « Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; siate dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. » La libertà di cui Paolo parla è quella dalla circoncisione e dalla legge. Si vede bene come i testi del Primo Testamento sono citati in vista di un insegnamento che aiuta a comprendere la vita cristiana di colui che è diventato discepolo di Gesù di Nazaret e che si inserisce pienamente all’interno della rivelazione di Dio al suo popolo Israele. Il procedimento si muove all’interno delle tecniche misdrashiche, anche se non si tratta mai di un vero e proprio commentario a un testo biblico. Le lettere di Paolo sono infarcite di simili procedimenti interpretativi, mostrando come l’apostolo conoscesse molto bene le Scritture Ebraiche.
Accanto alla letteratura paolina le nostre Bibbie collocano la lettera agli Ebrei. Questo scritto è un altro esempio illuminante del valore che il Primo Testamento ebbe per le prime comunità per comprendere la vicenda di Gesù all’interno di eventi a loro contemporanei. Scritta forse da un giudeo cristiano, ottimo conoscitore della Tanak, rimangono diversi problemi aperti relativi sia alla data di composizione che allo scopo del testo. Certo una cosa colpisce in particolare per il nostro tema: la presenza massiccia di testi del Primo Testamento, ma soprattutto il fatto che ben otto capitoli (da 3 a 10) abbiano come tema il sacerdozio e il culto nel tempio. L’intento è di mostrare che Cristo è l’unico Sommo Sacerdote e che egli ha offerto il sacrificio definitivo, rendendo così inutile l’apparato sacrificale del tempio di Gerusalemme. Perché questa insistenza? R. Brown in uno studio famoso, Antioch and Rome, avanzava l’ipotesi che la lettera fosse stata scritta contro alcuni giudeo cristiani di Roma che, dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme, avrebbero creduto possibile una sua sostituzione in un tempio cristiano che avrebbe ripreso purificandola la tradizione cultuale ebraica. Mi sembra che questa possa essere una linea interpretativa interessante, indispensabile per quegli ebrei soprattutto di origine sacerdotale divenuti cristiani. La lettera potrebbe essere quindi la risposta di una comunità giudeo cristiana alla distruzione del tempio, tuttavia nel senso di una reinterpretazione cristologica dell’apparato cultuale del tempio. Infatti non si trovano elementi polemici contro il tempio. Anche un ebreo convertito – come d’altro canto dovette fare la tradizione rabbinica reinterpretando le leggi cultuali – doveva spiegarsi teologicamente perché il tempio era stato distrutto e che fine avrebbe fatto l’apparato cultuale, che aveva una funzione essenziale nell’espressione della fede di Israele. Sappiamo come l’ebraismo risolse il problema, ma anche le comunità giudeo cristiane dovevano motivare l’evento, continuando i primi discepoli a frequentare il tempio. Da qui la reinterpretazione di tutto quanto riguardava il sacerdozio e il tempio in relazione a Cristo. Non abbiamo tempo sufficiente per seguire i metodi interpretativi della lettera, ma è evidente anche a una lettura superficiale l’efficacia delle argomentazioni scritturistiche portate dall’autore a dimostrazione della sua verità.
Matteo
Lo stesso avviene per gli altri scritti del Nuovo Testamento. Il caso di Matteo è forse quello più significativo tra i Sinottici. Infatti, l’evangelista è senza alcun dubbio il più interno alle pagine del Primo Testamento. Egli si presenta come uno scriba che conosce ebraico e greco. Scrive in greco, ma conosce l’ebraico, come si evince dalle sue citazioni, che sono fatte prevalentemente dalla LXX, ma con ricorsi anche alla Tanak. Come ha ben mostrato Alberto Mello nel suo commentario a Matteo, l’evangelista è un targumista, nel senso che traduce, ma anche interpreta il testo, quindi un esegeta. Nel suo vangelo si trovano, secondo il Greek New Testament, 62 citazioni del Primo Testamento, mentre Luca ne ha solo 31, Giovanni 10. Giovanni tuttavia ha un altro approccio al Primo Testamento e alla tradizione ebraica. Alberto Mello avanza un’idea interessante. Si può parlare di Matteo come di un midrash, ma non del Primo Testamento, bensì del