Archive pour mars, 2016

Noli me tangere

 Noli me tangere  dans immagini sacre 11%20MONTECASSINO%20NOLI%20ME%20TANGERE
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Publié dans:immagini sacre |on 31 mars, 2016 |Pas de commentaires »

LE CORBUSIER «FAR DI PIETRE INERTI UN DRAMMA»

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LE CORBUSIER «FAR DI PIETRE INERTI UN DRAMMA»

di Carlo Maria Acerbi e Lorenzo Margiotta

06/11/2012 – Oggi qualunque oggetto di uso quotidiano porta il segno della sua opera. Con la razionalità della tecnica e la spiritualità della natura, progetta mettendo al centro l’uomo. Per commuoverlo. Seconda puntata della serie sull’architettura

Gli edifici in cui abitiamo, le città in cui viviamo, le autostrade sulle quali viaggiamo o, più semplicemente, le poltrone o le sedie su cui sediamo; di tutto questo niente è rimasto invariato dopo essere stato ridisegnato da Le Corbusier. Icona del razionalismo, tanto quanto Picasso lo è del cubismo e Andy Warhol della pop art, Le Corbusier è architetto, scultore, pittore, geniale pensatore del suo tempo e padre della moderna urbanistica. A lui il Maxxi di Roma dedica la mostra « L’Italia di Le Corbusier » (dal 17 ottobre al 13 gennaio, a cura di Marida Talamona). Le Corbusier, che significa “il corvo”, è lo pseudonimo con cui Charles-Édouard Jeanneret (1887-1965) firma i suoi primi articoli che lo rendono famoso in tutto il mondo. Da allora non lo lascerà più. Nato nel 1886 a La Chaux du Fonds, nella Svizzera francese, passerà la maggior parte della sua vita a Parigi. Il padre lavora nell’industria dell’orologeria; la madre è pianista e insegnante di musica. Saranno questi due fattori – la razionalità della tecnica e la spiritualità della natura – ad accompagnarlo per tutta la vita. Éduard studia alla scuola di arti decorative ma la sua vera formazione saranno i viaggi; le immagini dei luoghi che gli resteranno impresse negli occhi costituiranno un archivio della memoria cui tornerà sempre. «Ho avuto la fortuna di non essere mai stato a scuola e di avere viaggiato, tra i venti e i ventidue anni, con il mio zaino, nei Balcani, in Grecia, in Turchia, in Asia Minore. Per sette mesi viaggiai con ogni mezzo, osservando ovunque l’architettura. Vidi i templi e per giorni interi non feci altro che osservare intorno a me fattorie, case, costruzioni, i più modesti edifici in pietra che mi hanno permesso di capire che le costruzioni spontanee nel loro evolversi attraverso i secoli recano con sé l’architettura». Con i cinquecento franchi guadagnati con il progetto della sua prima casa parte per l’Italia – a Firenze, Ravenna, Padova, Venezia, Trieste. «1907. Ho 19 anni. Prendo contatto per la prima volta con l’Italia. In piena Toscana, la Certosa di Ema, coronando una collina, lascia vedere le feritoie formate da ciascuna delle celle dei monaci a picco su un immenso muro della roccaforte. La feritoia si apre sugli orizzonti toscani. L’infinito del paesaggio, la compagnia di se stessi. Mi sento pervaso da una sensazione di armonia straordinaria. Mi rendo conto che si è colmata un’aspirazione umana autentica: il silenzio, la solitudine; ma anche il contatto quotidiano con i mortali; e ancora, l’accesso alle effusioni verso l’inafferrabile». Nel corso dei viaggi scrive lunghe lettere ai genitori e disegna su semplici taccuini, i leggendari Croquis de voyages. Sono i suoi laboratori d’idee, annotazioni e considerazioni sull’architettura appresa sul campo. «Comprai una piccola Kodak, ma poi mi resi conto che affidando le mie emozioni all’obiettivo dimenticavo di guardare. Così abbandonai la macchina fotografica e presi un taccuino e una matita e da allora ho sempre disegnato, dappertutto, anche nella metropolitana. Se trasferisco qualcosa alla mano la ricordo, mentre se premo un pulsante non avverto alcuna partecipazione». Visita le capitali dell’architettura contemporanea e lavora dai più grandi architetti del tempo. Da ognuno impara qualcosa. A Parigi è nell’atelier di August Perret, che gli insegna a credere nella forza della struttura e nelle straordinarie potenzialità del cemento armato; a Berlino da Peter Behrens, dove lavorano anche Gropius e Mies van der Rohe, altri due grandi maestri del ‘900.

