Archive pour la catégorie 'Paolo a Roma'

“VEDI COME SI AMANO”. ROMANI 16 E LE CONOSCENZE DI PAOLO A ROMA

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“VEDI COME SI AMANO”. ROMANI 16 E LE CONOSCENZE DI PAOLO A ROMA

di Andrea Lonardo

Il fenomeno Facebook – il gesuita Spadaro in un recente articolo pubblicato sulla Civiltà cattolica afferma che l’8,5 per cento della popolazione italiana ha un profilo Facebook – manifesta insieme il desiderio di relazioni che sempre caratterizza l’essere umano e l’utopia che esse possano realizzarsi semplicemente nella virtualità del flusso telematico.
Il capitolo finale della lettera ai Romani, il famosissimo capitolo 16, presenta Paolo che, 2000 anni fa, conosce realmente fra le cento e le centocinquanta persone abitanti in una città che non ha ancora mai visitato. Sono, infatti, nominati diciassette nomi di uomini, sette nomi di donne, più due delle quali non compare il nome, più cinque gruppi di persone che si riuniscono nelle case di alcuni di loro.
Afferma il prof. Penna, nell’ultimo volume appena uscito del suo commentario alla lettera ai Romani, che le lettere dell’antichità contenevano ovviamente spesso saluti a terze persone, ma il numero massimo di esse attestato è nella lettera papiracea di una certa Diodora che, scrivendo ad un certo Valerio Massimo, lo prega di dare i suoi saluti a sei persone. La lettera ai Romani è così la lettera che contiene il maggior numero di persone da salutare in tutta l’antichità classica, superando di gran lunga il numero di sei.
Delle persone nominate Paolo sottolinea innanzitutto la loro attività evangelizzatrice. Febe, probabilmente la latrice della lettera ai Romani, la prima ad essere nominata, è definita “diacono della chiesa di Cencre” (Rm 16,1), dove “diacono” è da intendersi nella sua forza espressiva di servitrice. Paolo chiede ora ai romani di assistere Febe, come lei “ha protetto molti ed anche me stesso” (Rm 16,2).
Si parla poi di Maria “che ha faticato molto per voi” (Rm 16,6). Poi di Andronico e Giunia, “apostoli insigni che erano in Cristo già prima di me” (Rm 16,7). Qui Paolo mostra di conoscere un ulteriore significato del termine “apostolo”: se egli sa bene che il ruolo dei Dodici è unico (cfr. ad esempio, 1 Cor 15,5), tuttavia utilizza il termine anche per altri missionari della prima generazione, forse appartenenti ai settantadue di cui parla l’evangelista Luca o agli “stranieri di Roma” presenti il giorno di Pentecoste. Andronico e Giunia potrebbero, forse, essere stati i primi evangelizzatori della comunità romana.
Si accenna poi ad Urbano, “nostro collaboratore in Cristo” (Rm 16,9), a Trifena e Trifosa che “hanno lavorato per il Signore” (Rm 16,12), poi a Perside che ha, anch’essa, “lavorato per il Signore” (Rm 16,12). Si ripetono i verbi che indicano il collaborare, il lavorare, l’affaticarsi per il vangelo e la sua diffusione, per il servizio dei fratelli. Se, nel capitolo 16, il numero degli uomini citati è maggiore, si sottolinea maggiormente il ruolo evangelizzatrice delle donne: sette donne e cinque uomini sono detti faticare nel Signore. Anche la persecuzione è stata motivo di fatica: Aquila e Priscilla “hanno messo in gioco il loro collo per la mia vita” (Rm 16,4), con riferimento alla possibilità della decapitazione che era riservata ai cittadini romani, mentre Apelle “ha dato buona prova in Cristo” (Rm 16,10).
Si sottolinea di alcuni l’essere punto di riferimento, anche per aver messo a disposizione la propria casa come luogo delle riunioni liturgiche e catechetiche. Sono citati subito dopo Febe, all’inizio del capitolo, Aquila e Priscilla “miei collaboratori in Cristo Gesù” (Rm 16,3) e “la comunità che si riunisce nella loro casa” (Rm 16,5), così quelli della casa di Narciso “che sono nel Signore” (Rm 16,11), Asincrito, Flegonte, Erme, Patroba, Erma “e i fratelli che sono con loro” (Rm 16,14), Filogolo e Giulia, Nereo e sua sorella e Olimpias “e tutti i credenti che stanno con loro” (Rm 16,15).
Soprattutto, emerge la fraternità che lega i cristiani di Roma e Paolo. La fede cristiana genera un nuovo tipo di relazioni. Non esiste più solo l’amore sponsale o amicale (vedi Aquila e Priscilla o i “diletti” Ampliato e Perside), ma viene esaltato pure il legame che unisce i fratelli in Cristo. Febe è definita “nostra sorella” (Rm 16,1), “fratelli” vengono chiamati coloro che sono con Asincrito e gli altri (Rm 16,14), “credenti” coloro che sono con Filogolo e gli altri (Rm 16,15). Tutti insieme sono “santi” (Rm 1,7) e “chiamati” (Rm 1,6) da Gesù Cristo (chiesa, ekklesia, deriva dal termine greco che indica l’essere chiamati da Dio, l’essere kletoi).
Questa fraternità si esprime in un tipico gesto che caratterizzerà da allora la fraternità nelle comunità cristiane: “salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo” (Rm 16,16). Lo scambio della pace, attraverso quel bacio santo, sarà il segno di una relazione di amore nata in Cristo che tutti abbraccia. La fraternità ecclesiale si pone come realtà che contraddistingue i credenti in Cristo. Essa viene offerto al mondo come segno che invita alla fede. Come ricorda Tertulliano, questa era l’espressione di stupore che sorgeva nei pagani che per la prima volta venivano in contatto con i cristiani: “Vedi come si amano fra loro e sono pronti a morire l’uno per l’altro” (Apologetico, XXXIX,7).
N.B. Per l’appartenenza di Rm 16 alla lettera ai Romani, contro la tesi che propone di considerarlo un biglietto inviato alla chiesa di Efeso, cfr. su questo stesso sito Paolo ed i cristiani di Roma: Rm 16 appartiene alla lettera ai Romani, di Romano Penna. Per un approfondimento sulla presenza delle donne in Rm 16, cfr. su questo stesso sito Paolo apostolo e le donne nella Chiesa. Febe (Rm 16,1-2) e Lidia (At 16,11-15.40), di Pino Pulcinelli.