Vangelo di Marco, allo stesso modo in cui i due libri delle Cronache sono un midsrash dei libri dei Re. Infatti il midrash non è semplicemente la citazione di un testo biblico o la sua interpretazione in un nuovo contesto, ma un vero e proprio commentario al testo biblico nel suo insieme. Così almeno sono i midrashim rabbinici. Di solito si fa riferimento ai primi due capitoli di Matteo come esempio di interpretazione midrashica dell’infanzia di Gesù a partire dai testi del Primo Testamento. Senza alcun dubbio l’evangelista fin dai primi due capitoli intende mostrare che le Scritture di Israele giungono al loro compimento in Gesù di Nazaret. Lo fa innanzitutto nella genealogia, che riprende un genere letterario tipico della Genesi ed anche di Cronache, che dedica addirittura quasi interamente i primi 10 capitoli a genealogie, il cui scopo è di mostrare che il compimento della storia di salvezza avviene in Davide e nel tempio, che egli aveva in animo di costruire. Infatti nella teologia sacerdotale delle Cronache è il tempio il cuore della fede e della vita dell’Israele postesilico. Quindi Matteo, più che un midrash, utilizza un genere letterario noto, con lo stesso scopo dei libri delle Cronache: la genealogia mostra che la storia non è frutto del caso, ma conduce a un risultato il cui artefice è Dio. Gesù di Nazaret è colui che realizza la storia di Israele, racchiusa in Abramo e in Davide. Da qui l’importanza nei primi due capitoli di Matteo della figura di Giuseppe, discendente di Davide, che ne è il protagonista. La diversità dalla narrazione proposta nei vangeli dell’infanzia della redazione lucana, dove la figura preminente è la Vergine Maria, è visibile anche ad occhi inesperti. A Giuseppe Dio rivela la sua volontà mediante il sogno, perché la vita del Salvatore non sia annientata dai poteri ostili. L’uso delle citazioni scritturistiche è funzionale a questa visione della storia di Israele, che in Gesù, discendente di Davide, viene riproposta. Del resto, per un ebreo convinto e radicato nelle Scritture di Israele, non sarebbe stato possibile fare diversamente: l’evento di Gesù doveva inserirsi nel piano salvifico di Dio, altrimenti non avrebbe avuto senso. Si tratta di un midrash? Direi che siamo di fronte a un modo spirituale di leggere le Scritture, che affonda le sue radici nell’interpretazione ebraica, come si evince da Qumran e dagli scritti rabbinici, anche se questi ultimi sono tutti posteriori al N.T., almeno nella loro elaborazione scritta. È significativo che la formula « perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per messo del profeta (o del profeta Geremia, o dai profeti) si ripeta ben tre volte nel capitolo secondo (un’altra volta al versetto 5 troviamo « perché così è scritto per mezzo del profeta »). È Gesù che permette a Matteo l’utilizzo delle citazioni profetiche. Esiste un intreccio tra vicenda-messaggio di Gesù di Nazaret e Scritture ebraiche che risulta indispensabile per comprendere l’uno e le altre.
Giovanni
Sebbene le citazioni esplicite del Primo Testamento siano ridotte rispetto a Matteo e Paolo, le allusioni a testi, motivi o temi presenti nelle Scritture ebraiche sono molto numerose, tanto da rendere possibili delle vere e proprie nuove narrazioni, che reinterpretano interi racconti biblici. Alcuni esempi: nel prologo Gesù incarnato rappresenta la nuova creazione e la realizzazione della shekina di Dio nel mondo (1,14); in 2,21 il corpo di Gesù è il nuovo tempio, luogo della presenza di Dio; in 4,3 ss si allude alla vicenda del profeta Osea; in 6,1 ss è la narrazione dell’esodo che fa da base; in 20,1 ss si potrebbe rileggere il Cantico dei Cantici. Inoltre Giovanni usa la simbologia delle feste ebraiche per illustrare l’opera di Gesù. Sei sono le feste nominate esplicitamente: – una prima Pasqua in 2,13; – una non specificata festa in 5,1 (secondo alcuni la Pentecoste); – una seconda Pasqua in 6,4; – la festa delle Capanne in 7,1; – la festa della Dedicazione in 10,23; – una terza Pasqua in 11,55. Il prologo rilegge il racconto della creazione e l’insieme della storia dell’esodo, componendole in un quadro che ne vuole mostrare il compimento.