L’UOMO AL CUORE DELL’ARCHITETTURA. LE MODULOR «Dobbiamo riscoprire l’uomo, dobbiamo riscoprire la linea retta che congiunge l’asse delle leggi fondamentali: biologia, natura, il cosmo. Una linea retta che si stende come l’orizzonte del mare». Nella sua indomita indagine artistica Le Corbusier cavalca ogni corrente d’avanguardia, inventando forme ed espressioni sempre nuove. La sua poetica incredibilmente varia lo porta a essere in diverse fasi regionalista, funzionalista, purista, brutalista, espressionista. La pratica architettonica va di pari passo con un’assidua attività teorica che segna di libro in libro le pietre miliari del suo pensiero. Ma il punto su cui s’incardinano le sue ricerche è l’uomo, considerato ultimo destinatario e protagonista di ogni architettura. Tra le immagini-simbolo che sono associate al suo nome, quella del Modulor è una delle più rappresentative: un uomo stilizzato, con il braccio alzato e la mano aperta, a cui ogni edificio, ogni manufatto, ogni oggetto d’uso quotidiano deve commisurarsi. «Il sistema metrico è astratto e noi abbiamo disumanizzato il nostro sistema di misurazione. Ho creato un sistema dimensionale che risponde a tutte le esigenze dell’uomo – seduto, in piedi, sdraiato ecc».

L’OSSO E LA CONCHIGLIA. L’INSEGNAMENTO DELLA NATURA «Ho un debole per le conchiglie fin da quando ero bambino. Non c’è niente di più bello di una conchiglia che si basa sulla legge dell’armonia e su un’idea molto semplice. Si sviluppa in una spirale o si irradia, all’interno o all’esterno. Questi oggetti si possono trovare ovunque. Il punto è vederli, osservarli. Essi riassumono le leggi della natura e offrono il migliore insegnamento». La seconda protagonista degli edifici di Le Corbusier è la natura, che informa tutti i suoi progetti, dalle case ai piani urbani. Con essa Le Corbusier instaura un rapporto fisico e profondo. Non si tratta di mimetismo, di riprodurre la natura attraverso l’architettura – esse rimangono sempre distinte – quanto di un’aspirazione continua che è animata da uno sguardo di meraviglia per il creato, che corrisponde alla sua dimensione più autenticamente religiosa. «Io preferisco un sasso sulla spiaggia creato da Dio, una farfalla o un vecchio osso se levigato dall’oceano a un oggetto che rappresenta colombe che si abbracciano. Sono un architetto. Lavoro con piani, alzati e sezioni. Ebbene, un osso ti offre tutto questo. Un osso è un oggetto mirabile fatto per resistere a qualsiasi colpo e sostenere sforzi dinamici. La sezione di un osso può insegnare molto e anch’io ho molto da imparare».