 

Publié dans:Paolo a Roma |on 7 décembre, 2016 |Pas de commentaires »

BATTEZZARE NEL TEVERE, CELEBRARE NELLE CASE

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BATTEZZARE NEL TEVERE, CELEBRARE NELLE CASE

di Andrea Lonardo

Il Centro culturale Gli scritti (21/3/2009)

I primi battesimi in Roma debbono essere avvenuti certamente nel Tevere, prima che si giungesse all’edificazione di battisteri stabili, sempre comunque con acqua corrente, nel periodo costantiniano. Tertulliano, nel De baptismo, a cavallo fra il II ed il III secolo, ne accenna di passaggio, come un dato di fatto ovvio, solo per sottolineare che non bisogna badare alla diversità delle acque, come se ne esistessero di migliori o peggiori, poiché tutte ricevono la stessa forza sacramentale di rendere figli di Dio, per opera dello Spirito di Cristo: «Non sussiste alcuna differenza fra chi viene lavato in mare o in uno stagno, in un fiume o in una fonte, in un lago o in una vasca, né c’è alcuna differenza fra coloro che Giovanni battezzò nel Giordano e Pietro nel Tevere, a meno che l’eunuco che Filippo battezzò con l’acqua trovata per caso lungo la strada abbia ottenuto in misura maggiore o minore la salvezza!» Molti dei cristiani che accolsero Paolo a Roma devono aver ricevuto così il battesimo nel fiume a cui Roma deve la sua esistenza. I primi evangelizzatori dell’urbe, dei quali non si è conservato il nome, più volte scesero alle acque del Tevere insieme ai nuovi credenti che domandavano di ricevere il battesimo e più volte risuonò sulle rive del fiume di Roma la triplice domanda sulla fede in Dio Padre e nel Figlio e nello Spirito, forma primitiva del Credo cristiano che si svilupperà poi nel Simbolo degli apostoli e nel Credo niceno-costantinopolitano. Dalla Lettera ai Romani appare con chiarezza che la composizione della prima comunità cristiana doveva essere mista, comprendendo nel suo seno cristiani che provenivano sia dal giudaismo, sia dal paganesimo. Dalle attestazioni epigrafiche è ormai noto che la comunità ebraica era divisa in Roma, nel II-III secolo d.C., in sinagoghe ed è presumibile che molti di questi gruppi esistessero già in età neroniana. Se ne conservano, nelle epigrafi funerarie, 11 nomi: la sinagoga detta degli Ebrei (probabilmente la più antica, che doveva essere stata creata forse già al tempo dei Maccabei, nel II secolo a.C.), quella dei Vernaculi, quella detta degli Augustenses (probabilmente voluta dalla benevolenza dell’imperatore Augusto), quella detta degli Agrippini (voluta similmente da Marco Vipsanio Agrippa), quella dei Volumnenses (voluta forse da Volumnio, legato in Siria ed amico di Erode il grande), quella dei Campenses (dal Campo Marzio dove doveva avere il suo punto di riferimento), dei Suburenses (dalla Suburra, subito dietro i Fori imperiali, dove era certamente la sua localizzazione), quella dei Calcarenses (di più difficile localizzazione, forse verso l’antica Porta Collina), quella detta di Elaia (probabilmente a motivo della città greca da cui provenivano i suoi componenti), quella dei Tripolini e quella chiamata in greco tõn Sechenõn (termine di non univoca interpretazione). Le prime presenze ebraiche in Roma in ordine cronologico debbono essere situate nella zona di Trastevere, il primo quartiere nel quale vennero ad abitare gli ebrei di Roma, giunti al seguito dell’ambasciata dei Maccabei e poi, in gran numero, come schiavi, quando Pompeo conquistò la Giudea nel 63 a.C. La catacomba di Monteverde conserva molte epigrafi ebraiche proprio perché era il luogo di sepoltura dei primi ebrei romani residenti a Trastevere. Le iscrizioni rivelano la presenza di un gran numero di liberti che accedevano pian piano alla libertà; non si ha notizia, per il I secolo, di una vita culturale