Conclusione
I padri della Chiesa e gli scrittori ecclesiastici dei primi secoli si muoveranno in questa direzione, anche se essi scriveranno dei veri e propri commentari al testo biblico. Lì allora si potrà dire se si tratta di generi interpretativi simili al midrash, perché siamo di fronte a dei commentari ai libri della Bibbia. Ma non spetta a me addentrarmi in questa ulteriore questione. Le due scuole esegetiche che si contenderanno l’interpretazione cristiana antica della Bibbia, quella antiochena e quella alessandrina, si muovono in pratica contemporaneamente a quelle midrashiche rabbiniche. Ma per i commentatori cristiani delle Scritture ebraiche lo yelammedenu rabbenu sarà sostituito dall’insegnamento del Vangelo di Gesù di Nazaret, ormai norma di vita e di fede dei cristiani. È chiaro che questa è la differenza sostanziale con l’ebraismo nascente e con l’interpretazione della Tanak ad esso propria. Tuttavia possiamo dire che ambedue le esegesi bibliche, e quindi in un certo senso ambedue le raccolte misdrashiche, ci danno delle indicazioni importanti per l’interpretazione della Bibbia, che vorrei così riassumere: – ricentrare l’esegesi del testo sulla Bibbia nel suo insieme, per comprendere che la Bibbia va interpretata innanzitutto con la Bibbia e che non è solo il senso storico a dare valore e significato al testo; – il testo va interpretato all’interno della propria tradizione di fede. Lo yelammedenu rabbenu sottolinea il valore della tradizione interpretativa, che non può essere liquidata come superata, come è stato fatto talvolta con troppa facilità, anche se bisogna riconoscere che oggi abbiamo a disposizione maggiori strumenti e conoscenze per poter giungere a un’interpretazione filologicamente e storicamente più accurata dei testi (archeologia, testi letterari, metodi di analisi…); – la contrapposizione tra metodo storico critico, che potremmo chiamare « lettera », e interpretazione spirituale, non ha senso, anzi impoverisce la portata del testo. Se ogni esegesi deve partire dalla lettera e dalla storia, pena la negazione del valore stesso della rivelazione che è storica, non può non tener conto di un di più di senso che si sviluppa ogni volta che il credente pone mano a leggere e a comprendere le Scritture. « Scriptura crescit cum legente », scriveva sapientemente Gregorio Magno. In questo senso l’esegesi midrashica provoca l’interprete a un di più di senso, che va ricercato non solo nella lettera del testo o nella sua storia redazionale, ma nella sua interpretazione all’interno del contesto di fede, che è storia ma anche contemporaneità. La Wirkungsgeschichte forse ha cercato di compiere questo ulteriore passo, che nessun esegeta può più omettere. In Italia anche lo sviluppo della Lectio Divina ha contribuito a dare di nuovo attualità al metodo esegetico rabbinico e patristico. Per concludere, oserei dire che siamo sulla buona strada per provare a recuperare alcuni aspetti importanti dell’esegesi antica, che non annullano lo sforzo della ricerca esegetica dell’ultimo secolo, ma ci inducono a una lettura più attenta e profonda del testo biblico, accettandone la complessità e la stratificazione interpretativa, dovuta non solo alla sua storia letteraria, ma anche alla ricchezza della vita di fede di coloro che nei secoli vi hanno attinto. I maestri della Tanak insieme ai primi commentatori della Bibbia cristiana ci insegnano a riappropriarci del testo biblico senza lasciarlo sotto il dominio della sola archeologia storica per coglierne la profondità spirituale che da esso sprigiona.