QUATTRO ARCHITETTURE Tra le decine di opere di Le Corbusier che si trovano nei manuali di storia dell’architettura, ce ne sono alcune che parlano più apertamente del loro autore. La prima è Ville Savoye, costruita nel 1929 a Poissy, nella periferia ovest di Parigi. È l’opera cardine del Le Corbusier modernista, la machine a habiter (macchina per abitare), che trascrive i cinque punti professati in Verso una architettura, il suo libro-manifesto del 1923: finestre “a nastro”, tetto giardino, facciata libera, pianta libera, pilotis (pilastri che sollevano la casa da terra). Per rifondare un’architettura agonizzante, che riproduce ordini e stili del passato, Le Corbusier progetta la casa dell’uomo europeo del Novecento. Forme semplici, volumi che si leggono chiaramente. È l’inizio di una lunghissima ricerca sull’abitazione, che ha il suo epilogo nel Cabanon di Roq-Cape-Martin, dove trascorrerà gli ultimi anni di vita. La seconda architettura è l’Unité d’Habitation di Marsiglia (1947-‘52), poi costruita anche a Nantes, a Firminy e in altre città francesi. L’Unité si presenta come un organismo unitario, un grande blocco edilizio dalla struttura standardizzata, e costituisce un elemento fondamentale della città ideale lecorbuseriana, la Ville Radieuse (città radiosa). Lo sviluppo urbano tipico della città ottocentesca, ottenuto dalla ripetizione infinita degli isolati, appartiene al passato. «Le città sono diventate disumane, ostili all’uomo, pericolose per la sua salute fisica e morale», dice Le Corbusier. Nella Ville Radieuse, invece, le persone vivono in edifici alti che si stagliano in grandi pianure verdi, collegati da una circolazione veloce e razionalizzata. «Un avvenimento di importanza rivoluzionaria: sole, spazio, verde, un luogo dove la famiglia viva nell’intimità, nel silenzio, conforme alla natura… Le case saranno alte 50 metri. Bimbi, giovani e adulti avranno a disposizione il parco intorno all’edificio. La città sarà immersa nel verde e sul tetto delle case troveremo gli asili per i piccoli. Quando sarete nel vostro appartamento, guarderete il mare o le montagne grazie a una finestra di quindici metri quadrati. Due vedute straordinarie di cui nessuno dei residenti di Marsiglia gode». Degli stessi anni è la Cappella di Notre Dame du Haut, a Ronchamp (1950-’55). Qui protagonista è la luce: quella che entra dalle strombature nel profondissimo muro sul lato principale, colorata dalle vetrate; quella tagliente che si infila nella fessura tra i muri e il grande tetto in cemento armato, e che lo fa apparire sospeso; quella potente, zenitale, che cade dall’alto nelle tre cappelle con gli altari secondari. Qui trova compimento quel rapporto con la natura da lui sempre cercato e finalmente, definitivamente trovato. La cappella domina la pianura. Le sue linee curve accolgono i quattro orizzonti, tutti diversi l’uno dall’altro: visitandola si percepisce una reale compartecipazione con il paesaggio. «Architettura è costruire rapporti emozionali con materiali grezzi. L’architettura è al di là dell’utile. La passione fa di pietre inerti un dramma». La cappella di Ronchamp non è l’unica architettura sacra di Le Corbusier. Due anni dopo, nel 1957, il domenicano Marie-Alain Couturier (direttore de L’Art Sacrè dal 1936 e protagonista del dibattito sul rinnovamento dell’arte e dell’architettura cristiane), lo chiama per il convento di Santa Maria de La Tourette (Eveux-sur-l’Arbresle, Lione, 1957). Un incarico a cui Le Corbusier tiene molto, «perché padre Couturier mi aveva spiegato il rituale domenicano, che è vecchio di ottocento anni e molto umano». Costruito su un pendio con materiali «i più radicalmente semplici», il convento racchiude un’altra grande invenzione di Le Corbusier: le celle dei monaci non guardano verso la corte interna, come la tipologia dei chiostri imporrebbe, ma all’esterno, verso la valle, riaffermando una volta di più il rapporto tra natura e religiosità. «Quando andai alla cerimonia di inaugurazione, celebrata con una messa solenne e magnifici canti gregoriani, rimasi davvero colpito. L’obiettivo era stato raggiunto e credo che tutti siano rimasti colpiti. Persino l’arcivescovo di Lione, che pronunciò un breve discorso, disse di essersi convertito a Le Corbusier, che fino a quel giorno aveva sempre considerato un demonio. Aveva capito che sono capace di creare un’arte che forse non è religiosa ma che è propria dei luoghi di preghiera e meditazione, i fenomeni e le manifestazioni del sacro nel cuore dell’uomo».

Publié dans:ARTE, ARTE - ARCHITETTURA |on 31 mars, 2016 |Pas de commentaires »

SOTTO IL SEGNO DEL FIGLIO

 http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/quesnel_saggezza_cristiana1.htm

LA SAGGEZZA CRISTIANA ARTE DEL VIVERE – MICHEL QUESNEL

(stralcio, ci sono molti studi)