ancora particolarmente attiva nella comunità ebraica romana (l’unica personalità ebraica di rilievo intellettuale nella Roma del I secolo d.C., oltre a quelle neotestamentarie, è la figura di Flavio Giuseppe, che fu ospitato nella residenza di Vespasiano antecedente alla sua salita al seggio imperiale, luogo nel quale lo storico scrisse anche le sue opere, avendo pieno accesso agli archivi dello stato romano). Gli studi ipotizzano che a Roma vivessero all’epoca circa 15.000 ebrei – un numero simile alla consistenza attuale della comunità ebraica romana – sebbene tale cifra sia ampiamente opinabile, in quanto fondata su deduzioni e non su dati certi. Quando Paolo venne ad abitare in Roma in attesa del processo, nella forma di una custodia militare, invitò subito i “primi” tra i giudei (At 28,17), le autorità delle diverse sinagoghe, ad incontrarlo. Non è certa la localizzazione di questo evento. La tradizione vuole che Paolo abbia vissuto i “due anni interi” (At 28,30) della sua permanenza in libertà vigilata nell’urbe precisamente nel luogo dove sorge ora la Chiesa di San Paolo alla Regola, vicino Ponte Sisto e via Giulia. La Chiesa è stata restaurata proprio in vista dell’anno paolino e gli scavi sottostanti permettono di toccare con mano il livello dell’insula romana sulla quale fu edificata la chiesa. Oltre alla basilica di S. Prisca, il terzo luogo romano che rivendica una abitazione paolina è la Chiesa di S. Maria in via Lata (via Lata era l’antico nome dell’attuale via del Corso). La cripta di questa Chiesa permette di venire a contatto con il sottostante livello romano di età neroniana ed invita a venerare i luoghi nei quali, secondo la tradizione, avrebbero dimorato Pietro e Paolo, ma anche gli evangelisti Luca e Giovanni. Gli Atti e le lettere testimoniano che era proprio nelle case private che avveniva l’incontro delle comunità cristiane e la celebrazione dell’eucarestia. Personalità più abbienti della comunità dovevano possedere delle abitazioni spaziose e mettevano a disposizione i locali più ampi, probabilmente il triclinium, delle loro case per gli incontri. È certo, dai testi neotestamentari, che le riunioni fin dal I secolo erano già settimanali, scandendo il tempo a partire dal giorno della resurrezione del Signore; esse comprendevano la preghiera, la lettura delle Scritture (cioè dell’Antico Testamento, al quale cominciavano ad aggiungersi gli scritti neotestamentari ancora indipendenti l’uno dall’altro), la predicazione di qualcuno degli apostoli o di personalità legate alla tradizione apostolica ed, infine, la fractio panis. Lo stesso Paolo è descritto due volte, negli Atti, presiedere la celebrazione dell’eucarestia, una prima volta proprio in una casa privata a Tròade (in At 20,11, dopo il miracolo della resurrezione del giovinetto che era morto cadendo per essersi addormentato a motivo della lunghezza della riunione che si era protratta fino a mezzanotte!) ed una seconda sulla nave che si dirigeva verso Malta, poco prima del naufragio (At 27,35). Quando Paolo ricorda ai Corinzi l’eucarestia che ha loro trasmesso dopo averla ricevuta a sua volta non ha in mente solo la consegna delle espressioni pronunciate da Gesù nell’ultima cena con il loro significato, ma, ben più significativamente, la tradizione stessa dell’evento liturgico che egli doveva aver presieduto nella comunità di Corinto e che aveva chiesto fosse perpetuato dai corinzi. Senza poterne così individuare con esattezza i luoghi, la città di Roma, con il suo fiume e con le sue insulae romane sottostanti le successive chiese, ricorda a tutti i molti luoghi nei quali Paolo e le prime comunità cristiane celebravano l’iniziazione cristiana di coloro che «il Signore aggiungeva a coloro che erano salvati» (At 2,48).