AMBROGIO SPREAFICO

I dieci comandamenti – (Comunità ebraica di Pisa)

dal sito:

ho letto, in diversi siti internet che ai ragazzi, al catechismo, non insegnano i dieci comandamenti (in realtà me lo immaginavo), così metto io qualcosa:

http://www.pisaebraica.it/ebraismo/calendario/comandamenti.htm

I DIECI COMANDAMENTI

(Comunità Ebraica di Pisa)

« Il terzo giorno, come fu mattina, cominciarono dei tuoni e dei lampi, apparve una fitta nuvola sul monte e s’udì un fortissimo suono di tromba… Ora il monte Sinai era tutto fumante, perché l’Eterno v’era disceso in mezzo al fuoco; e il fumo ne saliva come il fumo di una fornace e tutto il monte tremava forte ». (Esodo)

Allora Dio pronunciò queste parole, dicendo:

I    Io sono l’Eterno tuo Dio, che ti trasse dalla terra d’Egitto, dal luogo ove eri schiavo.
II    Non avrai altro Dio che Me; non ti farai o adorerai alcuna immagine o figura.
III    Non pronunciare il nome di Dio invano.
IV    Ricorda e osserva il giorno del sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tua opera e nel settimo, shabbàth (cessazione), per il Signore Dio tuo non fare alcun lavoro perché in sei giorni fece il Signore il cielo e la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò nel settimo giorno e affinché si riposino i tuoi animali e tu non dimentichi che tu stesso fosti schiavo in Egitto e il Signore ti liberò dalla schiavitù.
V    Onora tuo padre e tua madre affinché i tuoi giorni siano prolungati sulla terra.
VI    Non uccidere.
VII    Non commettere adulterio.
VIII    Non rubare.
IX    Non fare testimonianza falsa.
X    Non desiderare niente di ciò che appartiene ad altri.
Nei primi quattro comandamenti (verticali) sono indicati i nostri rapporti con Dio, Cui ognuno deve rivolgere il suo pensiero e il suo spirito.
Nel V sono indicati i rapporti fra l’uomo e la famiglia. Dal VI al X invece, sono indicati i rapporti fra l’uomo e la società che lo circonda. (orizzontali)