SOTTO IL SEGNO DEL FIGLIO

Elogio di Gesù Cristo

Una sola persona, nella storia umana, è apparsa di nuovo viva dopo essere morta pochissimo tempo prima, appartenendo già al mondo dell’ aldilà: un profeta ebreo del I secolo della nostra era, chiamato Gesù. È resuscitato, non ritornando alla vita che aveva lasciato, così da dover morire di nuovo, ma vivendo un’altra forma di vita le cui caratteristiche oltrepassano le possibilità dell’immaginazione umana. Si può pensare che questa pretesa resurrezione non sia che una favola, una storia inventata da discepoli incapaci di rassegnarsi alla morte del loro maestro, tanto più per il fatto che questi era morto in un modo particolarmente tragico: crocifisso dall’ autorità romana occupante – un supplizio riservato ai popolani e agli schiavi – in seguito alle pressioni di alcuni grandi sacerdoti di Gerusalemme. Ritenere che la resurrezione di Gesù sia una pura invenzione è un’ipotesi sostenibile; in ogni caso, non possiamo averne le prove. Ugualmente, non possiamo provare il contrario: la convinzione che Gesù sia risorto non è dell’ordine della ragione. Nessuna persona neutrale ha potuto verificare il fatto: quelle che lo hanno testimoniato poco tempo dopo la sua morte erano tutte, in un modo o nell’altro, legate a lui. La loro testimonianza può essere rifiutata come priva di obiettività. Tuttavia la qualità di una convinzione non si misura soltanto in base alle prove che se ne possono dare; essa mostra il suo buon fondamento anche attraverso la sua fecondità. I cristiani non hanno la prova che Gesù sia risorto. Lo credono fermamente e costruiscono la propria esistenza su questa certezza. Si sforzano di vivere la propria fede e di prendere Gesù come maestro. Questo non significa che ce la facciano, perché l’obiettivo è particolarmente alto. L’immagine di Gesù così come la tramandano i vangeli è quella di un profeta e di un saggio dalle qualità umane eccezionali. Profeta, annuncia l’imminenza del Regno di Dio nel cuore degli uomini e nella storia: un regno di giustizia e di pace la cui sola regola di vita è l’amore. Egli stesso dimostrò, attraverso l’esempio, che ciò era possibile. Taumaturgo attento a tutte le forme di miseria, messaggero di speranza per i poveri, accusatore dei ricchi e dei profittatori, appaga le aspirazioni profonde sia dei giusti che dei peccatori. Saggio tra i saggi d’Israele, dà fiducia alla libertà di ciascuno a tal punto da non imporre nulla. Chiama, suggerisce, esorta, illustra con esempi, utilizzando con abilità esemplare una specifica forma di breve racconto nel quale l’uditore è invitato a sentirsi coinvolto e grazie al quale può essere portato a trasformarsi: la parabola. Ispirarsi all’insegnamento e alla condotta di Gesù costituisce una completa arte di vivere. L’espressione consacrata dall’uso spirituale è L’imitazione di Cristo. È anche il titolo di un’opera renana del XIV secolo i cui emuli furono notevoli. È opportuno tuttavia non confondere « imitazione » con « mimetismo ». Oggi noi viviamo in condizioni assai diverse da quelle del vicino Oriente del I secolo; noi non siamo Gesù Cristo; sarebbe illusorio e stupido pretendere di agire come egli ha agito cercando di scimmiottarlo. Imitare permette di prendere la distanza rispetto al modello. Gesù fu attento al poveri e ai piccoli; noi siamo invitati a fare altrettanto, ispirandoci al suo modo di essere. Gesù manifestò ai suoi contemporanei un amore senza limiti, fino ad accettare di morire per mano di coloro che rifiutavano questo amore; si tratta, per ogni cristiano, di un ideale da non perdere mai di vista; ma non vuol dire che si debba ricercare il martirio. Dobbiamo, al contrario, inventare i nostri comportamenti tenendo conto delle condizioni in cui viviamo, con una libertà tanto grande quanto la sua. Attraverso la Resurrezione, che apparve loro come la risposta divina alla morte ingiusta che gli era stata inflitta, i primi cristiani hanno finito col riconoscere in Gesù qualcosa di più che un profeta e un saggio. Nel tempo, si sono convinti che egli fosse il vero Messia di Israele, cioè il re unto incaricato da Dio di presiedere all’instaurazione di quel Regno di Dio che aveva annunciato, Figlio di Dio egli stesso, Dio incarnato, parola e immagine di Dio Padre. La sua persona trascende la storia: fin dalle origini del mondo egli presiedeva alla creazione del cosmo; e, alla fine, ritornerà a conc1uderne i destini. Gli avvenimenti del I secolo in Galilea e in Giudea assunsero una dimensione nuova: la vita, la morte e la resurrezione di Gesù non sono solo un momento chiave della storia ebraica; sono il fulcro della storia universale perché, attraverso questi avvenimenti, Dio si è compromesso nei confronti della propria creazione al punto di farsi uomo tra gli uomini. Un inno liturgico, di qualche decennio posteriore alla morte di Gesù, accosta i due aspetti della sua filiazione divina, la filiazione originale e la filiazione mediante la Resurrezione:

Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui. Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli. (Col 1, 15-20)

Più noto è tuttavia l’inizio del prologo di Giovanni, che completa, per Gesù, la realtà del fatto che egli è immagine di Dio, affermando che ne è la Parola o il Verbo (il logos).