LE CATENE DI SAN PAOLO

http://www.zenit.org/it/articles/le-catene-di-san-paolo

LE CATENE DI SAN PAOLO

6 Marzo 2009

ROMA, lunedì, 16 marzo 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’articolo di Graziano Motta apparso sul nono numero della rivista « Paulus » (marzo 2009), dedicato al tema “Paolo il prigioniero”.

* * *
La Catena di san Paolo, che secolare tradizione vuole abbia segnato la sua condizione di prigioniero in Roma, è stata oggetto in occasione dell’Anno Paolino di una straordinaria operazione di “visibilità”. Lo scorso anno infatti, ai primi di giugno, ha lasciato il posto d’onore che per secoli aveva mantenuto nella piccola Cappella delle reliquie dell’Abbazia dei monaci benedettini – dentro un reliquiario a forma di tabernacolo, di ottone dorato e cristallo – per essere esposta alla venerazione dei fedeli. La Catena, ora posta dentro un’ampia teca illuminata e visibile in tutta la sua estensione, è stata collocata vicino al sepolcro dell’Apostolo. Con la collocazione della Catena proprio vicino alla più preziosa reliquia di san Paolo, il sarcofago con i suoi resti mortali, l’impatto emozionale dei visitatori è indubbiamente cresciuto. La Catena non è lunga come doveva essere all’inizio, cioè – si presume – più o meno un metro. È composta da nove anelli che hanno la forma del numero otto. E è leggera, diversamente dalle due pesanti catene venerate nella chiesa romana di San Pietro in Vincoli, a cui appunto, tradizione vuole, fu “incatenato” san Pietro. La Catena di san Paolo serviva invece per tenere il suo polso agganciato al soldato che ne sorvegliava la prigionia a Roma, negli anni tra il 61 e il 63 d.C., in particolare quando uscivano dalla casa dove viveva in regime di libertà vigilata. Potrebbe essere stata la catena che lo trattenne al soldato sino alle Acque Salvie, il luogo del martirio, oggi noto come Le Tre Fontane. Una testimonianza tramandata dagli Acta Petri et Pauli, apocrifi dei secoli IV e VII ricorda l’episodio di una donna, di nome Perpetua, cieca di un occhio, che viene miracolata quando si imbatte in Paolo in catene e, commossa, scoppia in lacrime. È di san Giovanni Crisostomo (344-407) la prima testimonianza della venerazione della Catena di san Paolo, del quale fu grande ammiratore; suoi fra l’altro i commenti più profondi alle Lettere dell’Apostolo che ci siano giunti dall’antichità cristiana; e al Crisostomo si deve la stabile introduzione nella Divina Liturgia, che porta il suo nome, della lettura di un passo delle Lettere. Seguono le testimonianza di san Leone Magno e di san Gregorio Magno, papa il primo dal 440 al 461, il secondo dal 590 al 604, che con la Basilica di San Paolo ebbero un rapporto importante. Furono infatti impegnati entrambi a difenderla dalle inondazioni del vicino fiume Tevere: papa Leone fece costruire una piattaforma coperta per il sarcofago dell’Apostolo, mentre papa Gregorio fece sollevare questo piano per creare un accesso diretto dal presbiterio al sarcofago attraverso una cripta. Sulla venerazione della Catena, papa Gregorio scrisse una lettera a Costantina Augusta, il cui testo integrale (cfr. Migne P.L. LXXVII, 704) è apparso in uno studio di padre Anselmo Tappi-Cesarini sulla rivista Benedectina VIII del 1954. Dopo aver parlato di questa reliquia (De catenis quas ipse sanctus Paulus Apostolus in collo et in manibus gestavit) e dei miracoli attribuitile (ex quibus multa miracula in populo demonstrantur), il Pontefice promette che ne invierà una parte alla moglie dell’Imperatore… si presume alcuni anelli (partem aliquam vobis trasmettere festinabo). Riferisce poi della tradizione, allora invalsa, di dare la limatura della catena ai devoti (quia dum frequenter ex catenis eiusdem multi venientes benedictione petunt, ut parum quid ex limatura accipiant); un’operazione alla quale attendeva un sacerdote (assistit sacerdos cum lima). Ma accadeva sovente che «inutilmente egli si affaticava a menar su e giù la lima, poiché il ferro non si lasciava intaccare» (così traduce un’antica Guida della Basilica di San Paolo: et aliquibus petentibus ita concite aliquid de catenis ipsis excutitur, ut mora nulla sit. Quibusdam vero petentibus, diu per catenas ipsas ducitur lima, et tamen ut aliquid exinde exeat non obtinetur ). Si sa che la limatura veniva versata in un bicchiere d’acqua, bevuta da ammalati che imploravano la guarigione. Padre Tappi-Cesarini scrive che «il Rucellati, il Panvinio e il Mercurius confermano l’esistenza della catena di san Paolo nel reliquiario del monastero di San Paolo. Così pure gli inventari della Sacrestia dal 1630 al 1727». Sull’autenticità delle antiche testimonianze non può esserci alcun ragionevole dubbio: la venerazione della Catena come reliquia ex contactu si è protratta ininterrottamente sino a oggi. Ancora nel secolo scorso, nelle feste della Conversione di San Paolo (25 gennaio) e dei Santi Pietro e Paolo (29 giugno) il reliquiario veniva solennemente esposto e, dopo le funzioni, era offerto al bacio dei fedeli. «Al 30 giugno, dopo la Cappella Papale – ricorda padre Tappi-Cesarini – il corteo dei vescovi assistenti al soglio, guidati dal cerimoniere pontificio, si reca all’altare per il bacio della Catena. Nel giorno poi della stazione quaresimale, feria quarta in tradizione symboli, viene portata in processione per le navate della basilica». Attualmente questa processione avviene il 29 giugno, al termine dei Vespri della solennità dei santi Pietro e Paolo. L’Abate benedettino e i monaci – accompagnati di recente anche da rappresentanti di diverse confessioni cristiane in Roma – percorrono con la reliquia la zona adiacente alla Basilica.
Impossibile sapere quanti fossero all’inizio gli anelli della Catena. Dei tredici che erano stati inventariati nel 1639 e collocati su una Statua d’argento di san Paolo, oggi ne rimangono soltanto nove. Gli ultimi due anelli furono donati da papa Giovanni Paolo II all’arcivescovo di Atene Christodoulos e consegnati a lui personalmente il 14 dicembre 2006 dall’arciprete della Basilica – il cardinale Andrea Cordero Lanza di Montezemolo – che ricevette in contraccambio un’icona moderna di Paolo, di scuola greca, posizionata sulla parete della navata mediana destra della Basilica. L’icona è sempre illuminata per richiamare l’attenzione e la venerazione dei pellegrini, soprattutto di quelli ortodossi; una targa fa memoria dell’evento ecumenico. Ed è stato sempre il cardinale Montezemolo a volere il trasferimento della Catena dalla Cappella delle reliquie all’area del Sepolcro di Paolo, e ad affidare il disegno della teca espositiva allo scultore Guido Veroi, 82 anni, Accademico Pontificio nella sezione delle Arti. Veroi aveva già progettato, su suo incarico, la medaglia commemorativa dell’Anno Paolino (disponibile nelle