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MARIA SANTISSIMA MADRE DI DIO (1 gennaio)
La beatitudine dei pastori, la beatitudine di Maria
don Maurizio Prandi
È sempre bello, all’inizio di un nuovo anno, ascoltare queste parole di benedizione, quelle che la prima lettura ci propone. Sinceramente ne ho bisogno, ne abbiamo bisogno credo. È bello sapere, ancora una volta, che il nostro Dio è un Dio che parla: il Signore parlò a Mosè e disse. Ed è un Dio che ha bisogno degli uomini per poter far correre questa parola di benedizione. Nella loro fragilità, nella loro imperfezione, nei loro dubbi, ma ha bisogno di loro: Mosè non è certamente il top dell’umanità o della fede, eppure a lui viene affidato il compito di portare questa parola di Dio che è benedizione. Che bello all’inizio di un anno celebrare ancora una volta il viaggio della parola, di bocca in bocca e di cuore in cuore: dalla bocca di Dio al cuore di Mosè e dalla bocca di Mosè al cuore di Aronne e dei suoi figli. Certo sono cose che sappiamo e chissà quante volte ci siamo ripetuti ma la storia è storia della Parola e continuando il filone che a Natale abbiamo cercato di seguire, ovvero abitare la piccolezza, non possiamo che riconoscere la piccolezza della Parola di Dio, la sua fragilità e debolezza. La storia è l’avventura di questa piccolezza: una parola accolta e non, ascoltata e non, una parola da alcuni rifiutata (non c’è posto per quella parola!), una parola per altri (i pastori), capace di mettere in cammino (senza indugio andarono! A cosa serve restare a casa? Ci viene chiesto di metterci in viaggio per « vedere » la parola). Il vangelo oggi ci dice che la storia è storia di una parola custodita, di parole che dobbiamo, come Maria, avvicinare, mettere insieme.
Giovedì scorso, nelle comunità dicevamo proprio queste cose: conoscere Gesù, non è qualcosa di intellettuale, sarebbe riservato solo ai sapienti, a coloro che studiano molto, che sanno leggere. Conoscere Gesù invece è qualcosa di vitale nel senso che attraversa la vita e attraversa le esperienze che facciamo: in questo senso la fede non è da dire, da annunciare, ma da vivere. La fede non devi dirla, devi viverla! La parola che oggi riceviamo allora è davvero quanto di meglio ci possa essere per farci capire, perché benedire non è soltanto una parola, un verbo; benedire non è avere delle buone intenzioni; benedire è una responsabilità, benedire son gesti concreti che accompagnano e impegnano; benedire è un passo decisivo per poter costruire quella pace che tanto invochiamo e desideriamo e per la quale in tutto il mondo oggi si prega in modo particolare.
È proprio bella questa prima lettura, perché ad ogni augurio corrisponde qualcosa di concreto, quasi un impegno da parte di Dio; mettiamoci alla sua scuola allora:
- bello benedire eh? Ma concretamente cosa significa? Ecco che al benedire corrisponde il custodire, il proteggere, l’essere disposti quindi a rimetterci se necessario, a pagare di persona. Benedizione, non tracciare semplicemente un segno di croce, non belle parole o complimenti, ma custodia, protezione, cura, perché Dio non si accontenta delle parole, ma le vuole incarnare sempre nella vita dei suoi figli. Tornando nella missione qui a Cuba incontri tante persone che si avvicinano e la prima cosa che dicono è la bendicion padre! E io me la cavo precisamente con un segno di croce sulla loro fronte; e invece sono chiamato a capire che quella richiesta e quel gesto sono qualcosa di molto più profondo, sono rispettivamente una domanda ed una promessa di coinvolgimento nella vita dell’altro.
- far risplendere il volto. Anche qui la Bibbia ci dice che chi scrive non sta facendo della poesia, ma ad un volto che risplende corrisponde l’amore, la grazia, il favore di Dio. Ancora una volta la misericordia di Dio che raggiunge l’uomo gratuitamente: Dio guarda ad ognuno dei suoi figli in modo personalissimo, il volto si manifesta per te ci dice la scrittura; è per ogni uomo il suo volto, come per ogni uomo è la sua grazia, ovvero il suo amore. Ancora una volta ripeto quanto, tempo fa scriveva don Angelo Casati: quel ti faccia grazia, scrivono alcuni esegeti, dice il piegarsi di Dio verso l’uomo, il suo « curvarsi amoroso »; è come un augurio bellissimo per l’anno che si apre: non sappiamo il futuro, ma abbiamo una certezza, il piegarsi amoroso di Dio verso di noi!