In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. (Gv 1,1-3)

Queste due affermazioni maggiori della teologia cristiana – Gesù Immagine e Gesù Parola di Dio – meritano tuttavia di essere completate da un’ altra. Attraverso la morte di Gesù in croce l’Onnipotente è diventato il debole per eccellenza e l’anni-Amante. Si è sottomesso alla volontà umana e si è fatto sorprendentemente vulnerabile, accettando una « discesa » sconosciuta alle altre religioni. Si può scrivere del Padre chiamandolo Il Dio crocifisso, come fece il teologo protestante Jürgen Moltmann. In Gesù Cristo, in effetti, Dio piange, Dio soffre, Dio si cancella per non opprimere con la sua presenza, Dio si fa ombra per non accecare con la sua luce. Dio si fa silenzio per non imporre la sua parola. Durante la scena della lavanda dei piedi riportata dal vangelo di Giovanni, si è addirittura inginocchiato davanti ai discepoli, immagine di un Dio che si mette in ginocchio davanti a me ed accetta di guardarmi dal basso in alto, quando, essendo il mio creatore, potrebbe essere il mio padrone. Per togliermi, nel medesimo tempo, qualsiasi voglia di diventare orgoglioso per questo, egli si inginocchia anche davanti a Giuda, proprio colui che sta per tradirlo. Un inno primitivo consacrato al Cristo, conosciuto da san Paolo e riportato in una delle sue lettere, sottolinea l’originalissima prospettiva cristiana, quella del Dio che compie in Gesù Cristo un vero cammino di de-divinizzazione.

* * *

« Egli, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre » (Fil 2,6-11).  

 

HOC EST ENIM CORPUS MEUM

HOC EST ENIM CORPUS MEUM dans immagini sacre Last-Supper-of-Christ-Holy-Thursday

http://voxcantor.blogspot.it/2016/03/holy-thursday-2016-hoc-est-enim-corpus.html

Publié dans:immagini sacre |on 30 mars, 2016 |Pas de commentaires »

LA CENA DEL SIGNORE – (1COR 11,17-34)

http://www.christusrex.org/www1/ofm/san/TSsion008.html

LA CENA DEL SIGNORE – (1COR 11,17-34)

(è molto lungo perché è uno studio, non metto: III commento, ma è da leggere)

P. G. Claudio Bottini ofm

sbf – Gerusalemme

Del tema dell’Eucaristia S. Paolo tratta due volte nella 1Cor e in contesti vivacemente segnati dai problemi della comunità cristiana. Non è fuori luogo dire che è grazie alle difficoltà dei corinzi che abbiamo questi testi sublimi della nostra fede. Il primo intervento si trova nella unità costituita da 1Cor 10,14-22 dove l’apostolo tratta il problema delle carni sacrificate agli idoli. Per dissuadere dall’idolatria porta il motivo del valore sacramentale della cena del Signore. Il calice della benedizione è partecipazione al sangue di Cristo; il pane che i corinzi spezzano è comunione col corpo di Cristo. Di conseguenza tutti formiamo un solo corpo, quello di Cristo, perché tutti di lui ci nutriamo (10,17a). L’unione dei credenti si fonda sulla partecipazione sacramentale al corpo e al sangue di Cristo, la quale a sua volta è segno della unione col Cristo nella stessa fede. Il secondo riferimento all’Eucaristia, più articolato e più complesso, è in 1Cor 11,17-34. Informato dei gravi abusi che si erano introdotti nelle assemblee conviviali a Corinto, Paolo reagisce richiamando il contenuto della tradizione, esattamente l’istituzione della Cena, tradizione che egli dice di aver ricevuta dal Signore, e riporta le parole della istituzione. Su questo brano in cui, come vedremo, Paolo sottolinea fortemente il legame essenziale che esiste tra Eucaristia e Chiesa, tra Cena del Signore e carità fraterna, ci fermeremo in questa riflessione.