coniazioni in bronzo e in argento) e soprattutto la Porta Paolina della Basilica. Della Porta Paolina – nel Quadriportico d’ingresso è la seconda da sinistra – Veroi ha disegnato in quattro grandi pannelli altrettanti episodi della vita dell’Apostolo e, in sei più piccoli, stemmi e iscrizioni tratti dalle Lettere [cfr. Paulus 2, pp. 62-63]. Questi pannelli – collocati pochi giorni prima dell’apertura dell’Anno Paolino – verranno però sostituiti entro il 29 giugno. «In questi giorni – ci spiega Veroi – per rispettare i tempi, sto modellando, con l’aiuto di una mia allieva, i quattro grandi pannelli relativi agli episodi della vita di san Paolo, che verranno poi realizzati in bronzo». Veroi è divenuto celebre con le Caravelle di Colombo della prima moneta d’argento della Repubblica Italiana, emessa nel 1954. La sua fama è cresciuta nel tempo, e non solo con le centinaia di medaglie e di monete che recano la sua firma (l’ultima è la moneta di 2 euro che lo Stato della Città del Vaticano ha emesso nel 2008, “anno dedicato a San Paolo” e quarto del pontificato di Benedetto XVI). Ricordiamo le porte della chiesa dello Spirito Santo a Pescara, con i mosaici di altre chiese – rinomato quello della parrocchia Santa Famiglia di Martina Franca – e con la copia in bronzo realizzata nel 1995 della statua equestre di Marco Aurelio collocata nella piazza del Campidoglio di Roma, in sostituzione dell’originale antico, ora custodito nel Museo Capitolino. La Teca delle Catene è in bronzo patinato, biondo, con una finestra in cristallo sempre illuminata. È di proporzioni rettangolari: lunga 87,20 centimetri, larga 42,20, alta 62. Ma se si considerano le tre statuette in alto – san Paolo in catene fra due soldati romani – raggiunge gli 85 centimetri. La finestra, lunga 70 centimetri, consente di vedere in tutta la loro estensione i nove anelli della Catena, disposti sopra un rivestimento di seta bianca. «Ho voluto – dice Veroi – che questi anelli fossero trattenuti all’estremità da due riproduzioni di una moneta romana, da me modellata in diametro doppio dell’originale, di un sesterzio con l’effigie di Nerone, per ricordare che san Paolo fu prigioniero e martire nel tempo in cui questi fu imperatore di Roma». La teca è stata posta davanti al Baldacchino di Arnolfo di Cambio su un piano inclinato, per cui per il lato anteriore è stato necessario modellare due grosse zampe di leone, mentre per il lato posteriore è stato sufficiente appoggiare la teca su due piccoli cilindri. Poi il maestro Veroi ci tiene a ricordare chi lo ha affiancato nel lavoro: la sua allieva Gabriella Titotto «che ha modellato i tre personaggi posti poi sul colmo: san Paolo in catene tra due soldati romani; e le zampe di leone, le colonne scanalate e gli acroteri che sormontano le quattro colonne». E il cesellatore che ha realizzato in bronzo l’intera teca, il suo montaggio e la sua collocazione sul marmo inclinato: Remo Mansutti, «artista validissimo con il quale ho rapporti di lavoro da oltre cinquant’anni, con grandi soddisfazioni». Così la Catena è stata restituita alla secolare venerazione dei pellegrini, proprio in occasione dell’Anno Paolino: si può proprio parlare di un evento incastonato nelle celebrazioni dell’Apostolo.

Graziano Motta

Publié dans:Paolo a Roma |on 13 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

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