- ti guardi. Nel testo in greco alzi il suo sguardo. Qui c’è una notizia di una bellezza infinita: se Dio deve alzare il suo sguardo vuol dire che sta in basso, più in basso di me; e ti conceda la pace. In poche parole il segreto della pace: la puoi donare, la puoi vivere, la puoi concedere soltanto stando sotto, partendo dal basso, mai mettendoti un gradino sopra gli altri.
Tutto poi viene raccolto, nell’ultimo versetto, nel nome di Dio, un nome che viene « posto », che viene « messo » sugli israeliti. Anche qui perdonate la ripetizione ma è una cosa che dimentico subito dopo i primi giorni dell’anno, quindi vale soprattutto per me. Bello sapere, (lo lessi in un commento di Giuseppe Dossetti a questa pagina), che questo verbo richiama alla creazione dell’uomo, quando Dio lo pose nel giardino dell’Eden. Porre il nome di Dio su qualcuno è portarlo ad una condizione originaria di innocenza, di bellezza, di trasparenza e di gioia; all’origine di un anno Dio ci porta lì, all’inizio della creazione, per dire bene di noi.
Infine il vangelo. Ancora una volta Dio ha bisogno degli uomini, e se Mosè vi dicevo prima non era proprio il massimo, tanto meno lo sono i pastori. Ma Dio ha bisogno anche di loro perché quella parola che esce dalla sua bocca, parola portata da un angelo possa ancora una volta raggiungere tutti! A gente normale, i pastori, si presenta una scena normale, una famiglia riunita. Dobbiamo riconoscere che quella di cui ci parla il vangelo è la scena meno solenne e più familiare che ci sia. Io mi sarei aspettato che una volta giunto sul luogo della nascita del Salvatore del mondo avrei trovato per lo meno gli stessi angeli, o i grandi del mondo riuniti. E invece niente di tutto questo; « soltanto » un papà, una mamma, un bambino posto in una mangiatoia. Leggevo in questi giorni (Stefano Zeni in Servizio della Parola), qualcosa di davvero nuovo e molto interessante a proposito della mangiatoia e della parola che l’evangelista Luca usa in greco: phatne che richiama qualcosa di mobile, di portatile, e precisamente una bisaccia per contenere gli alimenti che veniva posta, da chi si metteva in viaggio, sulla cavalcatura. Tenuta sempre molto pulita, ospitava soprattutto il pane. Mi pare un particolare questo davvero significativo: il segno dato ai pastori è un bambino che giace in quella cesta che veniva utilizzata da chi viaggiava per conservare i viveri e soprattutto il pane. Da subito Gesù giace come un pane messo da parte per essere spezzato. Gesù nasce come pane per gli uomini, cibo di Dio per la fame dell’uomo, adagiato da sua Madre in quella cesta, disponibile per diventare nutrimento per la vita degli uomini. Accogliere quel pane, mangiare quel pane: penso a Marcella, anziana, che tutti i giorni viene a messa per quel pane-bambino che le viene offerto e imparo da lei che la luce e la forza di quel pane-bambino non abbandonano chi se ne nutre.
Saranno anche gente semplice, i pastori, ma intuitiva! Chissà quante volte avranno messo da parte il pane in quella cesta per i loro viaggi o per la loro vita quotidiana. Intuiscono che nella normalità può abitare il cielo. Chiedo per me allora un dono per quest’anno che si apre: la beatitudine dei pastori, la beatitudine del credere all’ordinario. Chiedo per me il dono di avere la capacità di riconoscere la presenza di Gesù che si manifesta in maniera ordinaria nella vita di tutti i giorni senza aspettare che accada chissà cosa di straordinario! Ma anche la beatitudine di Maria custode attenta degli avvenimenti e delle parole umanissime dei pastori, donna capace di mettere insieme (la traduzione di meditare è proprio questa: avvicinare due parti), di avvicinare cose che apparentemente sono distantissime: Dio in un bambino! Avvicina Maria, capisce che in quel bambino Dio e l’uomo, l’umano e il divino si incontrano.