I. CONTESTO E ARTICOLAZIONE Richiamando la divisione letteraria e tematica proposta vediamo che l’unità di 1Cor 11,17-34 si trova nella quinta parte della lettera e che abbraccia tutto il cap. 11, eccettuato il v. 1 che fa chiaramente parte dell’unità che precede. L’argomento generale può dirsi il problema posto dall’ordinamento dei raduni di preghiera a Corinto, che viene specificato poi concretamente in due temi: l’abbigliamento dei profeti e delle profetesse nelle assemblee cultuali (11,2-16), la celebrazione della Cena eucaristica (11,17-34). Il brano di 11,17-34, in base a forma e contenuto, può essere ulteriormente diviso in due paragrafi (11,17-22; 11,23-34). Il primo paragrafo si lascia chiaramente delimitare dalla ripetizione delle espressioni « Non posso lodarvi… » (v. 17); « In questo non vi lodo » (v. 22) che fanno inclusione. Prima Paolo aveva lodato la comunità (11,2), ma ora si vede costretto a biasimarla severamente e ne dà le ragioni. Il secondo paragrafo va dal v. 23 al v. 34. Alcuni autori lo suddividono ulteriormente, ma a me pare che esso non vi si presti facilmente, perché il procedere di Paolo è molto serrato dal punto di vista logico e formale. Paolo vi evoca la tradizione « ricevuta dal Signore » e ne mostra le conseguenze per il suo significato di atto cultuale e per coloro che vi partecipano indegnamente (vv. 23-32); poi dà delle regole pratiche di comportamento ai corinzi. Quanto al vocabolario vale la pena notare la ricorrenza insistente e significativa dello stesso termine « convenire / radunarsi » che ricorre ben cinque volte (vv. 17.18.20.33.34 cf. anche i termini concettualmente affini: « in assemblea », v. 18, « insieme »,v 20) e della terminologia giudiziaria: « colpevole » (v. 27), « condanna / condannare » (vv. 29.32), « giudicare » (vv. 31.32) a cui si possono aggiungere per affinità concettuale anche i termini: « in assemblea » (v. 18), « insieme » (v. 20), « Chiesa di Dio » (v. 22). E’ evidente il contrasto con « divisioni » (vv. 18.19), « proprio pasto » (v. 21) e gli atteggiamenti individualistici. La compattezza dell’intero brano è segnalata anche dalla formula di inclusione che si rileva al v. 17 (« poiché vi riunite… per il peggio ») e il v. 34 (« perché non vi riuniate a vostra condanna »). All’interno dell’unità letteraria i versetti da 23 a 26, che riferiscono la memoria eucaristica ricevuta e trasmessa da Paolo, spiccano per contenuto e formulazione. Al centro vi è il racconto, di cui Gesù è protagonista. Lo incorniciano gli interventi di Paolo che dichiara di aver ricevuto e trasmesso tale tradizione / racconto e ora ne interpreta il significato.

II. AMBIENTE VITALE Come si svolgevano a Corinto le assemblee conviviali e quali erano le cause delle divisioni? E’ difficile dare una risposta dettagliata e precisa. Gli studiosi cercano di delineare il quadro ambientale utilizzando gli elementi offerti dal testo paolino, dalla tradizione cristiana delle origini sull’Eucaristia e dalle testimonianze dell’ambiente giudaico e greco-romano sulle riunioni conviviali. Un punto fermo per la ricostruzione è la distinzione che Paolo fa tra la « Cena del Signore » (v. 20) e il « proprio pasto » (v. 21). Per « Cena del Signore » si intende chiaramente la consumazione del pane e del vino secondo il comando del Signore che l’apostolo dice di aver ricevuto e trasmesso ai corinzi. « Ma non si riduce a questo; tra il mangiare e bere il calice, su cui erano pronunciate le parole interpretative e oblative di Gesù, si consumava un pasto vero e proprio, con la tavola imbandita anche di companatico, cioè di pesce e probabilmente pure di carne » (G. Barbaglio, La prima lettera ai Corinzi, Bologna 1996 564). Per « proprio pasto » si intende invece una cena profana che aveva luogo al termine del giorno e poteva consistere di abbondanti cibi e bevande. Ora Paolo dice che questa cena veniva consumata in occasione del raduno liturgico, durante il quale « ognuno » – da intendere non di tutti ma dei membri facoltosi – mangia per proprio conto con la conseguenza che alcuni giungono a ubriacarsi e altri a soffrire la fame. In che rapporto erano i due pasti? Probabilmente il