Col I comandamento Dio si presenta ad Israele come donatore di libertà, per affermare che solo l’uomo libero può praticare la legge del Sinài e che solo osservando tale legge l’uomo trova il modo di conservare la sua libertà.
L’idea monotestica, che rappresenta il nucleo vitale della dottrina e della civiltà ebraica, è espressa nel II comandamento.
Dobbiamo capire la grande importanza di questa, se pensiamo che il popolo ebraico era allora circondato da popoli politeisti ed è proprio dell’ebraismo l’avere insegnato ai popoli che esiste un solo Dio, creatore dell’Universo. Il IV Comandamento ci parla del sabato. Questo giorno ricorda la creazione del mondo e va celebrato, se così si può dire, ad imitazione di quello che fece il Signore Dio dopo aver compiuto l’opera della creazione; ha lo scopo che sia concesso un giorno di riposo a tutti, è un segno del patto tra Dio e Israele. L’osservanza del sabato costituisce uno dei primi punti di quel programma di kedushà, santità, per mezzo del quale l’uomo può avvicinarsi a Dio creatore. Il profanatore del sabato è degno di gravi punizioni.
Col IV comandamento il Signore completa la descrizione dei doveri dell’uomo verso il Creatore (comandamenti verticali). Col V iniziano i comandamenti orizzontali (verso gli altri uomini). « Onora tuo padre e tua madre » è quasi a metà strada fra i comandamenti, perché onorare i genitori è quasi onorare Dio. Dobbiamo rispettare la loro volontà, mantenerli se necessario, non contraddirli.
Di non minore importanza e valore, naturalmente, è ciascuno degli altri comandamenti. Dio ce li ha dati perché ognuno di noi, osservandoli, possa mantenersi su una via di giustizia e di rettitudine: si possono chiamare di « ordine negativo »
Il VI° comandamento ordina: « Non uccidere », questo non significa solo togliere la vita, ma anche non ferire con cattive parole e non mettere in imbarazzo qualcuno, in pubblico.
« Non rubare », significa non solo non rubare danaro o altro, ma essere onesti negli affari; non esprimere, come fosse tua, l’idea degli altri; non farsi ringraziare per una azione buona, non compiuta ecc.
« Non fare falsa testimonianza »: non si può neppure affermare un cosa se non si è vista, ma viene solo detta da altri.
« Non desiderare quello che non hai ». Se amiamo veramente il Signore e abbiamo fiducia in Lui, dobbiamo capire che se non abbiamo qualcosa, è perché il Signore non ce l’ha concessa e non dobbiamo desiderarla. Spesso, infatti, ci accorgiamo che siamo proprio noi ad avere cose più importanti e preziose degli altri che abbiamo invidiato.
I comandamenti sono rivolti dal Signore ad Israele al singolare, infatti la Torà dice che Israele si era accampato come un solo uomo e con un solo cuore per ascoltare le Sue parole.
« Prima della creazione del mondo esisteva già l’alfabeto ebraico. L’Alef, la prima lettera, era
molto orgogliosa, mentre la Beth, la seconda lettera, si sentiva molto disgraziata. Allora il Signore, per consolare la Beth, creò il mondo, cominciando con la parola « Bereshìth » (In principio). La Alef si sentì molto offesa e si lamentò molto col Signore, ma poi si pentì del suo orgoglio. Allora che cosa fece il Signore? Pensò di appoggiare su Alef la Sua Legge; la Legge del pentimento e del perdono. E dal Monte Sinai, in mezzo ai tuoni e le fiamme, gridò la prima parola del primo Comandamento: « Anokhì » che comincia appunto con Alef. »
« Quando il Signore chiese ad Israele dei garanti, prima di affidar loro la Sua Legge, i nostri padri dissero che lo sarebbero stati i loro figli. Allora il Signore accettò, perché erano anime pure ed innocenti. »
« Tutti i monti rivendicavano l’onore di essere prescelti per la donazione della Torà e iniziarono a litigare fra loro: l’Araràth con il Chermòn e col Carmelo. Solo il Sinài, con molta modestia diceva: « Chi sarò io per meritarmi un simile onore? » Ma il Signore scelse proprio lui, per la sua modestia ».
« Secondo una leggenda talmudica, questa Legge era stata offerta a molti popoli, prima che ad Israele, ma nessuno l’aveva accettata, perché imponeva troppe restrizioni. All’offerta, Israele rispose, invece: « Faremo ed ascolteremo ». Da allora diciamo: « Beati noi, quanto è dolce la nostra eredità; beati noi che sera e mattina proclamiamo l’unità di Dio ».
« È retz Israèl senza Torà è come un corpo senza anima ».
 » Gli ebrei sapevano che avrebbero ricevuto la legge sul Monte Sinài, perché nell’episodio del « Roveto ardente » il Signore aveva detto a Mosè: « E servirete il Signore su questo monte. »
Narra il Midràsh che gli angeli si ribellarono, quando seppero che il Signore voleva dare la Torà al popolo di Israele. Essi infatti pensavano che questo splendido dono, rimasto nascosto per tanti anni prima che il mondo fosse creato, non dovesse essere consegnato all’uomo mortale. Il Signore allora mandò degli angeli da Mosè, perché li convincesse. E Mosè ragionò così con loro: « Voi angeli non avete bisogno della Torà, infatti non avete genitori da onorare, non avete possibilità di venir meno alla regole della kasherùth (le regole alimentari ebraiche), non avete nessuna schiavitù in Egitto da ricordare, non avete il pericolo di adorare gli idoli ». Gli angeli ammisero che Mosé aveva ragione e che la Torà doveva essere data agli uomini, perché i suoi precetti erano proprio fatti per loro. Così Mosè portò ad Israele la Torà ».
Il Talmùd dice che il Signore creò l’universo alla condizione che esso durasse solo se Israele avesse accettato la Torà, altrimenti l’universo sarebbe sparito e ritornato nel nulla.
« Gli ebrei vollero conoscere il loro Re e per questo il Signore parlò direttamente a ciascuno di loro. Infatti ripeté i primi due comandamenti parola per parola, perché tutti sentissero la Sua voce. Gli altri otto invece furono trasmessi loro da Mosè ».

 

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