raduno liturgico della comunità aveva questi momenti: benedizione sul pane, pasto comunitario o agape fraterna, benedizione sul vino. A che punto si collocava quello che Paolo chiama il « proprio pasto »? Con certezza non si può dire, tuttavia si possono formulare due ipotesi: il cosiddetto « proprio pasto » aveva luogo prima che iniziasse il raduno liturgico con la celebrazione della « Cena del Signore »; il « proprio pasto » si svolgeva contemporaneamente all’agape fraterna tra rito della benedizione del pane e quello della benedizione del vino. La seconda ipotesi appare meno probabile. Difficile accettare che a Corinto si giungesse a questo eccesso di discriminazione, cioè che i ricchi mangiassero un pasto privato cui non erano ammessi i poveri e per giunta in concomitanza alla celebrazione della « Cena del Signore ». Più probabile invece che il « proprio pasto » consisteva in un’abbondante cena consumata solo dai ricchi prima del raduno liturgico della comunità. Questa ricostruzione è resa verosimile dalla stratificazione sociale della comunità cristiana di Corinto che risultava composta da una minoranza di credenti provenienti dal ceto medio e medio alto e da una maggioranza di fedeli appartenenti ai ceti più bassi della società inclusi gli schiavi. Certamente l’adesione al Vangelo e l’appartenenza alla stessa comunità di fede aveva creato legami spirituali e comunitari tra i credenti di Corinto, ma essi non riuscivano indubbiamente a cancellare del tutto le massicce differenze e separazioni tra le classi sociali presenti nella società greco-romana e dovute alle diverse condizioni economiche. Queste si esprimevano in tante forme, a cominciare dal modo di trattare gli ospiti a tavola. Il trattamento riservato a ricchi e ospiti di riguardo non era indubbiamente lo stesso di quello tenuto con i poveri. Se a ciò si aggiunge l’eventualità che il raduno liturgico della comunità si teneva nelle case dei membri ricchi, si comprende che questi potevano portare anche una giustificazione al loro modo diverso di accogliere gli ospiti senza per questo sentirsi in colpa. E’ probabilmente in questo quadro ambientale che si devono comprendere gli abusi introdottisi a Corinto e fortemente biasimati da Paolo. « Senza troppi complimenti, i ricchi cominciavano a cenare e così, quando sopraggiungevano gli altri e aveva inizio la celebrazione della cena del Signore, sulla tavola restavano pochi avanzi. In questo modo, la cena agapica di tutta la comunità assumeva un aspetto tristemente egoistico e fortemente discriminatorio: i ricchi si godevano in pace la sazietà, mentre i poveri erano obbligati a consumare i resti del banchetto o rimanevano a stomaco vuoto » (L. D. Chrupcaa, « Chi mangia indegnamente il corpo del Signore [1Cor 11,27]« , Liber Annuus 46 [1996] 65 con ampia presentazione dei problemi e delle soluzioni prospettate da vari studiosi). Chi aveva informato Paolo di questa situazione? Dovevano essere stati degli informatori a voce, perché egli afferma: « sento dire » (v. 18). L’apostolo se ne mostra molto preoccupato e sollecito a rimediare: rileva gli abusi e biasima la maniera di condurre le celebarzioni eucaristiche (vv. 17-22); riconduce alla norma suprema di ogni autentica celebrazione eucaristica, cioè a quanto Gesù fece (vv. 23-26); esorta e dà alcune disposizioni perché si celebri degnamente la Cena del Signore e non incorra nel suo giudizio di condanna (vv. 27-34). L’aspetto più originale dell’istruzione paolina sta nel collegamento tra il sacramento della Cena del Signore e la comunità cristiana, tra la memoria proclamatrice della morte del Signore e la comunione fraterna espressa nel pasto in comune, tra « celebrazione del corpo personale di Gesù, donato a noi nella morte, ed esistenza nostra di solidali membra del corpo ecclesiale di Cristo »(G. Barbaglio, « L’istituzione dell’Eucaristia [Mc 14,22-25; 1Cor 11,23-24 e par.]« , Parola Spirito e Vita 7 [1983] 141). Ancora una volta si vede come gli imperativi morali e spirituali di Paolo hanno degli indicativi teologici supremi. In questo caso, come un po’ in tutta la 1Cor, le motivazioni sono di natura cristologica e ecclesiologica.

VEGLIA PASQUALE NELLA NOTTE SANTA – OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2016/documents/papa-francesco_20160326_omelia-veglia-pasquale.html

VEGLIA PASQUALE NELLA NOTTE SANTA

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica Vaticana

Sabato Santo, 26 marzo 2016

«Pietro corse al sepolcro» (Lc 24,12). Quali pensieri potevano agitare la mente e il cuore di Pietro durante quella corsa? Il Vangelo ci dice che gli Undici, tra cui Pietro, non avevano creduto alla testimonianza delle donne, al loro annuncio pasquale. Anzi, «quelle parole parvero a loro come un vaneggiamento» (v. 11). Nel cuore di Pietro c’era pertanto il dubbio, accompagnato da tanti pensieri negativi: la tristezza per la morte del Maestro amato e la delusione per averlo rinnegato tre volte durante la Passione. C’è però un particolare che segna la sua svolta: Pietro, dopo aver ascoltato le donne e non aver creduto loro, «tuttavia si alzò» (v. 12). Non rimase seduto a pensare, non restò chiuso in casa come gli altri. Non si lasciò intrappolare dall’atmosfera cupa di quei giorni, né travolgere dai suoi dubbi; non si fece assorbire dai rimorsi, dalla paura e dalle chiacchiere continue che non portano a nulla. Cercò Gesù, non se stesso. Preferì la via dell’incontro e della fiducia e, così com’era, si alzò e corse verso il sepolcro, da dove poi ritornò «pieno di stupore» (v. 12). Questo è stato l’inizio della “risurrezione” di Pietro, la risurrezione del suo cuore. Senza cedere alla tristezza e all’oscurità, ha dato spazio alla voce della speranza: ha lasciato che la luce di Dio gli entrasse nel cuore, senza soffocarla. Anche le donne, che erano uscite al mattino presto per compiere un’opera di misericordia, per portare gli aromi alla tomba, avevano vissuto la stessa esperienza. Erano «impaurite e con il volto chinato a terra», ma furono scosse all’udire le parole degli angeli: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?» (cfr v. 5). Anche noi, come Pietro e le donne, non possiamo trovare la vita restando tristi e senza speranza e rimanendo imprigionati in noi stessi. Ma apriamo al Signore i nostri sepolcri sigillati – ognuno di noi li conosce -, perché Gesù entri e dia vita; portiamo a Lui le pietre dei rancori e i macigni del passato, i pesanti massi delle debolezze e delle cadute. Egli desidera venire e prenderci per mano, per trarci fuori dall’angoscia. Ma questa è la prima pietra da far rotolare via questa notte: la mancanza di speranza che ci chiude in noi stessi. Che il Signore ci liberi da questa terribile trappola, dall’essere cristiani senza speranza, che vivono come se il Signore non fosse risorto e il centro della vita fossero i nostri problemi. Vediamo e vedremo continuamente dei problemi vicino a noi e dentro di noi. Ci saranno sempre, ma questa notte occorre illuminare tali problemi con la luce del Risorto, in certo senso “evangelizzarli”. Evangelizzare i problemi. Le oscurità e le paure non devono attirare lo sguardo dell’anima e prendere possesso del cuore, ma ascoltiamo la parola dell’Angelo: il Signore «non è qui, è risorto!» (v. 6); Egli è la nostra gioia più grande, è sempre al nostro fianco e non ci deluderà mai. Questo è il fondamento della speranza, che non è semplice ottimismo, e nemmeno un atteggiamento psicologico o un buon invito a farsi coraggio. La speranza cristiana è un dono che Dio ci fa, se usciamo da noi stessi e ci apriamo a Lui. Questa speranza non delude perché lo Spirito Santo è stato effuso nei nostri cuori (cfr Rm 5,5). Il Consolatore non fa apparire tutto bello, non elimina il male con la bacchetta magica, ma infonde la vera forza della vita, che non è l’assenza di problemi, ma la certezza di essere amati e perdonati sempre da Cristo, che per noi ha vinto il peccato, ha vinto la morte, ha vinto la paura. Oggi è la festa della nostra speranza, la celebrazione di questa certezza: niente e nessuno potranno mai separarci dal suo amore (cfr Rm 8,39). Il Signore è vivo e vuole essere cercato tra i vivi. Dopo averlo incontrato, ciascuno viene inviato da Lui a portare l’annuncio di Pasqua, a suscitare e risuscitare la speranza nei cuori appesantiti dalla tristezza, in chi fatica a trovare la luce della vita. Ce n’è tanto bisogno oggi. Dimentichi di noi stessi, come servi gioiosi della speranza, siamo chiamati ad annunciare il Risorto con la vita e mediante l’amore; altrimenti saremmo una struttura internazionale con un grande numero di adepti e delle buone regole, ma incapace di donare la speranza di cui il mondo è assetato. Come possiamo nutrire la nostra speranza? La Liturgia di questa notte ci dà un buon consiglio. Ci insegna a fare memoria delle opere di Dio. Le letture ci hanno narrato, infatti, la sua fedeltà, la storia del suo amore verso di noi. La Parola di Dio viva è capace di coinvolgerci in questa storia di amore, alimentando la speranza e ravvivando la gioia. Ce lo ricorda anche il Vangelo che abbiamo ascoltato: gli angeli, per infondere speranza alle donne, dicono: «Ricordatevi come [Gesù] vi parlò» (v. 6). Fare memoria delle parole di Gesù, fare memoria di tutto quello che Lui ha fatto nella nostra vita. Non dimentichiamo la sua Parola e le sue opere, altrimenti perderemo la speranza e diventeremo cristiani senza speranza; facciamo invece memoria del Signore, della sua bontà e delle sue parole di vita che ci hanno toccato; ricordiamole e facciamole nostre, per essere sentinelle del mattino che sanno scorgere i segni del Risorto. Cari fratelli e sorelle, Cristo è risorto! E noi abbiamo la possibilità di aprirci e ricevere il suo dono di speranza. Apriamoci alla speranza e mettiamoci in cammino; la memoria delle sue opere e delle sue parole sia luce sfolgorante, che orienta i nostri passi nella fiducia, verso quella Pasqua che non avrà fine.

 

John 20:11-18: Mary Magdalene stayed outside the tomb weeping.

 John 20:11-18: Mary Magdalene stayed outside the tomb weeping. dans immagini sacre d238b8a7327b0e070812bc376b5aa1fa
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Publié dans:immagini sacre |on 29 mars, 2016 |Pas de commentaires »
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